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Elogio del rimpasto. Dà flessibilità ai governi #vivalaLettura

Nella letteratura politologica sulle coalizioni di governo non si parla di “tagliandi”, come quello ritenuto plausibile dal Presidente del Consiglio Conte nella sua conferenza stampa di fine anno, all’attività di governo Forse, il giurista Conte ha voluto evitare il più noto termine “verifica” che è quanto si è fatto regolarmente nei governi di coalizione italiani del secondo dopoguerra. Peraltro, le verifiche spesso portavano ai rimpasti, vale a dire al cambiamento concordato di alcuni ministri, fuoruscite e nuovi ingressi. Il tutto serviva, da un lato, a registrare i nuovi rapporti di forza fra i partiti della coalizione al governo (e spesso delle vivaci correnti della DC), e, dall’altro, a rilanciare l’azione del governo. Avendo solennemente annunciato l’ingresso dell’Italia nella Terza Repubblica, il noto storico delle istituzioni e costituzionalista Luigi Di Maio non vuole tornare a pratiche della Prima Repubblica (che conosce poco e che, incidentalmente, è l’unica Repubblica che abbiamo): “nessuna ipotesi di rimpasto e, se dovessi fare il governo domani, ripresenterei gli stessi nomi come ministri, ripresenterei la stessa squadra” (dichiarazione del 30 dicembre 2018).

Nelle democrazie parlamentari, quale più quale meno, il rimpasto è fin dall’inizio sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando alcuni ministri sono neofiti, privi di esperienze di governo e persino, capita spesso, ma non dappertutto con la stessa frequenza, di conoscenze specifiche per il Ministero al quale approdano, è possibile/probabile che le loro prove siano non solo inferiori alle aspettative, ma anche al di sotto di quanto è indispensabile per attuare in maniera soddisfacente le politiche del governo. Questo avviene, in particolare, quando il governo è un “Governo per il Cambiamento” che mira a innovare. Poiché in tutte le democrazie parlamentari al governo ci vanno i capi dei partiti che si coalizzano (è appena successo in Svezia dove ha visto la luce un governo socialdemocratico di minoranza con l’appoggio esterno di più partiti, non una novità nella storia politica del paese), sono spesso proprio i capi dei partiti a incoraggiare alcuni ministri “deboli” a lasciare il posto a chi, in Parlamento, ha mostrato di avere maggiori qualità. Talvolta, questa modalità di rimpasto implica un qualche scambio che vede anche ministri degli altri partiti cedere il passo nell’intento duplice di ridare slancio all’azione di governo e di soddisfare le ambizioni di parlamentari dimostratisi capaci, ad esempio, nell’attività delle commissioni.

Esistono poi fattispecie più politiche. Nel caso della Gran Bretagna, alla quale è sempre utile fare riferimento, in quanto madre di tutte le democrazie parlamentari, praticamente tutti i governi conservatori e laburisti hanno proceduto a rimpasti nel corso del loro mandato. Il Primo ministro gode del vantaggio di essere anche il capo del suo partito (rimanendo Primo ministro soltanto se non perde la carica di capopartito) e, dunque, di avere la facoltà di “licenziare” (i termini inglesi sono abitualmente più drastici: sack, fire) i suoi ministri in caso, ad esempio, di dissenso sulle politiche. Talvolta, sono gli stessi ministri dissenzienti ad andarsene nobilmente aprendo la strada al rimpasto. Molto di recente, non condividendo il tipo di accordo (deal) raggiunto dal Primo Ministro May, quattro ministri sono usciti dal governo subito rimpiazzati (rimpastati!). Qualche volta sono dichiarazioni fuori luogo (sessiste e xenofobe) e comportamenti inappropriati (ad esempio, in Germania, il plagio di una tesi di dottorato) che impongono le dimissioni di un ministro. Talvolta ancora l’elemento scatenante è dato dalla scoperta di una qualche forma di conflitto d’interessi, fattispecie non rara neppure nei governi delle democrazie parlamentari europee e no, ma che vengono immediate sanzionate.

