Home » Posts tagged 'Giuseppe Conte'
Tag Archives: Giuseppe Conte
Solo un campo largo può far vincere la sinistra @DomaniGiornale


Scrutare nelle viscere di elezioni amministrative che riguardano forse un quinto dell’elettorato, in comuni molto diversi fra loro e diversamente governati, con sindaci uscenti, sindaci alla ricerca del secondo mandato, tabula rasa con new entries, è un esercizio difficile per osservatori raffinati. Tuttavia, è cosa buona e giusta esercitarvisi poiché i voti rivelano sempre qualcosa di interessante. La prima osservazione è che a livello nazionale non ha fatto la sua comparsa nessuna tematica nuova di tale importanza da influenzare gli esiti locali. In secondo luogo, nessuno dei contendenti ha saputo suggerire qualche novità/innovazione. Al contrario, molto si è giocato sulla continuità/continuazione e l’effetto inerzia abitualmente va a favore di chi governa senza dare grattacapi alla cittadinanza Infine, non si sono visti errori clamorosi. In buona sostanza, dunque, nel voto al primo turno la differenza l’hanno fatta le candidature e le alleanze. Ai ballottaggi, in particolare laddove i distacchi sono contenuti, oltre alle candidature, decisive saranno le alleanze.
Baloccarsi con la democrazia compiuta che per molti significa non soltanto la possibilità, ma la realtà dell’alternanza pensando che sia prodotta o quantomeno facilitata dalla legge elettorale è semplicistico benché non essenzialmente sbagliato. A far vincere il centro-destra, ieri (e forse anche domani) a livello nazionale è stata la capacità di costruire, mettendo a tacere i riluttanti, una coalizione. Sbeffeggiare Enrico Letta che voleva, con una modica dose di velleitarismo, un “campo largo”, è certamente un errore sgradevole. Se coloro che ritengono inadeguato in termini di politiche e nocivo in termini di valori il governo di centro-destra, non sanno/non vogliono offrire una coalizione alternativa, ma preferiscono geometrie variabili opportunistiche, sarà il caso che mettano in conto molte sconfitte future.
Poiché i numeri contano, nel centro-sinistra talvolta possono essere (quasi) determinanti i dirigenti del sedicente Terzo Polo. Però, peso maggiore e conseguentemente responsabilità maggiore la porta Giuseppe Conte. A livello locale, il Movimento 5 Stelle, ancorché non marginale, spesso non ha abbastanza radicamento. Ai ballottaggi i suoi elettori andranno in ordine sparso, per lo più votando il candidato di “area”, spesso PD, altrimenti rifluendo nell’astensione. A livello nazionale quel 15 per cento potrebbe essere, probabilmente sarà (scommetto sul futuro) decisivo. Ne sapremo molto di più quando disporremo dei dati delle elezioni per il Parlamento europeo. Prima di allora, qualche elemento utile verrà dai ballottaggi poiché saranno gli elettori stessi a mostrare le loro preferenze, seguendo oppure no le eventuali indicazioni di Conte (temo che impersonerà Ponzio Pilato, come lui sbagliando). Ottimisticamente, Il proverbio dice “sbagliando s’impara”.
