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Democrazia Futura. Draghi Presidente. Da Palazzo Chigi al Quirinale a quali condizioni? @Key4biz #Quirinale22

L’elezione per il Colle e la tentazione di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica senza uno specifico progetto costituzionale di superamento della democrazia parlamentare. Le riflessioni di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.

Mai nella storia delle dodici elezioni presidenziali italiane un Presidente del Consiglio è passato da Palazzo Chigi al Quirinale diventando Presidente della Repubblica. Nulla osta a questa transizione, ma è opportuno valutarne le premesse, le implicazioni, le conseguenze. Con tutta probabilità, Mario Draghi non sta ragionando in termini di pur legittime ambizioni personali. La sua riflessione si basa sulla necessità/desiderio di portare a realizzazione completa con successo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Rimanendo a Palazzo Chigi riuscirà a ottenere l’esito voluto entro il marzo 2023 oppure rischia di essere estromesso prima o comunque sostituito subito dopo le elezioni politiche del 2023 a compito non ancora soddisfacentemente adempiuto? In questo caso, potrebbe apparirgli preferibile accettare l’elezione alla presidenza nella consapevolezza che dal Colle sarà in grado di sovrintendere al PNRR anche grazie al suo enorme prestigio europeo. Quello che è certo è che non accetterebbe di essere eletto al Quirinale se gli si chiedesse in cambio lo scioglimento immediato del Parlamento (richiesta adombrata da Giorgia Meloni). Certo, il centro destra compatto potrebbe prendere l’iniziativa di votare il suo nome fin dalla prima votazione quasi obbligando quantomeno il Partito Democratico a convergere. Lo scioglimento del Parlamento sarebbe, però, la conseguenza quasi inevitabile dell’abbandono del governo ad opera della Lega e di Forza Italia. D’altronde, Draghi non potrebbe porre come condizione di una sua eventuale elezione alla Presidenza che i partiti dell’attuale coalizione gli consentano di scegliere e nominare il suo successore a Palazzo Chigi. Anzi, come Presidente avrebbe il dovere costituzionale di aprire le consultazioni nominando la persona suggeritagli dai capi dei partiti a condizione che il prescelto sia in grado di ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento. Sappiamo anche, lo ha detto il Presidente Mattarella ed è opinione diffusa a Bruxelles, che il potenziale capo del governo deve avere solide credenziali europeiste.

   Il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha sostenuto che se Draghi nominasse il suo successore il sistema politico italiano entrerebbe in una situazione definibile come “semipresidenzialismo di fatto”. Fermo restando che nessuna elezione e nessuna carica sono tanto importanti da produrre di per sé un cambiamento nel modello di governo di qualsiasi sistema politico, meno che mai di una democrazia, sono in disaccordo con Giorgetti e ancora di più con i critici che l’hanno accusato di auspicare un qualche sovvertimento costituzionale. Il fatto è che il Presidente della Repubblica Draghi che nomina il Presidente del Consiglio è la procedura esplicitamente prevista nella Costituzione italiana all’art. 92. Quanto al Parlamento l’art. 88 ne consente lo scioglimento “sentiti” i Presidenti delle Camere i quali debbono comunicare al Presidente che non esiste più la possibilità di una maggioranza operativa in grado di sostenere l’attività del governo. Peraltro, come abbiamo imparato dai comportamenti di Scalfaro, che negò lo scioglimento richiesto da Berlusconi nel 1994 e da Prodi nel 1998, e di Napolitano, che non prese neppure in considerazione lo scioglimento nel novembre 2011 probabilmente gradito al Partito Democratico, il vero potere presidenziale consiste proprio nel non scioglimento del Parlamento obbligando i partiti a costruire un governo e a sostenerlo, obiettivi conseguiti in tutt’e tre i casi menzionati.

    Lungi dal configurare una situazione di semipresidenzialismo di fatto la dinamica costituzionale italiana rivela uno dei grandi pregi delle democrazie parlamentari: la flessibilità. Al contrario, il semipresidenzialismo, come lo conosciamo nella variante francese, è relativamente rigido. Ad esempio, il Presidente non può sciogliere il Parlamento se questi non ha compiuto almeno un anno di vita. Poi, lo può sciogliere giustificando la sua decisione con la necessità di assicurare il buon funzionamento degli organi costituzionali. Solo quando sa che nell’Assemblea Nazionale esiste una maggioranza a suo sostegno, il Presidente francese può nominare un Primo ministro di suo gradimento. Altrimenti, è costretto ad accettare come Primo ministro chi ha una maggioranza parlamentare. Questa situazione, nota come coabitazione, si è manifestata in tutta evidenza nel periodo 1997-2002: il socialista Lionel Jospin Primo ministro, il gollista Jacques Chirac Presidente della Repubblica. Ipotizzo che, parlando di semipresidenzialismo di fatto, Giorgetti pensasse alla fattispecie di un Primo ministro che diventa Presidente della Repubblica. Certo quasi tutti i Primi ministri francesi hanno intrattenuto questa aspirazione e alcuni, pochissimi (Pompidou e Chirac) hanno potuto soddisfarla. Troppo pochi per farne un tratto distintivo del semipresidenzialismo.

   In conclusione, non credo che il tormentato dibattito italiano sia effettivamente arrivato alle soglie del semipresidenzialismo, modello complesso che richiederebbe anche una apposita legge elettorale. Temo, invece, che confuse, ripetute e prolungate votazioni parlamentari per il prossimo Presidente della Repubblica finiscano per dare fiato ai terribili semplificatori che vorrebbero l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica italiana senza avere uno specifico progetto costituzionale di superamento della democrazia parlamentare. Esito: confusione de facto. Con un po’ di retorica concluderò che non è questo che ci chiede l’Europa.  

Pubblicato il 23 gennaio 2022 su Key4biz

Qualcosa che so sul semipresidenzialismo. Scrive Pasquino @formichenews

In verità il semipresidenzialismo non è né un parlamentarismo rafforzato né un presidenzialismo indebolito. È una forma di governo a se stante. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica

Il termine non fu coniato da de Gaulle, uomo di sostanza, e neppure da Maurice Duverger. Il giurista e politologo francese, favorevole all’elezione popolare diretta del Primo ministro, per uscire dalla palude parlamentare, fu un fiero oppositore (di de Gaulle e) del semipresidenzialismo. Poi, forse anche perché si accorse che funzionava alla grande, ne divenne il “teorico” e l’aedo. A inventare il termine fu, con un editoriale pubblicato l’8 gennaio 1959, Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano Le Monde. Molto critico di de Gaulle, affermò che al Generale non era neanche riuscito di arrivare al presidenzialismo, solo ad un quasi presidenzialismo, per l’appunto semipresidenzialismo. In verità il semipresidenzialismo non è né un parlamentarismo rafforzato né un presidenzialismo indebolito. È una forma di governo a se stante.

