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L’anno di Matteo Renzi
Sdoganati i gufi. Questo è uno dei messaggi che il Presidente del Consiglio ha voluto mandare nel suo ampio, puntiglioso, compiaciuto resoconto dell’anno ovvero dei primi dieci mesi del suo governo. Di gufi ne esistono due grandi tipi. Primo, quelli che criticano il governo e il suo capo. Per la prima volta, Renzi riconosce che sono gufi, se non buoni, almeno utili. Possono continuare a svolgere il loro lavoro anche perché, seconda importante concessione post-natalizia del Presidente del Consiglio, leadership è circondarsi di persone di valore che non necessariamente condividono le idee del leader (che, però, poi, fa come vuole lui!). Ben vengano, dunque, i gufi di valore. Invece, proprio non sono accettabili, i gufi che dicono che l’Italia non ce la farà, quelli che non hanno nessuna fiducia nel paese, che esprimono preoccupazione e rassegnazione. Dal canto suo, con parecchi eccessi, inevitabili, a causa del suo temperamento, ma anche consapevoli e voluti, il Presidente del Consiglio afferma che non soltanto l’Italia ce la farà, ma aggiunge che l’Europa e il mondo hanno bisogno dell’Italia molto più di quanto l’Italia abbia bisogno di loro (se questa non è un’esagerazione…). Chi può permettersi di fare a meno di un paese il cui governo in dieci mesi ha fatto (o iniziato) più cambiamenti positivi di tutti i settant’anni della Repubblica (forse un’altra esagerazione…)?
Non sufficientemente incalzato dai giornalisti, Renzi non ha mai dovuto spiegare la differenza fra riforme iniziate e riforme concluse, portate a casa direbbe il Presidente del Consiglio, nel lessico che cerca di tenere lontanissimo dal politichese. Per la legge elettorale, la prova provata della sua quasi approvazione è che addirittura già Renzi ha potuto sbandierare un facsimile di scheda elettorale dell’Italicum che contiene, qui è la notizia, anche lo spazio per due preferenze, ma la cui “logica”, contrariamente a quanto ha affermato, non ha proprio niente a che vedere con il Mattarellum. Sul Jobs Act Renzi non ha voluto precisare se la “libertà di licenziamento” si applicherà anche ai lavoratori del pubblico impiego. Non soltanto per chiarire questo delicatissimo punto, ha ripetutamente rimandato “alla Madia”, ovvero al disegno di legge di riforma della burocrazia, il cui percorso parlamentare appare, però, ancora molto lungo. Renzi si è vantato del fatto che il suo governo ha fatto poche leggi (senza dire quanti voti di fiducia ha richiesto) perché ha saputo sfruttare al meglio il ricorso ai regolamenti. Il Presidente del Consiglio ha inquadrato i famosi 80 euro in busta paga (già prorogati) non come misura per fare crescere i consumi (che, infatti, non sono cresciuti), ma come strumento, da valutare insieme al tetto posto alle retribuzioni dei manager pubblici, per ridurre le diseguaglianze sociali.
Scoraggiando le domande sulla successione al Quirinale e impartendo una lezioncina sulle modalità con le quali sono stati eletti i Presidenti, Renzi non ha mostrato alcuna preoccupazione per la scelta del prossimo Presidente, ma ha colto l’occasione per abbondare in lodi e in riconoscimenti a Napolitano, al quale, certamente, deve moltissimo. Infine, Renzi ha voluto battezzare una volta per tutte le sue modalità d’azione e di comunicazione: “meglio arroganti che disertori”. L’arroganza la si è vista tutta nella sua conferenza stampa accompagnata da una cospicua dose di autostima. Dei disertori non sappiamo i nomi. Difficile che qualcuno della vecchia ditta intenda autodenunciarsi. Saranno le prossime scadenze legislative e parlamentari nonché le votazioni sul Presidente della Repubblica a fare apparire almeno quanti sono. Tuttavia, ed è questo il messaggio definitivo che vale un po’ per tutti, il governo Renzi intende arrivare operando con alto ritmo fino al febbraio 2018 completando la legislatura. [Auguri a tutti di un Anno migliore da un gufo, spero di buona qualità, che non smetterà di criticare, le molte volte in cui lo crederà opportuno, né il governo né il suo capo.]
Pubblicato AGL 30 dicembre 2014
Giorgio ha fallito, avremo una successione farsa

Intervista raccolta da Emiliano Liuzzi
Ha appena ascoltato il discorso del presidente Giorgio Napolitano all’Accademia dei Lincei, Gianfranco Pasquino, politologo. Lo ha ascoltato e riletto. “Conosco il presidente e l’uomo politico dal 1983, e anche questo discorso ha il limite di tutti i suoi discorsi, non va mai oltre l’approccio che storicizza e non lo sfiora mai l’autocritica, quella politica. Non affronta il tema di quello che i partiti producono, né la cultura marxista dalla quale proviene“.
