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Due o tre cosine che so sulle presidenziali in Francia. Firmato Pasquino @formichenews

Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è un grande dispensatore di opportunità politiche. Ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo. L’analisi del professor Gianfranco Pasquino
“Una riconferma non scontata” è il titolo dell’editoriale del “Corriere della Sera”. In effetti, nessuno, meno che mai la maggior parte dei commentatori italiani, ha fatto degli sconti a Emmanuel Macron. Pochissimi, poi, si sono curati di fare due conti, ad esempio, sul numero dei voti. Nelle elezioni questi numeri assoluti danno molte più informazioni delle percentuali. Comincerò dal famigerato problema dell’astensione, secondo troppi, giunta a livelli elevatissimi. Ecco: al primo turno il 10 aprile votarono 35 milioni e 923 mila 707 francesi (73,69%); al ballottaggio 35 milioni 96mila 391 (71.99%): una diminuzione quasi impercettibile e, per di più facilmente spiegabile. Non pervenuto al ballottaggio il candidato da loro votato al primo turno circa 900 mila elettori hanno comprensibilmente pensato “fra Macron e Le Pen ça m’est égal” e se ne sono andati à la mer. I paragoni sono sempre da fare con grande cautela, ma nello scontro Trump/Biden novembre 2020 votò il 66,7% degli americani che festeggiarono l’alta affluenza e l’esito.
Nelle due settimane trascorse dal primo turno Macron è passato da 9milioni 783 mila 058 voti a 18.779.642 quindi quasi raddoppiando il suo seguito, mentre Marine Le Pen è passata da 8milioni 133mila 828 voti a 13 milioni 297 mila 760, 5 milioni di voti in più. L’aumento dei voti per Macron va spiegato soprattutto con la confluenza degli elettori di Mélenchon (più di 7 milioni al primo turno), variamente e erroneamente catalogati come populisti, più quelli comunisti (800 mila) e socialisti (di Anne Hidalgo, 600 mila). La crescita di Le Pen è dovuta agli elettori di Zemmour (2 milioni 485 mila 226). Entrambi hanno tratto beneficio dallo sfaldamento dei repubblicani già gollisti che avevano votato Valérie Pécresse : 1.679.001 elettori alla ricerca del meno peggio. Insomma, una elezione presidenziale nient’affatto drammatica, con esito largamente prevedibile (parlo per me e per fortuna scrivo quindi posso essere controllato e verificato), decisivamente influenzato dalle preferenze calcolate (che significa basate su valutazioni e aspettative) degli elettori francesi.
Honni soit colui che contava su una vittoria di Marine Le Pen per fare aumentare le vendite del giornale su cui scrive e per dichiarare il crollo dell’Unione Europea. Tuttavia, un crollo, in verità, doppio, c’è stato e meriterà di essere esplorato anche con riferimento all’esito delle elezioni legislative di giugno: ex-gollisti e socialisti sono ridotti ai minimi termini anche se con Mélenchon stanno non pochi elettori socialisti.
Uno dei pregi delle democrazie è che la storia (oops, dovrei scrivere “narrazione”?) non finisce -lo sa persino Fukuyama autore di alcuni bei libri proprio sulle democrazie- e che le democrazie e, persino (sic) gli elettorati continuano a imparare. Marine Le Pen ha annunciato che mira a conquistare la maggioranza parlamentare. Non ci riuscirà. Il doppio turno in collegi uninominali, che non è affatto un ballottaggio, come leggo sul “Corriere della Sera” 25 aprile, p. 3, offre a Mélenchon l’opportunità di “trattare” con Macron a sua volta obbligato a trovare accordi più a sinistra che al centro. Presto, avremo la possibilità di contare quei voti tenendo conto delle mosse e delle strategie politiche formulate per conquistarli e combinarli. Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è, come scrisse più di 50 anni fa Domenico Fisichella, un grande dispensatore di opportunità politiche, ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo.
Pubblicato il 25 aprile 2022 su Formiche.net
L’occupazione ha fatto emergere anche una società civile afghana @DomaniGiornale

In Afghanistan c’erano le truppe americane, ma anche quelle della NATO nonché i soldati italiani che, notoriamente, svolgono solo missioni umanitarie (sic). Prima, con nessun successo ci furono anche i sovietici, sonoramente costretti a ritirarsi dopo alcuni anni di guerra perdente. In Afghanistan gli USA non andarono per esportare la democrazia (il tentativo fu abbozzato in Iraq un paio d’anni dopo), ma per colpire i terroristi di Al Quaeda e distruggerne i santuari. Ci sono riusciti. La maggior parte del tempo e la maggior parte delle risorse, certo, inopinatamente ingenti, furono destinate a compiti definibili di nation-building, di costruzione di strutture in grado di produrre e mantenere l’ordine politico e sociale. Pur avendo rotto i rapporti (o forse proprio per questo) con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato, Fukuyama indicò chiaramente gli obiettivi nel libro da lui curato Nation-Building. Beyond Afghanistan and Iraq (2006): addestrare e equipaggiare le Forze Armate, dotare le principali città di forze di polizia efficienti, dare vita a una burocrazia statale capace di fornire i servizi essenziali e di attuare le decisioni del potere politico, costruire ospedali e scuole, garantire il diritto a libere elezioni. Ma, come ha tanto intelligentemente quanto sarcasticamente scritto uno studioso argentino, Fabián Calle, “il potere del voto non potrà mai essere alla stessa altezza del potere dei messaggeri della volontà di Dio”.
