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Non orfani ma multipatriottici. L’europeismo è l’unica patria possibile @DomaniGiornale

“Quando sento parlare di patria, mi viene subito voglia di invadere la Francia e di spezzare le reni alla Grecia”. Come molti lettori/trici di “Domani” hanno sicuramente capito, ho parafrasato Woody Allen al quale la musica di Wagner dava l’irreprimibile stimolo ad invadere la Polonia. Proprio a causa del titolo ho alquanto esitato prima di immergermi nella lettura del saggio di Vittorio Emanuele Parsi, Madre Patria. Un’idea per una nazione di orfani Bompiani 2023. Da più di vent’anni conosco l’autore, professore di Relazioni Internazionali nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano, capitano di fregata della Marina Militare, appassionato giocatore di rugby. Ho letto e apprezzato alcuni dei suoi importanti libri sull’ordine liberale internazionale, le sue tensioni, il suo slabbrarsi. Condivido la sua ferma e argomentata, in molti frequenti interventi a trasmissioni televisive, difesa dell’Ucraina aggredita dalla Russia (caso al quale è qui dedicato un capitolo), e ritengo la sua prospettiva di studioso convincente e feconda. Pertanto, mi è parso utile confrontarmi con la sua “idea per una nazione di orfani”.
Premetto che non mi sono mai sentito orfano di alcunché, meno che mai della “madre patria”. La mia autobiografia comincia con le parole “sono un europeo nato a Torino”. Non sono affatto incline a definire la mia identità con l’unico riferimento all’Italia in quanto patria. Le mie reminiscenze della storia e della politica greca mi hanno condotto a dare valutazione positiva alla pratica di stare insieme in nome di certi valori. Quello considerato particolarmente importante da Pericle nel suo famosissimo discorso sulla democrazia in Atene era la partecipazione, l’azione comune dei migliori dei cittadini per il bene della città (MAGA: Make Atene Great Again) anche sacrificando i loro interessi e piaceri personali. Subito dopo in una sequenza logica irrefutabile, mi confronto con quel grande retore e convinto patriota della Roma repubblicana che fu Marco Tullio Cicerone e gli chiedo se non ritenga che la sua icastica affermazione ubi patria ibi libertas non debba essere capovolta: ubi libertas ibi patria. Ci impegniamo in un concitato confronto nel quale ciascuno di noi sostiene con modalità diverse la necessità che la patria sia luogo di valori, da affermare e per i quali combattere, a cominciare dal valore della libertà senza la quale nessuno degli altri valori avrebbe senso, sostanza, solidità.
Parsi preferisce non formulare e non offrire una precisa definizione della patria. Solo verso la fine del suo saggio dichiara quale è l’obiettivo degno di essere perseguito: “una patria inclusiva, democratica e gentile”. Potrebbe non essere inutile spacchettare ciascuno degli aggettivi e porsi il compito di trovarne di più appropriati, più evocativi, migliori anche se poi diventerebbe tanto essenziale quanto problematico convergere sui criteri per la classificazione. L’aggettivo “inclusivo” viene scelto da Parsi sia perché la patria fascista fu deliberatamente costruita per escludere tutti coloro che si opposero in una pluralità di forme al regime autoritario sia perché anche oggi i governanti italiani hanno, esprimono, manifestano un atteggiamento proprietario: la loro idea di patria è quella giusta, l’unica giusta. Capisco, ma preferirei “aperta”, l’aggettivo utilizzato da Karl Popper contro i tetri e chiusi totalitarismi dei suoi tempi (nient’affatto finiti), che consente di pensare e operare affinché chiunque lo desidera, ovviamente a determinate condizione, possa aderire, entrare nella patria più affine ai suoi valori o più capace di proteggere e promuovere quei valori.
L’aggettivo “democratico” merita il posto centrale. Serve a richiamare l’attenzione sull’esistenza di un notevole numero di patrie che non sono affatto democratiche, che non lo sono mai state, che non stanno in nessun modo cercando di diventarlo. La Grande Madre Russia ne costituisce un caso esemplare. Più in generale, molti regimi (e leader) autoritari fanno leva sulla esaltazione della triade “Dio, Patria, Famiglia”. Infine, non sono per nulla interessato a che la “mia” patria sia gentile. La vorrei esigente e giusta. Esigente nei confronti dei suoi cittadini i cui diritti protegge e promuove, dai quali esige l’adempimento di doveri (eviterò l’aggettivo “sacrosanti”) essenziali: difesa, tassazione, solidarietà, decoro e onore. Giusta perché chiede ai suoi cittadini in proporzione alle loro capacità di contribuire.
La patria alla quale Parsi si riferisce positivamente, quasi con gratitudine è quella che nasce con il Risorgimento quando la probabilmente migliore, anche se molto ristretta, classe politica che l’Italia abbia mai avuto, la Destra Storica, unifica statualmente e politicamente nel Regno d’Italia quanto, fino ad allora, era, aveva ragione il Principe di Metternich, poco più che una “espressione geografica”. Ma, male faremmo se dimenticassimo i diversamente importanti contributi di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi. Vorrei inserirli nel Pantheon dei Patrioti sottolineando che ad entrambi la sola Italia non bastava. Mazzini ebbe come orizzonte la Giovane Europa e Garibaldi è famoso come “eroe dei due mondi” poiché sia in America latina sia in Italia combatté per la libertà.