L’impressione è che abbia sparato nel mucchio.
Ci può anche stare, ma se ci si mette in gioco. E mi sarei aspettato autocritica anche sull’Europa, su quella grande utopia che è l’Europa. Ma non l’ha fatto.
Se l’è presa coi populisti. Ce l’aveva con Grillo?
Soprattutto con Grillo, ma il populismo non è solo quello. E non è solo Berlusconi. Populismo è quello di Salvini, lo è stato quello di Di Pietro e il tentativo di Ingroia, sono tutti esempi di populismo.
Anche su Renzi il presidente ha cambiato idea, da un po’ di tempo a questa parte. O è solo un’impressione?
Ha cambiato atteggiamento nei confronti di Renzi. Atteggiamento e approccio, almeno da un mese e mezzo.
È Renzi il banditore di speranza in un passaggio del discorso?
Ce l’ha con Grillo, ma indirettamente anche con Renzi. Dal quale, ripeto, il presidente da un mese e mezzo ha preso le distanze. In maniera sottile, ma assai evidente.
Lei crede che Napolitano abbia fallito?
Ha vinto nell’accettare l’incarico, forse. Quando il Paese non aveva né governo né un presidente della Repubblica, ma non ha ottenuto quello che voleva. Se per fallimento si intende essersi affidati a persone mediocri, a un manipolo di ipocriti, sì, ha fallito.
Non lascia una situazione migliore: c’è un governo che senza i numeri di Forza Italia traballa e un presidente da eleggere un’altra volta senza nessuna idea.
Lui ha provato a imporre il suo candidato.
E chi sarebbe?
Giuliano Amato. Questo credo che sia una verità incontrovertibile. Ma Amato non ha i numeri del Parlamento. E dunque non riuscirà a incidere sulla successione come in un periodo si era illuso di poter fare.
Chi sarà il prossimo presidente?
Non lo so. Non credo Amato. Vedo molta confusione, autocandidature, come quella di Pietro Grasso, che rivendica il suo essere seconda carica dello Stato, l’autocandidatura di Laura Boldrini e quella di Anna Finocchiaro, ma sono loro che giocano un’altra partita.
Difficile pensare a come possa finire.
Certo, se nel 2013 fu una tragedia, ho l’impressione che si vada verso una farsa. Proporre il nome di Riccardo Muti è una farsa. Non so come possa essere venuto in mente: il Paese ha bisogno di un politico, di un uomo delle istituzioni e che conosca la Costituzione, non di uno scienziato da esportazione.
Cosa si augura che faccia Napolitano, quando sarà il momento, come ultimo atto?
Spero che non nomini nessun senatore a vita e che lui stesso rinunci alla carica, come invece gli spetterebbe. Questo spero che lo faccia, sarebbe un atto fondamentale. Non sarà così. E non ci sarà nessuno che, invece che giocare al toto nomi, tracci il profilo di un presidente del quale l’Italia avrebbe bisogno.
Chi vuol essere #Presidente (della Repubblica italiana)?
Chi vuol esser Presidente (della Repubblica italiana)? Ci sarebbe da rappresentare, com’è scritto con estrema ed esemplare chiarezza nella Costituzione, “l’unità nazionale”. Cosicché non basta, come dichiara di sé, esemplarmente, Stefano Rodotà, già candidato dei grillini, ricordare “con amarezza” e non fare polemiche “per eleganza e riservatezza” sulla sua mancata elezione. Non basta neanche per Prodi sostenere che non c’è nessuna ferita da chiudere per l’agguato dei 101 franchi tiratori. Lo dica ai suoi loquaci e voraci sostenitori che, un giorno sì e l’altro pure, addirittura si mettono le T-shirts con quel numero, mentre noi continueremo a insistere per sapere con quali ragionamenti (o per quali ordini, “senza vincolo di mandato”) 394 parlamentari abbiano votato Prodi. Il fatto è che né l’uno né l’altro soddisfacevano allora né soddisferebbero oggi la condizione essenziale di cui sopra. Via gli uomini di parte (insieme alle donne di parte), si cominci a pensare anche a qualche altra non marginale qualità. Allora, i ventidue nomi messi in elenco da un quotidiano potrebbero essere cassati quasi tutti. E’ ipotizzabile che alcuni abbiano fatto balzi di gioia per l’inclusione, mentre i lettori più politicamente avveduti hanno sicuramente rabbrividito.