Pubblicato il 17 maggio 2023 su Domani
Le inadeguatezze politiche e identitarie delle opposizioni @DomaniGiornale


Come reagire di fronte alle politiche del governo di destra-centro? (In)comprensibilmente, le opposizioni stanno già dando immediata prova della loro inadeguatezza. Il governo Meloni prosegue in alcune scelte preannunciate dal governo Draghi, ad esempio, il reintegro del personale sanitario NoVax (pochi medici molti infermieri e collaboratori vari), le opposizioni si esercitano sulla critica invece di portare elementi e dati a sostegno di una politica di maggiore cautela. Il governo mette in cima alle sue priorità l’ordine pubblico (gestione e conclusione senza violenza del rave party di Modena), le opposizioni spostano, anche giustamente, l’attenzione sulla marcia di Predappio da loro poco o nulla contrastata nel passato. Il governo Meloni emana decreti, le opposizioni con la coda di paglia non denunciano la decretazione d’urgenza su tematiche sulle quali è lecito chiedere il passaggio parlamentare e sfidare la compattezza della maggioranza. Non so se possono spingermi fino a ricordare a mio rischio e pericolo al Presidente Mattarella che i decreti debbono essere omogenei come materia e che l’omogeneità non può essere data dall’urgenza, peraltro dubbia e talvolta procurata ad arte. Le opposizioni che denunciano le politiche “identitarie” pensano, forse, che l’elettorato di Fratelli d’Italia e della Lega (l’identità di Forza Italia mi è sfuggita da tempo) non apprezzi esattamente gli elementi che fanno di quei due partiti qualcosa di molto lontano e molto diverso dal PD, soprattutto, ma anche, nell’ordine, dal Movimento di Conte e dalle Azioni (proto: al plurale!) di Calenda e di Renzi? E che siano proprio le pallide/issime identità delle opposizioni, a cominciare da quella del Partito Democratico, uno dei loro problemi, quasi il principale? In effetti, il problema principale delle opposizioni è che continuano nella loro campagna elettorale permanente stando nel loro recinto ovvero cercando strapparsi reciprocamente qualche spazio e qualche voto a futura memoria, criticandosi, invece di individuare i punti di contatto e di collaborazione possibile e facendo leva su di loro.
Nelle sue diverse uscite pubbliche, la Presidente Meloni ha richiamato la sua maggioranza alla “compattezza e alla lealtà”. I numeri delle varie votazioni finora avvenute la hanno sicuramente confortata. Forse ha anche sorriso (cosa che agli arcigni oppositori, alcuni dei quali assolutamente privi di sense of humour non riesce proprio) di fronte all’attivismo in parte folkloristico in parte patetico di Salvini che corre sempre a dichiarare per primo. Il body language di Giorgia Meloni rivela una quasi assoluta sicurezza di essere in controllo della sua maggioranza. Vero: non è “ricattabile”. Vale la pena di perdere tempo e fiato per tentare di spingerla all’indietro in un passato che non fa fatica a dichiara che non le appartiene? Si guadagnano voti e si incrina la maggioranza con il richiamo di una storia che probabilmente la maggioranza degli italiani non conosce a sufficienza e certo reputa meno inquietante del prezzo del gas e del costo del carrello della spesa? No, il governo Meloni non cadrà e non cambierà linea leggendo i tweet di Letta, Conte e Calenda e neanche quelli del manovriero Renzi. In una democrazia parlamentare una opposizione intelligente sposta la battaglia nelle Commissioni e nelle aule del Parlamento. Si attrezza per il controllo di quello che il governo fa, non fa (sic), fa male e per la controproposta che farà ossessivamente circolare sui mass media grazie ai suoi intellettuali da talk show e nelle circoscrizioni elettorali grazie ai suoi molti parlamentari paracadutati/e.
Pubblicato il 2 novembre 2022 su Domani
Lezioni dal Parlamento, cosa abbiamo imparato secondo Pasquino @formichenews

Il centrodestra è davvero compatto? Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il Paese. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e accademico dei Lincei, autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet) e curatore di Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani)
Dimenticheremo presto, spero, i discorsi, meno i trascorsi, dei neo-Presidenti di Senato (Ignazio La Russa) e Camera (Lorenzo Fontana). Li aspettiamo alla prova mentre nei nostri occhi sono rimaste le memorabilia fasciste gelosamente custodite e generosamente esibite da La Russa e nelle nostre orecchie risuonano le affermazioni omofobe e (filo)putiniane di Fontana. Il centro-destra poteva fare meglio, ma almeno già sappiamo che il prossimo Presidente della Repubblica non verrà dalle due più alte cariche del Parlamento. Abbiamo anche visibilmente imparato che sui nomi il centro-destra è tutto meno che compatto. Va a prove di forza e a scontri finendo, seppure in maniera involontaria, di inserire qualche puntuto cuneo nei ranghi delle opposizioni. Queste, Partito Democratico, Movimento del Conte, Calenda e Renzi (i cui protagonismi non stanno nella stessa stanza per ragioni di stazza), promettono di essere dure, intransigenti, ad oltranza, ma qualcuno pensa che il suo voto potrà valere un incarico a futura memoria. Questa è la politica, commenta un ex-dalemiano su twitter. No, questo è soltanto una delle incarnazioni della cattiva politica che infanga la politica e dà la colpa ai populisti che, irresponsabili, incassano, gongolano e passano oltre. L’incasso non tarderà.
