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La finanziaria la fa il governo (e la sua maggioranza). La versione di Pasquino @formichenews

Tutti i governi di coalizione che ottengono e mantengono la fiducia del loro Parlamento hanno il diritto, ma anche il dovere, di cercare di tradurre le promesse elettorali fatte dai loro partiti in politiche pubbliche. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e socio dell’Accademia dei Lincei
La Finanziaria fa il governo la cui coalizione ha il diritto di respingere tutti gli emendamenti con un minimo di discussione.
La non emendabilità della Legge Finanziaria è il proposito fortemente espresso e ripetuto da Giorgia Meloni. Un cattivo proposito, ma non è né improponibile né incostituzionale. Al contrario. Tutti i governi di coalizione che ottengono e mantengono la fiducia del loro Parlamento hanno il diritto, ma anche il dovere di cercare di tradurre le promesse elettorale fatte dai loro partiti in politiche pubbliche. Su quelle promesse i partiti divenuti coalizione di governo hanno fatto la campagna elettorale ed è lecito pensare che, entro (in)certi limiti, gli elettori abbiano deciso di dare il loro voto con riferimento proprio ad una o più delle politiche promesse. Altresì, è probabile che buona parte di quegli elettori baserà il suo voto prossimo venturo proprio tenendo conto dell’attuazione o meno da parte del governo delle politiche da lui/lei preferite. Su questi presupposti, largamente confermati da tutte le ricerche sulle motivazioni del voto, la richiesta di Meloni è più che plausibile; è corretta e comprensibile. Naturalmente, ciascuno dei partiti di governo potrà, da un lato, cercare di “appropriarsi” di una o più tematiche specifiche; dall’altro, prendere le distanze da alcune altre, sperabilmente poche tematiche, preferite da altri partiti.
Ad ogni buon conto, Meloni non può imporre disciplina di voto e astinenza da emendamenti tranne che ai parlamentari del suo partito. Primo, saranno i capi degli altri partiti a chiedere/imporre determinati comportamenti ai loro parlamentari. Secondo, saranno questi parlamentari, individualmente, personalmente, a decidere come comportarsi (remember art. 67: “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” c.vo mio). Cercheranno con competenza di migliorare testo e sostanza? Con i loro emendamenti vorranno comunque mandare un messaggio a determinati gruppi di elettori, a qualche potente lobby? Si proporranno soprattutto di ottenere visibilità personale e politica? Il dibattito sugli emendamenti, meglio non tranciarlo bruscamente e d’imperio, potrà/dovrebbe risultare chiarificatore con giovamento di tutti.
L’emendamento, a mio parere assolutamente da escludere, ma già “ventilato” nella versione “maxi”, è quello formulato dal governo che, per chiudere la faccenda, ingloberebbe tutte le eventuali variazioni, la cui approvazione verrebbe probabilmente affidata ad un voto di fiducia. Questo significherebbe calpestare l’autonomia del Parlamento, che dovrebbe essere difesa in primis dai Presidenti delle due camere, ma anche, non soltanto con la delicatezza e la riservatezza della moral suasion, dal Presidente della Repubblica. Proprio chi (come il grande studioso della Costituzione inglese Walter Bagehot e il consapevolmente meno grande docente di scienza politica qui scrivente) riconosce e attribuisce al governo il potere di fare la finanziaria e di ottenerne l’approvazione come desidera, è legittimato a criticare qualsiasi forzatura e a chiedere che sia sanzionata.
Accettabile e encomiabile è il tentativo del Partito Democratico di cambiare alcuni punti, di prospettare politiche diverse, di dimostrare che è possibile scegliere strade che portano più lontano. Tuttavia, mi pare improbabile che i 1.103 emendamenti preparati dai parlamentari del PD consentano di scrivere una finanziaria alternativa. Il loro numero, anche qualora non fossero, com’è probabile, tutti ammessi, comporterebbe inevitabilmente illustrazioni sommarie e frettolose e bocciature pregiudiziali. La forma sarà salvata, ma la sostanza non avrà nessuna chance di successo. La cultura dell’emendamento, come la definì 50 anni fa il Sen. Filippo Cavazzuti, mio collega nella Sinistra Indipendente, ha le gambe corte (e storte). Non serve a costruire nessuna alternativa.