L’identikit del nuovo Presidente
Fermo restando che il first best continua a essere la prosecuzione della presidenza Napolitano fino a quando lui vorrà e potrà, qualsiasi identikit è legittimo purché argomentato. Il mio identikit preferito è un outsider, anche uomo, segnale per la Boldrini alla quale bisognerà pure fare sapere che dire “una donna” non è affatto sufficiente, sostiene “la casalinga di Voghera” che mi ha appena mandato un irritatissimo tweet dichiarando la sua immediata disponibilità (sostiene di saperne molto di più della cuoca di Lenin), bisogna dire un nome e giustificarlo convincentemente. Meglio sarebbe un professore di Scienza politica, magari emerito, con un buon passato di senatore della Sinistra Indipendente, che si è anche occupato professionalmente di istituzioni, Costituzione, legge elettorale, scrivendo importanti (sic) articoli e libri, tra cui l’ultimo dal titolo: Partiti, istituzioni, democrazie, Il Mulino 2014. Ah, assomiglia troppo al mio personale profilo? Non smentisco e non confermo. Dichiaro, però, che sono, s’intende per “puro spirito di servizio”, disponibile, ma che, purtroppo, non sono mai stato berlusconiano e non ce l’ho ancora fatta a diventare renziano. In attesa degli eventi, passo all’analisi e alla ricerca del third best.
Il duro compito dei successori
Napolitano ha spinto, per necessità e virtù, i poteri presidenziali all’estremo. I suoi successori rischiano di trovarsi in situazioni complicatissime nelle quali molto si chiederà loro, ma soprattutto indipendenza e autonomia di giudizio senza inchini al Patto del Nazareno. L’unico patto tollerabile e, in verità, fecondo, sarà quello con gli italiani. Quindi, il prossimo Presidente non dovrà essere eletto dal Parlamento dei nominati la maggioranza dei quali, altro che i 101, dà quotidianamente pessima prova di sé e dei loro dirigenti, ma dai cittadini italiani. Eccolo, è qui il very best: chi avrà il coraggio, sì, uomo e donna, di candidarsi in un’elezione popolare, chiarendo perché ritiene di avere le qualità richieste e spiegando che paese vuole rappresentare e contribuire a costruire. Dai candidati del 2013 e da quelli della lista ne sentiremmo di tutti i colori, ma potremmo farci un’opinione prima di non votare quasi nessuno di loro cercando di portare al ballottaggio i due la cui storia politica e personale, questa è la “narrazione” che conta, dia le migliori garanzie. Se, invece, com’è purtroppo altissimamente probabile, toccherà ai parlamentari nominati, dai quali non ci aspettiamo nessun scatto d’orgoglio, che almeno siano i candidandi a pronunciare qualche parola di verità e i mass media a estorcergliela. The worst has yet to come, ma, temendo il peggio, saremo in grado di attrezzarci.
Pubblicato il 12 novembre 2014 su Futuroquotidiano.it
Non si fida dei dilettanti, non lascerà a breve
“Napolitano non mollerà il Paese nelle mani di incompetenti. Ma deve chiarire cosa farà in futuro”
Intervista raccolta da Emiliano Liuzzi
Un passo avanti il Quirinale lo ha fatto: una nota, dove non si smentisce né si conferma, ma preferirei la chiarezza. Per ora siamo al campo delle ipotesi e io ho troppo rispetto per le istituzioni, non posso prendere per buono un retroscena”. Il professor Gianfranco Pasquino, politologo, in passato eletto come senatore nel centrosinistra, non crede alle dimissioni del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, entro fine anno, e comunque quello che non gli garba affatto è il metodo con il quale la notizia è arrivata.
Scusi professore, ma tutto sembra andare nella direzione che vuole il presidente dimissionario a fine anno.
Non direi. Fino a oggi devo basarmi sul retroscena di qualche quirinalista. Non sono abituato così. La presidenza della Repubblica è un passaggio troppo serio per essere affidato alle ipotesi o alle supposizioni. Questa è la mia prima esternazione.
Si getti anche lei nel campo delle ipotesi, per una volta: crede che Napolitano lascerà?
Se proprio devo azzardare dico di no, non si dimetterà entro breve. Il motivo è che non si fida di lasciare il Paese in mano a dilettanti sciagurati e preferisce rimanere. Questo ho sempre capito dalle sue parole. Ha sempre detto di avere a cuore la stabilità politica del Paese, dunque non gli resta che andare avanti. Poi se sono sopraggiunti altri motivi non lo so. Per questo dico che preferirei una nota ufficiale.
Mettiamo che lasci. Siamo ancora nel campo delle ipotesi.
La riflessione sarebbe più complessa. L’eredità che lascia Napolitano è ingombrante, probabile che vada ripensato anche il metodo di elezione del presidente della Repubblica.
Lei dice che è possibile pensare a un’elezione diretta del Capo dello Stato?
Napolitano, forse anche inconsapevolmente, o forse no, ha dimostrato che il presidente della Repubblica ha in mano un potere enorme. Questa è stata la missione del suo mandato. D’altronde, anche i più autorevoli costituzionalisti hanno sempre sostenuto che in caso di vuoto politico il Quirinale assumesse più poteri. E questo credo che sia accaduto. Ritengo possibile l’elezione popolare del Capo dello Stato. Sarebbe in linea con quello che abbiamo visto.
Ma il parlamento non perderebbe la sua più grande prerogativa? Quasi l’unica, visto che le leggi le fa il governo per decreto.