Il quesito è, ma doveva già essere stato sollevato dai commentatori troppo spesso genuflessi, se le due elezioni parlamentari, in misura diversa, non segnalino che il centro-destra è tutto meno che compatto. Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il paese. Fra breve vedremo più acutamente alcuni di questi scontri sui nomi dei ministri, anche donne. Politici e tecnici per me mai pari sono, ma in una democrazia decente entrambi verrebbero nominati con riferimento a competenza, esperienza e lealtà (elemento da non trascurare mai) politica che per me va al capo del governo e al programma sottoscritto, non ai capi dei partiti che, invece, a loro volta, dovrebbero essere impegnati e giudicati sul programma. Ne vedremo delle belle (sic) e delle brutte (ri-sic), ma è giusto esigere motivazioni articolate per entrambe. Poi, naturalmente, i voti contano e, temo, conteranno anche alcuni ricatti.
Lascio i ricatti alle loro nefaste traiettorie, e concludo con i ricordi. Il ricordo più bello è quello di una elegante signora novantenne che rappresenta un pezzo di storia d’Italia e d’Europa, del fascismo e della nazismo, dell’antisemitismo e delle discriminazioni, della democrazia. La senatrice a vita Liliana Segre, nominata da Mattarella, ha sintetizzato in poche precise e ammirevoli parole che cosa i politici (e i cittadini) dovrebbero fare per un’Italia migliore: applicare la Costituzione, seguendola anche, anzi, soprattutto, se la si vuole riformare (art. 138). Metaforicamente, il dito della Sen. Segre, che non sarebbe stata lì se il fascismo non fosse stato sconfitto, indicava la luna, ma non guardate solo la luna, guardate anche di chi è quel dito. Di una grande donna che testimonia che è possibile combattere, con perseveranza e grazia, odio e ingiustizie e vincere.
Pubblicato il 15 ottobre 2022 su Formiche.net
Verso il 25 settembre, il voto più utile è degli indecisi @formichenews

Il voto davvero utile, meglio più utile, ovvero più incisivo, sarà quello degli indecisi e dei potenziali astensionisti. Occhio, dunque, a quale coniglio/a uscirà da quale cappello nelle quarantotto ore prima del voto. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e Professore Emerito di Scienza politica e autore di “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet 2022)

Raramente ho assistito a una campagna elettorale tanto prodiga di informazioni sui leader, sui partiti, sulle tematiche. Sono giunto alla conclusione che se la campagna viene definita “brutta” è come la bellezza: sta negli occhi di chi, commentatori di poco senno e fantasia, la guarda (o forse no: guardano solo i concorrenti, per “copiarli”). Sappiamo che Giorgia Meloni, una volta richiamato Draghi, è la front runner. Sta conducendo una campagna elettorale il cui punto d’arrivo potrebbe essere Palazzo Chigi. Atlantista per sua definizione, si è convincentemente collocata dalla parte dell’Ucraina, ma si è trovata appesantita da un passato che non passa, e che qualche saluto fascista riporta all’ordine del giorno, e dalla sua appartenenza di genere che non sa né respingere né valorizzare. La zavorra più pesante e per lei (ma anche per gli italiani tutti) è il suo incomprimibile, indeclinabile sovranismo che si accompagna a deplorevoli compagni (oops, chiedo scusa) di strada: da Orbán a Vox. Se nell’elettorato italiano è passato il messaggio che, forse troppo poco troppo tardi, il Partito Democratico di Letta ha cercato di mandare: “tutto con l’Europa niente fuori d’Europa”, allora il consenso presunto per i Fratelli d’Italia potrebbe risultare ridimensionato. Chi con qualche strambato di cui non era ritenuto capace ha risollevato il suo consenso che sembrava in caduta libera è Giuseppe Conte.