La Resistenza non fu il completamento del Risorgimento. Fu un Risorgimento diverso innestato su un paese ridotto dal fascismo a macerie politiche, economiche, sociali, culturali. Il 25 luglio 1943 morì il fascismo come regime (non come mentalità). L’8 settembre 1943 si suicidò per egoismo e codardia la monarchia sabauda con i suoi fiancheggiatori felloni. Come in maniera spesso commovente registrano e attestano le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, una certa idea di patria sopravviveva. Si espresse in forme liberaldemocratiche maggioritarie alle quali si contrappose una visione, giustamente criticata senza mezzi termini da Parsi, rivolta alla patria del socialismo, l’Unione Sovietica. Neppure il crollo del Muro di Berlino e la disintegrazione dell’Unione Sovietica hanno portato gli italiani, sostiene Parsi, ad una ricomposizione dell’idea di Patria. Non è stata sufficiente l’opera di predicatori eccellenti, in qualche modo, Sandro Pertini con le sue impertinenze talvolta ai limiti della costituzionalità; Ciampi, purtroppo per lui privo di un partito che facesse da cassa di risonanza alle parole; e Sergio Mattarella. Per motivi che non chiarisce, Parsi esclude, a mio parere, sbagliando, Giorgio Napolitano.
Quel che manca in Italia sono le figure di intellettuali predicatori di patriottismo. Parsi non affronta questo tema poiché ritiene che la patria debba nascere dal basso, bottom up, e che il compito debba essere svolto, non dai docenti nelle scuole, nella cui adesione nutre scarsissima fiducia, condivido, ma, problematicamente, nei e dai nostri cuori. So che i sentimenti contano, ma preferirei che patria e patriottismo venissero argomentati dalla ragione e ragionevolmente condivisi oppure contrastati. A quel che so, altrove in Europa la ricerca di patriottismo è limitata e politicamente marchiata. Il grande filosofo politico e sociologo tedesco Jürgen Habermas si è impegnato nell’elaborazione, mai trionfante, del patriottismo costituzionale proprio per opporsi a qualsiasi riaffermazione/risorgenza nazionalista sotto mentite spoglie patriottiche. Il patriottismo di destra, particolaristico e nazionalista si camuffa come sovranismo. L’invocazione di Parsi è che si parta dal rispetto e dall’amore per quel che ci circonda: persone e regole, “il bene di tutti nostri compatrioti” (p. 179).
Poiché sono giunto alla convinzione che recuperare la patria, concetto e azione, è un’operazione probabilmente impossibile, sicuramente di retroguardia, la mia visione e la mia analisi vanno verso l’europeismo. Dirò, con Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, che il compito più alto, la sfida più significativa per le patrie e i patrioti consiste nel consapevolmente fare molti passi avanti per convergere sulla patria europea. Il più recente magistrale racconto di vita e di storia dello studioso inglese Timothy Garton Ash, Homelands [patrie al plurale]. A Personal History of Europe (Penguin Random House 2023), è un’ottima lezione di post-patriottismo nazionale. Non è incompatibile con la perorazione patriottica di Parsi. Però, Garton Ash mostra che si possono, si debbono avere più patrie. Concordo.
Pubblicato il 27 dicembre 2023 su Domani
L’addio laico a un’Italia che non c’è più @DomaniGiornale

Gli storici racconteranno, forse, la storia di Napolitano con riferimento alla copiosa documentazione disponibile, molta già adesso. I contemporanei hanno assistito, con maggiore o minore consapevolezza (lo deduco dai volti dei presenti, anche, sento di doverlo proprio scrivere, dal sentimento di estraneità, di alterità che traspariva dai volti degli attuali governanti), ad una cerimonia funebre laica irripetibile, da ricordare minuto per minuto, intensa con trattenuta commozione. Attraverso le parole degli oratori prescelti con grandissima cura, la storia, oserei dire l’avventura, non solo politica, di Napolitano, è stata narrata anche la storia complessa dell’Italia repubblicana. La storia di un’Italia che, seppure minoritaria, è esistita, ha affrontato sfide, commesso errori, saputo cambiare e migliorare, ma che non c’è più.
Appena menzionato, il giustamente famoso discorso con il quale, appena rieletto contro le sue preferenze istituzionali (non creare precedenti) e personali, il Presidente Napolitano fustigava i parlamentari inetti e ignavi, era anche un giudizio severo sulla classe politica della cosiddetta Seconda Repubblica, espressione di alta preoccupazione per un rinnovamento pericolosamente rimandato. L’elogio a chi ha praticato la politica come professione perché degna di assorbire le energie di chi vuole cambiare, migliorare la vita nella polis è risuonato un po’ in tutti i discorsi quasi opportunamente anche come critica implicita all’arrivismo senza principi e spregiudicato dei contemporanei.
Molti hanno sottolineato come e quanto Napolitano abbia ritenuto indispensabile porre lo studio e la documentazione a fondamento dell’azione politica richiesta. Il desiderio di continuare a imparare era un tratto caratteriale, ma anche il requisito essenziale per ergersi e rimanere all’altezza delle sfide che si ripresentano. L’uomo a servizio delle molte istituzioni non fu mai un semplice esecutore dei ruoli inscritti in quelle istituzioni, ma operò regolarmente sia come difensore agguerrito della loro dignità sia come interprete creativo capace di ampliarne gli spazi al massimo dei limiti costituzionali nell’intento di garantirne la funzionalità e l’efficacia.