Ne era esistito un precedente troppo a lungo trascurato: la Repubblica di Weimar (1919-1933). La sua triste traiettoria e la sua tragica fine non ne facevano un esempio da recuperare. Il fatto è che Weimar crollò per ragioni internazionali e nient’affatto essenzialmente a causa del suo sistema elettorale proporzionale. Ad ogni buon conto de Gaulle volle e ottenne un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che spinge all’aggregazione delle preferenze laddove le leggi elettorali proporzionali consentono (non necessariamente producono) la disgregazione delle preferenze e la frammentazione del sistema dei partiti.

Il ministro leghista Giorgetti prevede, auspica, apprezzerebbe un semipresidenzialismo de facto. Nella sua visione, una volta eletto alla Presidenza della Repubblica Mario Draghi continuerebbe a guidare il “convoglio” delle riforme del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza attraverso un presidente del Consiglio di sua fiducia da lui nominato. Ho sbagliato a criticare la visione di Giorgetti, formulata con molte buone intenzioni. Potrebbe anche essere effettivamente l’esito che si produrrà. Naturalmente, il Parlamento italiano manterrà pur sempre la facoltà di sfiduciare il capo del governo scelto da Draghi, obbligandolo a nuove e diverse nomine. Vado oltre poiché rimane del tutto possibile che con elezioni anticipate oppure alla scadenza naturale della legislatura, marzo 2023, il centro-destra ottenga la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e rivendichi giustamente la carica di presidente del Consiglio.

Al proposito, i critici del semipresidenzialismo leverebbero altissimi lamenti contro la coabitazione fra Draghi e chi il centrodestra gli proporrebbe e giustamente vorrebbe fosse nominato. In Francia nessuna coabitazione, ce ne sono state quattro, ha prodotto lacerazioni politiche e costituzionali. Mi si consenta di essere assolutamente curioso delle modalità con le quali si svilupperebbe una coabitazione fra Mario Draghi e Giorgia Meloni.

P.S. Dei comportamenti semipresidenzialisti de facto di Napolitano (con Monti) e di Mattarella (con Draghi) scriverò un’altra volta. Sì, è una minaccia.

Pubblicato il 7 novembre 2021 su formiche.net

Sulla Presidenza della Repubblica Italiana. Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore #CasadellaCultura @C_dellaCultura

A: Che non si debba parlare dei nomi dei candidati alla Presidenza della Repubblica in anticipo rispetto alla data dell’elezione sta scritto nella Costituzione italiana? O dove?

P: Da nessuna parte, neanche nel dibattito alla Costituente qualcuno si chiese se ci fosse un tempo per tacere e un tempo per parlare di nomi. Nomi se ne sono sempre fatti in anticipo, talvolta per bruciarli talvolta come ballons d’essai, per testarne le probabilità di (in)successo. In qualche caso, per esempio, nel 1992, Andreotti non nascose la sua intenzione, mentre Craxi si interrogava se per la sua strategia non sarebbe stato preferibile eleggere Arnaldo Forlani al Quirinale. Poi andò molto diversamente con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro e il pentapartito venne sepolto sotto il muro di Berlino anche grazie a Mani Pulite e ai referendum del 1993, soprattutto quello elettorale.

A: Nelle altre democrazie parlamentari la discussione sui nomi dei possibili Presidenti è frequente, diffusa, intensa, paragonabile a quella italiana?

P: La risposta è sorprendente. Un buon numero di democrazie parlamentari europee non hanno nessun problema. Infatti, sono –a partire dalla Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda, Belgio, Spagna, Lussemburgo- monarchie. In alcune, Austria, Finlandia, Portogallo, il Presidente della Repubblica viene eletto dagli elettori. Rimangono, la Germania e la Grecia nelle quali è il Parlamento che elegge il Presidente. In Germania senza tensioni, ma con un accordo, sempre rispettato, fra i due grandi partiti. Eletto nel 2017, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier è stato voluto dalla democristiana Angela Merkel. In Grecia è richiesta una maggioranza qualificata a scalare fino alla quinta votazione nella quale è sufficiente la maggioranza relativa. Naturalmente, i nomi circolano un po’ dappertutto, ma senza i recenti eccessi italiani quando ci si è finalmente resi conto che il Presidente della Repubblica gode di notevoli poteri istituzionali e politici. Può essere, nel bene e nel male, un protagonista. Sarebbe, dunque, un contributo utile al dibattito pubblico se i nomi dei candidabili fossero fatti circolare e discussi senza ipocrisie e manipolazioni.

A: Non sono al corrente di autocandidature, ma esistono o sono esistiti criteri utili per scremare il campo dei “pretendenti”?

P: A lungo, grazie al democristiano De Gasperi che nel 1948 fermamente volle il liberale Luigi Einaudi alla Presidenza, il criterio, non formalizzato, ma operativo fu quello dell’alternanza. Ad un Presidente non democristiano seguiva un Presidente democristiano (il candidato che riusciva a sopravvivere alle lotte fra le correnti DC). Il non-democristiano era espresso da uno dei partiti alleati al governo con la DC, prima i liberali: Einaudi (1948-1955); poi i socialdemocratici: Saragat (1964-1971); poi i socialisti: Pertini (1978-1985). Dopo l’89 questo criterio risulta inapplicabile per la scomparsa dei protagonisti. Permane, o almeno così può sembrare, il criterio di un certo distacco del candidato dalla politica attiva di partito. Così è stato per Scalfaro, per Ciampi, per Napolitano e anche per Mattarella. Per tutti ha contato positivamente anche una esperienza istituzionale più o meno lunga e non controversa.

A: Sbaglio se rilevo che nessuno dei menzionati aveva cariche di governo o di partito al momento della sua elezione?

P: Tutt’altro, questa “fuoruscita” dalla politica attiva è stata considerata positivamente, garanzia di non partigianeria, di disponibilità a mettersi super partes ovvero, come disse brutalmente e memorabilmente Napolitano, di essere sì, di parte, ma dalla parte della Costituzione. Contro Aldo Moro nel 1971 fu La Malfa soprattutto a fare valere l’argomento del suo visibile impegno politico ancora evidentemente operante. Se Draghi fosse eletto al Quirinale risulterebbe il primo a passare senza soluzione di continuità da una carica di governo al vertice dello Stato. Certo, questa transizione sarebbe pur sempre mitigata dal suo non avere avuto una carriera politica e non essere il dirigente di un partito.

