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C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nel centrodestra unito. Scrive Pasquino @formichenews
Dov’è la novità nella proposta di Salvini tornato da Fatima? Soltanto il tentativo di ritagliarsi qualche spazio sui quotidiani, di “animare” i salotti televisivi, di essere presente sui social sperando in questo modo di rallentare l’irresistibile ascesa della signora della destra, dei Fratelli d’Italia?
Mio nonno trova entusiasmante l’idea di una Federazione di centro-destra. Sostiene, però, che non è una idea originale. Dice di averla già visto all’opera, addirittura vittoriosa, nel 1994. Era, in verità, una alleanza a due punte, con un centravanti di peso. Al Nord l’alleanza: Forza Italia-Lega Nord fu chiamata Polo della Libertà. Al Centro-Sud l’alleanza: Forza Italia-Alleanza si chiamò Polo del Buongoverno. Il Polo della Libertà vinse in tutti i collegi uninominali della Lombardia meno uno (Suzzara). Il Polo del Buongoverno si accaparrò tutti i collegi uninominali della Sicilia (compreso quello dove era candidato Sergio Mattarella, il relatore di quella legge elettorale, “recuperato” sulla lista proporzionale). Nel 2001 il centro-destra si presentò “federato” nella Casa delle Libertà e ottenne una grande vittoria elettorale. Nel 2009 Berlusconi diede vita con Fini al Popolo della Libertà nel quale confluirono anche un certo numero di “cespugli”. Insomma, conclude mio nonno, dov’è la novità nella proposta di Salvini tornato da Fatima? Soltanto il tentativo di ritagliarsi qualche spazio sui quotidiani e anche sulla newsletter di Formiche, di “animare” i salotti televisivi, di essere presente sui social sperando in questo modo di rallentare l’irresistibile ascesa della signora della destra, dei Fratelli d’Italia?
Suggerisce mio nonno che qualche politologo, che abbia letto almeno un libro sui partiti di destra e un articolo sui sistemi elettorali, sì, forse, ce ne sono ancora, rari e appartati, dovrebbe spiegare quando è utile e produttivo “federare” i partiti e quando no. Da tempo immemorabile i partiti e i loro dirigenti più capaci sanno che nei collegi uninominali è meglio essere presenti con una sola candidatura, a meno che la legge elettorale contempli il doppio turno grazie al quale si possono valutare le prestazioni e i voti al primo turno. Se la legge è proporzionale, divisi i partiti raggiungono elettori che altrimenti sarebbero meno inclini a votare un’indistinta aggregazione.
Ė questo, “federare, federare, federare”, si chiede mio nonno, il modo agognato, preferito dai pensosi commentatori dei maggiori quotidiani italiani, di ristrutturare il sistema partitico italiano? Fattasi la domanda, mio nonno si è data la risposta (sommessamente aggiunge di averla trovata in non pochi libri di scienza politica): no, nessun sistema partitico è mai stato ristrutturato creando d’emblée una federazioncina di due partiti uno dei quali è in via di sfaldamento. Poi, rivelando di essere molto antico, mio nonno ha anche chiesto quali siano le basi culturali della Federazione di centro-destra. Non potrà certamente essere il sovranismo l’asse portante. Sarà, dunque, l’europeismo? Esiste un pensatore europeista nella Lega (no, non lo era Alberto da Giussano, ma neppure Carlo Cattaneo, “filosofo militante” lo definì Bobbio)? Qual è l’europeista di riferimento di Forza Italia? Forse l’ex-Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani? A questo punto, sconfortato assai, mio nonno ha affermato che triste è la storia di un paese in cui il dibattito pubblico si alimenta di notizie che non hanno senso e non aprono nessuna prospettiva. Mi ha suggerito di fare sempre commenti che ricordino la struttura delle situazioni e che non si appiattiscano sulla congiuntura. Se n’è andato con un sorriso portandosi via tutte le informazioni utili per partecipare da cittadino consapevole alla Conferenza sul Futuro dell’Europa.
Pubblicato il 6 giugno 2021 su formiche.net
Referendum, i buoi e il popolo
Eh, già, il quesito referendario, quello che troveremo sulla scheda, è un po’, come dire, “orientante”. Volete voi tante cose belle risparmiando tempo, poltrone e soldi? Basta un Sì. Sobbalzano sulle loro poltrone commentatori austeri, ma anche no; colti, magari non proprio; inventivi assolutamente sì poiché con la machiavelliana “realtà effettuale” preferiscono non sporcare i tasti del loro PC. E’ un disastro, annuncia Aldo Cazzullo nell’editoriale “Referendum, una trappola per le èlite” (Corriere della Sera, 5 ottobre). Gli italiani, sostiene, sono dei bastian contrari. Hanno la tendenza a dire no, sempre no, fortissimamente no. Un famoso fiorentino, tal Alighieri Dante, non la pensava così. Infatti, scrisse a preclare lettere due versetti famosetti riferiti proprio all’Italia: “le genti del bel paese là dove il sì suona” (Inf. XXXIII, vv. 79-80). Su questi versetti fece affidamento un altro toscano, appena meno famoso di Dante, il più volte Primo ministro Amintore Fanfani, nella sua campagna referendaria per abrogare la legge sul divorzio. I no prevalsero e da allora, spiegano sussiegosi e preoccupati (per le sorti del BelPaese) i commentatori del renzismo, il NO vince. Dopodiché, anche senza l’ausilio di Galileo Galilei e dei molti eccellenti scienziati e matematici che l’Italia ha avuto, sembra utile andare a vedere i dati.
