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Pd e 5S facciano fronte comune sul Colle e tirino fuori dei nomi credibili #intervista @ildubbionews #Elezione #Quirinale


Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Alma Mater di Bologna, è scettico sulla strategia di Pd e M5S per il Colle, dice che «non stanno facendo fronte comune» e che in caso di elezione di Draghi al Colle «se vogliamo avere continuità deve esserci un capo del governo che vada avanti con la stessa maggioranza di oggi».
Professor Pasquino, Pd e M5S bisticciano tra di loro in attesa di un nome per il Colle proposto dal centrodestra. Riuscirà il centrosinistra a trovare un’alternativa valida da sottoporre ai grandi elettori?
Non so se ci riusciranno, ma è sicuro che dovranno fare una riunione non soltanto Letta e Conte, ma Letta, Conte, Di Maio, Patuanelli, Orlando, Guerini e Franceschini. Cioè le varie anime di Pd e M5S. Serve un accordo su una rosa di tre o quattro nomi, per trovare poi uno su quale possono convergere anche altri partiti. L’iniziativa non spetta per forza a Salvini o Berlusconi, ma a chi è in grado di prendersela. Letta e Conte stanno sbagliando alla grande.
Crede che Di Maio stia giocando una partita tutta sua sul Colle per cercare di riprendere la guida del Movimento?
Questa domanda riguarda l’andamento del Movimento 5 Stelle, non tanto il voto per il Colle. Vengono attribuite a Di Maio delle strane mire. Ha fatto una carriera ministeriale straordinaria e quindi credo sia soddisfatto di quello che c’è. Credo voglia un po’ di unità nel Movimento e quindi non penso che ambisca a mettere i bastoni tra le ruote a Conte. Peraltro c’è anche Fico che sta avendo una sua visibilità e vorrà dire la sua.
In ogni caso la strategia attendista di dem e grillini sta portando i suoi frutti, visto l’ormai probabile passo indietro del Cavaliere.
Berlusconi non tramonta perché Letta ha detto che non è votabile, ma perché ci sono dubbi nello stesso centrodestra e perché i suoi telefonisti non riescono a convincere quelli a cui telefonano. I giallorossi non stanno facendo fronte comune, il che era eticamente doveroso. L’iniziativa è tirare fuori dei nomi, non dire “no” e giocare di rimessa e in difesa. Per quanto prestigiosissimo, il nome giusto non può essere Liliana Segre, sarebbe bello votarla in massa come segno di stima ma è chiaro che non si può andare avanti su di lei. Non è questo il modo in cui, essendo i due partiti più grandi, si entra in Parlamento per scegliere il presidente della Repubblica.
Quali nome potrebbero entrare nella rosa di Pd e M5S?
Non sono dell’idea che si devono trovare dei nomi che possono unire. Sono stufo dell’aggettivo “divisivo”, è stupido usarlo perché chiunque fa politica deve essere divisivo, altrimenti non è un buon politico. Aldo Moro ad esempio era divisivo, forse è proprio per questo che abbiamo deciso di non salvargli la vita, ma di certo sarebbe stato un ottimo capo dello Stato. Non possiamo credere che Rosy Bindi o Giuliano Amato o Pierferdinando Casini non possano fare il presidente della Repubblica. Stessa cosa per Draghi e Franceschini, l’importante è decidere un nome e giustificarlo.
Nell’altro campo l’operazione scoiattolo per portare Berlusconi al Colle sembra al capolinea. Se l’aspettava?
Berlusconi ci credeva veramente. Non combatte mai battaglie per la sua bandiera, che ha già issato molto in alto. Piaccia o non piaccia è già nella storia del paese e questa doveva essere la sua ultima battaglia. Non è un decoubertiniano. Dopodiché la battaglia si è fatta ardua e delicata perché gli mancano i numeri. Certamente fossi un parlamentare non potrei mai votare un condannato per frode fiscale.
Crede dunque che il centrodestra unito convergerà ora su un altro nome?
Potrebbe ora aprirsi un’altra partita e se Fratelli d’Italia, come dice Lollobrigida, ha dei nomi, è bene che li tiri fuori. Bisogna dire quali carte si hanno in mano. Letizia Moratti è sicuramente presidenziabile, anche se si può discutere del suo conflitto di interessi. Fossi Salvini giocherei anche su Giorgetti, che ha più di 50 anni, piace in Europa e potrebbe essere il nome giusto.
Non è che alla fine la spunta Draghi?
Certamente, e a quel punto Salvini potrebbe piazzare il colpo grosso: Giorgetti a palazzo Chigi. Draghi ha il profilo giusto, ha dimostrato di aver imparato delle cose in politica, è abbastanza equilibrato e il resto lo faranno i suoi collaboratori.
Come dicevamo, a quel punto si aprirebbe la crisi di governo. A quei scenari andremmo incontro?
Se vogliamo avere continuità deve esserci un capo del governo che vada avanti con la stessa maggioranza e qui ci sono due inconvenienti: non vorrei che eleggendo Draghi Forza Italia si tiri fuori dalla maggioranza, ipotesi avventata che spero sia rimessa nel cassetto dai ministri azzurri; in secondo luogo potrebbe diventare presidente del Consiglio qualcuno di centrodestra. In questo caso Salvini deve avere la forza di dire che il prossimo presidente del Consiglio sarà proposto dai segretari dei partiti che fanno parte della coalizione di maggioranza, non imposto da Draghi, che andrebbe su Franco. Insomma potrebbe aprirsi un braccio di ferro tra Draghi e i partiti difficile da gestire.
Con Draghi al Colle il prossimo inquilino di palazzo Chigi dovrà comunque venire dall’attuale governo, ad esempio Cartabia, per garantire continuità politica?