Quella americana non era, dunque, una “semplice” e criticabile, in effetti talvolta criticata (da chi?), occupazione militare. Non aveva inspiegabili obiettivi territoriali quanto, piuttosto, l’obiettivo, idealistico (proprio così) di fare emergere una società civile, a cominciare dalla libertà per le donne e da un loro ruolo, in uno dei luoghi più impervi al mondo. Parte di questi obiettivi, come rivelano le molti voci di donne terrorizzate dalla prospettiva di ripiombare nella sottomissione violenta ai talebani, erano stati conseguiti. Certo, è giusto andare alla ricerca di una spiegazione del collasso degli apparati statali afghani. Non so se tutta la risposta sta nella enorme corruzione soprattutto dei vertici, ma credo che una nazione e i suoi apparati non siano mai facilmente costruibili laddove i gruppi etnici, a cominciare dai Pashtun ai quali appartengono i talebani, non abbiano nessuna intenzione di giungere a compromessi.
Chi critica l’occupazione militare USA non dovrebbe oggi, in maniera assolutamente contraddittoria, lamentare il “tradimento” degli USA che ritirano le loro truppe. Forse il segretario generale della NATO ha preventivamente espresso il suo dissenso rispetto alla decisione di Trump attuata da Biden? Si è levata alta e forte la voce di Macron, di Merkel e di Di Maio/Guerini? Nessuno degli analisti ha pre-visto un crollo tanto rapido e capillare quanto quello che in pochi giorni ha consegnato il paese ai Talebani. A furia di azioni umanitarie, le varie missioni europee non si erano mai preoccupate di quanti e quanto armati fossero i talebani? La delega data agli americani per i colloqui “di pace” ha implicato tappare le orecchie e chiudere gli occhi dei cooperanti, dei dirigenti, degli ambasciatori europei presenti e attivi in Afghanistan? Nessuno può mettere in dubbio che, adesso, salvare le vite e il futuro di chi ha collaborato con gli europei e gli italiani, sia l’obiettivo prioritario da perseguire. Non aggiungerò “senza se e senza ma” perché credo sia opportuno interrogarsi se la fuoruscita di tutti gli Afghani e Afghane che hanno lavorato con gli occidentali per un esito molto diverso non finisca per privare il paese proprio delle energie di cui ha più bisogno: quelle di coloro che vogliono un paese decente per donne e uomini, non schiacciato da un credo religioso e da leggi crudeli.
Pubblicato il 18 agosto 2021 su Domani
RELIGIONI FORTI E FONDAMENTALISMI. Intervista postuma a Gabriel A. Almond
Gabriel A. Almond ((1911-2002) è stato uno dei più importanti scienziati politici americani del XX secolo. Addottoratosi a Chicago, ha insegnato a Yale e Princeton e concluso la sua carriera alla Stanford University. Si è occupato con studi fondamentali dello sviluppo politico e della cultura politica. I suoi contributi più significativi sono raccolti nel volume Cultura civica e sviluppo politico (Bologna, Il Mulino, 2005) a cura di Gianfranco Pasquino che lo ha “intervistato” appositamente per la Casa della Cultura.
Professor Almond, l’ultimo suo libro, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale (Bologna, Il Mulino, 2006), sintesi di una ampia ricerca in sette volumi con R. Scott Appleby e Emmanuel Sivan, pure rimasto poco noto in Italia, mantiene una straordinaria attualità. La domanda, però, è: perché lei si è accorto così tardi della rilevanza politica della religione?