Intanto parliamo di un parlamento dimezzato, se dovessero andare avanti le riforme costituzionali. Per l’altra metà che prerogative dovrebbero avere? Sono una schiera di nominati, non sono stati eletti, sono stati scelti dai partiti.
Ma tecnicamente sarebbe possibile un passaggio del genere?
Basta aggiungere un articolo alla Costituzione senza toccarne altri, mi pare che le premesse ci siano.
Se dovesse fare una previsione sul nome?
L’età ce l’ho, conosco le istituzioni, una certa esperienza l’ho maturata. Ci sono però alcuni problemi sul mio nome.
Quali?
Non sono renziano, sono fuori dal patto del Nazareno e non sono donna.
E allora chi candidiamo?
Mi piacerebbe non parlare di nomi, ma di metodo. Walter Veltroni, quando candidò Carlo Azeglio Ciampi, fece il suo nome ed elencò dieci motivi per cui era doveroso appoggiare il suo nome. E Ciampi arrivò al Quirinale. Mi piacerebbe che oggi qualcuno dicesse: ok Veltroni per questa lunga serie di motivi.
E se dovesse scegliere lei?
Probabilmente fari i nomi di Giuliano Amato ed Emma Bonino. Hanno senso del dovere, conoscenza delle istituzioni e della politica. Ma per fortuna non scelgo io.
Pubblicata il 10 novembre 2014
Consulta e CSM ora un passo indietro
Sia la Corte Costituzionale sia il Consiglio Superiore della Magistratura sono organismi importanti nell’architettura del sistema politico italiano. Entrambi hanno compiti di rilievo già in tempi normali. Quando poi il governo intende, da un lato, riformare in più punti la Costituzione, dall’altro, attuare una ristrutturazione del sistema giudiziario, tanto la composizione della Corte quanto quella del CSM sono destinate a contare moltissimo sulla qualità e sui tempi delle riforme. In particolare, la Corte potrebbe essere nuovamente chiamata a valutare se la riforma elettorale proposta da Renzi risponde a tutte le pesantissime obiezioni con le quali i giudici costituzionali hanno sostanzialmente distrutto la legge vigente, detta Porcellum, a suo tempo formulata dall’allora Ministro delle Riforme Istituzionali Sen. Calderoli che incomprensibilmente riappare oggi fra i riformatori della sua riforma. In qualche modo, faticosamente e lentamente, il Parlamento sta arrivando al traguardo con l’elezione dei componenti non togati, ma forse non abbastanza “laici”, visto che alcuni sono parlamentari in carica, del prossimo Consiglio Superiore della Magistratura. Lo stallo per l’elezione dei due giudici costituzionali appare, dopo otto votazioni, piuttosto grave.
Preso atto dell’opposizione all’interno del partito stesso, Forza Italia, che lo aveva designato, uno dei candidati si è, molto a malincuore, dovuto ritirare. E’ stato rimpiazzato da un parlamentare potente, Donato Bruno, mentre il candidato del Partito Democratico, a sua volta parlamentare di lunghissimo corso (dal 1979 al 2008) e Presidente della Camera dal 1996 al 2001, Luciano Violante resiste. Adesso, in maniera del tutto irrituale, è sceso in campo anche il Presidente della Repubblica. Le parole di Giorgio Napolitano: “no a immotivate preclusioni” suonano come un sostegno neppure tanto implicito ai due candidati attualmente in lizza. Meritano, pertanto, attenzione e, credo, anche qualche osservazione critica. Non è possibile dire se la mancanza di due giudici in una Corte composta da quindici giudici ne pregiudichi il funzionamento. Nel passato, alcuni giudici hanno fatto sapere che, salvo in rari momenti di urgenza, la Corte può svolgere il lavoro di routine anche senza plenum. Legittimamente, il Presidente Napolitano desidera che tutti gli organismi costituzionali siano costituiti come si deve. Il suo intervento, però, suona sostanzialmente come una critica ai parlamentari, più di un centinaio, i quali, da una parte e dall’altra, si rifiutano di votare candidati “loro” o dell’altro partito. Napolitano sostiene che quelle preclusioni sono “immotivate”. Lui stesso apre con questo aggettivo un discorso complesso e importante.
E’ molto probabile che coloro fra i parlamentari che non votano Violante e non votano Bruno manifestino preclusioni, ma è altrettanto probabile che saprebbero motivarle. Oltre ai profili esageratamente partitici dei due candidati, che la stampa ha ripetutamente documentato, molti parlamentari potrebbero farsi forti di due argomentazioni. La prima è che i due candidati sono stati loro imposti e che il metodo di selezione, utilizzato a Largo del Nazareno e ad Arcore, non è risultato chiaro a nessuno. Insomma, per cariche tanto importanti sarebbe opportuno fare ricorso alla seppur fragile democrazia che dovrebbe esistere nei partiti. La seconda argomentazione è che parecchi di loro sarebbero perfettamente in grado di motivare la loro opposizione che, spesso, non è affatto “preclusione”, ma che, purtroppo, in questi casi (ma anche in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica), il Parlamento diventa un grande seggio elettorale e non un luogo di dibattito aperto e trasparente sulle qualità richieste ai candidati per ottenere quelle carche.