Il politico colto e studioso si rese presto conto che l’Europa costituiva non soltanto un’opportunità per l’Italia, ma il luogo migliore dove perseguire libertà, giustizia e prosperità. Consapevole della pluralità di posizioni presenti nel suo partito, il PCI, si mosse con grande cautela e altrettanta determinazione conseguendo l’obiettivo. Napolitano non si costruì una carriera motivato primariamente da ambizioni di grandezza personale. Fu il suo modo di porsi e di agire a farne l’uomo giusto per i momenti difficili, l’uomo nel quale riporre fiducia per l’adempimento di compiti ardui e essenziali, l’uomo che ricompensava quella fiducia con l’impegno che derivava dal senso del dovere. Che, in un modo o nell’altro, tutti questi elementi abbiano fatto la loro comparsa nei discorsi degli oratori è decisamente gratificante. Dice molto anche su quegli oratori, sulla loro vicinanza e conoscenza di un leader politico esigente che sapeva valutare le qualità e premiarle.
La cerimonia espressiva di un lutto repubblicano ha certificato nel modo più alto possibile che le democrazie sono in grado di produrre élites politiche, eccellenze. Sono, talvolta, anche in grado di premiarle. Che, in qualche modo, è possibile e comprensibile avere qualche nostalgia per il passato. Ma, certamente, Napolitano non aveva rimpianti per il passato, tranne per qualche errore di valutazione. Guardava al presente per costruire il futuro possibile. Gli storici diranno con quanto successo. Molti contemporanei dentro e fuori Montecitorio testimoniano la loro gratitudine.
Pubblicato il 27 settembre 2023 su Domani
Napolitano è sempre stato dalla parte della Costituzione @DomaniGiornale


Il primo Presidente della Repubblica italiana a essere rieletto è un dato statistico che a Napolitano, pur consapevole del fatto, non piacerebbe che venisse ricordato come suo grande merito. Non lo desiderò, non lo chiese, non lo gradì. Quel grande discorso di insediamento del suo secondo mandato, nel quale criticò, applauditissimo dai dirigenti di partito e dai loro parlamentari, incapaci di preparare e procedere ad una scelta da tempo nota, fu dettato dalla sua incontenibile irritazione, ma anche da notevole preoccupazione. Lui, coerente parlamentarista da sempre, si rendeva conto delle profonde, forse incorreggibili, degenerazioni del Parlamento italiano e della classe parlamentare. Lui, da sempre, con la quasi totalità dei “miglioristi”, conservatore istituzionale, si rese disponibile ad auspicare riforme anche costituzionali e a sostenere i loro tanto disinvolti quanti incompetenti portatori, a cominciare da Matteo Renzi. Dei rischi si rese rapidamente conto, quando a metà settembre 2016, in una intervista a “la Repubblica” denunciò “gli eccessi di personalizzazione politica” nella campagna referendaria del Presidente del Consiglio che voleva un voto sulle sua riforme, minacciando altrimenti la sua uscita di scena (“c’è altro da fare nella vita”) e adombrando quell’instabilità governativa e anche politica che il Presidente Napolitano voleva scongiurare e evitare come le sue scelte e i suoi comportamenti costituzionali avevano già ripetutamente, talvolta suscitando controversie, provato.
Accusato di provenire e di stare da una precisa parte politica, Napolitano prontamente rispose che era vero. Stava “dalla parte della Costituzione”. Qualsiasi lettura delle Presidenze, al plurale, di Giorgio Napolitano e, più in generale, della sua lunga, impegnativa e ricca, giustamente, di onori e di riconoscimenti, deve prendere le mosse dalla Costituzione italiana e procedere confrontandosi con l’interpretazione che Napolitano ne diede e con i comportamenti che in quanto Presidente, ne fece coerentemente e, talvolta, creativamente, discendere.
Troppo spesso nel passato i Presidenti della Repubblica italiana si erano fatti condizionare dai partiti che li avevano candidati ed eletti. Soltanto negli ultimi due anni del suo mandato, preveggendo la crisi politica e istituzionale incombente, Cossiga affermò la sua indipendenza con toni aspri, critiche mirate, indicazioni interessanti che quel che rimaneva dei partiti respinsero in articulo mortis (la loro). Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) si trovò in mare aperto e procelloso. Lui, parlamentarista di lunghissimo corso, scelse quella navigazione che gli veniva dall’esperienza e che alcuni bravi consiglieri e costituzionalisti gli prospettarono. Presidente della Camera in due anni cruciali, 1992-1994, Napolitano colse con attenzione e intelligenza tutte le novità e le variazioni nell’interpretazione dei dettami costituzionali del settennato di Scalfaro.
Le sfide e le crisi da lui affrontate furono in parte inevitabilmente differenti anche perché aggravatesi. I principi e i valori costituzionali cui ispirarsi apparvero ancora di più in tutta la loro inesplorata rilevanza. Nominare il Presidente del Consiglio è compito, diritto e dovere del Presidente della Repubblica che mira a ottenere su quella nomina per il prescelto “la fiducia delle Camere”, unico requisito costituzionale per la formazione dei governi. Ma, spesso, Napolitano chiese e si impose di più: che il Presidente del Consiglio venisse appoggiato da una maggioranza operativa. Per intenderci, quella che portava con sé il segretario del PD Matteo Renzi nel febbraio 2014 era (sembrava) più operativa di quella, pure sussistente, di Enrico Letta. Nel 2011 la maggioranza a sostegno di Berlusconi, personalmente troppo assorbito da “cene eleganti e con decoro”, aveva perso qualsiasi operatività e stava facendo crollare il sistema economico italiano sotto il peso insostenibile dello spread giunto a quota 500. Ma una nuova maggioranza non era certa neppure dopo l’indispensabile passaggio elettorale e non esisteva nessuna garanzia di sua operatività.