A: Dovremmo, però, temere che questa (ir)resistibile ascesa di Mario Draghi comporti, come ha segnalato il Ministro Giancarlo Giorgetti, l’irruzione nella Repubblica italiana di un semipresidenzialismo de facto?

P: Anche in questo caso la stupirò, cara Apprendista. Semipresidenzialismo c’è quando il Presidente della Repubblica (eletto direttamente dagli elettori, che non sarebbe comunque il caso italiano) nomina il Capo del governo che deve, comunque, godere di una maggioranza parlamentare che, come minimo, non gli si oppone, non lo contrasta. Una situazione simile esiste già anche nella Repubblica italiana attuale con una differenza rilevante: il Presidente nomina la personalità che gli è stata suggerita dai segretari dei partiti che la sosterranno nell’azione di governo. Nel caso di Draghi è lecito chiedersi se il suo nome sia emerso dai partiti oppure sia stato proposto dal Presidente Mattarella a quei partiti. Non approfondisco tranne una sottolineatura: i Presidenti della Repubblica italiana godono, se li sanno esercitare, di notevoli poteri istituzionali (e politici). Colgo, da parte di alcuni candidati che già corrono, la volontà di procedere alla rassicurante (per i capi dei partiti) disponibilità ad accettare, comunque a tenere in grandissimo conto, le preferenze che quei capi vorranno esprimere. Insomma, non è alle viste uno Scalfaro che seppe dire no no tanto a Berlusconi quanto a Prodi né un Napolitano che non sciolse il Parlamento nel novembre 2011 e nominò Monti Presidente del Consiglio.

A: Eppure, se ricordo correttamente, lo spazio affinché i Presidenti sviluppino un’azione autonoma nei limiti abbastanza ampi e flessibili, del dettato costituzionale, ci sono eccome. Lei, Professore, li ha addirittura variamente teorizzati.

P: Sì. Con riferimento ai poteri del Presidente e alla loro possibile utilizzazione ho formulato e variamente applicato la “teoria della fisarmonica” la cui fonte iniziale è stata l’immaginazione costituzionale di Giuliano Amato, che non ricorda più dove, ma in un conferenza, e quando. In estrema sintesi, tutta mia, ma discussa con Amato, la gamma dei poteri presidenziali contenuti nella Costituzione è molto ampia. La sua utilizzazione concreta dipende dalla personalità del Presidente, dalla sua competenza istituzionale e dalla sua biografia politica (e professionale). Dipende soprattutto dalla forza dei partiti, quelli che lo hanno eletto, e del sistema dei partiti. Quella gamma di poteri è assimilabile a una fisarmonica. Se i partiti sono deboli e il Presidente sa come suonarla, la fisarmonica giunge alla sua massima estensione. Quando i partiti sono forti non consentiranno al Presidente di aprire la fisarmonica e di suonare quello che vuole, anche se lo spartito rimane comunque quello inscritto nella Costituzione. Non so quanto nei suoi dieci mesi di governo Draghi abbia imparato che gli sia di aiuto nello suonare la fisarmonica dell’ampia gamma di poteri presidenziali. Peraltro, lo vedremmo fin dall’impegnativo debutto quando dovrà nominare il Presidente del Consiglio in sua sostituzione.

A: Siamo allo snodo definitivo. Al di là delle ambizioni personali e delle preferenze particolaristiche, quali dovrebbero essere i criteri per scegliere la candidatura migliore, magari con il concorso dell’opinione pubblica?

P: la Presidenza della Repubblica non può essere il premio alla carriera politica di nessuno. Non deve neanche essere il risarcimento per carriere politiche passate. Non è la carica da attribuire per qualche considerazione di gender parity. Non è qualcosa da scambiare: elezione in cambio di scioglimento del Parlamento, uno scambio indecente che immediatamente scalfirebbe autorevolezza e prestigio del Presidente appena eletto. Al Quirinale deve andare chi rappresenta al meglio “l’unità nazionale”, chi offre la garanzia di tenere la Costituzione come stella polare del suo mandato, chi ha dato prova di europeismo de facto, in pratica. Su questi elementi è giusto aprire la conversazione democratica-istituzionale. Farà bene alla politica.

Bologna 5 novembre 2021

Pubblicato il 5 novembre 2021 su casadellacultura.it

Draghi fra se e sì. Pasquino legge i pensieri del premier @formichenews

Sì, sì, sì. Dalle marachelle dei partiti ai vaccini, il premier Mario Draghi ha una sola risposta. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, prova a leggere i pensieri del premier e il futuro del governo. Con un affaccio sul Quirinale

Sostiene Pasquino, prof. Emerito di Scienza politica che le risposte di Draghi sono: sì, sì, probabilmente sì.

Giornalista Uno: Lei ritiene che il suo governo possa tenere la rotta nonostante le intemperanze di Salvini e le sbandatine di Conte? Giornalista Due: Pensa di potere continuare a fare il pesce in barile sulla vexatissima questio della prossima Presidenza della Repubblica? Presidente del consiglio Mario Draghi: la risposta è si a entrambe le domande.

Due sonori, rotondi sì. Le intemperanze di Salvini riguardano il suo carattere e le sue viscere. Gliele risolverà il ministro Giorgetti spiegandogli che le istanze politiche vanno portate nel Consiglio dei Ministri e non sulle piazzette e nei social.

Conte non si è ancora impadronito del suo ruolo. Se fossi buono, direi che fa tenerezza. Poiché sono esigente e severo, a cominciare da me stesso, gli faccio i migliori auguri per il suo difficilissimo lavoro e aggiungo un nota di cautela. I problemi del Movimento non saranno risolti dal Comandante Di Battista come i problemi del Partito Democratico non hanno trovato soluzione nel profluvio di interviste di Goffredo Bettini.

Anche la risposta alla seconda domanda è, in via di principio, sì. Però, non sono un pesce in barile e mi muovo liberamente, oserei dire persino con gusto, magari ve ne siete accorti, nel mare della politica italiana, europea (a proposito la boullabaisse di Marsiglia con Macron era eccellente) e internazionale. Semmai, il pesce in barile cerca di farlo Xi Jinping, ma lo staneremo.

Sulla Presidenza della Repubblica sto maturando una posizione che sarebbe nuova, se vi avessi mai detto qual’era la vecchia. Sono a abituato a portare a termine i compiti che accetto. È una buonissima regola per tutti. Non vedo con favore chi, vinta, in qualche modo, una carica, la usa come trampolino per un’altra. No, non sto necessariamente parlando dell’eurodeputato Calenda che si candida a sindaco di Roma, però, insomma (Draghi sorride sornione).

