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Come evitare che la tregua sia la vittoria dell’invasore @DomaniGiornale


Gli strateghi da scrivania, comitiva alla quale, seppur con grande riluttanza, finisco per appartenere anch’io, hanno detto e scritto di tutto sull’aggressione di Putin all’Ucraina. I peggiori fra loro hanno anche, da un lato, negato che si tratti di un’aggressione, dall’altro, suggerito agli ucraini di cessare i combattimenti per il loro bene. Troppi fra quegli strateghi sembrano non volere tenere in conto alcuni dati duri della situazione. L’Ucraina è uno stato democratico e i suoi cittadini hanno diritto a difendere la vita, la libertà e la proprietà (sono parole di John Locke per definire i diritti liberali).
La Russia è un regime autoritario con al vertice un autocrate sostenuto da una rete di oligarchi. L’autocrate non può avere ritenuto che l’Ucraina di Zelensky rappresentasse una minaccia militare alla Russia, neppure se fosse entrata nella Nato. Invece, ha sicuramente pensato che il pericolo oggettivamente posto fosse quello del contagio democratico, a favore dell’opposizione russa, non tutta incarcerata, e a scapito dei suoi vassalli, a cominciare dal Lukashenko della Bielorussia.
Sappiamo che spesso gli autocrati ritengono che il modo migliore per uscire dalle loro contraddizione è una sorta di transfert. Cercare in un successo militare, facile e esaltabile, il consenso popolare che sta sfuggendo. Aiutare gli ucraini a difendersi, dovere morale di tutte le democrazie, significa, quindi, non solo rendere difficile e costosa la vittoria militare dell’autocrate, ma impedire che riesca a godere del “dividendo” politico da usare per puntellare il suo potere all’interno della Russia.
Le sanzioni, che sono tutt’altra cosa rispetto a quelle comminate dagli USA a Cuba e al Venezuela, paragone improponibile, forse anche stupido, mirano a colpire la potente rete di oligarchi che sostiene Putin. Abituati agli agi e ai fasti, costoro probabilmente, ma lo vedremo, hanno un basso limite di sopportazione e, dunque, potrebbero “consigliare” a Putin di cessare la sua politica sconsiderata che, comunque, anche se vincente, non promette nessun arricchimento plausibile.
Pur sapendo perfettamente che la priorità è la cessazione dell’aggressione, una tregua immediata, l’attuazione di tutti gli interventi umanitari possibili, la costruzione della pace richiede non solo “semplicemente” la fine dei bombardamenti, ma negoziati complessi sul futuro dell’Ucraina.
Ha fatto benissimo Zelensky a dichiarare che rinuncia a qualsiasi ingresso nella Nato. Così come ha fatto benissimo il Parlamento europeo a votare a favore dell’apertura dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Troppi dimenticano che l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo ed è altresì luogo di pace e prosperità. Delle difficoltà e delle contraddizioni, sanabili e regolarmente sanate, discuteremo un’altra volta.
Con e nell’Unione Europea l’Ucraina potrà ricostruirsi e riprendere il cammino democratico. Fra le conseguenze politiche della pace, i negoziatori dovranno cercare quelle relative a cambiamenti significativi nella politica della Russia. Certo, è meglio che nessuno affermi ad alta voce “regime change”, ma la sospensione delle sanzioni economiche dovrà essere collegata alle libertà da garantire agli oppositori russi. Insomma, l’aggressore deve pagare un prezzo. A chiederlo saranno soprattutto tutti i pacifisti che si sono attivati in questo periodo che finalmente collegheranno l’assenza di attività militari con il riconoscimento dei diritti e, forse, addirittura con la giustizia sociale, anche in Russia.
Pubblicato il 17 marzo 2022 su Domani
Diseguaglianze, più o meno inaccettabili
Sento confusamente che ridurre il problema, che è tale, delle diseguaglianze, alle sole diseguaglianze economiche, rischia, da un lato, di essere fuorviante, dall’altro, di risultare di impossibile soluzione. Di più: temo che alcuni tentativi di soluzione finirebbero per entrare in un vortice di autoritarismo: stesso livello di reddito/guadagno imposto dall’alto con misure forzate e forzose che, probabilmente, condurrebbero al pauperismo. Nessun ricco, tutti poveri, ma se qualcuno, com’è probabile, si troverà in situazioni di potere politico lo utilizzerà certamente per trarne vantaggi, magari occulti, non necessariamente monetizzabili.