Il potere costituzionale di scioglimento del Parlamento implica anche, come dimostrato dal doppio diniego di Scalfaro ai richiedenti Berlusconi (dicembre 1993) e Prodi (ottobre 1998), la facoltà di non sciogliere, di non logorare l’elettorato, di non attribuirgli responsabilità che non gli spettano e non può assumersi. Il rancore espresso fra i denti dei commenti degli esponenti/governanti del centro-destra in morte di Napolitano testimoniano la loro mancata comprensione di quello che è effettivamente il combinato disposto “democrazia parlamentare-competizione partitica”.
Sull’onda delle crisi e della precarietà delle soluzioni il conservatore istituzionale Giorgio Napolitano giunse alla convinzione che neppure la straordinari elasticità della democrazia parlamentare disegnata con enorme saggezza dai Costituenti italiani poteva continuare a supplire alle inadeguatezze e ai vizi, non della politica, ma della classe politica che lui conosceva per osservazione e anche frequentazione. Il suo sostegno alle riforme costituzionali volute e, seppure male, congegnate da Renzi, si spiega come ultima ratio, quasi effetto di disperazione costituzionale. La loro sconfitta la sentì anche come sua, dolorosamente. Fu un’altra, avrebbe detto Bobbio, delle dure lezioni che la storia impartisce non soltanto ai gregari, ma anche ai protagonisti. Vero protagonista senza smanie di protagonismo, Napolitano prese atto di quelle lezioni, lasciando alcune sue lezioni costituzionali, di politica e di europeismo (“rifare gli italiani per fare l’Europa” è il titolo del dialogo che svolse con me a Palermo l’8 settembre 2011 nell’ambito del Congresso annuale della Società Italiana di Scienza Politica) di cui credo sia possibile affermare che il suo successore Mattarella ha già fatto tesoro procedendo, quando è stato necessario, ad esempio con la nomina di Mario Draghi, alla loro attuazione. Non finisce qui. Grazie, Napolitano.
Pubblicato domenica 24 settembre 2023 su Domani

Gli apllausi non faranno cambiare idea a Mattarella sul no a un mandato bis #intervista @ildubbionews


Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, spiega che gli applausi della Scala a Mattarella non gli faranno cambiare idea, perché «non vuole che si ripeta ciò che è accaduto con Napolitano» e mette in guardia dalle elezioni anticipate in caso di elezione di Draghi al Colle, perché «agli occhi della Commissione europea l’Italia ha bisogno di stabilità».
Professor Pasquino, il leghista Fontana dice che nelle strategie per il Colle il Carroccio guarderà in primis a Renzi. È sorpreso?
Assolutamente no. Fontana ha fatto un’analisi adeguata dei movimenti di Renzi, il quale tuttavia è assolutamente inaffidabile ed essere sicuri che mantenga quel che dice nella trattativa è tutta un’altra storia. Renzi è vicinissimo a Berlusconi, sono al governo insieme ed entrambi sostengono di essere stati loro ad aver voluto Draghi, quindi la vicinanza Lega- Italia viva non sarà un problema per il centrodestra.
Potrebbe esserlo per Giorgia Meloni, che già da ora dice che dopo l’elezione del presidente della Repubblica si deve andare al voto.
Non so cosa farà Meloni dopo l’elezione del presidente, dipende da che tipo di governo verrà fatto nel caso in cui venga eletto Draghi. Ma Meloni deve sfruttare il suo ruolo in una coalizione di centrodestra e quindi l’unica cosa da fare è aspettare le elezioni politiche.
A proposito di elezioni, come giudica la vicenda Letta- Conte- Calenda sul collegio di Roma I?
È stata una vicenda molto mal gestita. Letta non doveva offrire niente a nessuno. Doveva essere Conte semmai a offrire la sua candidatura e in quel caso Letta doveva dare il suo avallo. Che sia stato un errore di Letta o uno di Conte la storia è comunque bruttina. Calenda si candida a tutto, lo trovo sconveniente. È un parlamentare europeo eletto nella circoscrizione del Nord Est con i voti del Pd e quello deve fare, non altre cose assolutamente riprovevoli, come cercare di dimostrare che sia lui a dominare la scena romana. Non è questo il modo di fare politica che preferisco.
Coraggio Italia e Italia viva si stanno muovendo assieme per formare una pattuglia consistente nella corsa al Colle. Crede che lo schema sarà riproposto anche alle Politiche del 2023?
Per le Politiche del 2023 bisogna aspettare di vedere che legge elettorale verrà fatta. Potrebbe arrivarne una che garantisca il centro, ma se dovessi farla io la farei in maniera che il centro non conti, a prescindere dai nomi, perché serve una competizione bipolare, non una che dà potere di ricatto ai partitini. Per quanto riguarda la corsa al Colle possono fare tutte le prove tecniche che vogliono, ma bisogna capire quale sia il loro candidato. I nomi girano a dismisura e se ne hanno uno dovrebbero dirlo adesso, per poi andare a parlare con il centrodestra e con il centrosinistra. Ci sono 234 miliardi da spendere e devono essere gestiti dal Colle più alto di Roma.