So che dovrebbe essere un o una parlamentare, ad esempio Franceschini, ma non per forza un uomo o una donna dell’attuale governo. Dobbiamo prendere atto che non si può sempre chiamare un tecnico da fuori. Serve un parlamentare che conosce i colleghi e abbia esperienza politica pregressa. Cartabia, che non conosco, mi dicono sia molto, forse troppo, vicina a Comunione e Liberazione. I mesi passati a fare la ministra della Giustizia non garantiscono che sarebbe anche una buona presidente del Consiglio.
Pubblicato il 19 gennaio 2022 su IL DUBBIO
Vi svelo i candidati papabili per la presidenza della Repubblica #intervista @Diariodelweb

Il professor Gianfranco Pasquino, al DiariodelWeb.it, fa il punto sul panorama politico italiano, tra governo Draghi, parlamento e corsa al Quirinale
Intervista raccolta da Fabrizio Corgnati
A cinque mesi dalla nomina del governo Draghi e quando ne mancano sei alle elezioni del prossimo presidente della Repubblica, il quadro politico in Italia appare frammentato e magmatico. Il DiariodelWeb.it ha provato a fare chiarezza sulle prospettive del governo, del parlamento e del Quirinale, chiedendo lumi a Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, accademico dei Lincei, il cui ultimo libro si intitola «Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana».
Professor Gianfranco Pasquino, lei conosce Mario Draghi dal 1975, quando giocava a calcetto con lui a Belmont, in Massachusetts.
Il Draghi che ho conosciuto, francamente, era poco interessato alla politica e molto alla politica economica. Era un uomo studioso, riflessivo, in un certo senso simpatico, con un sottile senso dell’umorismo che è riemerso anche adesso.
Che effetto le fa vederlo oggi a capo del governo?
Evidentemente è un uomo che ha maturato un impegno politico vero, significativo, robusto. Che ha imparato moltissimo nei lunghi anni alla Banca centrale europea. Che riesce a tenere a bada dei politici spesso mediocri e arruffoni e a guidarli in una direzione che credo sia quella giusta.
E che effetto sta provocando, invece, sul sistema dei partiti?
I partiti continuano a litigare, tra di loro e al loro interno. Potrebbero ristrutturarsi, ma stanno dimostrando di non averne le capacità. Questo è il problema importante. Draghi riesce a tenersi distante da tutto questo, ma rappresenta una cartina di tornasole. Lui è il prodotto di una politica debole e pasticciona, ma non può essere lui a cambiarla. Quando finirà la sua opera, i partiti saranno come prima: purtroppo non vedo nessun salto in avanti di intelligenza, capacità organizzativa, ideali.
L’ennesimo governo tecnico, dopo Ciampi, Dini e Monti, che lascerà in eredità una situazione politica esattamente identica alla precedente.
Avrei qualche perplessità a definire questo un governo tecnico. Semmai è un governo con dei tecnici, gli altri ministeri sono nelle mani dei partiti. I suoi predecessori non hanno fatto bene: Monti ha sciupato delle grandi occasioni ed è stato molto mediocre, Ciampi se l’è cavata ma il suo governo era pieno di uomini di partito migliori di quelli attuali. Dopo Draghi il gioco si riaprirà, ma al momento ho aspettative molto molto basse.
Parliamo allora dei partiti. Il M5s ha ancora la maggioranza relativa in parlamento ma sembra il più in crisi di tutti, dilaniato dallo scontro interno tra Conte e Grillo.
Contrariamente alla maggior parte dei commentatori, penso che questo dualismo non si debba sciogliere. Grillo e Conte devono avere due compiti diversi e svolgerli in maniera diversa. Il primo leader carismatico, «l’Elevato», come dice lui, con qualche colpo ad effetto, ma soprattutto con l’autorevolezza che continua ad avere nei confronti dei suoi parlamentari e forse anche degli elettori. Il secondo deve imparare come si struttura un partito, come si mobilitano le energie, come si tiene insieme un Movimento molto composito.
Dove andranno a finire i grillini?
In una prima fase c’era la protesta, poi è stato necessario il governo, ora serve preparare un’offerta politica per le prossime elezioni. Mantenere l’elemento dell’insoddisfazione, che nell’elettorato italiano c’è, ma anche proporre delle soluzioni, soprattutto sul terreno socio-economico sul quale sono molto deboli. Altrimenti scenderanno sotto il 15% e diventeranno irrilevanti. Mi stupisce che non rivendichino i successi che hanno ottenuto: il reddito di cittadinanza, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione dei vitalizi.
C’è un certo dualismo anche nel centrodestra, dove la Lega rischia di essere sorpassata da Fratelli d’Italia.
Se vincono le elezioni, il leader del primo partito diventa presidente del Consiglio. Entrambi hanno davanti agli occhi il premio più elevato della politica. Salvini rimane indispensabile per il centrodestra, ma la Meloni sta approfittando di una sorta di luna di miele: gode di quella che chiamo una rendita di opposizione. Gli insoddisfatti, i nemici, gli ostili al governo Draghi scelgono Fdi. Questo è il vantaggio di essere stata coerente, incisiva, una donna politica vera.
Il Pd in che posizione si colloca?
La solita: intorno al 20%, non si schioda di lì. A meno che non trovi una tematica davvero importante, che non è certamente il Ddl Zan. Devono fare i conti con una realtà che ancora adesso non capiscono fino in fondo. Non è un partito di movimento, non è rassicurante per una parte degli elettori, non è trascinante. Letta è certamente competente, ma non è un leader carismatico. E dentro il partito non ce ne sono: ci sono più che altro persone che hanno aspettative di carriera. Dunque non fanno andare la barca troppo veloce, per evitare che si capovolga.