Ambiguo la sua parte sia sull’Unione Europea sia su come affrontare l’aggressione russa all’Ucraina, Conte può ringraziare gli attacchi mal posti e male argomentati al reddito di cittadinanza, l’unica riforma davvero innovativa che il Movimento 5 Stelle di governo possa effettivamente rivendicare. Che i voti per i pentastellati di lotta crescano nel Sud rispetto a previsioni fosche è dovuto all’impatto positivo del reddito di cittadinanza e alla volontà di difenderlo. Anche su questo gli elettori hanno ricevuto utili informazioni. Immigrazione e sicurezza, scuola e sono finiti in secondo piano perché maiora premunt, c’è qualcosa di più importante destinato a essere una sfida duratura. No, personalmente non me la sento mai di parlare a nome degli italiani, ma il prezzo del gas e, più in generale, del carrello della spesa sono le due criticità che non ci abbandoneranno troppo presto. Non sarà il governo prossimo venturo a risolvere il problema. In verità, nessun singolo governo europeo ha la chiave della soluzione. Solo gli europei europeisti possono approntare una difesa decente e passare all’attacco con una politica energetica concordata.
Berlusconi ha rapidamente capito che il suo aggancio con il Partito Popolare Europeo è importantissimo per Forza Italia e, impostosi garante del (governo di) centro-destra, ha ipotecato i Ministeri degli Esteri e dei Rapporti con l’Europa. Però, ma non ce la fa proprio ad abbandonare la tassa che non è né piatta né, poi, neppure tanto bassa come quella proposta dal giocatore d’azzardo Matteo Salvini a corto di tematiche e di fiato. A testa bassa sia per tentare di trovare l’agenda perduta, quella di Draghi, sia per incornare il Partito Democratico, i quartopolisti Calenda e Renzi non hanno lasciato traccia nella campagna elettorale. Ma anche questa è una notizia utile per gli elettori. Ne sappiamo tutti di più. Certo, partivamo con le nostre preferenze che probabilmente sono cambiate di pochissimo (rispetto ai sondaggi). Alla fine, il voto davvero utile, meglio più utile, ovvero più incisivo, sarà quello degli indecisi e dei potenziali astensionisti. Occhio, dunque, a quale coniglio/a uscirà da quale cappello nelle quarant’otto ore prima del voto. Faites vos jeux. Ma, in democrazia non finisce qui.
Pubblicato il 22 settembre 2022 su Formiche.net
Soltanto il PD si oppone davvero alle destre @DomaniGiornale


Non deve essere così grave il pericolo fascista rappresentato da Giorgia Meloni se, da un lato, Calenda-Renzi, dall’altro, il ringalluzzito Conte sembrano impegnarsi soprattutto nell’erosione del Partito Democratico di Enrico Letta. In verità, contrariamente all’opinione di molti commentatori per i quali le parole e le impressioni contano più dei numeri e delle percentuali, non sembra in atto nessuna erosione. Anzi, i sondaggi più credibili indicano e documentano che da almeno un mese o poco più il Partito Democratico è, se non stabile intorno al 22 per cento, addirittura in leggera, forse impercettibile, crescita. Non solo, ma non si vede nessun effetto positivo della presunta erosione del PD sugli abusivi del Terzo Polo che rimangono bloccati su percentuali che sono quasi la metà di quelle dei veri Terzisti guidati da Conte. Il recupero dei Cinque Stelle che stanno inseguendo, forse raggiungendo Matteo Salvini, irrequieto leader della Lega, non sembra dovuto alla sottrazione di consensi a Letta, ma al possibile, probabile, rientro di elettori già pentastellati che si stanno ricredendo. D’altronde, il menu dell’offerta partitica non può sembrare maggiormente appetibile per chi aveva nutrito speranze di un reale cambiamento di sistema, certo, poi, disatteso, ma non senza esiti apprezzabili: reddito di cittadinanza e taglio dei parlamentari. Incuriosisce, però, che gli Azionisti e i Pentastellati mirino in particolar modo più a ricavarsi uno spazietto a spese del PD piuttosto che giocare a tutto campo anche con spirito repubblicano per impedire alla destra di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e forse più mettendola nelle condizioni di riformare la Costituzione repubblicana evitando l’eventuale sfida referendaria. Preoccupante sarebbe poi se Calenda-Renzi e Conte pensassero che il messaggio da mandare all’elettorato è che l’avversario principale è il Partito Democratico e non il trio delle meraviglie Meloni, Salvini, Berlusconi, le loro proposte programmatiche e valoriali, le loro collocazioni internazionali, le loro amicizie europee. Serenamente opposto a Giorgia Meloni, mi pare che Enrico Letta sia sostanzialmente uno dei pochi, unitamente a +Europa, a ritenere che la destra è per l’appunto l’avversario principale. Continuare a fare dell’ironia sul campo largo non soltanto non serve a nulla, neanche all’erosione immaginaria, ma significa non avere capito che, in effetti, l’avversario principale esiste e che, lui/lei sì, è da mesi il/la front runner. Non si fermerà quella corsa di testa proponendole, a quale titolo mai?, l’inserimento in un governo di unità nazionale che lo stesso proponente Calenda avrebbe in altri tempi carinamente definito accozzaglia e ammucchiata. Prima si contano i voti e i seggi. Poi si fanno i governi. Questa è la democrazia competitiva. Il resto non è “erosione”, ma confusione.