Come portare a termine il doppio lavoro: risanare l’economia, e chi sa, suscitare un pezzetto di società italiana e metterla/le su una strada duratura? Ho letto un editoriale del Domani scritto dal Direttore Stefano Feltri che suggerisce alle forze (sic) politiche del centro-sinistra di mandarmi al Quirinale senza troppi balletti. L’ho trovato intrigante e intelligente.

Dall’alto Colle avrò comunque per sette anni il potere di orientare, persuadere e, se del caso, sferzare governanti e rappresentanti a attuare quello che abbiamo iniziato rimanendo nei binari già decisi che sembrano funzionare. Non scioglierò il Parlamento atto al quale, forse, un/a Presidente eletto con i voti decisivi del centro-destra si sentirebbe obbligato. L’unico problema che sicuramente avrò sarà quello della nomina del Presidente del Consiglio in mia sostituzione.

Chi? Questa volta la risposta è no. No, non vi dico come farò. Sono certo che consulterò tutti i leader dei partiti in Parlamento. Non leggerò le interviste dei pundits, neppure ascolterò le opinioni, anche se spesso interessanti e pungenti del prof. Pasquino. Sottolineerò che se cambia la maggioranza, chi se ne va non avrà voce in capitolo. Naturalmente, un po’ di voce l’avranno quelli che restano.

Sì, dirò di più nel prossimo capitolo. Grazie dell’attenzione. Vaccinatevi e tenete la mascherina.

Pubblicato il 5 settembre 2021 si formiche.net

Le fragilità dei tre leader alla prova del semestre bianco @DomaniGiornale

Lasciamo che i commentatori italiani si rincorrano l’un altro a prevedere disastri di un qualche tipo durante il semestre bianco e che superficialmente alcuni professori(oni) ne chiedano l’inutile abolizione. Quel che si intravede in questa fase non sono i partiti che approfittano dell’impossibilità di scioglimento del Parlamento per rendere la vita difficile (e perché poi? E con quali obiettivi?) al governo quanto piuttosto qualche scricchiolio delle leadership dei partiti di governo.

Non scricchiola la leadership di Giorgia Meloni, ma la sua solidità si accompagna alla sua limitata rilevanza anche perché il numero dei parlamentari di Fratelli d’Italia deriva dai voti del marzo 2018 poco più del 4 per cento a fronte delle intenzioni di voto oggi intorno al 18 per cento. Ė Salvini a sentire il fiato dei Fratelli d’Italia sul suo pur robusto collo, ma c’è di più. Anche a causa di ambiguità, probabilmente strutturali, la linea che esprime nelle sue numerosissime apparizioni televisive, interviste, dichiarazioni non sembra largamente condivisa. In particolare, sulle due tematiche più importanti adesso e nel futuro prossimo: Covid e, in senso lato, Europa, nella Lega vi sono posizioni non coincidenti con quelle che Salvini ha dentro. Il Presidente della Regione Veneto Zaia, non da solo, argomenta una linea rigorista sul Covid compreso il green pass e il ritorno a scuola. Sull’Europa e sul sostegno al governo Draghi, alta, forte e chiara è la linea che Giorgetti, avendola elaborata, continua a sostenere. Salvini incassa e guarda avanti, ma sembra avere perso baldanza.

Sicuramente baldanzoso Giuseppe Conte non lo è stato mai, ma non è mai stato riluttante a esibire una non piccola fiducia nelle sue qualità personali e, in qualche modo, anche politiche. Adesso il problema, che sarebbe di difficile soluzione per chiunque, è come acquisire e affermare la sua leadership sul Movimento 5 Stelle di ieri, vale a dire recuperando coloro che se ne sono andati o sono stati frettolosamente espulsi, e di domani a cominciare da quel 15 per cento di elettori scivolati via. All’interno del Movimento non ci sono sfidanti e forse neppure alternative, ma fatte salve poche eccezioni, non si sente neppure grande entusiasmo, piuttosto attendismo: “vediamo che cosa riesce a fare colui che voleva essere l’avvocato del popolo”.

Enrico Letta è il segretario di un partito nel quale i capi corrente hanno notevole potere. Guerini, Franceschini e Orlando sono comodamente sistemati nei loro uffici ministeriali che implicano non poche responsabilità, ma danno anche notevole visibilità (in questi giorni soprattutto per Franceschini che se la gode tutta, e non è finita). Con alcune proposte, voto ai sedicenni, patrimoniale (stoppata, mio modo di vedere, malamente, da Draghi) Letta ha voluto mostrare capacità di incidere sull’agenda politica, ma non può vantare successi e si trincera dietro il fatto inconfutabile dell’essere il PD il più sincero e leale sostenitore di Draghi e del suo governo. Un qualche rafforzamento della sua leadership potrebbe venire sia dalle vittorie possibili in numerose elezioni amministrative a ottobre sia da un suo chiaro e netto successo nell’elezione suppletiva a Siena. Apparentemente Letta è il meno “sfidato” dei tre leader di cui sto discutendo, ma la storia del PD, nel quale restano acquattati molti renziani/e, è anche fatta di repentine cadute e improvvise sostituzioni. La mia interpretazione è che nel semestre bianco, i partiti dovrebbero sentire il compito di rafforzare i loro profili politici al tempo stesso che si segnalano per capacità propositive. Vedo al contrario tensioni, non distruttive, ma che implicherebbero qualche ridefinizione di linee politiche. Non basterà un colpo d’ala nell’elezione rapida del successore(a) di Mattarella.

Pubblicato il 4 agosto 2021 su Domani

Salvini è un equilibrista dimezzato semi-governante semi-oppositore @DomaniGiornale

Comodamente collocata in una solida poltrona d’opposizione (mi concedo al lessico suo e dei suoi Fratelli d’Italia), Giorgia Meloni riceve omaggi e new entries, come il da lungo tempo sen. di Forza Italia Lucio Malan, e osserva il suo competitor Matteo Salvini che si dimena. Nel governo Draghi Salvini c’è capitato non soltanto in mancanza di meglio, ma perché nella Lega, a partire dal suo collaboratore Giorgetti, molti hanno pensato che assumere atteggiamenti anti-europei sarebbe un pessimo biglietto da visita per costruire il governo del dopo Draghi. Con la testa Salvini è, dunque, un semi-governante costretto ad approvare con non celata riluttanza quello che Draghi e i suoi ministri fanno (e non fanno). Con la pancia, però, Salvini è un semi-oppositore alla ricerca di tematiche, proposte, soluzioni che lo differenzino da quello che il governo fa e che non lo distanzino troppo da quello che dice senza peli sulla lingua la sua concorrente interna Giorgia Meloni.