E Renzi che gioco sta facendo? La sua strategia sembra incomprensibile da anni.
Un gioco sporco. Gioca sulle contraddizioni altrui, che ci sono, sul breve periodo. Fa affermazioni roboanti, come se il governo Draghi l’avesse creato lui: che, naturalmente, non è vero. Non ha nessuna visione, cerca solo di sopravvivere in modo spregiudicato, attraverso il potere di ricatto dei suoi parlamentari, che al Senato sono decisivi. Alle prossime elezioni sarà durissima, anche se sono sicuro che contratterà spudoratamente con il Pd un certo numero di seggi sicuri.
Alle elezioni del nuovo presidente della Repubblica manca ancora parecchio tempo, ma se ne inizia a parlare. Come si presenta, ad oggi, la griglia di partenza?
I papabili sono almeno sette od otto. Alcuni sono evidenti ed ineliminabili: come la seconda carica dello Stato, la presidente del Senato Casellati, per di più donna e certamente un’ottima candidata. Così come un ottimo candidato è sicuramente Draghi, perché lo dicono tutti. Credo che non abbia mai smesso di pensare al Quirinale Romano Prodi, il quale probabilmente ritiene anche di avere diritto ad un risarcimento. Letta è un suo amico, quindi è una candidatura plausibile, ma va costruita. Sono sicuro che si considera un candidato anche l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini: non ha mai fatto male a nessuno, quindi non è controverso, ma dovrei dire anche che non ha mai fatto nulla. Sento che Tajani è disposto a candidare Berlusconi: se il centrodestra è compatto, parte con un numero di voti molto consistente. Poi ci sono altri speranzosi: ad esempio Franceschini. Ma tutto dipende da come si comincerà a votare: alcuni candidati verranno eliminati dopo i primi scrutini, perché funzionano male, e altri possono emergere.
Alla fine l’Italia avrà il presidente della Repubblica che si merita?
Io mi chiamo fuori: alcuni dei nomi che ho fatto posso anche meritarmeli, altri no. Ma l’Italia avrà il presidente della Repubblica che i parlamentari considereranno il meno pericoloso. Cioè quello che produrrà meno danni per loro. C’è poco da vincere: una volta che è eletto, rimane in carica per sette anni, è completamente autonomo e non deve più rispondere a nessuno. Dopodiché, se il parlamento si incarterà, probabilmente tornerà quella richiesta dell’elezione popolare diretta. Certamente sostenuta dalla destra italiana, ma di cui il centrosinistra ha paura.
Pubblicato il 15 luglio 2021 su DiariodelWeb
Lo zampino di Renzi nel collasso del partito fin troppo contendibile @DomaniGiornale
In principio ci fu l’idea di aggregare il meglio delle culture politiche riformiste del paese: quella, certamente non socialdemocratica, degli ex-comunisti, quella dei cattolico-democratici, degli ambientalisti, di qualche liberale, con la sorprendente e davvero grave esclusione della cultura socialista. Poi, rapidamente, si vide quanto limitato fosse il tasso di riformismo di quelle culture già allora evanescenti cosicché il Partito Democratico affidò la sua identità ad una aspirazione: la vocazione maggioritaria, e a un metodo: le primarie nella affermazione orgogliosa che la leadership doveva essere “contendibile”. Oggi, dopo le sempre corte segreterie di Veltroni, Bersani, Renzi più Renzi e Zingaretti, quattro segretari che pure avevano vinto le primarie e con reggenti Franceschini, Epifani, Martina loro subentrati solo temporaneamente, possiamo dire che la leadership è stata fin troppo contendibile. Dunque, gli aspiranti stregoni messisi all’opera per costruire un partito che non è mai esistito nei sistemi politici europei hanno semplicemente dimostrato la loro inadeguatezza. Inoltre, la verità è che il PD non aveva messo insieme culture politiche trionfanti, ma due ceti politici declinanti e in buona sostanza dotati del potere di mantenersi a galla senza sapere né volere rischiare elaborando idee e proposte.
Di nessuno dei segretari è possibile effettuare un collegamento con proposte nuove dirompenti. Non vale neppure la pena cercare di ricostruirle quelle non-proposte con l’obiettivo di “dare un senso a questa storia”, l’espressione usata da Bersani nel corso della sua vittoriosa, ma tutto meno che innovativa, cavalcata nelle primarie. Bisognava, bisognerebbe, bisognerà delineare una storia nuova. Al momento non ce ne sono neppure i presupposti minimi. Si chiamino pure pudicamente “sensibilità” o “anime”, le aggregazioni personalistiche ovvero intorno ad un leader, rigorosamente uomo, che si formano e si riproducono nel partito, non sono neanche vere correnti. Troppo spesso le donne si agganciano alla leadership di un uomo e lì rimangono per ottenere cariche e promozioni. Le polemiche da loro montate perché fra i tre ministri spettanti al PD non c’era neppure una donna (mi) sono apparse del tutto pretestuose e comunque del tutto prive di contenuti effettivamente politici.
Se un partito non sa, non riesce e non si cura di produrre idee politiche, di confrontarle, di aggiornarle, inevitabilmente il discorso si sposta sulle cariche, che, per qualcuno/a possono anche essere, con cedimento populista, chiamate poltrone. Senza fare politica sul territorio, questa volta il politichese appare appropriato, le poltrone inevitabilmente diminuiscono di quantità e di numero. Dove ci sono poche idee e nessun dibattito, gli “idealisti” se ne vanno e rimangono gli arrivisti/carrieristi. Costoro non daranno (non sanno/non vogliono) nessun contributo alla crescita culturale del partito. I loro obiettivi sono altri e, se dimostrano fedeltà al leader di turno, riusciranno a passare da una carica ad un’altra, persino a prescindere dagli impegni presi con il loro elettorato.