Insomma, il Presidente Napolitano sembra chiedere ai parlamentari di obbedire ai dirigenti dei loro partiti applicando gli accordi raggiunti in alto loco. I parlamentari dicono, con l’unico strumento che hanno a disposizione: il voto/non voto, che qualcosa non va e che quegli accordi non hanno prodotto il meglio. Forse toccherebbe ai candidati rinunciare a una estenuante elezione, che sarà comunque risicatissima, e a risolvere l’impasse con una nobile dichiarazione di ritiro, s’intende, ben motivato.
Pubblicato AGL(Agenzia giornali locali, Gruppo editoriale l’Espresso) 18 settembre 2014
Il Partito democratico: #Renzistasereno (di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi)
da L’Italia e l’Europa al bivio delle riforme. Le elezioni europee e amministrative del 25 maggio 2014, a cura di Marco Valbruzzi e Rinaldo Vignati, il primo e-book dell’Istituto Cattaneo scaricabile liberamente QUI
Il Partito democratico: #Renzistasereno
di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
(pag 115/126)
Premessa
Partiti e dirigenti politici italiani hanno regolarmente considerato le elezioni per il Parlamento europeo un modo per valutare anche il loro consenso nazionale. Trattandosi di elezioni che si svolgono in tutto il territorio italiano è sicuramente un modo legittimo e appropriato. Pur consapevoli della valenza europea del loro voto, è molto probabile che gli elettori lo utilizzino anche per esprimere il loro consenso o dissenso nei confronti delle politiche del governo, il loro apprezzamento o no per i diversi partiti, la loro valutazione dei dirigenti politici e delle loro proposte (che troppo spesso riguardano più le politiche nazionali che quelle europee). È assolutamente probabile che tutti questi elementi abbiano variamente pesato nelle votazioni del 25 maggio. Nel caso del Partito democratico e del suo segretario diventato presidente del Consiglio, le elezioni per il Parlamento europeo assumevano una rilevanza davvero particolare. Infatti, data l’ampiezza dell’elettorato, hanno costituito il primo test significativo non soltanto per ottenere informazioni sugli umori e sui malumori degli italiani, ma anche per acquisire indicazioni sul loro modo di vedere e di valutare gli importanti avvenimenti trascorsi dal dicembre 2013 (elezione alquanto trionfale di Matteo Renzi alla segreteria del Pd) al 23 febbraio (nomina a capo del governo del segretario del Pd) e ai mesi successivi1, densi di proposte di riforme incisive e impegnative, ma anche controverse.
Una campagna elettorale itinerante
Com’è noto, pesavano su Renzi sia le sue parole: «arrivare a Palazzo Chigi soltanto dopo un passaggio elettorale»; sia i suoi comportamenti: il benservito dato senza complimenti al compagno di partito Enrico Letta e la sua immediata sostituzione con l’approvazione della Direzione del Partito democratico, nella quale Renzi gode di una fin troppo ampia maggioranza non ostacolata dai due concorrenti sconfitti nella corsa alla segreteria, cioè, né da Gianni Cuperlo né da Giuseppe Civati. Quel che più conta, la nomina alla Presidenza del Consiglio era stata immediatamente e, in maniera inusuale, senza nessun commento, effettuata/ratificata dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Non è il caso di prendere in considerazione malposte e fuorvianti critiche relative al «non essere stato eletto» rivolte a Renzi.
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Ho una visione: il referendum sul Senato non farà bene al governo Renzi

Sostiene Napolitano, rivolto alle opposizioni allarmate (allarmiste?), che non bisogna agitare “spettri autoritari” contro la riforma del Senato e altre riforme renziane. Sosterrà Napolitano, rivolto al Ministro Boschi, al Presidente del Consiglio Renzi, ai loro solerti costituzionalisti di corte e agli ossequienti giornalisti di regime, che non bisogna agitare “spettri plebiscitari” come stanno facendo molti affannati renziani? Sostenere che, una volta approvata la riforma del Senato, il governo chiederà un referendum costituzionale non è una generosa concessione alle opposizioni. Piuttosto, è una sfida a quelle opposizioni: “si cercassero i voti popolari”. E’ anche una minaccia: il governo butterà sul piatto referendario tutto il suo peso per dimostrare quanto popolare è e quanto rappresentativo dell’elettorato italiano. L’opposizione, contatasi, pagherà il fio.