Crede che i cinque minuti di applausi con tanto di cori “bis” a Mattarella potrebbero fargli cambiare idea?
Mattarella non vacilla per applausi o critiche. È un uomo che ha una certa concezione della politica e parla solo dopo aver riflettuto molto. Ha detto che non vuole essere rieletto e manterrà questa idea. Sette anni sono lunghi, sono stati abbastanza difficili e non vuole che si ripeta ciò che è accaduto con Napolitano. Gli applausi sono stati corretti, non ho apprezzato invece quelle urla di bis, le ho trovate un po’ fuori luogo. Hanno certamente rallegrato il presidente ma eravamo alla Scala, non a San Siro.
Entrambi, sia la Scala che San Siro, erano gremiti, mentre in diverse parti d’Europa stadi e teatri sono chiusi. Anche questo è stato un segnale della nostra ripartenza?
Sì, ma dobbiamo tenere presente che il pubblico della Scala non è rappresentativo del paese e forse Draghi dovrebbe chiedere a quelle persone il famoso contributo di solidarietà.
Che non è entrato in manovra per divergenze in maggioranza, con conseguente sciopero di Cgil e Uil. Cosa ne pensa?
Non credo sia il momento di fare scioperi. Anche perché lo sciopero non cambierà nulla, tranne forse indebolire un po’ Draghi e Orlando. Se questo è l’obiettivo di Landini può anche raggiungerlo ma credo che Landini sia un compagno che talvolta sbaglia ed esagera. Ho l’impressione che questo sindacato difenda i garantiti e non si occupi di garantire altri e mantenere in moto la macchina dell’economia e della società italiana. Servirebbe un dialogo che non c’è stato perché Landini spesso ha alzato la voce e Draghi ha alzato le spalle.
Pensa che Draghi sia stia stancato di tenere uniti parti così diverse e stia pensando di correre per il Colle per poi indire le elezioni?
Non credo. Primo perché ho l’impressione che agli occhi di coloro che ci danno i soldi, cioè la Commissione europea, l’Italia ha bisogno di stabilità, non di una campagna elettorale di due mesi e la vittoria magari di qualcuno con una visione europea diversa. Andare al voto con Draghi al Colle penso sia sbagliato.
Calenda ha fatto il nome della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Almeno questa idea del leader di Azione la convince?
Calenda ha scelto Cartabia perché è politicamente corretto individuare una donna, e in questo momento lei è la più visibile tra le donne. È una legittima candidabile e presidenziabile, ma non è l’unica e non risponde nemmeno a tutti i requisiti che secondo me servono, come ad esempio un’esperienza politica maggiore rispetto a qualche mese al ministero della Giustizia.
Chi avrebbe questi requisiti?
(Sorride, ndr) Certo mi farebbe piacere avere al Colle il mio amico Draghi o il mio amico Pier Ferdinando Casini, che incontro sempre alle partite del Bologna o della Virtus. Casini ha la storia di un democristiano di destra, moderato. Non ha mai insultato nessuno, è stato presidente della Camera, è il decano del Parlamento italiano. Se eletto sarebbe totalmente indipendente. Riequilibrerebbe il sistema politico con competenza certa. La stessa che avrebbe Giuliano Amato, che viene criticato perché è stato molto più efficace degli altri nella sua azione politica. Ma non porrei nessun veto nemmeno a Rosy Bindi.
Pubblicato il 8 dicembre 2021 su IL DUBBIO
Qualcosa che so sul semipresidenzialismo. Scrive Pasquino @formichenews


In verità il semipresidenzialismo non è né un parlamentarismo rafforzato né un presidenzialismo indebolito. È una forma di governo a se stante. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica
Il termine non fu coniato da de Gaulle, uomo di sostanza, e neppure da Maurice Duverger. Il giurista e politologo francese, favorevole all’elezione popolare diretta del Primo ministro, per uscire dalla palude parlamentare, fu un fiero oppositore (di de Gaulle e) del semipresidenzialismo. Poi, forse anche perché si accorse che funzionava alla grande, ne divenne il “teorico” e l’aedo. A inventare il termine fu, con un editoriale pubblicato l’8 gennaio 1959, Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano Le Monde. Molto critico di de Gaulle, affermò che al Generale non era neanche riuscito di arrivare al presidenzialismo, solo ad un quasi presidenzialismo, per l’appunto semipresidenzialismo. In verità il semipresidenzialismo non è né un parlamentarismo rafforzato né un presidenzialismo indebolito. È una forma di governo a se stante.
Ne era esistito un precedente troppo a lungo trascurato: la Repubblica di Weimar (1919-1933). La sua triste traiettoria e la sua tragica fine non ne facevano un esempio da recuperare. Il fatto è che Weimar crollò per ragioni internazionali e nient’affatto essenzialmente a causa del suo sistema elettorale proporzionale. Ad ogni buon conto de Gaulle volle e ottenne un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che spinge all’aggregazione delle preferenze laddove le leggi elettorali proporzionali consentono (non necessariamente producono) la disgregazione delle preferenze e la frammentazione del sistema dei partiti.