Nonostante le loro grandi maggioranze, i vari segretari del PD non hanno mai davvero, dopo una luna di miele, acquisito il pieno controllo e sostegno del partito. Forse il segretario più forte da questo punto di vista è stato Matteo Renzi, ma il suo stile di leadership ha provocato molte tensioni e conflitti sicuramente deleteri anche perché orientati più al rafforzamento quasi plebiscitario della sua leadership piuttosto che al rafforzamento del partito e al perseguimento coerente di una politica riformista mai compiutamente delineata (e probabilmente non nelle sue corde).
Renzi non si lasciò sfuggire l’opportunità di designare la maggioranza dei componenti dei due gruppi parlamentari. Ne è conseguito che, vincendo le primarie, il segretario Zingaretti ha ottenuto la maggioranza negli organismi dirigenti del partito: Assemblea Nazionale e Direzione. Però, non soltanto la maggioranza dei componenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato sono stati nominati da Renzi, ma i due capigruppo hanno un recentissimo passato di strettissimi collaboratori di Renzi. Non desidero formulare nessuna ipotesi, ma penso che sia corretto concludere temporaneamente che, da un lato, è in corso un tentativo ad opera di Italia Viva e del suo capo di scompaginare sia il Partito Democratico sia il Movimento 5 Stelle, dall’altro, con le sue dimissioni Zingaretti potrebbe avere deciso di mettere fine all’esperienza del PD per procedere alla costruzione di un partito diverso, migliore. È un’operazione difficile, ma possibile. Se qualcuno ha davvero pensato che con il governo Draghi la politica si sarebbe ristrutturata, la decisione di Zingaretti potrebbe rivelarsi il primo importante passo in quella direzione.
Pubblicato il 5 marzo 2021 su Domani
Cortesi, scorretti, inesperti, manipolatori
Scorrettezza politica e costituzionale oppure cortesia istituzionale? Fare conoscere in anticipo al Presidente della Repubblica la lista dei ministri del prossimo eventuale (issimo) governo delle Cinque Stelle è, a mio parere, un gesto sostanzialmente propagandistico senza nessun senso istituzionale, ma anche senza nessuna violazione costituzionale. A Giovanni Sartori e, per quel che conta, anche a me, già pare costituzionalmente deprecabile che nei simboli di molti partiti compaia il nome del leader anche se è vero che alcuni partiti avrebbero vita ancora più triste e grama se non sfruttassero quel minimo di popolarità derivata che le apparizioni televisive dei leader garantiscono loro. Fu Berlusconi, non bloccato da Ciampi, a inaugurare la moda. Voleva non solo asserire con forza il suo predominio su Forza Italia e sul Popolo della Libertà, ma anche sottolineare che era lui e solo lui il candidato alla carica di Presidente (del Consiglio). Abbiamo anche visto e non stigmatizzato abbastanza le consultazioni parallele tenute dal segretario del PD Matteo Renzi nel dicembre 2016 dopo la pesante sconfitta referendario nel per individuare il suo successore. La sfilata di Padoan, Gentiloni, Delrio e Franceschini da lui convocati a Palazzo Chigi si configurò come una reale soperchieria costituzionale.
Non ha bisogno Di Maio di mettere il suo nome nel simbolo del Movimento che è molto più noto di lui e molto più attrattivo agli occhi di un elettorato insoddisfatto della politica italiana, irritato, anti-establishment che non ha nessun bisogno di sapere in anticipo né il nome del Presidente del Consiglio né i nomi dei ministri. Dunque, siamo di fronte a una sceneggiata napoletana che, pur criticabile, merita poca considerazione perché non intacca per nulla i poteri del Presidente della Repubblica al quale spetterà la nomina del Presidente del Consiglio “e, su proposta di questi, i ministri”. Riconosciamo a Di Maio la piena libertà di proporre i ministri che vorrebbe, ma la nomina spetterà a Mattarella e, se mai Di Maio andasse al governo, quei ministri dovrà prima di tutto concordarli con gli alleati della coalizione che fosse riuscito a formare. È anche sbagliato criticare Di Maio perché ha parlato di governo ombra, che è quello che alcune opposizioni costruiscono, soprattutto nei paesi anglosassoni a competizione bipolare/bipartitica (ci provò anche, malamente e tardivamente, il PC/PDS), come se si preparasse a stare all’opposizione- che potrebbe, comunque, essere il suo destino dopo il 4 marzo. Di Maio sta cercando di “fare ombra” sia al centro-destra, nel quale è in corso uno scontro en plein soleil di potenziali Primi ministri, sia al PD con il suo attacco a due punte, Renzi e Gentiloni, (uno più puntuto dell’altro) e con molti aspiranti alcuni (tramanti) nell’ombra.