Davvero è così importante che la distanza fra i più ricchi e i meno abbienti sia cresciuta da, grosso modo venti fino a cinquecento volte? Se i meno abbienti hanno visto le loro condizioni di vita comunque migliorate nel corso del tempo, quella accresciuta distanza, pur disturbante, potrebbe essere meno grave dei numeri che la rilevano e la fotografano. Naturalmente, resta fermo che qualsiasi società che aspiri a un minimo di giustizia sociale deve guardare ai servizi non monetari (ancorché monetizzabili) che riesce ad offrire ai suoi cittadini –e, forse, anche a coloro che hanno deciso di andare a vivere là. Se anche coloro che guadagnano poco sono protetti da un sistema sanitario al quale hanno accesso gratuito o quasi, possono mandare i loro figli alle scuole che preferiscono e possono vederli completare il ciclo dell’istruzione superiore e universitaria, e sanno di potere contare su una pensione che consenta una vita decente, allora le diseguaglianze di reddito, per quanto enormi, sono o dovrebbero essere tollerabili e tollerate. Debbono, però, essere accompagnate dal riconoscimento dei compiti essenziali che lo Stato svolge per offrire quei servizi, ovvero per garantire eguaglianze (plurale) di opportunità attraverso una tassazione progressiva che è lo strumento più “egualitario” di cui è possibile disporre per andare verso una società giusta.
Fin qui, credo di non avere detto nulla di particolarmente nuovo, tutto o quasi facilmente riscontrabile nelle esperienze e nelle politiche di governo etichettabili come socialdemocratiche. Contrariamente a opinioni poco informate, quelle esperienze non sono né fallite né superate. Sono sfidate nei paesi che le hanno vissute da coloro che, già favoriti da quelle politiche, oggi pensano che, dato il loro livello di istruzione e di reddito e le loro capacità professionali, potrebbero farne a meno e non vogliono più pagarne il prezzo. Fermo restando che le diseguaglianze economiche provocano molto più che un semplice disagio e che, se non vengono contrastate da un adeguato livello di servizi, si trasformano in sfide politiche, spesso improntate da populismo, sono di recente giunto ad un’altra duplice conclusione provvisoria e problematica. Da un lato, conta molto come quei servizi vengono erogati. Vale a dire sono sussidi, donazioni, esborsi che vanno ai settori svantaggiati delle società facendo loro sentire il peso della sconfitta nella competizione? Siete stati degli incapaci (deplorable disse memorabilmente Hillary Clinton), colpevoli delle vostre (in)azioni, ma noi vi veniamo incontro ugualmente incontro in maniera generosa.
Oppure, in una società giusta quanto viene dato a chi ha difficoltà di qualsiasi tipo derivanti da qualsiasi avvenimento riceve quei servizi in quanto cittadino? Qui sta quello che molti studiosi ritengono sia il messaggio più importante: non la colpevolizzazione, ma il riconoscimento sociale. Dall’altro lato, le diseguaglianze economiche risultano della massima rilevanza poiché con il denaro, lo scrivo con la massima nettezza di cui sono capace, si comprano le decisioni politiche, economiche, sociali, culturali più importanti. Si comprano altresì i decisori. Da qualche tempo, gli studiosi USA sono quasi unanimemente giunti a sostenere che la loro democrazia ha forti componenti di ingiustizia; parla con l’accento delle classi più affluenti; non è neppure più in grado di comprendere le domande sociali e, quando le sente, decide di respingerle e può farlo perché quei decisori sono essi stessi parte delle classi elevate. Le diseguaglianze economiche mantengono e producono diseguaglianze politiche e sociali. Il circolo si chiude.
Laddove le diseguaglianze sono grandi e addirittura crescenti le conseguenze su tutti gli altri tipi di diseguaglianze sono gravissime. Quello che è molto di più che un semplice malessere sociale si traduce in propensioni e spinte populiste, non soluzioni, ma sfide che esondano dalla democrazia.