Ė un ruolo piuttosto complicato quello che Salvini deve necessariamente svolgere. Si vede anche che lo svolge con un po’ di tristezza mentre le intenzioni di voto degli italiani premiano Giorgia Meloni e non pochi parlamentari ambiziosi si riposizionano. Infatti, con la riduzione del numero dei parlamentari, soltanto Fratelli d’Italia potrà ricandidare tutti gli attuali e offrire posti a destra, ma certo non a manca. Allora praticamente di fronte ad ogni decisione del governo Draghi e dei suoi ministri, Salvini prende le distanze. Qualche volta vorrebbe di più: aperture dei locali fino ad almeno un’ora o due dopo il limite indicato dal Ministro della Sanità. Qualche volta vorrebbe di meno, ad esempio, che il green pass non fosse indispensabile per i locali pubblici. Poi, quando cambiano, perché peggiorano, i dati dei contagiati, quando crescono i rischi, Salvini si riposiziona sempre cercando di differenziarsi dal governo, ma non sempre riuscendo a nascondere che le sue posizioni sono fluttuanti mentre quelle di Giorgia Meloni sembrano più coerenti. In realtà, spesso i Fratelli d’Italia si fanno beffe dei dati e le sparano grosse anche in termini di libertà. Ma non è il Salvini equilibrista che può permettersi di criticare le preferenze e le scelte sempre perentoriamente annunciate da Meloni.

L’esito, almeno in questa non breve fase, è che la protesta di alcune categorie sociali, dei No Vax, dei “differenziatori” per principio, che, una volta poteva avere come sbocco sia la Lega sia il Movimento 5 Stelle, scivola quasi inesorabilmente nei ranghi accoglienti di Fratelli d’Italia. In parte Salvini dovrebbe essere grato a Letta che lo identifica come il “principale esponente dello schieramento avverso”, dandogli una (im)meritata patente e qualche visibilità. In parte, ha deciso silenziosamente di non concedere più nulla alla Meloni di opposizione: nessuna rappresentanza nel Consiglio d’Amministrazione della Rai, non la presidenza, per prassi, ma anche con più di una motivazione democratica, affidata all’opposizione, della Commissione parlamentare di Vigilanza. Quanto potrà durare il difficile equilibrismo di Salvini e quanto lo stia logorando lo si saprà meglio con il passare del tempo. Sicuro, invece, è che Fratelli d’Italia sta lentamente ridimensionando la Lega che, a sua volta, non sa più che pesci prendere, ovvero su quali tematiche circoscrivere il suo elettorato e cercare di conquistarne altro. Se uno degli effetti anticipati e auspicati del governo Draghi è quello di ristrutturare il sistema dei partiti, questi effetti stanno manifestandosi più platealmente, oltre che nel Movimento 5 Stelle, proprio nella Lega di Salvini.

Pubblicato il 21 luglio 2021 su Domani

Salvini è problematico

Trascinato controvoglia nel governo Draghi dal suo più stretto collaboratore, Giancarlo Giorgetti, diventato Ministro dello Sviluppo Economico, e consapevole che parte del suo elettorato non soltanto nel Nord ha un forte interesse a mantenere rapporti intensi e profittevoli con l’Unione Europea, Salvini si sente comunque a disagio. Sarebbe molto banale pensare che il suo disagio derivi soprattutto dalla competizione dura e pura di Giorgia Meloni, a capo dell’unica opposizione rimasta nel Parlamento italiano. Salvini sa che è la Lega il collante indispensabile al centro-destra per vincere le prossime elezioni. Il vero problema è che non riesce a nascondere non tanto le sue emozioni, ma le propensioni politiche che gli hanno consentito di ottenere un consenso elettorale senza precedenti e, almeno nei sondaggi, persino di farlo crescere. Anche quando fu ministro degli Interni, Salvini interpretava il suo ruolo come “di lotta e di governo”. A maggior ragione oggi deve ritagliarsi uno spazio nel quale offrire rappresentanza a gran parte di coloro che sono insoddisfatti delle politiche anti-Covid del governo. Il gioco è facile e francamente Salvini se la gode, ma la protesta, non importa quanto fondata e quanto contraddittoria, sta tutte nelle sue corde di populista.

   Le sue frequentazioni europee, proprio quelle che Giorgetti reputa dannose e controproducenti, derivano da una visione dell’Unione Europea che Salvini ha maturato da tempo, e che, con termine politichese, gli viene dalla pancia. Quelle che lui definisce “amicizie polacche e ungheresi” dipendono da un comune sentire. Il video dell’incontro con Salvini apparentemente emozionato e quasi scodinzolante insieme a due capi di governo, il marpione di lungo corso Viktor Orbán e lo spregiudicato Mateusz Morawiecki, è parte di un tentativo di trovare alleati in grado di aiutarlo, ma per quali politiche? Per definizione, i “sovranisti” pensano essenzialmente agli interessi dei loro paesi. Quelli ungheresi e polacchi convergono fra loro, ma certamente non saranno d’aiuto a chi sosterrà “prima gli italiani”. L’attivismo di Salvini copre l’assenza di elaborazione politica mentre i temi suoi cavalli di battaglia, a cominciare dall’immigrazione, stanno perdendo di importanza agli occhi degli elettori italiani. I dati continuano a ribadire che le aperture non sono ancora possibili a Covid tutt’altro che sconfitto. I veri “Ristori” del futuro arriveranno grazie ai fondi europei se sapremo utilizzarli in maniera rapida e efficiente, non dagli strepiti di Salvini. Al momento, il leader della Lega costituisce una presenza ambigua in un governo a maggioranza certamente troppo allargata. In quella maggioranza, con le sue continue richieste di vaccinazioni accelerate e riaperture anticipate, sfida e incrina il necessario tentativo di tenere unita e disciplinata una cittadinanza che combatte il Covid in maniera già non sufficientemente convinta e disciplinata. Salvini è parte non della soluzione, ma del problema.

Pubblicato AGL il 7 aprile 2021

Letta segretario dem? Certo, è serio, ma chi glielo fa fare? #intervista @ildubbionews

Parla Gianfranco Pasquino, politologo e professore emerito di Scienza Politica a Bologna

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Secondo Gianfranco Pasquino, politologo e professore emerito di Scienza Politica a Bologna, Enrico Letta «dovrebbe usare il Pd per riportare in quell’alveo tutti coloro che credono nella sua leadership, da Leu a Italia Viva», ma accettando la candidatura alla segreteria «forse si caccerebbe in un vicolo tremendo».