Pubblicato il 7 settembre 2022 su Domani
Perché Draghi accetterà il rischio di rimanere @DomaniGiornale


“Il governo c’è fin quando fa”. Le dimissioni di Draghi la scorsa settimana erano motivate dalla convinzione che le convulsioni di quel che rimane del Movimento 5 Stelle impedissero la prosecuzione dell’azione di governo. Sbagliano tutti colore che attribuiscono grande, addirittura decisiva importanza ad uno scontro di personalità Draghi contro Conte (incidentalmente, non c’è partita). Probabilmente, l’assolutamente straordinaria mobilitazione in Italia e all’estero a favore della permanenza di Draghi a Palazzo Chigi, che ha certamente e comprensibilmente lusingato il Presidente del Consiglio, non è che uno dei fattori di cui tenere conto per uscire da questa brutta situazione. Da un lato, molto conteranno le risposte al discorso con il quale Draghi spiegherà ai parlamentari e all’opinione pubblica italiana e straniera la sua posizione. Ai fatti che elencherà e alle interpretazioni che con sobrietà e precisione accompagneranno quei fatti, i capipartito non potranno contrappore solo retorica e mozioni di irricevibili e ipocriti amorosi sensi. La soluzione della crisi sta anche negli impegni che, in modo credibile, i capipartito e i loro rappresentanti sono disposti ad assumersi. Quella di Draghi non sarà affatto una richiesta di pieni poteri, ma di assunzione condivisa, nel rispetto dei ruoli, della responsabilità a portare a compimento tutto il programma concordato, anche alcuni dei punti formulati dai Cinque Stelle, già in stato di attuazione. Credo sia legittimo che Draghi mantenga più di una perplessità su quanto i leader dei partiti prometteranno e che nutra qualche preoccupazione sulla possibilità che qualcuno di loro intenda comunque procedere a episodi di guerriglia parlamentare e mediatica.
Dall’altro lato, Draghi è perfettamente consapevole che è stato chiamato a risolvere con le sue competenze, la sua autorevolezza e il suo prestigio internazionale compiti che nessuno dei politici italiani era minimamente in grado di affrontare. Incidentalmente, all’ombra del governo Draghi quei politici avrebbero dovuto dedicarsi alla rivitalizzazione delle loro organizzazioni e al ripensamento delle loro culture politiche. Non essendo avvenuto nulla di tutto questo, Draghi teme giustamente che se dovesse porre termine alla sua esperienza di governo adesso, il paese intero, il “sistema paese” tornerebbe indietro e non riuscirebbe neppure a mettere a buon frutto le riforme fatte, meno che mai completare quelle già lanciate. Non sarà, dunque, soltanto il senso dello Stato che lo spingerà a mantenere le redini del governo, ma senza esagerazioni (che lo farebbero sorridere) la convinzione che nelle condizioni date, in Italia e in Europa, ha il dovere “repubblicano” di non destabilizzare, ma di consolidare. Pertanto, consapevolmente, accetterà il rischio di rimanere a Palazzo Chigi. Per fare.