Il ministro leghista Giorgetti prevede, auspica, apprezzerebbe un semipresidenzialismo de facto. Nella sua visione, una volta eletto alla Presidenza della Repubblica Mario Draghi continuerebbe a guidare il “convoglio” delle riforme del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza attraverso un presidente del Consiglio di sua fiducia da lui nominato. Ho sbagliato a criticare la visione di Giorgetti, formulata con molte buone intenzioni. Potrebbe anche essere effettivamente l’esito che si produrrà. Naturalmente, il Parlamento italiano manterrà pur sempre la facoltà di sfiduciare il capo del governo scelto da Draghi, obbligandolo a nuove e diverse nomine. Vado oltre poiché rimane del tutto possibile che con elezioni anticipate oppure alla scadenza naturale della legislatura, marzo 2023, il centro-destra ottenga la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e rivendichi giustamente la carica di presidente del Consiglio.
Al proposito, i critici del semipresidenzialismo leverebbero altissimi lamenti contro la coabitazione fra Draghi e chi il centrodestra gli proporrebbe e giustamente vorrebbe fosse nominato. In Francia nessuna coabitazione, ce ne sono state quattro, ha prodotto lacerazioni politiche e costituzionali. Mi si consenta di essere assolutamente curioso delle modalità con le quali si svilupperebbe una coabitazione fra Mario Draghi e Giorgia Meloni.
P.S. Dei comportamenti semipresidenzialisti de facto di Napolitano (con Monti) e di Mattarella (con Draghi) scriverò un’altra volta. Sì, è una minaccia.
Pubblicato il 7 novembre 2021 su formiche.net
Giorgia Meloni disprezza l’autonomia del Quirinale @DomaniGiornale


Nel sistema politico italiano la Presidenza della Repubblica è una istituzione importante, dotata di poteri significativi a lungo sottovalutati. Quei poteri hanno cominciato a manifestarsi, non casualmente, con la Presidenza di Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), contemporaneamente con la sfaldarsi del sistema di partiti. Parlamentare di lunghissimo corso e convinto sostenitore del ruolo centrale del Parlamento italiano, Scalfaro si trovò quasi costretto a esercitare appieno i poteri di nomina del Presidente del Consiglio e di (non)scioglimento del Parlamento, dando alla Presidenza un importante compito di stabilizzazione e di riequilibrio.
Sulla scia di Giuliano Amato, formulai allora e precisai in seguito la metafora della “fisarmonica dei poteri del presidente”. Quando i partiti sono deboli, i Presidenti possono suonare la fisarmonica a loro piacimento avendo come limite soltanto la Costituzione. Se i partiti sono forti, ad esempio, in grado di dare vita a solide coalizioni di governo e di convergere sulla scelta del capo di governo, allora il Presidente terrà chiusa la sua fisarmonica. Scalfaro, Napolitano (2006-2013, 2013-2015), Mattarella (2015-2022) sono stati ripetutamente chiamati a suonare la fisarmonica, facendolo in maniera più che apprezzabile, anche supplendo alle inadeguatezze dei partiti e dei loro gruppi dirigenti. Il mandato di Ciampi (1999-2006) si è svolto in presenza di una coalizione guidata da Berlusconi e dotata di una ampia maggioranza parlamentare che non richiese nessun intervento.
Complessivamente, è valutazione diffusa che sia opportuno che il Presidente abbia la possibilità di esercitare pienamente i poteri attribuitigli dalla Costituzione. Non molto indirettamente, la proposta, difficile dire quanto estemporanea, di Giorgia Meloni, suscita molte perplessità. Cito: “siamo pronti a votare Draghi al Quirinale a patto che subito dopo si vada alle elezioni”. Il dato più evidente è che la proposta di Meloni è di stampo platealmente partitocratico: i partiti che riprendono il sopravvento sulle istituzioni, a cominciare dalla Presidenza della Repubblica. La condizione che viene posta a Letta, il quale, peraltro, ha già espresso la sua preferenza per la continuità dell’azione del governo guidato da Draghi fino alla conclusione naturale della legislatura (marzo 2023), mi pare irricevibile. Anzitutto, implica il trattare Draghi come un burattino ambizioso che, pur di diventare Presidente della Repubblica, è disposto a rinunciare non soltanto a portare a compimento la sua opera di ripresa e rilancio dell’Italia, ma addirittura alla sua autonomia decisionale. In secondo luogo, appena eletto il Presidente dovrebbe sentirsi obbligato, come primo atto della sua Presidenza, a sciogliere il Parlamento e a indire nuove anticipate elezioni.
Da sempre, sappiamo che nessun Presidente della Repubblica è “autorizzato” a sciogliere un Parlamento nel quale esista/e una maggioranza che sostiene un governo. Il Presidente può essere giustificato allo scioglimento se il governo appare fragile, ad esempio, venendo sconfitto in una o più votazioni su disegni di leggi significativi, e se la sua maggioranza risulta molto indisciplinata, non più operativa. Tuttavia, la valutazione e la decisione spettano al Presidente e lo scioglimento non gli può essere imposto meno che mai come adempimento di un accordo che menomi significativamente l’autonomia dell’istituzione presidenziale. Infine, quale credibilità, quale affidabilità, quale onorabilità avrebbe un Presidente eletto sulla base di un patto scellerato fra i partiti?
La fuga in avanti di Meloni è segno di nervosismo politico. Godere della rendita di opposizione non le basta più. Rischia di risultare irrilevante nella imminente elezione presidenziale e ancor più in tutte le scelte di un governo che sta all’opposto del sovranismo di Fratelli d’Italia. Ma la sua proposta rivela inconsapevolmente grave disprezzo per l’autonomia della Presidenza della Repubblica, e non solo.