Dal maggio 1974 all’aprile 2016 si sono tenuti in Italia 67 referendum abrogativi. I “sì” hanno vinto 23 volte; i “no” 16 volte. In ventisette dei ventotto casi nei quali non è stato raggiunto il quorum, hanno, inutilmente, prevalso i “sì”; una sola volta il non-successo ha arriso ai no. Prima del referendum costituzionale indetto per il 4 dicembre, si sono tenuti due referendum costituzionali . Nell’ottobre 2001, il centro-sinistra si è fatto confermare senza che ne esistesse nessuna necessità la sua mediocre riforma del Titolo V della Costituzione, adesso ripudiata persino da uno dei suoi estensori. Nel giugno 2006, il centro-sinistra versione Unione guidata da Prodi ha ottenuto l’abrogazione della Grande Riforma di Berlusconi e Fini. Nel primo caso, affluenza 34 per cento, vinsero i “sì”; nel secondo, affluenza 52 per cento, la vittoria fu del “no”. Ci fu anche un referendum consultivo per conferire poteri costituenti al Parlamento Europeo. Tenutosi in concomitanza con le elezioni europee, la partecipazione fu elevatissima: 80,8 per cento. I favorevoli, “si” furono l’88 per cento. Insomma, l’Italia, contraddicendo Cazzullo & Bad Company, dimostra di essere piuttosto il bel paese delle genti di Dante che fanno suonare il “sì”.
Da questi dati appare con chiarezza che non esiste nessuna propensione degli elettori italiani a votare in prevalenza contro le elite, anche perché risulterebbe davvero azzardato pensare che gli italiani attribuiscano la qualifica di elite ai loro governanti e ai loro parlamentari. Anzi, tutte le classifiche di prestigio collocano i “mestieri” di governante e di parlamentare verso gli ultimi posti, poco sopra i sindacati e i partiti. Allora, rilevato con fastidio il tentativo subdolo di influenzare gli elettori chiamandoli a non contrapporsi al Parlamento (copyright Boschi) e alle elite politiche che hanno fatto un duro lavoro e a non bocciarlo con un loro “no” populista, non resta che mettere in rilievo quello che è il punto più evidente e più rassicurante delle votazioni referendarie. Gli elettori italiani hanno regolarmente valutato le scelte in campo, le alternative e le conseguenze/implicazioni e hanno votato sul merito. Quando né le scelte né le conseguenze apparivano loro chiare si sono comprensibilmente astenuti. Chi pensa che il popolo è bue dovrebbe riflettere sulla sua personale concezione di democrazia.
Pubblicato AGL il 12 ottobre 2016
Si sta facendo tardi
E’ vero. Parecchi di noi si erano illusi che lo strappo di Fini dal partito nazional-cesaristico conducesse alla costruzione di un’organizzazione politica di destra, moderna, europeista, decente. Qualcuno fra noi aveva addirittura pensato che la destra decente avrebbe stimolato anche la costruzione di una sinistra decente. D’altronde, la sprezzante definizione di “amalgama mal riuscito”, affibbiata da D’Alema al Partito Democratico, coglieva nel segno. Purtroppo, il sarcasmo di D’Alema spesso obnubila la verità di molte sue valutazioni. Adesso, tocca ad Alfano spingere nella direzione di una destra decente che ha a cuore le sorti di un governo dalle intese né abbastanza larghe né abbastanza solide, ma necessarie. Sull’altro versante, molti sono in movimento per zompare sull’oramai affollatissimo carro del vincitore fiorentino (auto)preannunciatosi. Altri stanno seduti sulla riva del fiume a vedere chi passerà. Altri, ancora, pochini, vorrebbero cominciare sul serio l’opera lunga e faticosa di costruzione di un partito che occupi la maggior parte dello spazio di sinistra. Potrebbe, persino, quel partito, qualificarsi socialista, con buona pace di coloro che non soltanto vogliono morire democristiani, ma vorrebbero farlo il più tardi possibile e preferibilmente stando al governo o in qualche altra comoda ben ricompensata carica. Non è proprio il caso di accontentarli. Socialista non è una brutta parola. Socialista è quell’esperienza ampiamente vissuta nel dopoguerra europeo che ha portato molti paesi ad essere prosperi, istruiti, sani. Faccio riferimento allo Human Development Index delle Nazioni Unite che colloca ai primi dieci posti paesi che hanno tutti un grande partito socialista, ieri o oggi, al governo. Sono anche paesi con corruzione politica minima e, elemento che dovrebbe soddisfare i sedicenti liberali/liberisti italiani,con un alto livello di concorrenzialità e di meritocrazia. Se le energie dei candidati alla carica di segretario del PD non si sono esaurite in mediocri critiche reciproche, di nessun interesse per i loro eventuali elettori, ma si spostassero sulla cultura politica, allora una bella discussione sul significato e sui contenuti del socialismo oggi potrebbe essere utile anche a Rosi Bindi, Castagnetti, Fioroni e a milioni di elettori. Gli accapigliamenti li abbiamo già visti. Non sono neppure più divertenti. Invece, di quale cultura politica dovrebbe essere portatore il Partito Democratico non l’abbiamo sentito raccontare né dal Prodi che se ne è ito né dai suoi collaboratori, ma neppure da Bersani e da D’Alema. E non è vero che non è mai troppo tardi.