“Un lavoro sono in grado di trovarmelo da solo”. No, non sono parole di Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto; non di Stefano Bonaccini, Presidente della Regione Emilia-Romagna; neanche di Matteo Ricci, attivissimo sindaco di Pesaro. Tutti al termine del loro secondo e ultimo mandato, da un lato, sperano che venga eliminato il limite ai due mandati, dall’altro, attendono che qualcuno, il partito, trovi un lavoro per loro. Nessuno di loro è in grado di pronunciare le parole di Mario Draghi. L’attaccamento alla (no, non scriverò “poltrona”) carica è evidente. Non è etichettabile come passione. Qualcuno, non chi scrive, direbbe “occupazione”, forse, un po’ meglio, “professione”. Certamente, è non osservanza delle regole istituzionali notissime a chi si candidò a quelle cariche una decina di anni fa. Zaia ha dichiarato che a decidere della continuazione dei mandati, a cominciare dal suo, dovrebbero essere gli elettori. Questa dichiarazione ha un retrogusto populista. Fa parte del problema che la legge che contempla il limite ai mandati voleva contrastare e risolvere, vale a dire, evitare la cristallizzazione del potere di sindaci e poi di presidenti a lungo in carica, diventati molto popolari e in grado di sfruttare, spesso inevitabilmente, le relazioni intessute del corso del tempo e anche, altrettanto inevitabilmente, la capacità di distribuire in maniera selettiva le risorse.
Il ricambio nelle cariche, tecnicamente la circolazione delle elites politiche, è (quasi) sempre positivo anche per la circolazione delle idee, delle proposte, delle soluzioni. Un buon ricambio caratterizza le democrazie meglio funzionanti. Naturalmente, in democrazia è sempre possibile cambiare le leggi. Anzi, una delle caratteristiche politiche più apprezzabili delle democrazie è che tutti i protagonisti e il regime stesso sono in grado di imparare, di risolvere gli errori, di individuare soluzioni migliori. Fu un errore mettere un limite ai mandati di governo dei sindaci e poi dei Presidenti di regione? L’abolizione di quei limiti può essere presentata e giustificata come una soluzione istituzionale preferibile all’esistente?
Però, l’appassionante (sic) dibattito attuale non verte su questi punti problematici. Premesso che le regole istituzionali possono essere cambiate come si è fatto in Italia da quarant’anni ad oggi, e ancora si farà, purtroppo non proprio con miglioramenti epocali (scusate l’eufemismo), la regola delle regole, non solo in politica, è che non debbono mai essere cambiate, in corsa, di corsa, durante il gioco. E, se vengono cambiate quando il gioco è in corso, le nuove regole non possono valere se non trascorso un certo periodo di tempo, in questo caso, almeno tutto un mandato. Alcuni sindaci, terminato il doppio mandato, sono tornati campo, con successo, ma anche no, dopo avere saltato un turno.
Detto che le regole possono essere cambiate, bisogna aggiungere, ma non dovrebbe essere necessario, che è imperativo che le motivazioni siano assolutamente di natura istituzionale: la possibilità di svolgere un terzo mandato implicherebbe/rà un salto di qualità nei governi locali; darebbe un contributo decisivo al buongoverno degli enti locali, potenzialmente di tutti quegli enti dalle Alpi alla Sicilia. Invece, l’estensione del terzo mandato viene giustificata con riferimento agli occupanti e ai loro partiti, ragioni personali e partitiche. La Lega è favorevole perché senza Zaia “perderebbe” il Veneto. Nel Partito Democratico qualcuno sostiene, forse, l’estensione perché teme di non sapere come sostituire alcuni governanti locali e come e dove “piazzare” gli uscenti. Fratelli d’Italia ha dalla sua l’osservanza della legge sull’esistenza dei limiti ai mandati e della loro applicazione senza eccezioni anche perché ne deriverebbe un notevole riequilibrio del potere locale a suo vantaggio. Ho l’impressione che questa brutta storia finirà con la vittoria dell’opportunismo variamente declinato piuttosto che delle regole esistenti. Se perdono coloro che sostengono che regolae sunt servandae , saranno sconfitti anche i molti cittadini democratici che ritengono che la democrazia è rule of law, governo della legge.
Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale. La riflessione di Gianfranco Pasquino, europeo nato a Torino, professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Accademico dei Lincei.
Non c’è soluzione specificamente italiana ai problemi che in qualche modo riguardano l’Unione Europea e gli altri Stati-membri e i loro cittadini. Chiamarsi fuori significa per l’Italia non soltanto dovere provvedere da sé, ma rendere più difficile, quasi impossibile prendere decisioni che per funzionare richiedono accordi e concordia europea. Due esempi sono sufficienti: l’immigrazione e la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, ma all’orizzonte si staglia l’adesione di nuovi stati a completamento geografico (e politico) dell’Unione Europea. Questa mia premessa è indispensabile per capire quanto alta è e possa diventare la posta in gioco dell’elezione del Parlamento europeo il 9 giugno 2024.