Ovviamente, la motivazione più frequente, anche se non sempre resa pubblica, per non indebolire né il governo né il partito del ministro dimissionato, attiene alla capacità, alla competenza, all’operato del ministro stesso. La difesa ad oltranza di un ministro responsabile di errori e di violazioni (anche “a sua insaputa”) non è un segnale di forza del suo partito né del governo del quale fa parte, ma di debolezza. La sorte di nessun governo parlamentare può mai dipendere da quella di un uomo o di una donna che ne faccia parte. La pratica del rimpasto correttamente interpretata e posta in essere è molto concretamente una delle modalità che danno sostanza alla flessibilità e all’adattabilità dei governi parlamentari. Nuove e inusitate sfide, problemi improvvisi e emergenze, inadeguatezza delle personalità che esercitano cariche di governo possono essere affrontati e risolte attraverso un rimpasto rapido e mirato. Lungi dall’essere criticabile, la possibilità di ricorrere al rimpasto della compagine governativa è uno dei maggiori pregi delle democrazie parlamentari. Da custodire, applicare, elogiare.

Pubblicato il 27 gennaio 2019

I contrappesi e il disegno sovranista

A compimento dei primi cento giorni del governo Cinque Stelle-Lega si possono fare bilanci, alcuni apparentemente più scientifici, basati sui numeri, e paragoni con i governi precedenti. Non sono le riunioni del Consiglio dei Ministri e la quantità di decreti approvati a consentire una buona valutazione dell’opera del governo. Altri elementi sono più significativi. Ad esempio, dei due firmatari del Contratto di Governo, Di Maio e Salvini, chi ha occupato con maggiore frequenza e visibilità le prime pagine dei quotidiani e le aperture dei telegiornali? Sappiamo che Salvini ha vinto alla grande questa competizione riuscendo, grazie al suo uso spregiudicato dei migranti, anche a fare crescere nei sondaggi la Lega. Entrambi hanno sostanzialmente oscurato Conte, elemento, questo, cioè, un Presidente del Consiglio che sta in secondo piano rispetto ai suoi vice, di vera, non positiva, novità sulla scena politica italiana. Inconsueti sono anche stati gli applausi ai governanti alla cerimonia dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova. Oltre a testimoniare consenso al governo, segnalavano l’attribuzione di responsabilità a chi aveva governato in precedenza.

Nell’azione di governo è comparso qualcosa di inaspettatamente e positivamente significativo. Per motivi diversi, l’opposizione politico-parlamentare sia del Partito Democratico sia di Forza Italia risulta sostanzialmente ininfluente, mentre si è manifestata una sorta di opposizione sociale. Laddove il Ministro della Sanità, Giulia Grillo, Cinque Stelle, aveva stabilito per i vaccini un “obbligo flessibile”, la reazione dei dirigenti scolastici con il sostegno della quasi totalità dei medici sembra avere portato a un emendamento che re-introdurrà l’obbligo. Su altro terreno, già la Confindustria e alcuni piccoli e medi imprenditori, importanti nell’elettorato della Lega, avevano espresso serie critiche a diversi aspetti del tanto sbandierato Decreto Dignità del Ministro del Lavoro Di Maio. La discussione è proseguita e, in attesa, del Documento Economico e Finanziario, è andata inevitabilmente a incontrarsi/scontrarsi con l’intenzione di non tenere conto del limite del 3 per cento del deficit pubblico rispetto al PIL. Per fare del bene agli italiani, parole di Salvini, quel limite lo si può anche sforare? I mercati hanno subito risposto no e lo spread si è impennato. Hanno risposto di no anche Confindustria e imprenditori facendo ripiegare Salvini sul verbo sfiorare e imponendo anche a Di Maio scelte economiche rispettose dei criteri europei condivisi anche dal Ministro dell’Economia Tria. Questa sembra diventata la linea del governo alle prese con la difficile conciliazione fra reddito di cittadinanza, bandiera delle Cinque Stelle, e flat tax, voluta dalla Lega: entrambe destinate a una solo parziale attuazione. Dunque, esistono e funzionano freni e contrappesi, sociali e europei, anche per il “governo del cambiamento”, soprattutto quando va contro la scienza e la matematica (fare quadrare il bilancio dello Stato)? In attesa di conferme, sembra di sì.