Professor Pasquino, l’ex presidente del Consiglio è l’uomo giusto per una nuova stagione del Pd?

Certamente Letta è una personalità di rilievo, autorevole, competente e soprattutto decente. Ma non so che tipo di partito voglia costruire. Non so se ha pensato al partito che desidera, se ha cercato di indovinare cosa dovrà essere da ora in poi il Pd nel panorama politico italiano. Spero che il tempo che si è preso gli serva per riflettere su questo e non per fare accordi con le correnti, altrimenti sarebbe già spacciato.

Tuttavia in un partito forte e radicato sul territorio come il Pd pluralismo e correnti ci sono sempre state. Come si può fare a meno di cercare un compromesso?

Innanzitutto occorre dire che non è l’unico partito radicato sul territorio, basti pensare a Fratelli d’Italia, che ha ereditato la grande radicalizzazione del Movimento sociale italiano e questo dà grande forza a Giorgia Meloni. Tuttavia Letta deve sconvolgere le correnti, deve distruggerle. Deve chiedere al partito la possibilità di farsi governare davvero e gli ex correntisti devono tornare a essere uomini e donne liberi e libere a cui Letta di volta in volta farà delle proposte sull’organizzazione del partito in quanto struttura, non in quanto governo. Se non chiederà il potere di ristrutturare il partito, il suo interludio sarà soltanto un sogno.

Pensa che, rispetto alla linea zingarettiana dell’alleanza politica con il Movimento 5 Stelle, Letta possa riuscire a ricucire con i partiti di centro, Italia Viva in primis?

Credo che, prima delle alleanze, Letta dovrebbe usare il partito per riuscire a riportare in quell’alveo tutti coloro che credono alla sua leadership, certamente Leu e Italia viva. A meno che non siano vassalli e vassalle di Renzi, i parlamentari di Italia Viva non possono non sentire la vicinanza politica a Letta. Ma se non la sentono affari loro.

Dopo gli attriti del passato pensa sia impossibile una ricucitura tra i due ex presidenti del Consiglio?

Immagino che Renzi vorrà fare il vicesegretario di Letta quasi sicuramente … o forse potrebbe fare l’emissario nei paesi arabi, compito che ha dimostrato di saper svolger efficacemente. Tornando seri, Letta dovrebbe avere molto riserbo nell’aprire a Renzi. Prima si pensa al partito, poi alle alleanze.

La minoranza del partito continua a spingere per un congresso in breve tempo, ma questo vorrebbe dire eleggere un reggente soltanto per qualche mese. Potrebbe essere lo stesso Letta?

Questa è una condizione essenziale: Letta non deve in nessun modo accettare di fare il reggente per qualche mese. Deve governare il partito davvero essendone il segretario fino alla scadenza del mandato nel 2023.

C’è il rischio che possa essere “sfruttato” dalle correnti e finire nel tritacarne come già accaduto in passato ad altri segretari?

Il rischio c’è ma deve essere lui a valutarlo chiedendo un voto personale e non per acclamazione. D’altronde non si può andare dal notaio ma lui non deve parlare con i capi corrente. Deve chiedere platealmente all’assemblea che ciascuno di loro voti per coscienza dandogli la propria fiducia.

Molti lo giudicano un “papa straniero” chiamato a salvare il partito, un po’ come fosse il Draghi del Pd. È d’accordo?

Questo paragone mi pare abbastanza azzardato. Letta è stato e continuerà a essere un politico di professione, mentre Draghi non lo diventerà mai. Inoltre Letta ha un radicamento nella politica Italiana che Draghi non avrà mai. Draghi è un papa nero, Letta è uno di loro, ma un po’ meglio di ognuno di loro. Mentre Draghi è un po’ meglio di tutti quelli che stanno al governo con lui. Un Pd a guida Letta si approccerebbe in maniera diversa al governo dell’ex presidente della Banca centrale europea?Credo che non cambi nulla. Letta non avrebbe un mandato per cambiare la posizione del partito e credo che diventando segretario potrebbe cercare di imporre alcune priorità, ad esempio influendo attraverso i suoi ministri.

In definitiva, crede che accetterà il compito di guidare i dem?

Letta deve accettare soltanto se tutti i capi corrente sono d’accordo sulla ristrutturazione del partito, nazionale e locale. Servono sezioni di partito più dinamiche e flessibili. Ma se non avesse questa forza autonoma, il rischio di fallire sarebbe altissimo.

Mi perdoni professore, ma il superamento del sistema correntizio risale addirittura allo statuto di fondazione del partito, nel 2007. Sono passati quattordici anni e mi pare non sia cambiato nulla.

In effetti forse se Letta accettasse si caccerebbe in un vicolo tremendo.

Cos’ha spinto Zingaretti a dire “basta”?

Credo che sia stata una sequela di episodi. Uno stillicidio di critiche cattive non fatte nelle sedi di partito. Poi certamente c’erano posizioni differenti rispetto all’alleanza coi Cinque Stelle ma dovevano venire fuori in assemblea o in direzione. E invece non è accaduto, tranne qualche battuta di Orfini. Forse c’entra anche la politica del Pd romano, oltre che nazionale.

In ogni caso, crede che la chiamata di Letta sia un sintomo dell’evoluzione del sistema politico provocata dal governo Draghi?

La vera evoluzione del sistema politico avverrà quando la destra diventerà capace di proiettare un’immagine non solo di alternativa dura al centrosinistra ma di coalizione in grado di governare il Paese senza creare conflitti con richiami al passato, come fanno Lega e Fd’I, e senza conflitti di interesse, come ha Forza Italia.

Beh, la Lega qualche passo avanti sembra averlo fatto, non crede?

Nella Lega questo percorso è iniziato ma non so quanto Giorgetti riesca a resistere alle punzecchiature di Salvini. Mentre Fd’I vive di rendita come opposizione in Italia e come elemento critico in Europa. Ne sono convinti e continueranno così.