Anche se è giusto rammaricarsene, è inevitabile, comunque, impossibile da proibire, che i dirigenti dei partiti italiani pensino a sfruttare l’esito delle elezioni europee per rafforzare le loro posizioni in Italia. Assisteremo sicuramente ad un consistente travaso di voti e seggi dalla Lega, più che dimezzata, a Fratelli d’Italia che quadruplicherà i suoi voti e i suoi seggi. Lungi da me affermare che questo esito fortemente positivo per quei Fratelli servirà a poco o nulla se non incidesse sulla formazione della prossima maggioranza nel Parlamento europeo. Certo, dirigenti e eletti del Partito dei Conservatori e Riformisti, di cui Giorgia Meloni è presidente, non saranno davvero soddisfatti se mancheranno l’obiettivo di sostituire i Democratici e Socialisti dando vita ad una nuova maggioranza con Liberali, Verdi e Popolari. Poiché in democrazia, e l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà, di diritti, di democrazia mai esistito al mondo, i voti contano, anche la, al momento probabile, prosecuzione della maggioranza attuale sarà consapevole della necessità di tenere conto della nuova distribuzione di seggi. Ma i seggi senza idee e proposte non fanno cambiare le politiche, forse neppure le cariche come, per esempio, quella della Presidenza della Commissione.
Spetterà alla campagna elettorale andare oltre i temi nazionali e la conta nazionale, pur, gioco di parole, tenendone conto. Finora non si è visto praticamente nulla di concreto, nulla di nuovo, nulla di affascinante. Peggio. La discussione sulle candidature a capolista e in quante circoscrizioni di Giorgia Meloni e di Elly Schlein (e giù per li rami delle altre liste con la lodevole eccezione di Giuseppe Conte che si è chiamato fuori) segnala la persistenza di una fattispecie di malcostume, politico e etico. C’è incompatibilità fra la carica di europarlamentare e quella di parlamentare nazionale. Dunque, poiché, naturalmente, né Schlein né, meno che mai, Meloni rinuncerebbero alla carica nazionale, è troppo poco denunciare che la loro presenza come capolista è uno “specchietto per le allodole”. Si tratta di un vero e proprio inganno a danno degli elettori, inganno che tutti i commentatori/trici e tutti i media dovrebbero, non assecondare con toto nomi e probabili desistenze a favore di fedelissimi/e, ma denunciare ad alta voce misfatti e misfattiste.
Poiché le decisioni europee nel prossimo parlamento si annunciano molto importanti, la composizione delle liste dovrebbe rispecchiare competenze e esperienze, non solo affidabilità personale e politica che, pure, è giusto che contino. La presenza di europarlamentari capaci è da considerarsi ancor più necessaria e significativa se la maggioranza sarà risicata. Talvolta, una argomentazione convincente riesce a spostare voti, a diventare vincente. Immigrazione, Patto di Stabilità e Crescita, nuove e numerose adesioni, sicurezza e pace sono le sfide che, se troveranno soluzioni condivise tra il 2024 e il 2029, promettono di cambiare per il meglio l’Unione Europea e la vita dei cittadini/e europei/e con effetti positivi anche sulla costruzione di un nuovo ordine internazionale.
Premierato inesistente. Il disegno di legge costituzionale per “l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri” mira a conseguire tre obiettivi: dare stabilità ai governi, conferire maggiore potere ai cittadini elettori, impedire la formazione di governi tecnici più o meno conseguenza di “ribaltoni”. Produrrebbe una inusitata forma di governo denominata “premierato”, oggi non esistente da nessuna parte al mondo (solo Israele la ha implementata, tre volte 1996, 1999, 2001 [E. Ottolenghi, Israele: un premierato fallito, in G. Pasquino (a cura di), Capi di governo, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 155-181] poi debitamente abbandonata. Chiaro che gli italiani potrebbero anche innovare, ma che nel mondo delle democrazie, in particolare di quelle parlamentari, nessuna sia andata in quella direzione, qualcosa vorrà pur dire. Proseguire senza punti di riferimento implica anche affrontare inconvenienti e ostacoli imprevedibili dai quali sarebbe preferibile che il sistema politico italiano si tenesse lontano.
Comunque, nessun premierato stava come proposta di riforma costituzionale nel programma elettorale di Fratelli d’Italia. Vi si trova, invece, il presidenzialismo, non meglio precisato, come non lo era quello proposto dal Movimento Sociale Italiano e da Giorgio Almirante, ma sicuramente inteso come strumento contro i partiti. Peraltro, in alcune dichiarazioni precedenti Giorgia Meloni si era personalmente espressa a favore del semi-presidenzialismo francese che, a sua volta, è alquanto diverso dal presidenzialismo USA (o latino-americano). L’obiettivo meloniano è totalmente ideologico. A prescindere da qualsiasi considerazione istituzionale, tecnica, di fattibilità, di funzionalità, Giorgia Meloni fermamente vuole l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Il resto si vedrà. Sottolineo qui che l’idea che le forme di governo a noi note e praticate rispondano a logiche costituzionali e politiche differenti e cogenti non sembra essersi ancora affermata fra commentatrici/tori, parlamentari e, talvolta, neppure fra i docenti di diritto.