Pubblicato il 6 ottobre 2021 su Domani
Tocca a Draghi decidere se andare o no al Quirinale @DomaniGiornale


Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica? Qualsiasi scenario deve prendere le mosse dalla premessa che la decisione sta nelle sue mani e nella sua mente almeno al 75 per cento. Premuto da più parti, inevitabilmente Draghi starà soppesando il pro e il contro di una sua eventuale, al momento probabile, elezione.
Immagino che contino nella sua valutazione considerazioni personali, politiche e istituzionali. La più alta carica dello Stato è un premio e un riconoscimento alla carriera che nessuno può rifiutare. Certo conta l’ambizione personale, che Draghi ha regolarmente saputo mantenere sotto controllo, ma conta anche il pensiero di quali compiti potrà ancora svolgere dal Quirinale.
Le considerazioni politiche discendono soprattutto da quanto Draghi riterrà che sia già stato fatto in materia di implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. Se le riforme necessarie e gli interventi di contorno saranno già ampiamente lanciati e messi in sicurezza, allora Draghi potrà anche pensare che lasciare al suo successore la prosecuzione di un lavoro importante non comporterà rischi.
Se, invece, non solo lo stato di attuazione non sarà sufficientemente avanzato, ma all’orizzonte vicino si vedessero nuvole, allora Draghi dovrà riflettere. La sua ascesa al Colle significa nell’immediato che bisognerà trovare un nuovo Presidente del Consiglio per un governo dei migliori privato del migliore di loro. Quel Presidente potrebbe, ma non sarà affatto un’operazione liscia e indolore, scaturire dalla maggioranza esistente, dunque, essere gradito tanto al Movimento 5 Stelle e al Partito Democratico quanto a Salvini e Berlusconi. Non c’è dubbio, però, che la ricerca di un successore all’altezza non sarà affatto gradita a Giorgia Meloni.
La sua richiesta di elezioni subito metterà in imbarazzo Salvini che forse non potrà permettersi di continuare nel sostegno a un governo senza Draghi e con chi sa quale altro Presidente del Consiglio. Certamente, Draghi e i suoi collaboratori, ma anche Mattarella, avranno esplorato quali nomi sarebbero disponibili e graditi in special modo al centro-destra.
Per Draghi sarà cruciale che il suo successore a Palazzo Chigi sia una persona che abbia dato mostra di condividere le scelte finora fatte, dotata di capacità di governo e certamente europeista.
Soltanto un previo accordo con Salvini e Berlusconi potrebbe offrirgli garanzie in questa essenziale direzione. Con un uomo o donna in grado di proseguire la sua opera a Palazzo Chigi, Draghi sarebbe nella posizione di offrire sostegno, consigli e orientamenti dal Quirinale.
Quanto alle considerazioni istituzionali, è vero che i politici in attività per di più in cariche operative, come la Presidenza del Consiglio, sono regolarmente stati esclusi dalla corsa al Quirinale, ma Draghi non è un politico di professione e ha accuratamente evitato di politicizzare nel senso negativo le sue scelte e decisioni.
Semmai, la considerazione istituzionale che più dovrebbe contare per tutti: dirigenti di partito, parlamentari, commentatori e, ovviamente, gli stessi Draghi e Mattarella, è nel non ripetere quanto successo con Napolitano: nessuna rielezione di Mattarella per fare fronte, temporaneamente, a un’emergenza. Il Presidente in carica è stato esplicito.
Questo pone Draghi di fronte alla scelta secca: sua elezione nel gennaio 2022 oppure attesa fino al 2029. La decisione è difficilissima. Inevitabilmente e giustamente, Draghi non si esprime, ma non è vero che “attenda gli eventi”. Cerca, invece, di orientare gli eventi per saperne di più. Buona fortuna a lui (e a noi).
Pubblicato i 11 agosto 2021 su Domani
Il semestre bianco non sarà la rivincita degli scontenti @DomaniGiornale
Stabilendo che negli ultimi sei mesi del suo mandato il Presidente della Repubblica non può sciogliere il Parlamento, i Costituenti avevano molto chiaro un obiettivo: impedire al Presidente di cercare di ottenere attraverso elezioni anticipate un Parlamento favorevole alla sua rielezione o all’elezione di un suo candidato. Quell’obiettivo non è affatto venuto meno e non basta affermare che nessun presidente è stato rieletto, se non, in circostanze eccezionali e controvoglia, Giorgio Napolitano. Infatti, alcuni Presidenti avrebbero eccome desiderato la rielezione e qualcuno avrebbe gradito potere indicare il suo delfino. Comunque, i Costituenti non pensarono affatto che nel semestre bianco i partiti si sentissero agevolati a scatenare la bagarre contro il (anche loro) governo proprio perché non ne sarebbe seguito lo scioglimento del Parlamento.