Però, la Costituzione, che gli improvvisati neo-riformatori stanno cambiando a colpi di maggioranza e tagliando con la ghigliottina, non consente a nessun governo di chiedere un referendum costituzionale. Il precedente del centro-sinistra che, approvata nel marzo 2001 una brutta riforma del Titolo V (tanto brutta che il governo Renzi vuole cambiarla), poi chiese un referendum confermativo e lo vinse nell’ottobre con il 34 per cento dei partecipanti, non è il miglior biglietto da visita. Nell’intermezzo, il centro-sinistra perse alla grande le elezioni politiche del maggio 2001.
Sostiene l’art. 138 che il referendum sulle modifiche costituzionali può (non deve) essere chiesto da un quinto dei parlamentari di una Camera oppure da cinquecentomila elettori oppure da cinque Consigli regionali. Non c’è menzione del governo. Nei modi e con i toni usati da Boschi, Renzi e i loro zelantissimi parlamentari e giornalisti, un referendum costituzionale chiesto dal governo – fuori dalla finzione che sarà il PD a imporre ai suoi parlamentari la disciplina di partito (Serracchiani la vorrebbe imporre anche al Presidente del Senato), che sarà il PD a raccogliere le firme dei cittadini, che saranno i Consigli regionali dove il PD ha la maggioranza a esprimersi a favore del referendum – , si configura come una domanda semplice “siete a favore o contro il governo?” Sostiene chi conosce la storia e la dinamica delle consultazioni popolari di questo tipo sa che la campagna elettorale e l’evento non configurerebbero un referendum, ma un plebiscito. Chi non può “agitare” riforme fatte bene, agita qualche spettro plebiscitario.
Pubblicato su Futuroquotidiano.com 26 luglio 2014
Tagliole, ghigliottine e paralisi
La riforma del Senato deve avere qualche problema serio. Il testo, già abbondantemente rivisto rispetto alla sua stesura iniziale, è finito proprio nella palude di migliaia di emendamenti dai quali non uscirà, come vorrebbe il velocissimo Matteo Renzi. A suo sostegno, in maniera del tutto irrituale, è sceso in campo, credo proprio che sia il verbo giusto, addirittura il Presidente della Repubblica. Colui che è stato uno dei più convinti e coerenti “parlamentaristi” italiani ha affermato che è da tempo che il bicameralismo paritario (non, per favore, “perfetto”) deve essere riformato. Preoccupato dalla paralisi parlamentare, il Presidente, che pure ha conosciuto non pochi ostruzionismi quando era deputato, mercoledì ha addirittura convocato il Presidente Grasso per invitarlo ad accelerare. Martedì, in un altro discorso, curato, come solo lui sa fare, in ogni particolare lessicale, Napolitano aveva smentito qualsiasi scivolamento autoritario a effettuare il quale non sarà certamente sufficiente nessuna riforma del Senato. Sul punto, il Presidente ha sicuramente ragione, ma coloro che denunciano involuzioni autoritarie guardano al quadro complessivo che include anche la legge elettorale nel testo approvato dalla Camera e alle maggiori difficoltà con le quali i cittadini potranno accedere al referendum.
Curiosamente, proprio i giornalisti parlamentari ai quali Napolitano ha espresso le sue posizioni istituzionali, hanno messo in secondo piano le severissime critiche presidenziali alla legge elettorale. Infatti, nel resoconto virgolettato del “Corriere della Sera” (non un quotidiano di opposizione dura e pura), si legge che il Presidente ha dato per scontato che il testo approvato alla Camera venga “ridiscusso con la massima attenzione per criteri ispiratori e verifiche di costituzionalità che possono indurre a concordare significative modifiche”. Se qualcuno sostenesse che il Presidente Napolitano, al quale spetterà poi di promulgare la legge, ha affossato l’Italicum nella sua versione attuale, sarebbe vicinissimo al vero. E’ possibile che l’intenzione di Napolitano fosse di far sapere al Presidente del Consiglio Renzi che, invece di flettere i muscoli in estenuanti prove di forza, di piazzare tagliole e di proporre ghigliottine agli emendamenti dei senatori, farebbe meglio ad andare a qualche trattativa anche perché nella legge elettorale molte modifiche saranno indispensabili.
Da sempre Napolitano ha detto di preferire che, per fare le riforme istituzionali, si produca un’ampia convergenza, mentre, fin dall’inizio Renzi ha scelto la strada della piccola convergenza con Berlusconi e con il suo ancor più rimpicciolito partito dopo le elezioni europee. I Senatori di Forza Italia non sembrano convintamente convergenti cosicché l’eventuale maggioranza riformatrice finisce per essere appesa a pochi voti. Al Senato non si sta combattendo una battaglia, come si dovrebbe, per fare cambiare verso all’Italia. La battaglia ha una posta più grande e sostanzialmente sbagliata: non perdere la faccia. Renzi sostiene di avere ottenuto un mandato dal 40,8 per cento di elettori che lo hanno votato alle Europee, ma che, appunto, erano le elezioni per il Parlamento europeo, non per la riforma del Senato italiano. Gli oppositori della riforma non stanno semplicemente difendendo posto di lavoro e indennità, una brutta accusa formulata dal Presidente del Consiglio e dai suoi zelanti sostenitori. La maggioranza di loro hanno una storia politica che può chiudersi in questa legislatura poiché dispongono di una professione alla quale tornare. Gli oppositori stanno proponendo una riforma diversa che, in maniera tutt’altro che truffaldina o episodica, coinvolga anche la Camera, sicuramente ipertrofica e mai impeccabile nel suo funzionamento, come sa Napolitano che ne fu Presidente (1992-1994). In assenza di una legge elettorale decente e nel semestre europeo di presidenza italiana, la minaccia di un ritorno alle urne è spuntata. Nessuna tagliola e nessuna ghigliottina: meglio un saggio ritorno al confronto su pochi punti.