Un punto, però, è chiarissimo: il capo dell’esecutivo dovrà essere eletto dal popolo. Quel che manca salta subito agli occhi. Non c’è nessuna indicazione delle modalità con le quali svolgere quelle elezioni. Se ne può dedurre che verrà dichiarato/a eletto/a il candidato/a che ha ottenuto il più alto numero di voti che potrebbero anche essere meno, molti meno della maggioranza assoluta. Ma è molto probabile che la Corte Costituzionale richieda l’indicazione tassativa di una soglia percentuale minima. Nei presidenzialismi latino americani e delle Filippine, nei semipresidenzialismi dalla Francia a Taiwan, da molti Stati africani ex-colonie francesi, pour cause, in non pochi sistemi politici ex-comunisti (Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ucraina) dell’Europa centro-orientale, quando nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta si passa al ballottaggio fra i primi due piazzati cosicché il vincente è sempre eletto dalla maggioranza dai votanti. Per l’avversione al ballottaggio espressa dal centro-destra, il vincente in Italia potrebbe essere scelto da una minoranza dei votanti. Comunque, alla coalizione a suo sostegno verrà attribuito il 55 per cento dei seggi, non è specificato, ma è ipotizzabile, in entrambi i rami del Parlamento.
Premierato dimezzato. Formalmente, l’eletto continuerà a essere “nominato” dal Presidente della Repubblica, ma sostanzialmente il Presidente si sentirà/sarà obbligato a nominare chi ha vinto. Quindi, non potrà esercitare nessun potere di scelta in nessuna imprevedibile circostanza. In flagrante contraddizione con la sua “elezione popolare diretta”, il Presidente del Consiglio potrà essere sostituito in Parlamento da un parlamentare, non da un “tecnico” (termine con il quale spesso ci si riferisce ad un non-parlamentare dotato di competenze), della sua stessa maggioranza, con il Presidente della Repubblica nuovamente obbligato a ratificarne l’assunzione della carica. Questo non direttamente non popolarmente eletto potrà a suo piacimento chiedere in qualsiasi momento lo scioglimento del Parlamento al quale il Presidente della Repubblica non avrà modo di opporsi, neppure volesse e riuscisse ad argomentare che una sua esplorazione scoprirebbe l’esistenza di una maggioranza anche solo leggermente diversa, ma operativa. Il premierato Italian-style distrugge la flessibilità/adattabilità che è probabilmente il pregio più significativo delle forme di governo parlamentare che risolvono i conflitti e superano le tensioni dentro il Parlamento senza procedere a più o meno frequenti e dispendiosi richiami dell’elettorato alle urne in situazioni spesso confuse talvolta rischiose.
Ad ogni buon conto, la sostituzione in Parlamento del Presidente del Consiglio cozza non soltanto con l’asserita volontà di avere un Presidente del Consiglio eletto dal popolo, presidio di stabilità governativa e quindi messo in condizione di esercitare le sue capacità decisionali, ma anche con l’obiettivo di dare vita a governi di legislatura. Inoltre, il subentrante all’eletto dal popolo, da un lato, godrà di minore legittimità, all’altro, sarà naturalmente debitore della carica ai leader dei partiti della maggioranza parlamentare che lo ha espresso e che deciderà come, quando e quanto sostenerlo. Spesso, sarà prodromo dello scioglimento anticipato del Parlamento, forse diventando anche il leader della coalizione e il candidato alla Presidenza del Consiglio con notevole vantaggio di visibilità. Non tanto incidentalmente, è immaginabile, comunque essenziale, che nell’iter della discussione del disegno di legge costituzionale, si affronti anche il tema del sistema elettorale da utilizzare per il Parlamento.
Premierato rampante. Da ultimo, il ddl abolisce i senatori a vita nominati dai Presidenti, ma mantiene come Senatori a vita gli ex-Presidenti della Repubblica, attualmente nessuno. Se è giusto sostenere che la rappresentanza politica in democrazia deve essere elettiva (magari facendo qualche riflessione sulla Camera dei Lords, nessuno dei cui componenti, in parte ereditari in parte nominati dal Primo ministro e ratificati dal Re, è eletto dal popolo britannico), allora coerentemente neppure gli ex-Presidenti della Repubblica dovrebbero diventare senatori a vita.
Che brutto contentino per il Presidente della Repubblica che sarà privato, come in sequenza, ma senza particolare originalità (dal canto mio lo misi in evidenza in un articolo pubblicato su questo giornale il 1 novembre), hanno notato sia Gianni Letta sia Giuliano Amato, persone informate dei fatti e dei misfatti, dei due poteri significativi e qualificanti, lo ripeto: nomina del Presidente del Consiglio (e su proposta di questo i ministri) e scioglimento o no del Parlamento. Sono questi i poteri che hanno fatto del Presidente della Repubblica italiana un attore istituzionale capace di essere freno e contrappeso a eccessi, errori, esasperazioni di non pochi governi e governanti italiani.