Preso atto che la lista dei ministri di Di Maio non appare ricca di personalità quanto, piuttosto, povera di esperienza politica e quindi splendidamente rappresentativa dell’ideologia e della pratica delle Cinque Stelle, interpreterei la sua presentazione precoce come un omaggio un po’ maldestro (ma anche un po’ sinistro) alla logica delle istituzioni e della competizione politica. Infatti, è innegabile che da molte parti venga spesso la richiesta, soprattutto nelle elezioni comunali, di fare conoscere in anticipo la squadra dei governanti come se le squadre fossero automaticamente un valore aggiunto. Certo, se Virginia Raggi avesse fatto conoscere in anticipo la sua squadra avrebbe anche potuto in anticipo procedere al raffinato gioco di dimissioni, sostituzioni, nuove nomine etc. Non so se Di Maio ha fatto tesoro di quella (non)esperienza. Credo, invece, che, magari senza esserne del tutto consapevole, senza forse neanche volerlo sta comunicandoci qualcosa di importante. Il Movimento Cinque Stelle sta proseguendo la sua lenta marcia nelle istituzioni cominciata nella confusione in Parlamento cinque anni fa. Prolungata non splendidamente nei lavori parlamentari facendo “crescere” qualche competenza, la marcia pentastellata nelle istituzioni è approdata al riconoscimento del ruolo e dei poteri del Presidente della Repubblica. Le modalità del riconoscimento sono piuttosto pasticciate e contengono anche un ingenuo tentativo di condizionamento di Mattarella. Forse, vogliono persino essere una sfida ai Renzi e ai Berlusconi, ai Salvini e alle Meloni. Tutti costoro, soprattutto i primi due, hanno anche altre gatte da pelare e non hanno risposto adeguatamente. Tuttavia, se i famigerati intellettuali di riferimento, i giuristi (e i politologi) di corte dicessero alto e forte che tutto quello, nomina dei ministri compresa, che succederà dopo il 4 marzo avrà inizio esclusivamente con le consultazioni presidenziali ufficiali e con l’esercizio pieno dei poteri del Presidente sarebbe già un piccolo, ma utile passo avanti per tenere sotto controllo le conseguenze del voto prodotte da una brutta legge elettorale (mai abbastanza deprecata).
Pubblicato il 1 marzo 2018 su FondazioneNenniblog
Sacrifici da meritare
Vorrei offrire ai dirigenti locali del Partito Democratico qualche argomento da contrapporre alla segreteria nazionale per evitare troppi sacrifici in termini di candidature al Parlamento nazionale. Primo, fare valere il criterio di una sana rotazione dopo i famosi/famigerati due mandati, non in maniera automatica, ma esprimendo anche una valutazione sull’operato del/la parlamentare uscente-entrante. Secondo criterio, inteso a dare buona rappresentanza politica agli elettori, ricandidare chi viene ripresentato nello stesso collegio della precedente elezione. Lì potrà spiegare ai suoi elettori le molte cose successe nella delicata, soprattutto per il PD, legislatura che si è conclusa, chiarendo, mio mantra, che cosa ha fatto, non fatto, fatto male e perché. Sarebbe un’ammirevole e utilissima operazione pedagogica che restituisce dignità alla politica. Terzo, scegliere le nuove candidature, anche valutando quelle che da Roma vorrebbero paracadutare, in base a due elementi essenziali: la storia politica, sociale, professionale e la sua rappresentatività delle idee del PD, della sua storia, del suo progetto. Naturalmente, da parte del paracadutato/a dovrebbe anche esserci una disponibilità a garantire la sua presenza sul “territorio”, non solo a fare passerella, ma a interloquire con gli elettori tutti, con le associazioni, persino con le banche. A questo punto, a PierFerdinando Casini (eletto alla Camera per la prima volta nel 1983) fischieranno le orecchie, ma so che personalmente se ne infischia. Tuttavia, da un lato, mi pare difficile inserire Casini nella storia del PD; dall’altro, mentre serpeggia l’inquietudine nella “base”, fra malumori e maldipancia, è giusto chiedersi se la candidatura di Casini, quanti voti porterà?, non segnali la direzione di marcia del PD, verso il centro-destra. Infine, per chi ritiene che la buona rappresentanza parlamentare è la premessa di qualsiasi governabilità decente, le candidature vanno scelte in base alla loro qualità, non perché sono “in quota di” qualcuno, né di Prodi né di Franceschini, ad esempio, ma perché rappresentano le idee del Partito Democratico. Si tratta di elezioni nazionali che, dunque, non dovrebbero in nessun modo avere riflessi sulla composizione della giunta di Bologna. Qualsiasi rimpasto andrebbe fatto con riferimento alle esigenze di garantire un miglior funzionamento del governo locale, non a ricompensare qualcuno perché non ha “ottenuto” candidature al Parlamento né a produrre un qualche riallineamento fra chi ha vinto e chi ha perso nel Partito Democratico. Che brutta storia.
Pubblicato il 12 gennaio 2018
Il falso problema delle firme. Troppo “Rosato” fa male
È molto fastidioso e del tutto sbagliato sentire dire, anche da autorevoli commentatori, che la Legge elettorale Rosato è brutta perché (forse) impedirà la presentazione della lista +Europa e quindi il ritorno in Parlamento di Emma Bonino. Firme richieste molte (non ne sono affatto sicuro) tempi brevi (anche questo è discutibile): questa sarebbe la tenaglia che schiaccia i radicali Bonino, Della Vedova, Magi. In verità, potrebbe schiacciare molti altri, incapaci di raccogliere le firme che, lo sottolineo, sono previste da sempre per impedire la comparsa di liste folcloristiche, avventuriere, frammentatrici. Fare, però, di questa clausoletta il capro espiatorio di una legge che ha molti altri e molto più gravi difetti è davvero troppo radicale, ooops, chiedo scusa, troppo fuori luogo.