Pubblicato il 28 novembre 2023 su Formiche.net
Manovra senza progetto. Il governo non sa ancora che paese vuole costruire @DomaniGiornale


La Finanziaria è sempre un banco di prova, per qualsiasi governo e governanti, per i partiti della coalizione, per l’opposizione(i). Non basta cercare di cavarsela con qualche aggettivo preoccupato, come quelli, ad esempio, “complicato”, giustamente usati dal preoccupatissimo Ministro dell’Economia Giorgetti. I soldi sono pochi? Lo dicono sempre (quasi) tutti. Ecco, allora, venuto il tempo delle scelte, quello che piace a Giorgia Meloni che potrà/potrebbe lasciare il segno del paese che vuole. Opportuno è che cominci subito. Si è visto chi vuole colpire, a cominciare dai percettori del reddito di cittadinanza e dai banchieri, categoria mai amata. Meno, molto meno si sta vedendo l’idea del paese che vorrebbe. Certamente, consentire ad alcune categorie relativamente piccole, assolutamente corporative, come i balneari e i tassisti, di continuare a sfruttare i loro privilegi, le loro rendite di posizione, non è il migliore dei segnali per un paese che voglia mettersi a correre. Non si vedono le grandi direttrici, una delle quali dovrebbe sicuramente essere la sanità, l’altra quasi altrettanto sicuramente, il complesso sistema dell’istruzione. Riforme profonde in entrambi i casi richiedono tempi lunghi, che è proprio la ragione per la quale sarebbe imperativo cominciare qui e subito.
Gli alleati della Meloni, non sembrano avere un loro progetto di finanziaria, vale a dire una visione centrata su elementi originali e innovativi che caratterizzino il tipo di rappresentanza politica che esprimono e al quale mirano. Comme d’habitude, Salvini, protettore dei balneari e oppositore di qualsiasi intervento che alzi l’età pensionabile, è costantemente alla ricerca di una tematica che gli dia visibilità e accesso a qualche categoria particolaristica. Oggi, in questo, sembra psicologicamente frenato da Giorgetti che non apprezzerebbe. Per voce di Tajani, Forza Italia sottolinea la necessità di un diverso prelievo dalle banche, ma non riesce a evidenziare altre tematiche che siano qualificanti e dirompenti. Ne sapremo di più quando il documento sarà disponibile e leggibile anche nei particolari nei quali, insieme al già noto diavolo, si incuneano le lobby e gli amici degli amici, forti in ricatti imprecisabili, qualche volta anche portatori di voti a qualche parlamentare accuratamente (auto)selezionato.
Al proposito, il problema italiano di fondo è la frammentazione/segmentazione, tutt’altro che solo geografica, della società italiana che si trasferisce nei partiti e nelle loro correnti, meno sembrerebbe in Fratelli d’Italia. Per le opposizioni l’attuale è la fase dello stare a guardare e cercare i punti deboli del documento che verrà. Da Filippo Cavazzuti, professore di Scienza delle Finanze e senatore della Sinistra Indipendente, credo di avere imparato due cose. La prima è la più difficile. L’opposizione, almeno quella che si ritiene più rappresentativa e più preparata, dovrebbe concentrare i suoi sforzi, certamente ambiziosissimi, nella preparazione di un contro documento contenente almeno le linee portanti di una Finanziaria alternativa. La seconda è meno difficile, ma richiede disciplina, autocontrollo, coordinamento. Rinunciare a quella che Cavazzuti criticava come la “cultura dell’emendamento”, vale a dire la presentazione di una miriade di emendamenti particolaristici, di bandiera, omaggi, improbabilmente coronati da successo, a associazioni di riferimento dei più vari tipi: sociali, culturali, professionali. Anche se fra loro non d’accordo su alcuni aspetti, le opposizioni dovrebbero, sulla falsariga del reddito minimo, concentrarsi sulla stesura di non più di tre o quattro grandi emendamenti sulle tematiche più significative per comunicare agli elettori dove stanno e cosa farebbero una volta al governo. Al momento, non vedo nulla di questo.