Fin dall’inizio costituzionalmente rappresentante dell’unità nazionale e riequilibratore del sistema politico, il Presidente della Repubblica verrà ridotto a figura cerimoniale e confinato al ruolo di predicatore disarmato e di tagliatore di nastri. Dal canto suo, il Presidente del Consiglio, legittimato dall’elezione popolare diretta, non vede meglio definiti e accresciuti i suoi poteri, mentre il subentrante sarà al massimo il postino della maggioranza. Molto rumor per nulla? No, l’esito prevedibile si configura come anticamera di tensioni soltanto in parte imprevedibili e premessa, più o meno consapevole e deliberata, di accentuate pulsioni populiste e di confusa deriva simil-autoritaria. Già, perché sull’onda del suo consenso diretto e popolare, il Presidente del Consiglio che non ottenesse presto e subito quel che vuole si sentirebbe frustrato e, in maniera rampante, procederebbe a forzature. Ma, di questo, un’altra volta un altro articolo.
Nel programma elettorale di Fratelli d’Italia, al quale molto spesso la Presidente del Consiglio si richiama, sta chiaramente scritto: presidenzialismo, stabilità di governo, Stato efficiente. La bozza di riforma costituzionale in circolazione che verrà presentata venerdì al Consiglio dei Ministri fin dal titolo parla, invece, di qualcosa di diverso e inusitato, cioè, di premierato: “elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri”. Le differenze istituzionali sono enormi. Attualmente, in nessun sistema politico il capo di governo è eletto direttamente dai cittadini. Per tre volte, 1996, 1999, 2001, il Premier israeliano fu eletto da maggioranze assolute, lo sottolineo, di votanti, ma quella elezione non produsse né stabilità né efficienza e venne abbandonata. Il disegno di legge del governo italiano non specifica quale maggioranza sia necessaria per l’elezione rendendo lecito e inevitabile pensare che potrà anche essere una maggioranza relativa. Dopodiché, a quel Presidente del Consiglio verrà consegnata una maggioranza parlamentare del 55 per cento dei seggi. Dovrà avere la fiducia espressa delle due Camere, ma non è specificato con quale sistema viene eletto il Parlamento. Qualora non ottenesse la fiducia, il Presidente della Repubblica potrebbe rinnovargli l’incarico. Una seconda bocciatura consentirebbe al Presidente di sciogliere il Parlamento. Il Primo ministro cessato dalla carica, non viene specificato come e perché, può essere sostituito dal Presidente della Repubblica con un parlamentare (dunque, nessuna possibilità di governi guidati da un non-politico, un tecnico) appartenente alla stessa maggioranza. Il governo avrebbe stabilità, ma il capo del governo eletto dai cittadini potrebbe, contraddittoriamente con l’obiettivo preminente della sua stabilità in carica, essere sostituito attraverso accordi fra i partiti. La macchinosità di queste procedure sembra essere dovuta essenzialmente al tentativo di salvaguardare i due poteri politico-istituzionali che caratterizzano la figura del Presidente della Repubblica nella Costituzione vigente: nomina del Presidente del Consiglio e scioglimento del Parlamento. Nella realtà, però, quei poteri risulteranno solo formali e il Presidente perderà qualsiasi discrezionalità nel suo esercizio.
Ferma restando la sottolineatura che uno di punti di forza delle forme parlamentari di governo è la loro flessibilità/adattabilità in particolare fronte alla rigidità introdotta da questo tipo di premierato, il disegno di legge di riforma costituzionale è esposto a due obiezioni. La prima attiene alla maggioranza non assoluta che può eleggere il Primo ministro, dunque, inevitabilmente, alla imperfetta legittimazione politica che ne deriva. La seconda obiezione riguarda le non specificate modalità con le quali la non-maggioranza che lo ha eletto in Parlamento godrà del 55 per cento dei seggi. Aggiungo che non c’è nessuna garanzia che la stabilità del Primo ministro non diventi paralisi politica e immobilismo legislativo che la sua maggioranza accetterebbe pur di non tornare alle urne obbligata ad accettare la responsabilità di quel che non è riuscita a fare e che il Presidente della Repubblica non potrebbe sbrogliare con lo scioglimento del Parlamento. Lasciare il terreno conosciuto delle forme di governo presidenziale, parlamentare, semipresidenziale richiede molto di più e molto meglio dell’elezione popolare diretta del Primo ministro. Esagerato è sostenere che è in gioco la democrazia in quanto tale, ma certamente lo è come migliorare il suo funzionamento senza aprire spazi ad un populismo vittimista. Quello che quasi sicuramente consegue da una brutta riforma è delusione e scontento, confusione e conflitti.
Parla Gianfranco Pasquino: “La lezione del Sud è che il campo si allarga se la coalizione è fatta bene”
In provincia di Bolzano avanza l’estrema destra. Crolla la Lega che viene doppiata da Fratelli d’Italia. Nella provincia autonoma di Trento i meloniani moltiplicano per dieci i voti di cinque anni fa, anche se calano rispetto alle politiche, e diventano il secondo partito della coalizione. A Foggia vince il campo largo con la candidata del M5S, Maria Aida Episcopo. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.