Il problema, come molti hanno detto, non proprio ad alta voce, in corso d’opera, è che la legge Rosato non è fatta per dare potere agli elettori, ma per consentire ai partiti, ai loro capi e ai capi delle correnti (non perdete di vista Franceschini, ma neanche, purtroppo per lui, in misura minore, Orlando) di nominare parlamentari i più ossequiosi, (oso?: i più provatamente servili) dei candidati. Il casting di Berlusconi serve anche a questo test. Lascio a chi, non sono pochi, nulla sa dei sistemi elettorali delle democrazie parlamentari di argomentare che succede così anche negli altri sistemi politici. Ricordo che non solo chi ha proposto e votato la legge Rosato ha respinto la possibilità di voto disgiunto uninominale/proporzionale (come in Germania, dove ha costantemente offerto buona prova di sé), ma ha addirittura imposto per la terza volta (prima legge Calderoli-Porcellum; poi legge Italicum-porcellinum perché rivista al ribasso; adesso Rosato, l’aggiunta la mettano i lettori) la possibilità di pluricandidature. È un altro sicuro obbrobrio certamente più criticabile dell’esigenza delle firme. Infatti, le candidature multiple nullificheranno qualsiasi effetto positivo che potrebbe/potesse derivare dalla competizione nei collegi uninominali.
Chi rischia di perdere nel collegio uninominale, se è abbastanza forte nel partito, nella corrente, nel salotto di Arcore, si farà candidare anche nel listino proporzionale. No, i nomi dei pluricandidati, par condicio: anche donne, sui quali, pure, sono disposto a scommettere, non li rivelo ancora. Alla fine, chi sa, a Renzi potrebbe fare più gioco mettere in collegi uninominali e in qualche listino proporzionale Emma Bonino e persino Benedetto della Vedova, adducendo come scusa che le firme non è riuscito a raccoglierle neanche il volenteroso ambasciatore Fassino. Tre-cinque seggi a Bonino e ai suoi radicali potrebbero essere meno di quelli che una Lista +Europa, presentatasi con il suo corredo di firme, potrebbe esigere. Già, nessuno finora ha scritto o cercato di capire qual è lo scambio “+Europa=quanti seggi sicuri”. Propongo che gli sguardi apprensivi dei commentatori equanimi abbandonino la ricerca delle firme per i radicali e si posino sulle priorità di Emma Bonino e sull’accettazione esplicita, non generica, di quelle priorità da parte del PD di Renzi. Come le idee, anche le priorità camminano sulle gambe degli uomini e delle donne. Gli ostacoli non sono rappresentati da qualche migliaio di firmette, ma dall’effettivo spostamento del cuore e del cervello della politica italiana da Roma (per non dire Rignano-Laterina) a Bruxelles.
Pubblicato il 4 dicembre 2018 su huffingtonpost
Il budino letale e puzzolente dei soliti cuochi #leggeElettorale #RosatellumBis
Inquinato, da tempo, con riferimenti a una governabilità che consisterebbe nel premiare con molti seggi un partito e a una rappresentanza politica che sarebbe delega totale ai capipartito e ai capi corrente, il dibattito sulla legge elettorale è culminato con l’affermazione di Sabino Cassese che “la prova del budino sta nel mangiarlo” e con la sua valutazione positiva del budino perché ha “armonizzato” le leggi elettorali per Camera e Senato. Lascio da parte che a qualcuno, me compreso, i budini non piacciono, ci sono comunque molte buone ragioni per evitare persino di assaggiarlo: quando conosciamo i cuochi e, sulla base di budini precedenti, non ci fidiamo; perché quel budino è fatto di ingredienti di bassissima qualità già usati nel passato; perché è maleodorante e rischia di avvelenare in maniera letale oppure lasciando durature conseguenze inabilitanti.
Il budino Rosatellum bis sintetizza tutte le ragioni che lo rendono pericoloso anche per la democrazia rappresentativa. No, persino a detta dei proponenti non garantirà la governabilità, ma le leggi elettorali, dappertutto e soprattutto nelle democrazie parlamentari debbono eleggere “bene” un Parlamento, mai un governo e mai “fabbricare” una maggioranza assoluta. La governabilità la può garantire esclusivamente una classe politica preparata, competente, selezionata anche dagli elettori. Se i parlamentari sono tutti nominati, dai capi dei rispettivi partiti nonché dai capicorrente (a mo’ d’esempio chiedo: rinuncerà Franceschini a nominare i suoi sostenitori? Farà a meno Orlando di imporre i suoi collaboratori e, per cambiare registro, ottenuta la sua personale clausola di salvaguardia-seggio, il mio ex-studente Denis Verdini abbandonerà alla deriva i “verdiniani”?) che tipo di rappresentanza di preferenze, di interessi, di ideali (sì, lo, nello slancio mi sono allargato) gli eletti saranno in grado di offrire? Il problema non si pone soltanto proprio per quegli eletti che, inevitabilmente, dovranno mostrare la loro gratitudine agli sponsor (incidentalmente, per quelli che paventano le conseguenze nefaste del voto di preferenza, davvero si può credere che le organizzazioni di interessi, le lobby non si preoccupino di fare inserire in quelle liste qualcuno sul quale faranno affidamento?), si pone anche per gli elettori. Da un lato, non sapranno chi è il/la loro rappresentante che, comunque, da loro non si farà vedere più di tanto il loro rientro in Parlamento non dipendendo in nessun modo da quegli elettori, ma dai capi: lo zen Renzi, l’avvocato Ghedini, Alfano e Lupi …, quegli eletti impiegheranno il loro tempo e le loro energie in altre attività, per esempio, nel vagabondare fra gruppi parlamentari seguendo l’acclamata prassi italiana del trasformismo. D’altronde, non essendo stato introdotto nella legge neppure un requisito minimo di residenza nel collegio nel quale si viene candidati (oops, paracadutati) e anche protetti, grazie alla possibilità delle multicandidature (fino a cinque), bisognerebbe costruirli ab ovo quei rapporti con l’elettorato: troppa fatica per nulla. Gli eletti potenti sapranno farsi ricandidare altrove. In questo modo, comprensibilmente, la legge non offre possibilità di rappresentanza politica, ma neppure di responsabilizzazione che, ad esempio, consentirebbe agli elettori che hanno trangugiato un budino andato male di chiederne conto ai parlamentari che hanno contribuito a metterlo sul mercato elettorale. Invece, chi non può sapere da chi è stato eletto non dovrà minimamente preoccuparsi di rendere conto dei suoi comportamenti, nel mio mantra: di quello che ha fatto, non ha fatto, fatto male. Peccato poiché raccontano alcuni studiosi della democrazia, persino italiani, come Giovanni Sartori, che l’interlocuzione e l’interazione fra candidati e elettori e poi fra i parlamentari e l’elettorato, non unicamente il “loro” (peraltro, sconosciuto): “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” (art. 67), stanno al cuore di una democrazia rappresentativa, la fanno pulsare e le danno energia.