Pubblicato il 30 agosto 2023 su Domani
La lezione di Andreatta
Intellettuale in politica. Non un intellettuale qualsiasi; non per una politica di tutte le stagioni. Un economista consapevole di dovere e sapere elaborare interventi e soluzioni tenendo conto della sua visione di lungo periodo della società preferibile. Prima nella politica aspra e confusa degli anni settanta; poi, in quella conflittuale e mediocre degli anni ottanta; infine, nel periodo breve, ma promettente, dell’Ulivo al quale aveva contribuito in maniera decisiva. Questo è stato in un’estrema sintesi, che non è mai in grado di rendere conto della complessità della persona e dell’ampiezza della sua cultura, il democristiano Nino Andreatta. In questi tempi, difficilissimi per i frastornati partiti italiani, probabilmente Andreatta continuerebbe a fare appello a quella che era la sua concezione del partito migliore: un partito di popolo, Volkspartei. Non un partito di classe, non un partito di interessi aggregati, non un partito territoriale: un partito capace di dare rappresentanza e governo a una comunità, appunto ad un popolo.
Si rallegrerebbe di fronte alla vittoria chiara e netta di quel grande partito di popolo che è la Democrazia Cristiana tedesca. Così avrebbe voluto vedere anche la DC italiana mentre ne coglieva i sintomi della degenerazione e del declino. Non per questo si arrese. Al contrario, dopo avere combattuto la finanza alquanto fraudolenta del Vaticano e dello IOR, per un lungo decennio, quello del CAF, Craxi-Andreotti-Forlani, gli venne impedito l’accesso a qualsiasi carica di governo. Però, la Democrazia Cristiana non era in grado di fare a meno delle sue competenze e, dunque, Andreatta fu ripetutamente Presidente della Commissione Bilancio del Senato. Rimasi frequentemente colpito da due importanti segnali del prestigio e dell’apprezzamento, oggi diremmo “trasversale”, di cui godeva. Da un lato, elemento minore, ma nient’affatto poco significativo, i commessi gli si rivolgevano con il termine Professore riconoscendogli qualità molto superiori a quelle di qualsiasi senatore. Dall’altro, in quella inquieta e spesso rumorosa aula parlamentare, soltanto quando prendeva la parola Nino Andreatta si faceva silenzio. Compagni di partito, opposizione, uomini al governo tutti tacevano e ascoltavano con attenzione. C’era sempre qualcosa da imparare; c’era sempre sostanza nei discorsi di Andreatta, del professore.
Anche i comunisti, mi raccontò una volta con tono beffardo, appallottolato in un taxi che ci portava da Fiumicino al Senato, erano oramai in condizioni di imparare, da quando reclutavano gli “economisti borghesi” suoi allievi. Il riferimento era a Filippo Cavazzuti, eletto, dai comunisti, Senatore della Sinistra Indipendente. Quanto a lui, non ebbe mai vita facile nella Democrazia Cristiana anche perché il suo politico di riferimento era stato Aldo Moro. Combatté molte battaglie, fino all’ultimo, convinto che il rigore nel bilancio dello Stato fosse molto più che un problema di conti. Era un modo di concepire una società capace di governarsi senza sciupare le sue risorse, ma destinandole al miglioramento delle condizioni di vita dei meno fortunati. Questo fa un partito di popolo. A questo contribuisce un intellettuale, degno di questo appellativo, in politica.
Il libro Un economista eclettico. Distribuzione, tecnologie e sviluppo nel pensiero di Nino Andreatta
A. Quadrio Curzio, C. Rotondi (a cura di). Edizioni Il Mulino
verrà presentato alla Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio di Bologna, giovedì 3 ottobre alle ore 17.