Professore come si deve inquadrare la vittoria di Foggia. È un caso isolato o il segnale che quando le opposizioni sono unite un’alternativa alla destra c’è? “L’elemento locale conta moltissimo. Il fatto che Giuseppe Conte (leader del M5S, ndr) sia esattamente di quella zona ha una certa importanza. Però è ovvio che se l’opposizione riesce a mettersi assieme in maniera non conflittuale e senza rivendicare successi in anticipo ha possibilità di vincere. Dunque è un fatto locale da un lato, ma dall’altro anche una lezione di tipo nazionale. La politica consiste nella capacità di fare delle coalizioni stabili e che abbiano obiettivi condivisi. Questo è quello che bisogna fare. Il campo si allarga se la coalizione è fatta bene”.
Come si stanno comportando il Pd e il M5S nell’opposizione alle destre? “Non stanno dando il peggio di sé ma non stanno neanche dando nessun segnale particolarmente originale e innovativo. Non hanno cioè la capacità di trovare i punti sui quali fare leva. Uno l’hanno trovato ed è il salario minimo e secondo me su quello devono continuare a insistere. Poi devono trovarne altri con una proposta. Il salario minimo ha il vantaggio di essere una proposta con una soluzione. Se ci si limita a dire che bisogna cambiare la sanità non basta, bisogna che dicano in che modo. Lo stesso sull’immigrazione. Giusto fare l’opposizione su punti specifici però servono proposte che siano effettivamente alternative. Bisogna sapere. in poche parole, unire la critica alla proposta e alla soluzione”.
Come giudica invece il risultato per il centrodestra da queste ultime elezioni? “Il centrodestra rivela che continua a essere la maggioranza di questo Paese, di quelli che vanno a votare. E la parte che va più avanti è quella di Giorgia Meloni, perché FdI è un partito sul territorio e, in particolare, a Bolzano e a Trento vicino a una parte di elettorato di destra. E poi perché è il partito della presidente del Consiglio e quindi ha maggiore visibilità. Matteo Salvini (leader della Lega, ndr) fa sparate quotidiane ma non ha una linea politica. È semplicemente ondeggiante e questo non può sperare che produca voti”.
Si può dire che la vicenda umana di Meloni abbia finito per rafforzarla? “Si può anche dirlo ma non abbiamo molti elementi per farlo. Certamente un elemento di simpatia di una parte di elettorato magari più emotivo può esserci stato. Lei ha preso una decisione brusca e brutale che sicuramente non l’ha indebolita”.
In occasione della festa di compleanno del suo governo, Meloni ha sostenuto che contro di lei ci sono state meschinità mai viste. Con chi ce l’aveva? “Non lo so. Sicuramente c’è una parte di commentatori politici che ha posizioni pregiudiziali contro di lei. Alcune donne in particolare. Meloni invece è una donna politicamente molto intelligente e anche capace, molti la criticano anche per quello. Certe volte però, bisogna anche dire, che Meloni esagera a fare un po’ di vittimismo: dovrebbe rimanere dura e pura”.
Nel fuori onda sul suo ex compagno reso pubblico da una rete Mediaset vi legge una sorta di ritorsione della famiglia Berlusconi e di Forza Italia? “Sono incline a non pensare a piccole vendette e ritorsioni. Anche se ci sono elementi di personalismo. Meloni che, secondo i berlusconiani. è stata creata da Silvio Berlusconi, tesi peraltro sbagliata, non è stata sufficientemente generosa e rispettosa nei confronti di Berlusconi. Capisco il risentimento. Però penso che non sia ricambiato in maniera così stupida dai berlusconiani e dalla famiglia”.
C’era un conflitto di interessi che ha finito per schiacciare la premier considerando che il suo compagno si occupava anche di politica? “Le parentele non mi piacciono, bisognerebbe guardarsene. Poi mi ricordo però che Hillary Clinton era la moglie del presidente degli Usa, Bill Clinton. In questo caso se fossi stato Giorgia Meloni gli avrei detto al mio compagno di continuare a lavorare a Mediaset ma di non andare in video come Nunzia De Girolamo non doveva invitare il marito Francesco Boccia nella sua trasmissione”.
Quanto è successo svela una contraddizione in termini tra i proclami su Dio, patria e famiglia di Meloni e la sua vita privata? “Quando si entra in politica lo spazio della vita privata è automaticamente ridotto. Una certa incongruenza c’è. Non può ergersi a tutrice dei valori tradizionali e poi non osservarli nella sua vita privata. Ma questo lo devono e possono valutare solo i suoi elettori”.
Che bilancio fa del primo anno di governo Meloni? “La promessa del cambiamento non è stata totalmente recepita. Il governo ha in qualche modo galleggiato e cerca di attribuire questo galleggiamento ai governi precedenti e questo forse in parte può essere vero. Ma è un governo a cui do un 6 meno. Non vedo la prospettiva di fondo. Alcune cose non mi piacciono che sono quelle che riguardano i valori complessivi. Non mi piace l’atteggiamento nei confronti della magistratura e quello punitivo verso i migranti. È un governo che ha fatto meno male di quello che la sinistra temeva ma anche meno bene di quello che forse i suoi stessi elettori vorrebbero”.