Pubblicato il 20 luglio 2022 su Domani
Cambiare ora il conducente è stupido e costoso @DomaniGiornale


“Quando il tram arriva al capolinea” disse memorabilmente Claudio Martelli, vice-segretario del PSI “scendono tutti, anche il conducente” (che, maggio 1989, era Ciriaco De Mita). Certamente, Conte, al quale manca la verve politica di Martelli, non ricorda questa frase, ma, peggio, non ha neppure il coraggio di chiedere che il guidatore Draghi scenda dal tram del suo governo. Peraltro, il governo non è affatto arrivato al capolinea e non è proprio il caso di cambiare l’unico conducente che conosce tutto il percorso e sa quali sono le fermate intermedie importanti. A nessuna di quelle fermate corrisponde il segnale “verifica”, ma, ovviamente, al conducente deve essere riconosciuta la possibilità, a fronte di un qualsiasi ostacolo, di fermarsi per valutarlo e rimuoverlo. Il tram può arrestare temporaneamente la sua corsa se un gruppo di passeggeri ha deciso di scendere prima della fermata che avevano indicato all’inizio del viaggio.
Il conducente non deve mai fare balenare la sua indisponibilità a continuare il servizio prima della fine del suo turno. Per Mario Draghi, pienamente consapevole della difficoltà del percorso, il turno, d’accordo con il Supervisore massimo Sergio Mattarella, ha come termine prefissato marzo 2023. Sono molti i passeggeri che desiderano arrivare al capolinea. Alcuni vorrebbero già da adesso che l’attuale conducente accetti l’impegno a continuare alla guida anche nella corsa successiva. Forse, il Supervisore ha suggerito al conducente di non abbandonare il tram fintantoché c’è un numero di passeggeri tale da giustificare i costi, non solo monetari, della continuazione del servizio. Altrove, in Europa, costantemente sorpresi dalla numerosità dei conducenti che si susseguono in Italia, ha già fatto immediato capolino la preoccupazione sia per un eventuale nuovo non sperimentato conducente (anche donna) che non sappia assumere il comando rapidamente sia per la sua (in)affidabilità nel riconoscere le fermate a ciascuna delle quali corrisponde un impegno da rispettare.
Senza esagerare con paragoni che sollevino l’Italia dalle responsabilità del mal funzionamento della rete dei poteri e degli attori della democrazia parlamentare, è vero che anche altrove, ad esempio, in Israele e addirittura in Gran Bretagna, altri tram sono arrivati al capolinea e i rispettivi conducenti sono scesi in maniera più meno turbolenta. Non potevano fare altrimenti. Comunque, i costi dei rispettivi disservizi sembrano meno elevati di quelli italiani. Facciano due conti gli italiani sul tram attuale, anche coloro che prenderanno il prossimo tram che si troverà ad aumentare e non di poco il prezzo del biglietto. Stupidi sono, scrisse elegantemente il grande storico dell’economia Carlo Cipolla, coloro che causano danno agli altri senza trarre nessun vantaggio per se stessi. Sursum corda.
Pubblicato il 13 luglio 2022 su Domani
I partiti che vogliono la crisi hanno fatto i conti? @DomaniGiornale


Cinque stelle cadenti, fibrillanti, deluse e deludenti, anche se escono dal governo, non riusciranno, numericamente, a privarlo della maggioranza. Politicamente, di certo Mattarella lo ha fatto sapere alto e forte a Conte, faranno un errore e, soprattutto, un torto, più che altro di immagine, quella che deriva da instabilità/inaffidabilità, all’Italia poichè il governo potrà continuare. “Tiremm innanz” dirà Maio Draghi che, giustamente, non vuole fare pagare al paese il prezzo delle bizze di Conte che ha bisogno di fare la faccia feroce per dimostrare di essere quel capo politico che per provata flagrante mancanza di capacità (e di umiltà di apprendimento) non riuscirà mai a diventare. Fuori all’aperto, libero e svincolato, il Conte incontrerà forse il Di Battista errante, ma quante divisioni di elettori avranno mettendosi insieme? E chi di loro due ha in qualche modo dimostrato di saperli raggiungere, convincere, organizzare e motivare ad andare alle urne? Con quali premesse, prestazioni e promesse? Quale “visione” sta elaborando il Conte, con l’aiuto, indispensabile, di chi? Di un paio di giornalisti e qualche sociologo di riferimento?
Altra storia sarebbe, sarà, se ad andarsene, più o meno inopinatamente, fosse la Lega di Salvini (quella di Zaia, Fedriga, Giorgetti soffrirebbe, ma si presterà all’obbedir tacendo). Preferibile è continuare a vedere il salasso di punti di sondaggi a a favor della granitica Meloni sperando di recuperare quando gli elettori valuteranno positivamente l’operato della Lega di governo oppure andare ad una tambureggiante campagna elettorale all’insegna del “prima gli italiani” che non si fanno di cannabis, che vogliono meno tasse e più lavoro (no, non anni di lavoro in più!), senza concessioni ai figli di immigrati comunque da integrare evitando scorciatoie?