Infine, molti studiosi e, per fortuna, anche molti uomini e donne in politica continuano a ritenere che le leggi elettorali debbano essere valutate anche con riferimento alla quantità di potere che consentono di esercitare ai cittadini elettori. Una crocetta su un simbolo che serve a eleggere un candidato e dare consenso a un partito o a una coalizione è proprio il minimo. Per rimanere nella logica di Rosato e di chi per lui “non si poteva fare meglio”, certo che si poteva fare meglio: con la possibilità del voto disgiunto previsto e ampiamente utilizzato in Germania oppure con il doppio turno nei collegi uninominali come per l’elezione dell’Assemblea nazionale in Francia. Buttate, voi senatori, l’Italian pudding nella raccolta indifferenziata. Non c’è nulla da riciclare.
Pubblicato il 14 ottobre 2017
Le interviste della Civetta: “Il partito si liberi subito di Renzi per Letta o Franceschini”
Prima Renzi esce di scena, meglio è per il partito e per i suoi elettori reali e potenziali: è il parere deciso consegnato a IntelligoNews dal politologo Gianfranco Pasquino, ex senatore della sinistra. Per il dopo Renzi, Pasquino vede in campo Franceschini e Letta.
Il fuoco incrociato su Renzi può essere letto come uno stop sulla via del ritorno a Palazzo Chigi?
Il segretario dovrebbe già avere rinunciato a pensare a Palazzo Chigi. Doveva lasciare il 4 dicembre e tornare a fare altro, avendo detto che ci sono molte cose fuori dalla politica. Molto dipende da quanti voti e seggi il Pd otterrà nelle elezioni che adesso il segretario pospone addirittura a maggio-giugno dell’anno prossimo, dopo averle fermamente volute per settembre-ottobre. Certo è che l’immagine e il potere di Renzi sono drammaticamente logorati.
Che sensazione le lascia la polemica a distanza tra Renzi e Romano Prodi?
Renzi è un uomo che replica sempre in maniera sgradevole. Prodi è stato un po’ affannato e affrettato: aveva commesso l’errore di dire che appoggiava il referendum, dopodiché – mi è capitato di leggere – c’è stato un incontro tra i due a casa di Arturo Parisi. Prodi ha evidentemente sopravvalutato la propria capacità di convincimento e sottovalutato l’ostinazione di Renzi. Era un dialogo che non andava da nessuna parte.
I critici di Renzi rimproverano al segretario di essere divisivo e di non lavorare per una coalizione ampia, lui replica che con le coalizioni troppo ampie non si governa. Chi ha ragione?
Le coalizioni non devono necessariamente essere ampie ma raggiungere la maggioranza dei seggi in Parlamento. Secondo: un segretario di partito lavora anzitutto al suo partito, cosa che Renzi non ha fatto né quando era capo del governo, né durante la campagna per tornare a fare il segretario, né da quando è stato rieletto alla guida del Pd. Renzi si disinteressa sistematicamente del partito perché pensa che è la sua persona che acchiappa voti – e sbaglia. Terzo: è lampante che nel Pd c’è qualcuno più bravo di lui a fare coalizioni. Questo Renzi teme, che si trovi qualcuno che dica: “Io sono grado di convincere parte del centro e parte delle sinistre, sono più pacato di te nei rapporti tra alleati e più efficace come governante”.
Chi può essere, Enrico Letta?
In questo momento ci sono due esponenti del Pd preferibili a Renzi: uno è Dario Franceschini, che non lo nasconde in nessun modo, l’altro è sicuramente Letta. Quest’ultimo ha il vantaggio di essere conosciuto e apprezzato in Europa e in generale a livello internazionale, parla bene l’inglese e il francese, ha un atteggiamento di collaborazione con le istituzioni comunitarie. Franceschini ha dalla sua che è in Italia, è stato un buon ministro dei Beni culturali, è in un certo senso al punto giusto della carriera: molti ritengono che sia in grado di salvare il partito meglio di Letta, il quale in fondo segretario di partito non è mai stato, al massimo è stato vicesegretario.
Ha una preferenza personale tra i due?
A me piace qualcuno che sia più vigoroso ed esplicito: a entrambi chiederei di essere più decisi. Ho l’impressione che Franceschini lo sia in misura superiore, mentre Letta ha una visione di tipo europeo più vicina alla mia. Se dovesi scegliere sarei in grave difficoltà. Ma è sicuro che prima il Pd si libera di Renzi, meglio staremo tutti, anche quelli che come me non sono necessariamente elettori del Pd di Renzi.
Pubblicato il 28 giugno 2017 su Intelligonews
Dialogo immaginario al Quirinale
Abbiamo fortunosamente potuto ascoltare quanto si sono detti il Presidente Mattarella e il Presidente Emerito nonché Senatore a vita, già Ministro degli Interni e Presidente della Camera dei deputati (1992-1994) Giorgio Napolitano.