R. Ha ragione, prof. Pasquino, siamo stati davvero poco attenti ai fenomeni religiosi. Non posso neppure cavarmela dicendo che da questa parte dell’Atlantico siamo talmente laici da neppure prendere in considerazione la religione. Il paradosso, invece, è che proprio noi americani, bis o tris nipoti dei dissidenti religiosi, continuiamo ad essere un paese nel quale la religione è sempre stata visibile e importante. Anch’io sono un ebreo credente. Forse il nostro silenzio sulla religione è stato un modo per esorcizzarla. Poi, purtroppo, hanno fatto irruzione sulla scena politica USA gli evangelici. Allora, abbiamo capito, tardivamente, che non soltanto non avevamo esorcizzato un bel niente, ma che dovevamo preoccuparci. Dovevamo cercare di capire, senza nessun cedimento paternalistico, che i movimenti antimoderni di ispirazione religiosa sono un tentativo, pericoloso e disperato, ma non per questo da non criticare, di reazione alla secolarizzazione e alla globalizzazione.
D. Immagino che lei abbia letto il famoso libro di Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (Milano, Rizzoli, 1992). Persino Fukuyama elude del tutto il ruolo politico della religione. Le liberal-democrazie hanno debellato i comunismi reali, soprattutto la loro ideologia, una vera e propria ideologia totalitaria. Non resterebbe loro che realizzarsi. Nel 1991 Fukuyama, studioso colto e originale, non intravede affatto la durissima sfida del fondamentalismo, o dovrei dire dei “fondamentalismi”, alle liberal-democrazie.
R. Certamente, lei deve usare il plurale. Con Appleby e Sivan non abbiamo dubbi. Tutte le grandi religioni, monoteistiche (il cristianesimo, nelle sue varianti cattolica e protestanti, l’ebraismo e l’islam) e non (l’induismo), manifestano propensioni più o meno forti verso il fondamentalismo, vale a dire che mirano a plasmare la vita delle comunità secondo i precetti religiosi derivanti dall’interpretazione dei loro sacri testi e a imporli anche con la forza a chiunque si trovi in quelle comunità. Dentro ciascuna e tutte le confessioni monoteistiche si annidano grandi, qualche volta irresistibili, spinte al fondamentalismo.
D. Ho un’altra considerazione problematica relativa alle vostre generalizzazioni. Riguarda la carica di violenza che esprime il fondamentalismo islamico e che lo differenzia enormemente dagli altri fondamentalismi. Come mai?
R. Abbiamo scritto che la carica di violenza sprigionata dal fondamentalismo islamico dipende dalla volontà di un ceto religioso ampio e diffuso di mantenere il controllo sui fedeli proprio quando i processi di secolarizzazione e di globalizzazione investono i paesi dove l’Islam è l’unica religione che è possibile professare apertamente. Dipende anche dall’uso della religione come instrumentum regni che ne fanno alcune monarchie, come quella, in particolare, dell’Arabia Saudita. Infine, dipende dal fatto che Machiavelli non è ancora arrivato nel Medio-Oriente.
D. Questa è un’osservazione che lei, prof. Almond, deve motivare per noi che siamo indegni successori del fiorentino il quale, è opportuno ricordarlo, apre la strada alla autonomia della politica e del suo studio in maniera scientifica. Fra gli italiani e non solo circolano a piede libero e disinvolto commentatori e intellettuali che, invece di leggere e studiare Machiavelli, preferiscono esercitarsi in una distinzione che non pare possibile provare: quella fra l’Islam buono e l’Islam cattivo (meglio, forse, fra due letture, davvero egualmente plausibili?, del Corano).
R. Intendo dire che, pur essendo vero che tutte le religioni monoteistiche vogliono imporsi al potere politico e che, ad esempio, anche i cattolici fanno qualche volta davvero fatica (mi hanno parlato di un certo Card. Ruini) a ricordarsi di “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare“, nell’Islam questa distinzione e il relativo precetto proprio non esistono. Dio, ovvero le Supreme Guide Spirituali, come in Iran, controllano Cesare e gli dettano che cosa deve fare. Non esiste nessuna separazione fra la religione e la politica. In questo senso, la cultura politica, espressione davvero impegnativa, dell’Islam si è fermata a prima di Machiavelli. Solo dove, seppure fra tensioni e conflitti, gli islamici accettano la separazione e l’autonomia della politica, come, ad esempio, in Indonesia e in Turchia (ma qui vedo problemi emergenti più precisamente sotto forma di uso politico della religione), è possibile costruire una democrazia. Non sono un sostenitore di società multiculturali nelle quali molti pensano di acconsentire all’esistenza di regole religiose, giuridiche (la sharia, magari casereccia), culturali, sociali che contraddicono i diritti universali delle donne e degli uomini. Sono, però, molto favorevole (e Tocqueville mi darebbe ragione) a società multi religiose. Una volta che le molte credenze religiose capiscono che non possono vicendevolmente distruggersi si metteranno d’accordo sui limiti della loro azione sulla sfera pubblica. Temo che sarà un processo lungo e tormentato, ma, se posso dire così, ho ‘fede’ nella sua realizzazione.
Pubblicato il 12 dicembre 2015