Deliberatamente e consapevolmente imperterriti, Ignazio La Russa e Isabella Rauti celebrano la nascita del Movimento Sociale Italiano, partito nel quale hanno fatto politica per lungo tempo e che ha permesso loro di diventare rispettivamente Presidente del Senato e Sottosegretaria alla Difesa. La fiamma sta nel logo di Fratelli d’Italia proprio a ricordo del MSI che così si chiama con riferimento alla Repubblica Sociale Italiana (di Salò) e per aggancio con quell’esperienza formativa. Giorgia Meloni si limiterà a liquidare con sufficienza quanto detto dai suoi rappresentanti. Sa che la prevedibile indignazione di molti non scalfisce minimamente il consenso di FdI.
Per quanto sacrosanta quelle indignazione non è una risposta politicamente efficace. Molti hanno già detto che il voto e i consensi a Fratelli d’Italia sono anche e soprattutto il prodotto di un disagio sociale al quale le sinistre da tempo non sanno offrire risposte convincenti. Elaborare risposte nuove e decenti al disagio dell’elettorato è sicuramente un compito che le opposizioni hanno il dovere politico di assumere seriamente e responsabilmente. Tuttavia, a nessuno può essere consentito né di dimenticare né di sottovalutare i principi ideali a fondamento della Costituzione e della democrazia repubblicana. L’antifascismo è uno, probabilmente il più importante, di questi principi. Spesso è stato proposto in maniera puramente celebrativa senza i necessari presupposti storici senza l’indispensabile elaborazione di come proprio quell’antifascismo abbia costituito la premessa per il riscatto della dignità della Nazione.
Lamentarsi delle carenze e delle inadeguatezze dell’insegnamento (e della conoscenza) della storia d’Italia (e d’Europa) in questo paese è stato spesso un argomento di discussione salottiera per colmare qualche vuoto, forse per salvarsi l’anima. Non sono certo questi i tempi più propizi per trasmettere la storia e le memorie del ventennio e della Resistenza. Profondamente sbagliato, però, è credere che si tratti di una battaglia di retroguardia, già persa. Una Nazione civile ha l’obbligo morale di continuare a interrogarsi sui fenomeni del passato, quelli che avevano radici nella storia, che hanno contribuito a scriverne, nelle parole di Piero Gobetti e dell’azionismo, l’autobiografia. Conteranno i modi con i quali le memorie saranno fatte rivivere. Senza esagerare né i misfatti che portarono ad una tragedia, nazionale, né le reazioni, non tutte encomiabili, ma da comprendere prima di stigmatizzarle. Non so quanto di questo ripensamento storico ridimensionerebbe il disagio sociale. So che è comunque necessario, fattibile e doveroso. Non di solo pane vive l’uomo, ma delle memorie che gli vengono tramandate e dell’identità che si costruisce. Gli italiani hanno ancora molta strada da fare.
I fondamentali. Da un lato, c’è un governo di destra-centro sostenuto da tre partiti sostanzialmente d’accordo i quali, però, di tanto in tanto, inevitabilmente, si sentono costretti a sbandierare qualche marginale dissenso. Talvolta, godendo delle opportunità derivanti dale cariche occupate, cercano di tradurre i loro dissensi in annuncini di emendamenti alla Legge di Bilancio. Poi, dichiarazioni, spiegazioni, e quant’altro serva a risaltare sui mass media. Dall’altra parte, ci sono tre opposizioni, di cui una più o meno furbescamente disponibile al dialogo, che accusano la coalizione di governo al tempo stesso di essere troppo legata a tematiche identitarie e di tradirle. Con le loro specifiche tematiche identitarie, le opposizioni hanno rapporti difficili, essendo in parte tematiche pallide, in parte sicuramente divisive. Invece di mirare a strappare voti ai governanti, le opposizioni si scambiano reciproci graffi.
Prendendo consapevolmente atto che nessuna delle opposizioni rinuncia a pescare nello stesso bacino e oltre non guarda, il governo Meloni si permette finora senza danno alcuno, meno che mai per Fratelli d’Italia, di usare alcuni provvedimenti per esibire le sue effettive (e spesso deprecabili) peculiarità, ma anche come ballons d’essai (vediamo se la va o la spacca) e come indicazioni che oggi si arriva fino lì per difficoltà oggettive. Però, il solco è tracciato e domani si arerà più a fondo sul reddito di cittadinanza, sulla cultura, sulla scuola, sulla giustizia, sulle tasse.
Non sta a me lodare questa strategia. Starebbe alle opposizioni di evitare sterili e ipocrite indignazioni elaborando una strategia che combini l’immediato con il lungo periodo. Che non sia troppo lungo, ma calibrato su due scadenze elettorali: rinnovo del Parlamento europeo, con il PD che ha qualcosa da farsi “perdonare”, e elezioni politiche del 2027. Nel frattempo, non sarebbe male se una qualche boccata di ossigeno venisse dalle elezioni regionali in Lazio e soprattutto in Lombardia. Curiosamente i candidati alla segreteria del Partito Democratico sembrano, in special modo Bonaccini, più interessati a dire come governeranno un paese che non è nelle loro mani piuttosto che a ristrutturare il partito, indispensabile strumento per vincere e per attuare le riforme.