Il Presidente del Consiglio guarda e va avanti. Gode di una rendita di posizione e, ce lo ha fatto sapere, un altro lavoro è in grado di trovarselo da solo. Però, quel che non ci ha detto è che risanare e rilanciare (Ripresa e Resilienza) è il compito di una vita, quasi una missione. Dunque, che Conte vada, pazienza; che Salvini continui pure a scalpitare, magari essendo più esplicito in richieste ricevibili, ma rimanga, altrimenti il precipizio della crisi di luglio inghiottirà i cauti e gli incauti.
Chi vede lungo, ma neanche troppo, non può fare a meno di rilevare che nessuno dei potenziali crisaioli ha, stando così le cose, nulla da guadagnare da elezioni anticipate con la campagna elettorale che inizierebbe ad agosto. Con qualche abile e legittima manovra, il Presidente Mattarella potrebbe anche insediare un governo elettorale che terrebbe a bagnomaria i Cinque Stelle, i leghisti di Salvini e gli speranzosi Fratelli d’Italia. A mio modo di vedere c’è ancora un campo molto largo nel quale ognuno abbia la possibilità di portare un tot di penultimatum a suo piacere. Potrebbero anche utilizzare sei-otto mesi non nello sterile e infantile gioco del pianta-bandierine proprie e strappa le bandierine altrui. Addirittura, si inizierebbe a cogliere tutti insieme qualche frutto del buon uso del PNRR. E, per chi ne ha bisogno, forse sarebbe possibile affermare che il sacrificio di stare al governo è servito proprio a make Italy great again. No, non concludo con nessun richiamo al senso di responsabilità e al patriottismo. Ma /i crisaioli qualche calcolo costi/benefici hanno almeno iniziato a farlo?
Pubblicato il 6 luglio 2022 su Domani
Il professor Pasquino dà i compiti, anzi solo uno, a Di Maio @formichenews

L’inadeguatezza di Conte, la tenuta del sistema parlamentare e l’elemento umano. Tre fattori dietro alla fuoriuscita di Di Maio. Che ora, secondo il professor Pasquino, ha un compito. Per non aggravare la già eccessiva frammentazione italiana

La fuoruscita di Di Maio e dei suoi sostenitori dai gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle certifica in maniera lampante tre elementi. Non in ordine di importanza, ma di visibilità, il primo elemento è l’inadeguatezza di Giuseppe Conte come leader politico, inadeguatezza bollata fin dall’inizio con le durissime valutazioni di Beppe Grillo. Ma, lo abbiamo imparato, Conte ha un’autostima smisurata dalla quale non riesce in nessun modo a riaversi. Il secondo elemento è che le tanto biasimate democrazie parlamentari hanno l’enorme pregio della flessibilità istituzionale (ad esempio, accomodando governi con composizione anche molto diversa), ma sono esigenti. In maniera bellicosa Arditti ha scritto che il Palazzo ha divorato i barbari. Usando altri termini direi che il Parlamento ha dimostrato di non essere una scatoletta di tonno, ha imposto l’apprendimento di regole, ha sconfitto coloro che niente sapevano e che pochissimo hanno imparato per incapacità e per superbia (sorte simile attende Di Battista se ben capisco le sue barricadiere esternazioni).
Il terzo elemento è che le persone in politica contano e, a determinate condizioni, fanno la differenza. Personalmente, gli atteggiamenti del Di Maio d’antan, non c’è bisogno di farne l’elenco, non mi sono mai piaciuti, ma il punto è che Di Maio ha molto imparato e giustamente non vuole lasciarsi correggere da chi ne sa di meno, soprattutto nell’ambito tanto delicato, cruciale per l’Italia, per l’Unione Europea, in generale, della politica estera.