Pubblicato il 21 novembre su paradoxaforum.com
GUERRA E PACE. Nella Costituzione gli strumenti per una pace giusta
Il testo che pubblichiamo è il commento all’art. 11 della Costituzione italiana scritto da Gianfranco Pasquino per il suo libro La Costituzione in trenta lezioni (UTET, fine gennaio 2016)
La vita della maggioranza dei Costituenti italiani era stata segnata da due guerre mondiali e dall’oppressione del regime fascista nato sulle ceneri della Prima Guerra Mondiale e pienamente responsabile della partecipazione alla Seconda. In nome di un nazionalismo malposto e esasperato, il fascismo aveva causato enormi danni all’Italia entrando in una guerra di conquista e perdendola con il sacrificio di molte vite e della stessa dignità nazionale. L’art. 11 è il prodotto di una riflessione sull’esperienza storica, non soltanto italiana, e del tentativo di porre le premesse affinché sia bandito qualsiasi ricorso alla guerra ‘come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’. Il ripudio, questo è il termine usato nell’articolo, è, al tempo stesso rinuncia e condanna della guerra, più precisamente di esplicite guerre di offesa e aggressione. Il ripudio della guerra non è in nessun modo interpretabile come l’espressione di un pacifismo assoluto e, il seguito dell’articolo lo dice chiaramente, neppure come neutralismo. Al contrario, per assicurare ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’, l’Italia dichiara la sua disponibilità a limitazioni di sovranità e a promuovere e favorire ‘le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’. Naturalmente, la Costituzione riconosce che lo Stato italiano mantiene il diritto di difendere, anche con il ricorso alle armi, il suo territorio e la sua popolazione. Tuttavia, qualsiasi reazione militare deve essere proporzionata alla sfida e non deve sfociare in nessuna conquista territoriale. Coerentemente, neppure le azioni militari condotte sotto l’egida delle organizzazioni internazionali debbono mirare a e tantomeno possono concludersi, per uno o più dei partecipanti, con guadagni territoriali, ai quali l’Italia ha l’obbligo costituzionale e politico di opporsi.
Le limitazioni alla sovranità italiana derivano dall’adesione, deliberata e approvata dal Parlamento, a tutte le organizzazioni internazionali, ma, in particolare, per quello che attiene alla guerra (e alla pace), alla NATO, alle Nazioni Unite e all’Unione Europea. In seguito alla sua adesione, l’Italia si è impegnata a partecipare alle attività decise in ciascuna di quelle sedi, quindi anche ad attività che implichino il ricorso ad azioni di natura militare. Talvolta, queste azioni sono problematiche poiché in non pochi casi vanno contro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno o più Stati. Il principio guida di questa giustificabile ingerenza è dato dai rischi e dai pericoli ai quali sono effettivamente esposte le popolazioni di quegli Stati ovvero una parte di loro. Le missioni militari ‘umanitarie’, a favore delle popolazioni, alle quali l’Italia ha il dovere di prendere parte, sono quelle deliberate nelle organizzazioni internazionali, in modo speciale, l’ONU e, quando è minacciata l’indipendenza e l’integrità di uno Stato membro, la NATO. Possono avere una durata indefinita nella misura in cui servono ad alcuni popoli e ad alcuni governanti per costruire le strutture statali indispensabili alla difesa contro pericoli esterni e alla creazione di ordine politico interno rispettoso dei diritti civili e politici dei cittadini.
Nel secondo dopoguerra, in particolare, dopo la caduta del muro di Berlino, si sono moltiplicate le occasioni, da un lato, di oppressione delle loro popolazioni ad opera dei rispettivi dittatori, dall’altro di vere e proprie guerre civili, soprattutto nel Medio-Oriente e in Africa, ma anche nei Balcani. Seppure con qualche controversia interna, tutte le volte che l’Italia è stata chiamata in causa ha risposto positivamente in applicazione degli impegni e dei compiti derivanti dalla sua appartenenza all’ONU e alla NATO. Naturalmente, la valutazione della efficacia, dei costi e degli effetti, e della costituzionalità dell’attività delle missioni militari italiane all’estero e della eventuale necessità di una loro prosecuzione rimane nelle mani del Parlamento.
Che la pace, duratura e giusta, che non significa mai puramente e semplicemente assenza di conflitto armato, possa essere conseguita soltanto fra regimi democratici, lo scrisse memorabilmente il grande filosofo illuminista prussiano Immanuel Kant nel suo breve saggio Per la pace perpetua (1795). In un certo senso, questo obiettivo di pace è stato perseguito anche dall’Unione Europea delle cui organizzazioni l’Italia ha fatto parte fin dall’inizio (1949). Nel 2012 all’Unione Europea è stato attribuito il Premio Nobel per la pace con la motivazione di avere effettuato grandi ‘progressi nella pace e nella riconciliazione’ e per avere garantito ‘la democrazia e i diritti umani’ nel suo ambito che è venuto allargandosi nel corso del tempo fino a ricomprendere ventotto Stati-membri. A sua volta ognuno degli Stati-membri dell’Unione Europea deve avere e mantenere un ordinamento interno democratico e deve accettare le limitazioni di sovranità che conseguono alla sua adesione all’Unione. Preveggente, l’art. 11 della Costituzione mette la parola fine al nazionalismo, non soltanto bellico, ma autarchico e isolazionista, aprendo la strada a molteplici forme di collaborazione internazionale e sovranazionale che costituiscono la migliore modalità per garantire la pace nella giustizia sociale.
Pubblicato il 18 novembre 2015