Pubblicata il 12 marzo 2021 su Il Dubbio

L’arte di governare e l’arte di comunicare

La scomposizione dei protagonisti della vita politica italiana dopo le elezioni di marzo 2018 è in corso. Sta succedendo proprio quello che alcuni avevano dichiarato e auspicato come conseguenza della formazione del governo Draghi. Fallita la politica sembrano falliti i protagonisti a partire dal più grande, il Movimento 5 Stelle. Diviso al suo interno, con una cinquantina di dissenzienti sul voto di fiducia, in buona misura quasi subito espulsi, il Movimento sta per essere affidato alle cure amorevoli del Prof Giuseppe Conte non dimentico di essere debitore ai Cinque Stelli di due anni “bellissimi”. Nel secondo partito della ex-coalizione di governo, il Partito Democratico, si rincorrono accuse al Segretario per la designazione della squadra di governo a scapito delle donne e recriminazioni dei più vari tipi ad opera di alcuni le cui ambizioni sono al disopra delle capacità finora provate. La minuscola LeU ha subito la scissione parlamentare dell’unico deputato di Sinistra Italiana. Nonostante le acrobazie di Salvini, la svolta europeista voluta da Giorgetti, ora sottosegretario, non sembra gradita da tutti. Molti sono i mugugni anche dentro Forza Italia pure non poco premiata dalla assegnazione dei posti di Ministro e di sottosegretaria. Granitica è, invece, oltre che premiata dai sondaggi, la coerenza di Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia subito schieratisi all’opposizione. Naturalmente, questa opposizione unica significa anche che il centro-destra al momento non esiste più. Infine, all’orizzonte continua a profilarsi uno spettro alimentato da commentatori e politici di seconda fila: la riorganizzazione di un partito/ino di centro che avesse un improbabile successo renderebbe impossibile qualsiasi competizione bipolare e impraticabile qualsiasi alternanza di governo.

La fin troppa attenzione concentrata sulla scomposizione degli attori politico-partitici ha impedito di controllare da vicino quello che il governo Draghi fa, non fa, fa male. Non spetterà al governo ristrutturare la politica italiana, compito, comunque, da non affidare a un grande banchiere e ai tecnici da lui designati e che a lui dovranno costantemente fare riferimento. Piuttosto, mentre la pandemia infuria nel contesto italiano provocando danni ancora più gravi alle persone e alle attività economiche, bisogna che Draghi abbandoni la sua altrimenti apprezzabile inclinazione, forse, una deliberata strategia, a non procedere a dichiarazioni pubbliche, a comunicare soltanto nelle finora pochissime occasioni ufficiali. La politica è da tempo diventata comunicazione. Si alimenta di notizie, produce informazioni, intrattiene un dialogo fra governanti e governati. Per chi occupa la più importante carica di governo in un paese disastrato la cui ripresa non è affatto dietro l’angolo, comunicare con i cittadini, certo in maniera sobria e scarna, è un obbligo denso di significati. Serve anche a costruire e mantenere quel consenso che un governo tecnico non ha avuto dalle urne e del quale ha assoluto bisogno per rendere efficaci le sue azioni.

Pubblicato AGL il 2 marzo 2021

Pasquino: «Conte? Un signore, Mattarella poteva dargli un’altra chance» #intervista #Ventuno

Intervista raccolta da Ruggero Tantulli

«Giuseppe Conte è stato sostituito malamente. Il suo governo poteva continuare». A dirlo è il professore emerito di Scienza politica Gianfranco Pasquino, che risponde al telefono alle domande di Ventuno. Il governo Draghi, secondo il professore torinese, «non è il governo dei migliori». E soprattutto non deriva «affatto da una crisi della politica», ma da un «comportamento ricattatorio e irresponsabile di Matteo Renzi». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella era davvero obbligato a chiamare “Supermario” Draghi, come acriticamente riportato su gran parte dei media? No: avrebbe potuto dare «un’altra chance a Conte».

Professore, è nato il governo Draghi. Qual è il suo giudizio?

«La composizione del governo rispecchia i rapporti di forza dei partiti in questo Parlamento. Sì, è il manuale Cencelli ma esiste in tutte le democrazie parlamentari. I governi si fanno comunque così. Per quanto riguarda i ministri c’è una notevole continuità e penso vedremo anche molti sottosegretari e viceministri che faranno la loro ricomparsa. I tecnici, poi, sono “i migliori”, come si dice con esagerazione? No. Bisogna intendersi sul significato di “migliori” in politica: spesso sono quelli che ottengono più voti o che fanno scelte sagge nei momenti eccezionali. Ci sono certamente buoni ministri: stimo Patrizio Bianchi, Enrico Giovannini e Roberto Speranza».

Rispetto al Conte-2, possiamo dire che c’è stato uno spostamento verso destra?

«No, direi verso il centro. Perché la Lega è stata costretta a capire che bisogna seguire le linee portanti della Ue. Quindi è un successo del sistema europeo nel suo insieme. C’è una conversione opportunista verso il centro di Salvini. Però la conversione vera è quella di Giorgetti».

Giuseppe Conte è uscito da Palazzo Chigi tra gli applausi dei dipendenti e le ovazioni da via del Corso. Cosa vuol dire?

«I sondaggi, che lo davano sopra il 50%, non mentivano. Conte come persona è un signore e si è dimostrato tale anche uscendo da Palazzo Chigi. Io sono d’accordo con chi lo applaudiva e mi auguro recuperi un ruolo politico. Ma voglio aggiungere una cosa: per me è stato sostituito malamente perché quel governo poteva continuare».

Ecco. Nel dibattito pubblico spesso si sente dire che per il presidente della Repubblica chiamare Mario Draghi fosse l’unica scelta possibile. È davvero così?

«La metto in maniera ipotetica. Quando Fico (dopo il mandato esplorativo, ndr) ha riferito che i partiti non erano in grado di convergere su qualcosa, Mattarella aveva due strade: o dire lui cosa fare o prendere atto che Conte aveva ottenuto la fiducia, abbondante alla Camera e risicatissima al Senato, dicendogli di andare avanti. E avvertendolo che, in caso di sconfitta su un disegno di legge come quello sulla riforma della giustizia, allora gli avrebbe chiesto di dimettersi. Poteva dargli un’altra chance. Evidentemente ha ricevuto pressioni da qualcuno oppure non voleva rischiare di rimandare Conte in Parlamento e di ritrovarselo pochi giorni dopo sconfitto in un voto importante».

Visto che ha parlato di “pressioni”: si sente spesso dire, come presupposto incontestabile, che la crisi nasce da una crisi politica di sistema. Non è però nata dalla scelta di un partito che forse si è mosso sulla base anche di altri interessi, come quelli di gruppi di potere?