Mattarella. Ti ho invitato alle consultazioni perché, caro Giorgio, te lo dico subito: tu sei parte del problema. Non ti pare di avere esagerato con l’appoggio a Renzi e alle sue riforme costituzionali che erano piuttosto brutte e malfatte?
Napolitano. Il Presidente del Consiglio si è fatto prendere la mano dalla sua irruenza. Ho dovuto richiamarlo usando il mio linguaggio, che tu sai essere soffice e felpato, rimproverandolo per “forse, un eccesso di personalizzazione politica”. Però, aveva ragione Pasquino (ma non farglielo sapere perché si monterebbe la testa), quando lo accusava di plebiscitarismo. Renzi ha poi addirittura sostenuto che queste erano le “mie” riforme. Davvero troppo. Non mi aspettavo una sconfitta così bruciante che, ahimé, ha intaccato anche il mio prestigio
Mattarella: Già, Pasquino. Lo conosco. Sostiene che sarebbe utile fare rivivere il mio sistema elettorale Mattarellum. Potrebbe persino avere ragione. Comunque, caro Giorgio, adesso ti tocca suggerirmi il modo di uscire da questa crisi di governo. Come te, neppure io vorrei procedere allo scioglimento del Parlamento. Elezioni immediate, come ne parlano troppi commentatori incompetenti e qualche politico la cui ambizione è molto al di sopra della sua conoscenza della Costituzione, non sono praticabili. Per di più, non posso ricorrere alla soluzione del governo tecnico che tu t’inventasti con quel colpo di genio di nominare Mario Monti senatore a vita per poi metterlo alla Presidenza del Consiglio. Una soluzione di questo tipo me l’hai bruciata.
Napolitano: Non la rifarei neppure io dopo che Monti contro le mie aspettative e i miei suggerimenti decise di “salire in politica” facendo saltare con il cattivo esito della sua lista Scelta Civica qualsiasi possibilità di succedermi alla Presidenza della Repubblica e, di fatto, complicando quelle elezioni e gli avvenimenti successivi.
Mattarella: Sono incline a cercare una soluzione non pasticciata che consenta di concludere la legislatura a febbraio-marzo 2018 come d’altronde, glielo ricorderò, eccome, ha più volte dichiarato lo stesso Renzi. Credi che sia possibile?
Napolitano: Possibile forse, doveroso senz’altro, ma, attenzione, il fiorentino è pieno di energie e ha un surplus di ambizione tale che non posso escludere che si metta di traverso a qualsiasi soluzione che non contempli un suo ruolo rilevante. Consultati in maniera ovattata anche con qualche sub leader del PD, Franceschini, Bersani (o chi per lui, non Cuperlo…), Delrio per sapere se sarebbero in grado di tenere a bada Renzi e, ma io non te l’ho detto, di sfilargli il partito. Fai sì che sia Renzi in un sussulto da “statista” a indicare/designare il suo successore a Palazzo Chigi garantendogli il sostegno convinto del Partito Democratico.
Mattarella: Condivido, ma non sottovaluto i colpi di coda di un perdente che voglia mantenere, premuto da tutti i suoi collaboratori che, mediocri assai, non vogliono tornare nell’ombra, un ruolo visibile per risorgere nel 2018: una specie di “rieccolo” alla Fanfani, altra tempra altra statura (oops, non voglio scherzare) politica, e che quindi prepari non poche imboscate parlamentari. Rimane poi il problema di quale maggioranza sosterrà il nuovo Presidente del Consiglio.
Napolitano: Credo che Alfano e sicuramente Verdini sarebbero disponibili. Qualche aiutino verrebbe sicuramente dai parlamentari, non quelli che non sono ancora giunti al vitalizio (che brutta quest’accusa che puzza di antipolitica), ma quelli che sanno che non riusciranno a farsi ricandidare. Se cambiano tutti i ministri, condizione che devi porre a chiunque tu dia l’incarico, forse salvando, per ragioni di opportunità europee, il solo Padoan, una sferzata di energia e d’impegno a provare le loro competenze potrebbe spingere il nuovo governo almeno fino all’autunno 2017. Superare Natale dovrebbe essere del tutto possibile.
Mattarella: Quindi, mi suggerisci un politico? Vent’anni fa avrei dato l’incarico proprio a te. Adesso vorrei evitare candidature istituzionali. D’altronde, né Grasso né Boldrini hanno caratura politica e tecnica tale da essere ineccepibili. Al momento non intravvedo nessun uomo e nessuna donna, che sarebbe una grande novità, provenienti dalla società all’altezza della sfida. Neppure guardando all’Europa troveremmo politici di alto livello da reclutare: un obiettivo impossibile. I vincitori del referendum con il loro schieramento variegato e diffuso (nota che evito il termine “accozzaglia” che non sta nel mio lessico e nel mio stile) sono privi di personalità “presidenziabili”. Insomma, non mi resta che procedere a cercare con il lanternino nel litigioso convento del Partito Democratico un leader dalle buone maniere, non antagonizzante, consapevole dei suoi limiti, disposto a entrare nella storia politica di questo paese avendo guidato il governo anche solo per un anno o poco più.
Napolitano: Concordo, ma ribadisco: fattelo suggerire il nome, non dal “Corriere della Sera” e non da “Repubblica” (meno che mai da Eugenio Scalfari), ma da Renzi, chiedendogli di continuare a giocare alla playstation con i figli per consentire che i parlamentari del PD si comportino in maniera responsabile di fronte al paese.
Pubblicato AGL il 9 dicembre 2016