Pubblicato circuito AGL il 25 luglio 2014
Mario Mauro cacciato per puntellare le riforme di Napolitano
Intervista di Pietro Vernizzi pubblicata su il sussidiario.net mercoledì 11 giugno 2014
IL CASO/ Pasquino: Renzi ha cacciato Mauro per puntellare le riforme di Napolitano
“Non potevo mancare visto il temporaneo prolungamento del mio mandato che cerco di esercitare, nei limiti del possibile, fermamente e rigorosamente nell’interesse del Paese”. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione dei premi David di Donatello in Quirinale. Il capo dello Stato ha aggiunto: “L’interesse generale del Paese suggerisce cambiamenti e riforme in molti campi, anche in quello istituzionale”. Il presidente della Repubblica è dunque tornato a sollecitare le riforme. Si tratta di capire che cosa è mutato, nel frattempo, nello scenario politico. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica nell’Università di Bologna.
Che cosa vuol dire il segnale di Napolitano ai partiti, proprio quando dopo le Europee le riforme sembrano allontanarsi?
Proprio perché sembrano allontanarsi, Napolitano ricorda che le riforme andrebbero comunque fatte entro tempi decenti. Anche perché probabilmente Napolitano non ha intenzione di rimanere ancora per molto tempo al suo posto.
In questo momento qual è l’interesse di Renzi? Fare le riforme o no?
L’interesse di Renzi è approvare le riforme, purché siano fatte bene. Occorre quindi una pausa di riflessione, in quanto la riforma del Senato così com’è non v a bene. La riforma della legge elettorale è stata pensata in un sistema politico e partitico diverso, che dopo le elezioni europee è cambiato. La riforma elettorale non va comunque pensata con riferimento a interessi di corto periodo, in quanto al centro dovrebbe avere il fatto di dare più potere agli elettori. Mentre così come l’hanno congegnata Renzi e Berlusconi, sembra avere come obiettivo il fatto di mantenere al potere i due grandi partiti, Pd e Forza Italia. Il primo è diventato un po’ più grande, il secondo un po’ più piccolo, e a questo punto gli interessi dei due partiti divergono.
L’esito dei ballottaggi delle amministrative deve preoccupare Renzi?
No, il segretario del Pd non deve essere preoccupato perché lui non ha fatto campagna elettorale né a Livorno, né a Padova (dove hanno vinto rispettivamente il Movimento 5 Stelle e il centrodestra, ndr). Uno dei suoi più stretti collaboratori, Giorgio Gori, ha comunque vinto a Bergamo. L’effetto-traino di Renzi del resto si è registrato alle Europee, che si sono svolte su tutto il territorio nazionale, mentre alle amministrative al contrario contano molto i fattori locali.
Renzi può permettersi di mettere le riforme in agenda senza andare allo scontro?
Assolutamente sì. Renzi ora può mettere le riforme in agenda insieme a Scelta Civica e al Nuovo Centro Destra, che sono i partiti che fanno parte della coalizione di governo e che quindi avrebbero la maggioranza assoluta per approvarle. E’ con loro che deve discuterne, che poi Berlusconi ci sia o non ci sia è un fatto irrilevante e anche a Renzi non dovrebbe importare.
Qual è la vera potenzialità del 40% del Pd per le riforme di Renzi?
Non è una questione di numeri, ma di intelligenza e di adeguatezza delle riforme. Se il presidente del Consiglio attua delle buone riforme, l’intero Partito democratico lo seguirà. Nel frattempo ci sono le elezioni del nuovo presidente del Pd.
Per Renzi sarà un nuovo grattacapo?
Non necessariamente, credo che ci siano altre tre o quattro buone candidature, Renzi naturalmente ha una maggioranza solida nell’assemblea nazionale e quindi può decidere se vuole puntare a prendere tutto, e allora sosterrà un candidato che gli sia vicino, oppure se vuole essere generoso e scegliere una personalità a prescindere dal fatto che sia o meno renziana.
Lei ritiene che la favorita sia Paola De Micheli?
Paola De Micheli va benissimo: è una donna competente, capace, dotata di abilità politica e con un trascorso bersaniano che secondo me non è affatto da disprezzare.
Che cosa ne pensa dell’estromissione di Mario Mauro dalla commissione Affari costituzionali?