Coloro che oggi ipotizzano che dentro i partiti attualmente al governo, vale a dire tutti meno i Fratelli d’Italia, ci sia chi non aspetta altro che l’inizio del semestre bianco per impallinare e “fare cadere” il governo Draghi non solo esagera, ma, a mio parere, sbaglia. Altri scenari sono ipotizzabili, bruttini, ma meno foschi ed evitabili, contrastatabili con buone conoscenze istituzionali e saggezza politica (fattoi talvolta presenti anche nella politica italiana). Comincerò con lo scenario del Matteo tiratore, l’uno tira la corda; l’altro fa sempre il furbo. Né l’uno né l’altro possono permettersi di uscire dalla maggioranza, ma sia l’uno sia l’altro possono commettere errori. I numeri dicono che, probabilmente non seguiti da tutti i loro parlamentari, le loro scorribande non risulterebbero decisive. Dato per scontato e accertato che tanto il Partito Democratico quanto Forza Italia sosteng(o/a)no convintamente il governo, molto si gioca su quanto riusciranno o non riusciranno a fare i pentastellati, più meno mal guidati. Tuttavia, se mai cadesse il governo Draghi per un voto dello scontento pentastellato, il re-incarico da parte di Matterella sarebbe immediato e il Draghi-Due nascerebbe in un batter d’occhio con una maggioranza numericamente appena più ristretta, ma, potenzialmente, più operativa.
Due dati durissimi meritano di essere evidenziati e valorizzati. Il primo è quello del grado di approvazione dell’operato del Presidente Draghi. Fra i più elevati di sempre, si situa da qualche tempo intorno al 70 per cento: 7 italiani su 10 sono soddisfatti di Draghi, capo del governo, e poco meno dichiarano di approvare quanto fa il governo nel suo insieme. Il secondo dato è che questo semestre bianco cade proprio nella fase di primo utilizzo dei fondi europei. Tutti capiscono che qualsiasi interruzione avrebbe costi elevatissimi.
Draghi non deve comunque dormire sonni del tutto tranquilli. Anzi, dovrebbe cercare un confronto aperto con il Parlamento valorizzandone le competenze e apprezzandone le prerogative. Il semestre bianco, lungi dall’essere, voglio giocare con le parole, un grande buco nero che ingoia un governo con una maggioranza extralarge, ma anche extradiversa, ha la possibilità di mostrare al meglio le qualità di una democrazia parlamentare. Dietro l’angolo sta un non meglio precisato, arruffato presidenzialismo. Meglio andare avanti diritto cauti, dialoganti, collaborativi, con juicio. Le pazienti non-forzature sono la sfida più significativa che Draghi deve affrontare e che, superata, rafforzerà l’azione del suo governo per qualche tempo a venire. Almeno fino all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.
Pubblicato il 28 luglio 2021 su Domani
Eleggere o rieleggere, questo è il problema? #Mattarella @Quirinale
“Sono vecchio. Tra otto mesi potrò riposarmi”. Questa impegnativa dichiarazione è stata fatta dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un discorso ai bambini di una scuola romana affinché intendano non soltanto i loro genitori, ma anche il variegato mondo politico a cominciare dai parlamentari. Dirò subito che Mattarella si è giustamente messo sulla scia di Napolitano che qualche tempo prima della fine del suo mandato aveva detto che, sia per ragioni d’età sia per non creare un precedente, non era disponibile alla rielezione. Poi, Napolitano fu costretto dagli eventi, vale a dire dalla palese incapacità dei parlamentari di convergere su un nome alternativo, ad accettare un secondo mandato da lui subito definito a termine, un termine che lui stesso avrebbe stabilito. Ė possibile che Mattarella abbia il timore che i parlamentari si stiano già “incartando” nelle loro ambizioni e operazioni di potere. Quindi, il suo è un avvertimento, ma è altrettanto possibile che accetterebbe un secondo mandato ugualmente limitato, qualora, per esempio, qualcuno lo convincesse che lui rimanendo al Quirinale per un anno e mezzo circa, Draghi porterebbe a termine la legislatura.
Infatti, da un lato, ci sono coloro che desiderano eleggere Draghi al Quirinale, per il suo prestigio, per la sua statura europea e anche per meriti, quello che ha fatto come Presidente del Consiglio. Dall’altro, ci sono, però anche quelli che vorrebbero eleggere Draghi per avere elezioni subito poiché non sarà facile trovare un altro capo di governo in questo Parlamento. Per non interrompere l’azione di Draghi e trovarsi con una crisi al buio in una fase complicata, Mattarella potrebbe accettare una rielezione a termine. Tuttavia, preferisco interpretare la sua dichiarazione un avvertimento: “Cominciate subito a pensare al mio successore (anche donna) e preparatevi”. Mattarella ha anche sottolineato, punto che sembra trascurato nei primi commenti, che la Costituzione italiana delinea e sancisce il pluralismo degli organi decisionali. Non bisogna esagerare nell’attribuire alla Presidenza poteri che, invece, i Costituenti seppero assegnare a Parlamento e governo, alla Corte Costituzionale e alle autonomie locali.
Il messaggio è indirizzato tanto ai difensori della democrazia parlamentare: “fatela funzionare come si deve con chiara ripartizione di compiti e poteri”, quanto ai presidenzialisti: “oggi non potete chiedere al Presidente della Repubblica italiana un ruolo dominante”. Al momento della sua elezione, Mattarella disse che il Presidente è un arbitro. Poi, forse inevitabilmente, si è trovato a giocare in prima persona entro un perimetro flessibile. Chi renderà eccessivamente travagliata e conflittuale l’elezione del prossimo Presidente in maniera più o meno consapevole opera a favore di coloro che sosterranno che, a fronte di oscure manovre in Parlamento, è giunta l’ora che il Presidente, già dotato di molti poteri consistenti, sia eletto dal popolo. Non è questa la preferenza di Mattarella.
Pubblicato AGL il 20 maggio 2021