Pubblicato AGL il 7 settembre 2018

L’opposizione e suoi doveri

Per chi ha passato la maggior parte della sua vita parlamentare al governo del paese ovvero sostenendo il governo del suo partito, collocarsi all’opposizione è uno scivolamento doloroso. Purtroppo, sembra che i novanta giorni trascorsi dal 4 marzo non sono stati sufficienti a elaborare il lutto. Berlusconi non sarà un’opposizione molto agguerrita contro quello che definisce un governo pauperista e giustizialista. Non potrà tagliare i ponti con Salvini anche perché soltanto mantenendo le coalizioni nelle città e nelle regioni nelle quali la Lega governa con Forza Italia gli è possibile sperare in un futuro migliore. Quindi, assisteremo a qualche dichiarazione più o meno dura, ma a nessun atto concreto di rottura che non sarebbe apprezzato e neppure condiviso dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che già si sono detti disponibili alla prosecuzione di un buon rapporto con Salvini. Di conseguenza, l’onere dell’opposizione cadrà tutto sul Partito Democratico grande sconfitto, fin dall’inizio autocollocatosi sdegnosamente in un angolino. In maniera del tutto rivelatrice, l’ex-ministro PD Graziano Delrio ha già annunciato che il suo partito starà in trincea. Credo che, se proprio bisogna ricorrere a termini militari, sarebbe molto più opportuno che il PD si preparasse a una controffensiva, andando all’attacco.

Infatti, c’è molto da attaccare nelle proposte politiche di Lega e Cinque Stelle, più o meno vagamente recepite nel Contratto di Governo (per il Cambiamento come aggiunge ossessivamente Di Maio). Una buona opposizione ha il compito, anzitutto, di non cadere nella trappola della demonizzazione, nella quale si stanno avviluppando gli operatori dei media. Il governo Lega-Cinque Stelle non è il governo più a destra mai avuto dall’Italia. I governi guidati da Berlusconi 2001-2006 e 2008-2011 sono stati governi nei quali le posizioni e le politiche di destra furono effettivamente dominanti. Più corretto affermare e documentare, soffermandosi appena su inesperienza e incompetenza, che il governo Conte-Di Maio-Salvini è un governo segnato dall’ambiguità e dalla contraddittorietà su molte tematiche. In attesa del discorso d’insediamento del Presidente del Consiglio Conte, la graduatoria delle tematiche discende dalle prime esternazioni di Salvini e, in subordine, Di Maio. “Finita la pacchia”, nella pittoresca espressione del Ministro degli Interni Matteo Salvini, si preannunciano tempi duri per gli immigrati irregolari. L’opposizione ha il dovere di criticare non tanto la durezza delle frasi di Salvini, ma la vaghezza delle sue proposte mettendo l’enfasi sul loro costo e sulla loro probabile impraticabilità. Meglio ancora se l’opposizione fa rilevare che qualsiasi successo si voglia conseguire dipenderà dalla coordinazione e dal sostegno dell’Unione Europea. Ne deriva un’implicita, ma non meno incisiva, critica del sovranismo salviniano: da sola, l’Italia non è in grado di giungere a nessuna soluzione del “problema migranti”. Di Maio si è messo all’opera non soltanto per dare il reddito di cittadinanza, ma anche per le pensioni di cittadinanza. Non basteranno, ovviamente, i soldi eventualmente recuperati da un ricalcolo, pomposamente definito eliminazione, dei vitalizi degli ex-parlamentari. Questo è il terreno sul quale un’opposizione adeguatamente attrezzata dovrebbe dare e ripetere i numeri, evidenziando che i costi sono intollerabili per il bilancio dello Stato per di più se la legge Fornero venisse deformata. I recenti efficaci dati dell’INPS rivelano da quanto tempo qualche centinaio di migliaia di italiani ha goduto di privilegi almeno in parte responsabili delle diseguaglianze che è giusto criticare con l’obiettivo di rimediarle. Sul punto, l’opposizione ha il dovere, che definirei morale ancora prima che politico, di spiegare che la flat tax, anche in due scaglioni, è, prima di tutto anticostituzionale poiché la Costituzione sancisce la progressività delle tasse, in secondo luogo produttiva di ulteriori diseguaglianze a favore dei più abbienti. Grande è lo spazio di un’opposizione sulle cose e propositiva.