«La crisi si è aperta per un comportamento ricattatorio e irresponsabile di Renzi e di Italia Viva. Non c’era alcun bisogno di aprirla. Evidentemente Renzi voleva far valere qualcosa contro Conte. Certamente non era solo: i giornali da mesi conducevano una campagna contro Conte, direi da giugno (“È pronto Draghi”, “Poi arriva Draghi” etc.), per ragioni che mi sfuggono. Una parte dei giornali non vuole il M5s: in particolare il Corriere della sera e in una certa misura anche la Repubblica. Loro hanno creato le premesse. Un leader ricattatorio ha avuto un colpo di fortuna e adesso sostiene di aver scelto lui Draghi. Una frase francamente eccessiva. Sostiene anche di aver fatto lui questo governo: nel 2018 poteva fare un governo

con il M5s da segretario del Pd ma buttò il partito all’opposizione senza neanche convocare gli organismi dirigenti. Sento dire che sarebbe un genio della politica: dissento fortemente. La politica, comunque, non è affatto fallita. E nemmeno il sistema. La democrazia parlamentare è sufficientemente flessibile da accomodare diversi tipi di governo e sapersi adattare. Quindi non siamo affatto di fronte a una crisi di sistema, lo rifiuto nella maniera più totale. La Costituzione ha tutte le risposte da dare anche in queste situazioni. Mattarella infatti, anche se secondo me con qualche leggera forzatura, ha utilizzato la Costituzione. Dopodiché sono convinto che ci sia stato un lungo dialogo tra Mattarella e Draghi per scegliere i ministri, perché sono altrettanto convinto che Draghi non conosca bene la politica italiana e i partiti italiani».

Renzi ha portato Lega e Fi al governo. Non un gran risultato, visto da sinistra…

«Renzi non sta guardando da sinistra ma dal centro. Solo che è inchiodato al 2,8% e se si fa una legge elettorale con soglia di sbarramento non entra più. Ma sono sicuro che tratterà per un seggio sicuro per sé e per Maria Elena Boschi».

La “congiura” di Renzi è arrivata proprio quando bisogna pianificare l’investimento dei 209 miliardi ottenuti da Conte con il Recovery Fund. Non è un tempismo sospetto?

«Qui mi chiede dietrologie e su questo non sono particolarmente bravo. Conte sicuramente sapeva in quale direzione andare per usare quei fondi. Credo che lo sappia anche Draghi e che non cederebbe a pressioni. Credo che Renzi non riuscirà a influenzare le scelte di Draghi».

Draghi è stato osannato dalla quasi totalità dei media. Non è stato eccessivo? Inoltre, il parlare di “governo dei migliori” non nasconde una concezione aristocratica della politica volta quasi a svilire la portata della democrazia?  

«Chi vuole il governo dei migliori non opera all’interno delle regole della democrazia: il governo è fatto da coloro che sono riusciti ad avere il maggior numero di seggi in Parlamento. Qualche volta sono migliori dei loro cittadini, qualche volta no. Conosco qualche esempio di governo dei migliori: l’amministrazione di John Kennedy(Usa, 1961-1963, ndr), alcuni governi di De Gaulle, il primo governo laburista (1945-1951). Questo non è il governo dei migliori. Anche se devo dire che in questo Paese non ho mai visto un governo dei migliori».

Ma a proposito di democrazia, lasciare solo un partito all’opposizione è normale o è un’anomalia?

«I partiti decidono se andare al governo o all’opposizione. Giorgia Meloni ha giustificato in maniera condivisibile la sua scelta. Io naturalmente preferisco un sistema dove c’è una vera opposizione che si candida come alternativa al governo.  Ma sono molto rari i sistemi bipolari eh! In Europa, contrariamente a quanto si pensa, l’alternanza vera è una merce rarissima (dopo l’intervista, anche Sinistra italiana ha comunicato la decisione di non votare la fiducia al governo Draghi, come sostenuto dal segretario Nicola Fratoianni, ndr)».

Il M5s è stato criticato per aver consultato i propri iscritti. E soprattutto per come è stato scritto il quesito, contestato anche al suo interno. Che ne pensa?

«Io preferisco 77mila persone che votano su Rousseau al metodo decisionale di una o poche persone».

Come valuta questa mutazione definitiva del M5s, che ha comportato una spaccatura netta tra l’ala governista e quella di opposizione?

«Credo sia errato dire che ci siano un’ala governista e una di opposizione. Per me ci sono quelli che hanno imparato che se vuoi cambiare le cose devi stare al governo e far passare le tue idee e quelli che si beano di stare all’opposizione e testimoniare».

Pensa che ci sarà una scissione o che i ribelli proveranno a riprendersi il Movimento?

«Se fanno una scissione si suicidano. Mi auguro rimangano nel M5s e in Parlamento combattendo le loro battaglie, anche sugli emendamenti. In politica stare in disparte è un errore».

Il governo Draghi è stato criticato per la scarsa presenza femminile e per aver depotenziato il ruolo del Sud. Che ne pensa?

«La scelta delle donne dipende dai partiti. Sul Sud, da torinese mi sembra che Draghi sia romano: quindi il Sud è ben rappresentato».

Legge elettorale. Ai cittadini suona come un tema inutile ma in realtà non è così. Riuscirà questo Parlamento a farla, soprattutto dopo la riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari?

«La convinzione secondo la quale ai cittadini non interessa la legge elettorale è sbagliata. E se fosse giusta sarebbe colpa dei politici che devono dire ai cittadini che è importante! Prima i partiti iniziano questa opera pedagogica fondamentale, meglio sarà. Rosato (da cui il Rosatellum, ndr) può dire quello che vuole ma la legge elettorale è pessima. Alcune cose non dovrebbero esserci mai: la possibilità di pluricandidature è assolutamente scandalosa. Sono contrario poi ai candidati paracadutati. Credo che dovrebbero esserci un voto di preferenza vero e la possibilità di un voto disgiunto. Dopodiché se si vuole una buona rappresentanza politica la soluzione è il sistema elettorale tedesco: si chiama proporzionale personalizzato. Se si vuole un buon maggioritario, invece, si può seguire il modello francese. Il criterio principe per valutare le leggi elettorali è: quanto potere hanno gli elettori? Con la legge Rosato gli elettori hanno pochissimo potere. Con il Porcellum di Calderoli ne avevano ancora meno. Con il Mattarellum invece ne avevano. Se non si vuole imitare un modello estero, basta adattare la legge Mattarella con un paio di ritocchi».

Che futuro vede per Conte?

«L’ho visto accompagnato da una bella signora bionda. Lo vedo in vacanza per una settimana, fuori da questa gabbia dove ci si scambia colpi di pugnale. Conte ha dimostrato di avere delle capacità, è cresciuto nella sua carica e secondo me ha fatto bene. Fare politica è una scelta di vita, non so se lo voglia. Potrebbe avere una carriera europea o un futuro anche in questo governo. Ma non gli suggerirei di fare un partito. Comunque do una valutazione positiva di Conte. Il suo futuro è in parte nelle sue mani».

Pubblicato il 15 febbraio 2021 su Ventuno