Qualsiasi fuoruscita o scissione, quand’anche giustificabile, come fu quella dei non-renziani (non dei renziani e nemmeno di Paragone) contribuisce ad accrescere la già malamente governabile frammentazione del sistema partitico italiano. L’Italia ha bisogno di coesione sociale, è un messaggio che mando anche ai leader sindacali. Partiti organizzati sul territorio, quello che i Cinque Stelle mai vollero, ma forse non avrebbero saputo, fare, e rappresentativi sono l’unica o comunque la migliore soluzione alla ricomposizione della società, che non significa fine della conflittualità. Poiché immagino che Di Maio non voglia concludere la sua traiettoria politica con la fine della legislatura, anche a lui attribuisco il compito politicamente e storicamente significativo di trovare accordi, non solo elettorali, di mettere insieme prospettive, di disegnare qualcosa di utile. L’opportunità e lo spazio esistono. Qui si parrà quanta nobilitate ha acquisito Di Maio.
Pubblicato il 21 giugno 2022 su Formiche.net
Meglio non sballottare il voto francese @formichenews

Sconsiglio gli esercizi di comparazione con la situazione italiana fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno, e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei
Le notizie su Emmanuel Macron “sorpassato” da Marine Le Pen si sono rivelate largamente esagerate, cioè sbagliate. Le già non elevate probabilità che il Rassemblement National, almeno apparentemente diventato meno sovranista e anti-Unione Europea, riesca a portare all’Eliseo la sua leader sono chiaramente diminuite. I numeri, direbbero i francesi, cantano. Possiamo ascoltare più di una canzone. La prima è rimasta sottovoce. Quando vanno a votare quasi il 75 per cento dei francesi, tre su quattro, intonare la ripetitiva melodia sull’aumento dell’astensionismo significa, chiaramente, “steccare”. Dopodiché, ovviamente, al ballottaggio la partecipazione elettorale diminuirà poiché un certo numero di francesi, avendo perso il loro candidato/a preferito/a si asterrà- Macron/Le Pen? ça m’est égal! La seconda canzone viene proprio dai numeri. Nel pur molto affollato campo dei concorrenti il Presidente Macron aumenta i suoi voti di quasi un milione rispetto al 2017, mentre l’aumento di Marine Le Pen è di circa 500 mila. A sua volta anche Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto mezzo milione di voti in più rispetto a cinque anni fa. Tutti gli altri candidati, a cominciare dal destro Eric Zemmour, sono chiaramente perdenti, talvolta come la repubblicana gollista Pécresse e la socialista Hidalgo, in maniera umiliante più che imbarazzante.
Registrato il non troppo ammirevole affanno con il quale i commentatori italiani tentano di trarre qualche lezione francese, risulta opportuno segnalare che domenica 10 aprile si è svolto il primo turno dell’elezione popolare diretta in una repubblica semi-presidenziale. Gli elettori hanno votato, come sanno gli studiosi, in maniera “sincera”, senza nessun calcolo specifico scegliendo il candidato/a preferito/a. Al ballottaggio, invece, una parte tutt’altro che piccola di loro, addirittura quasi la metà, sarà costretta a votare “strategicamente”, in buona misura contro il candidato/a meno sgradito/a. Rimanendo nel campo musicale, il “là” lo ha già dato Mélenchon: “mai la destra”. Naturalmente, nient’affatto tutti i suoi 7 milioni e seicentomila elettori torneranno alle urne. Tuttavia, è molto improbabile che coloro che lo hanno votato perché “anti-sistema” ritengano gradevole che il sistema venga fatto cadere sotto i colpi della destra lepenista.
Non c’è quasi nulla di cui le destre italiane abbiano di che rallegrarsi. Certamente, Meloni potrebbe sostenere che con il presidenzialismo, che i suoi titubanti alleandi (Salvini e Bersluconi) non le hanno sostenuto, la sua leadership apparirebbe molto visibile (ma poi improbabilmente vincente). Non so quanto Fratoianni, sicuro anti-semipresidenzialista, voglia e possa godersi il voto conquistato da Mélenchon. Sono sicuro che Letta può tirare un sospiro di sollievo, ma saggiamente sa che, guardando oltre il ballottaggio, conteranno i voti per le elezioni legislative francesi che con molta probabilità confermeranno una maggioranza operativa per un vittorioso Macron.
In conclusione, tuttavia, sconsiglio questi esercizi di comparazione fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno (che, forse, Formiche mi inviterà a commentare) e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. “Mogli e voti di casa tua” (antico detto provenzale).
Pubblicato il 11 aprile 2022 su Formiche.net