I gruppi parlamentari hanno il potere di sostituire i loro rappresentanti nelle varie commissioni. Noi possiamo non gradire le modalità con cui ciò avviene, ma resta il fatto che il potere spetta ai gruppi parlamentari. Questi ultimi designano e revocano, se poi c’è anche un obiettivo futuro lo vedremo. Dipenderà da come voterà Lucio Romano, colui che ha sostituito Mario Mauro.
Ma qual è il significato complessivo di questa operazione?
Il significato complessivo è che queste riforme preparate in fretta e furia da Renzi traballano, e quindi cercano di puntellarle non con l’intelligenza istituzionale, ma con un ricambio politico dei parlamentari che sono meno sensibili al richiamo del partito, e invece più sensibili al contenuto della riforma.
Pietro Vernizzi
Dal Colle risposta senza ambiguitá
Ancora una volta costretto a salvare capra e cavoli, ovvero Berlusconi e le larghe intese da lui stesso volute, il Presidente Napolitano ha dimostrato che cosa è in grado di fare una persona con la sua biografia e la sua cultura politica.
La capra Berlusconi si è costruita il suo destino e adesso è giusto che ne paghi le conseguenze. E’ persino “democratico” che chi ha usato il suo potere per favorire le sue attività economiche, qui sta l’essenza inconfutabile e irredimibile del conflitto di interessi, ne paghi, avendo violato la legge, il fio con l’esclusione dai pubblici uffici da lui subordinati agli affari privati.
Chi deve, in qualche modo, essere “salvato”, non in quanto persona, ma in quanto ruolo, è il capo dell’opposizione. Non è, per rimanere in metafora, una questione di lana caprina, ma attiene al buon funzionamento di un sistema politico democratico.
Non proprio per bontà sua e neppure per le sue più che dubbie capacità di governo, Berlusconi ha aggregato e dato fiato a forza ai conservatori italiani, non ai liberali tranne che a quelli che sono poco liberali e molto anti-“comunisti” e alla destra nelle sue più varie incarnazioni. Entrambi meritano rappresentanza, alcuni meriterebbero rappresentanza più adeguata. In mancanza di meglio, Berlusconi era diventato la loro icona, il loro eroe.
In tempi difficili, che non hanno soltanto radici lunghe, ma propaggini future indefinite, lasciare privi di rappresentanza molti ceti sociali, quasi un terzo dell’elettorato italiano, può piacere sia ai terribili semplificatori (la sinistra ipergiustizialista) sia a coloro che non sono riusciti a sconfiggere Berlusconi per via politica (ma ne hanno gradito eccome la sconfitta, doverosa, per via giudiziaria), ma squilibra il sistema.
Tuttavia, il compito della rappresentanza è politico e, Napolitano lo sottolinea, dovrà essere risolto dal PdL secondo modalità politiche. Non è soltanto alla divisione dei poteri che si é richiamato Napolitano quanto, maggiormente, alla sfera di autonomia del potere giudiziario, troppo spesso criticata dai berluscones che vorrebbero ridurre la magistratura ad una sorta di ufficio disbrigo pratiche purché le pratiche non siano quelle delle malefatte della politica. La magistratura è, nella autorevole valutazione del Presidente, il guardiano della legalità.
Premuto dal PdL e dai suoi organi di stampa, Napolitano, anche con un malcelato senso di fastidio, si è, dunque, pronunciato chiarissimamente. Le sentenze si rispettano accettandole e eseguendole nei tempi dati. Il resto, che in materia di processi pendenti per Berlusconi non é affatto terminato, si vedrà. Il Presidente Napolitano non promette nulla se non la rigorosa attuazione delle leggi vigenti. La sua nota è tutta improntata dalla preoccupazione che il governo continui nella sua indispensabile e improrogabile opera di risanamento, iniziata anche il contributo di Berlusconi in tale senso. Oltre non può andare.
Sono due gli elementi da sottolineare nella nota presidenziale. Il primo elemento é che Napolitano ha ritenuto che le pressioni anche eccessive del Popolo della Libertà meritassero una risposta puntuale, esauriente e tempestiva. Il secondo è che viene messo in evidenza che, al disopra del destino dei singoli protagonisti, persino dei più importanti e dei più influenti, sta la funzionalità e la vitalità del sistema politico.
Per la stragrande maggioranza dei cittadini democratici, l’interpretazione presidenziale è assolutamente soddisfacente e convincente. E’ opportuno che anche tutti coloro che da Berlusconi hanno avuto una personale gratificante agibilità politica, che le loro capacità da sole non avrebbero mai garantito, accettino la lezione presidenziale e si mettano a fare politica per costruire un partito rappresentativo dei loro ceti di riferimento, ma soprattutto per appoggiare un governo in grado di fare le riforme, non solo istituzionali e elettorali, ma soprattutto le riforme economiche e sociali che rendano la società più dinamica e più giusta.