Il domani è già cominciato. Si costruisce in Parlamento non soltanto con emendamenti di bandiera, neanche con i più luccicanti, ma con la predicazione chiara e alta di una politica diversa non soltanto da quella del destra-centro, ma anche da quelle praticate dalle tre opposizioni. Una politica europeista di riforme economiche e sociali richiede l’elaborazione di una cultura politica all’altezza. Sempre valido è il monito d’altri tempi e di ben altro personaggio: “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.
Gli abitualmente molto affidabili sondaggi di Nando Pagnoncelli danno Fratelli d’Italia al 30 per cento delle preferenze, in significativa crescita rispetto al 25 settembre. Due mesi dopo le elezioni si può forse ancora parlare di luna di miele. Credo sarebbe una interpretazione consolatoria per le opposizioni, ma sbagliata. Giorgia Meloni si è definita underdog. Il fatto è che è stata underestimated da quasi tutti, dentro il suo partito, tranne da pochi fedelissimi e fuori anche perché donna. I presunti continuatori dell’agenda Draghi non hanno mai dato abbastanza peso al sobrio riconoscimento da parte dello stesso Draghi della coerenza e della serietà dell’opposizione di Meloni. Non danno altrettanto prova di serietà e di coerenza gli oppositori di Meloni, alcuni preferendo offrire generosa disponibilità a collaborare, altri, in una tradizione lunga e non nobile, proseguendo per pigrizia e ignoranza, nella strada della demonizzazione che non porta da nessuna parte.
Invece, i dati sono chiari. Cito la Presidente del Consiglio nell’intervista di ieri al Corriere: esistono “una maggioranza chiara, un programma comune e un mandato popolare”. C’è un governo che ha “il dovere … di garantire un equilibrio complessivo” e all’estero “c’è grande attenzione nei confronti dell’Italia”. Non spetta a Meloni darsi la zappa sui piedi e riconoscere un esordio non proprio felice, a partire dalla disciplina del rave party e qualche “sparata” sull’omofobia del suo capogruppo al Senato che preferisce l’antico testamento alla Costituzione, e sui matrimoni in chiesa da incoraggiare a suon di migliaia di euro. Meloni ha anche imparato che non deve cercare nessun colpo ad effetto, ma attuare una strategia incrementale: poco per volta, che ha il doppio vantaggio di lasciare tempo e modo per la correzione degli eventuali errori, ciò che non funziona, e di potere accelerare e approfondire se l’intervento iniziale ha prodotto esiti positivi.
Nessuno, meno che mai i navigatissimi politici di mestiere e i coltissimi commentatori della sinistra debbono sorprendersi e indignarsi se Giorgia Meloni fa politiche di destra. Ciò che sorprende è che le opposizioni non abbiano finora capito che debbono attrezzarsi per un’azione di lungo periodo che sappia collegare la protesta di piazza, ampia e ordinata, con gli emendamenti e le proposte alternative in Parlamento. Questo è il governo che gli italiani, quelli che hanno votato e quelli astenuti, si meritano. Qualcuno, a cominciare da chi scrive e dal quotidiano sul quale scrive, forse si merita un’opposizione migliore, per dirla giornalisticamente, “sul pezzo”. Il testo da correggere già esiste. Si chiama Legge di Bilancio. Cambiarla in meglio, che per me significa a favore di coloro che hanno meno di tutto, compreso meno opportunità, si può. Il tunnel che conduce al 2027 è lunghissimo.
In politica gli avversari si affrontano e si combattono con gli strumenti della politica. Analisi penetranti, indicazioni intelligenti, proposte innovative, idee idee idee. Da ultimo, se la competizione approda sul campo, più o meno largo, elettorale, l’arma sono i voti. In maniera ossessiva e rozza i politici, non so se più quelli di sinistra o di destra che si beano del loro “garantismo”, annunciano di non volere sconfiggere gli avversari per via giudiziaria, ma politicamente. Deve necessariamente essere molto diverso l’atteggiamento quando il conflitto è tra i politici e i giornalisti? Vale a dire la sconfitta dei giornalisti ad opera dei politici che non hanno gradito un’inchiesta non dovrebbe essere cercata sul piano fattuale smentendo le risultanze dell’inchiesta e dimostrando la falsità delle implicazioni perché i fatti non sono avvenuti? Ricorrendo ad un’altra frase classica del politichese, “lasciare che la giustizia faccia il suo corso”. I più bravi fra i politici e i loro giornalisti di riferimento sono di recente approdati anche alla decisione eroica di “difendersi nel processo, non difendersi dal processo”.