Pubblicato AGL il 5 giugno 2018

Stare nella casa comune europea

I co-inquilini della casa comune chiamata Unione Europea hanno il diritto di criticare i comportamenti degli italiani, compreso quello di voto, che rischiano di produrre crepe nei muri e di destabilizzare l’edificio. Gli italiani che hanno di volta in volta criticato, spesso giustamente, greci, ungheresi, austriaci e, naturalmente, i tedeschi, per le loro rigidità, e i Commissari, erroneamente definiti eurocrati e burocrati, hanno la facoltà di replicare anche con durezza, soprattutto quando le critiche si ammantano di stereotipi offensivi. Poi, gli italiani farebbero bene a domandarsi che cosa hanno combinato nel loro paese e come usciranno dai guai economici e politici nei quali si sono cacciati. Mi limito a sostenere che nessun barone di Münchausen riuscirà a estrarre l’Italia dal suo 135 per cento di debito pubblico e nessuna uscita dall’Euro migliorerà i conti pubblici e aumenterà produttività e prosperità. Aggiungo subito che i comportamenti collettivi, che fanno dei cittadini una “nazione”, debbono essere incoraggiati e guidati dalla politica. Pertanto, hanno ragione coloro che in Europa e in Italia esprimono forti preoccupazioni sullo stato attuale della politica italiana e sulle difficoltà di dare un governo al paese. Legittima è anche la preoccupazione concernente la qualità di quel governo, in particolare se formato da una coalizione fra il Movimento 5 Stelle e la Lega.

Quasi trent’anni di dibattiti sulle istituzioni, riforme (mal) fatte e non fatte, referendum manipolatori hanno prodotto uno stato di confusione molto diffusa su come funziona una democrazia parlamentare e come può essere migliorata nella sua struttura e nel suo funzionamento. Alcuni punti fermi debbono essere assolutamente messi. Nessun governo delle democrazie parlamentari è “eletto dal popolo”. Tutti i governi si formano in Parlamento con il quale è indispensabile che quei governi stabiliscano e mantengano un rapporto di fiducia. Se Cinque Stelle e Lega hanno la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, è loro diritto dare vita a un governo. Nessun capo di governo è “eletto dal popolo”. Tutti sono scelti dai partiti che hanno deciso e saputo dare vita a un governo. In Italia, il capo del governo è nominato dal Presidente della Repubblica che, ovviamente, sceglie chi gli è stato indicato dai partiti che fanno il governo. Può anche non essere un parlamentare, ma sbaglia di grosso se, come ha detto il Prof Giuseppe Conte, pensa di essere “l’avvocato degli italiani” (ruolo che spetta all’opposizione), mentre deve esserne la guida. Anche i ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica “su proposta” del capo del governo che, quindi, può anche decidere di rifiutarli se non rispondono ad alcuni requisiti il più importante dei quali è quello di operare dentro la Costituzione, quindi non contro i Trattati firmati dall’Italia. Per tornare alla metafora di apertura violando il contratto di affitto nell’edificio europeo. [Tralascio il mio stupore nel leggere critiche di più o meno autorevoli costituzionalisti all’operato del Presidente Mattarella.]

Non è vero, come ha detto troppo spesso Luigi Di Maio, che l’Italia è entrata nella Terza Repubblica. Non siamo mai usciti dalla Prima Repubblica, dalla sua Costituzione e dalle sue istituzioni. Maldestri tentativi di riforme deformanti sono stati tentati e sconfitti, compreso il più pericoloso: quello del 4 dicembre 2016. Non è vero che quelle riforme (e la connessa legge elettorale) avrebbero migliorato in maniera taumaturgica il funzionamento del governo italiano. Non contenevano nessuna riforma del governo e la legge elettorale fu considerata parzialmente incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Non è vero che la legge attualmente vigente che porta il nome del deputato Democratico Ettore Rosato non porta nessuna responsabilità dell’esito elettorale. Era stata scritta per svantaggiare le Cinque Stelle, non c’è riuscita, ma soprattutto per consentire a Renzi e Berlusconi di “nominare” i loro parlamentari, effetto conseguito tanto che Renzi ha bloccato qualsiasi capacità di manovra del PD e di ricerca di un’eventuale intesa con le Cinque Stelle, possibile soltanto dopo un vigoroso confronto e scontro su programmi e persone. Infine, preso atto che le Cinque Stelle sono il partito che ha avuto più voti e che la Lega ha quadruplicato i suoi voti dal 2013 al 2018, un governo fra di loro è pienamente legittimo. Rappresenta la maggioranza degli elettori italiani, godrebbe di una maggioranza assoluta in Parlamento. Adesso che Salvini e Di Maio, nell’ordine, sono riusciti a dare vita al governo e a proporre ministri accettabili, anche se dotati di poca o nessuna esperienza politico-governativa e con competenze tutte da mettere alla difficile prova, tocca a loro spiegare se e come intendono stare nella casa comune europea e quali ristrutturazioni vogliono proporre. Democraticamente, ma non lesinando le critiche, ogniqualvolta sarà necessario, gli europei e gli italiani vigilano sul legittimo Governo del Cambiamento.

Pubblicato il 1° giugno 2018 su ITALIANItaliani