Giorgia Meloni ha scelto di querelare il quotidiano “Domani” e il suo Direttore per un’inchiesta della primavera scorsa. Raccomandazioni a favore di un imprenditore di mascherine i cui prodotti sarebbero costati allo Stato il doppio di quelle dei concorrenti. Emiliano Fittipaldi ha già fornito tutti gli elementi della sua inchiesta. Naturalmente, il tempo passato da marzo a oggi ha visto un enorme cambiamento sulla scena politica. La già allora potente capo del partito Fratelli d’Italia è diventata la ancora più potente Presidente del Consiglio cosicché la sua querela ha immediatamente acquisito maggiore peso e probabilmente susciterà maggiore attenzione mediatica. Il capo del governo “scelto dagli italiani” (meglio, che ha vinto le elezioni e ottenuto il voto di fiducia da entrambe le Camere) vuole dare una costosa lezione a un quotidiano che senza appoggiare nessuno specifico partito sta all’opposizione. In questa luce, l’inchiesta giornalistica potrebbe apparire agli occhi dell’opinione pubblica come un subdolo tentativo di delegittimazione del capo del governo.
Il rinvio a giudizio del Domani solleva alcuni problemi generali rimasti irrisolti nei rapporti fra governo, qualsiasi governo, e mass media. Senza fare nessun peccato è lecito pensare che il Capo del governo e i suoi avvocati intendano mandare un messaggio (di stampo ungherese): “attenzione alle critiche e denunce, voi, giornalisti, non ve ne lasceremo passare una, ve le faremo pagare care”. Poi saranno i giornalisti stessi, interiorizzato il messaggio, a decidere quanto vogliono esporsi. Dunque, è logico concludere che assicurare la difesa della libertà di stampa, ad eccezione di pochissime fattispecie, da querele governative significa, fuor di retorica, difendere un pezzo importante della libertà.
Come reagire di fronte alle politiche del governo di destra-centro? (In)comprensibilmente, le opposizioni stanno già dando immediata prova della loro inadeguatezza. Il governo Meloni prosegue in alcune scelte preannunciate dal governo Draghi, ad esempio, il reintegro del personale sanitario NoVax (pochi medici molti infermieri e collaboratori vari), le opposizioni si esercitano sulla critica invece di portare elementi e dati a sostegno di una politica di maggiore cautela. Il governo mette in cima alle sue priorità l’ordine pubblico (gestione e conclusione senza violenza del rave party di Modena), le opposizioni spostano, anche giustamente, l’attenzione sulla marcia di Predappio da loro poco o nulla contrastata nel passato. Il governo Meloni emana decreti, le opposizioni con la coda di paglia non denunciano la decretazione d’urgenza su tematiche sulle quali è lecito chiedere il passaggio parlamentare e sfidare la compattezza della maggioranza. Non so se possono spingermi fino a ricordare a mio rischio e pericolo al Presidente Mattarella che i decreti debbono essere omogenei come materia e che l’omogeneità non può essere data dall’urgenza, peraltro dubbia e talvolta procurata ad arte. Le opposizioni che denunciano le politiche “identitarie” pensano, forse, che l’elettorato di Fratelli d’Italia e della Lega (l’identità di Forza Italia mi è sfuggita da tempo) non apprezzi esattamente gli elementi che fanno di quei due partiti qualcosa di molto lontano e molto diverso dal PD, soprattutto, ma anche, nell’ordine, dal Movimento di Conte e dalle Azioni (proto: al plurale!) di Calenda e di Renzi? E che siano proprio le pallide/issime identità delle opposizioni, a cominciare da quella del Partito Democratico, uno dei loro problemi, quasi il principale? In effetti, il problema principale delle opposizioni è che continuano nella loro campagna elettorale permanente stando nel loro recinto ovvero cercando strapparsi reciprocamente qualche spazio e qualche voto a futura memoria, criticandosi, invece di individuare i punti di contatto e di collaborazione possibile e facendo leva su di loro.
Nelle sue diverse uscite pubbliche, la Presidente Meloni ha richiamato la sua maggioranza alla “compattezza e alla lealtà”. I numeri delle varie votazioni finora avvenute la hanno sicuramente confortata. Forse ha anche sorriso (cosa che agli arcigni oppositori, alcuni dei quali assolutamente privi di sense of humour non riesce proprio) di fronte all’attivismo in parte folkloristico in parte patetico di Salvini che corre sempre a dichiarare per primo. Il body language di Giorgia Meloni rivela una quasi assoluta sicurezza di essere in controllo della sua maggioranza. Vero: non è “ricattabile”. Vale la pena di perdere tempo e fiato per tentare di spingerla all’indietro in un passato che non fa fatica a dichiara che non le appartiene? Si guadagnano voti e si incrina la maggioranza con il richiamo di una storia che probabilmente la maggioranza degli italiani non conosce a sufficienza e certo reputa meno inquietante del prezzo del gas e del costo del carrello della spesa? No, il governo Meloni non cadrà e non cambierà linea leggendo i tweet di Letta, Conte e Calenda e neanche quelli del manovriero Renzi. In una democrazia parlamentare una opposizione intelligente sposta la battaglia nelle Commissioni e nelle aule del Parlamento. Si attrezza per il controllo di quello che il governo fa, non fa (sic), fa male e per la controproposta che farà ossessivamente circolare sui mass media grazie ai suoi intellettuali da talk show e nelle circoscrizioni elettorali grazie ai suoi molti parlamentari paracadutati/e.