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I candidati devono essere il volto della coalizione @DomaniGiornale


Se sia meglio procedere ad alleanze forzate da una pessima legge elettorale o correre liberi e leggeri in un campo largo verso una sicura sconfitta? This is the question alla quale Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, invece di sognare ha dato una risposta realistica e costosa. Ai saccenti commentatori che per mesi si sono affannati a comunicare la loro preoccupazione, addirittra indignazione per il “ritorno alla proporzionale” è imperativo fare notare che la fin troppo vigente legge Rosato, un terzo maggioritari, due terzi proporzionale con la possibilità di candidature multiple salvaseggio (poltrona?), fra i suoi molti guasti, impone alleanze preventive inevitabilmente tendenti a ammucchiate. Una legge proporzionale avrebbe consentito a tutti di contarsi e agli elettori di valutare con maggiore chiarezza partiti e candidati, poi a ciascuno il suo.
Nei collegi uninominali, le candidature sono il volto della coalizione che le esprime e le sostiene. Sono il veicolo dell’accordo programmatico. Agli elettori debbono offrire la garanzia che l’azione della coalizione, se vincente, si tradurrà nell’attuazione di quel programma. Il resto, emergenze e nuove tematiche, dovrà continuare a essere oggetto di discussione fra tutti coloro che compongono la coalizione. Se questa è l’interpretazione plausibile dell’accordo raggiuto fra PD, +Europa e Azione, i contraenti hanno di che rallegrarsi e i loro potenziali elettori sono messi in grado di esprimere una valutazione fondata su elementi chiari, il più evidente essendo quello dell’impegno a proseguire, con opportuni adattamenti, aggiunte e correzioni, l’agenda del governo Draghi. Forse dal punto di vista numerico il Partito Democratico è stato fin troppo generoso nei confronti dei suoi due comunque indispensabili alleati. Tuttavia, se l’alleanza avrà lo sperato effetto moltiplicatore i conti dovranno e potranno essere fatti meglio ad elezioni avvenute.
Adesso l’attenzione deve necessariamente spostarsi e focalizzarsi sulle candidature, sulla loro qualità, sulla loro capacità di combinare esperienza e competenza, sul tasso di entusiasmo (“occhi di tigre”) che sapranno portare nella campagna elettorale. Dalle notizie estraibili da alcune, importanti, situazioni locali del PD sembra che il criterio dominante sia rappresentato dalla continuità della carriera, non dalle new entries che sembrano praticamente inesistenti. La mannaia del limite a due mandati quasi azzererebbe non solo i dirigenti del PD, ma i tre quarti e più degli attuali parlamentari e dei ricandidabili. A mio avviso sarebbe una scelta sbagliata, ma altrettanto sbagliata è la strada del ritorno di parlamentari, anche donne, di lungo e non proprio brillantissimo corso. Agli uomini e alle donne del PD non sarà sufficiente offrire la rassicurante rappresentanza in quanto usato sicuro. Le elezioni del 25 settembre 2022 non saranno in nessun modo simili a elezioni che abbiamo conosciuto nel passato. Si sprecheranno i paragoni (e non voglio suggerirne nessuno). Un punto deve essere sottolineato con forza: il 25 settembre si decidono collocazione e ruolo dell’Italia nell’Unione Europea e nella politica internazionale. Le candidature, non soltanto quelle del Partito Democratico, meritano di essere proposte e valutate con l’osservanza di questo criterio dominante, cruciale anche in caso di una sconfitta che rischia di segnare tristemente l’autunno del nostro scontento.
Pubblicato il 3 agosto 2022 su Domani
Pasquino: «I partiti? Oggi sono ininfluenti, per fortuna che c’è l’Europa» #intervista @Avantionline
Intervista raccolta da Giada Fazzalari

Nella storia della Repubblica raramente i partiti sono stati così ininfluenti come in questa stagione e dunque se il sistema-Paese regge, buona parte del merito va ascritto all’Europa. In questa intervista all’”Avanti! della domenica” Gianfranco Pasquino, uno dei grandi maestri della scienza politica del secondo dopoguerra, tratteggia un affresco dell’Italia politica, attardata in una transizione che sembra non voler finire. Classe 1942, torinese, allievo di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori, professore emerito di Scienza politica all’università di Bologna, ha vissuto una vita “tra scienza e politica”, come recita il libro autobiografico appena pubblicato, dove trapelano l’arguzia, l’intelligenza affilata e un tratto deciso: la libertà integrale dell’intellettuale di razza.
Qual è lo stato di salute della politica e dei partiti in Italia?
La politica è qualcosa che si svolge, come diceva Aristotele, nella Polis e ci riguarda tutti, non possiamo chiamarci fuori. Se la politica non gode di uno stato di salute buono, vuol dire che i cittadini non sono inclini a occuparsene e fanno male, perché se i cittadini non si occupano di politica, i politici non si occuperanno di loro e dunque non risolveranno nessuno dei problemi collettivi che incidono sulla qualità della loro vita. I partiti italiani stanno malino. Di solito i politici pensano sia così anche altrove ma non è vero, perché altrove ci sono partiti organizzati, strutture vere e modalità di scelta dei leader e dei candidati che funzionano. Quello che non va bene in questo paese sono esattamente i partiti come strutture che organizzano il consenso e fanno partecipare i cittadini alla vita pubblica.
A proposito di partecipazione: si avvicina il momento in cui i cittadini torneranno a dire la loro. Questa legge elettorale ha dato buona prova di sé? molti a sinistra auspicano un ritorno al sistema proporzionale…
Questa è una pessima legge elettorale, perché i partiti l’hanno concepita perseguendo il loro interesse specifico. Quello che qualcuno chiama governabilità, per i partiti è riuscire a vincere le elezioni e rimanere al potere il più a lungo possibile. La legge Calderoli ha consentito comunque la caduta del governo Berlusconi nel 2011 e la legge Rosato ha permesso tre cambi di governo: non è esattamente indice di stabilità, che è la premessa della governabilità. Come si fa a governare bene se non si hanno dei governi stabili? Le leggi maggioritarie possono funzionare bene, come la legge Mattarella. Esistono inoltre diversi sistemi proporzionali: quello che conta è la rappresentanza che non è mai solo un affare di numeri, ma di capacità dei rappresentanti. A mio modo di vedere il criterio per valutare una buona legge elettorale è quanto potere hanno gli elettori nella scelta dei rappresentanti. Fino ad adesso non ho sentito parlare di questo. Due buone leggi elettorali attualmente utilizzate in Europa sono quella francese, con il doppio turno di collegio, con una soglia di passaggio dal primo al secondo turno e il sistema elettorale tedesco ma come è in Germania. Noi abbiamo fatto molto male cercando di essere originali e potremmo fare molto meglio importando sistemi che funzionano.
Sembra che il Pd stia riconquistando una certa centralità politica. Come vede il futuro del centro-sinistra? Con o senza M5S?
Letta ha stabilizzato una situazione. Non vedo un’avanzata travolgente del Pd e con il 20-22% si può essere centrali in uno schieramento politico ma poi bisogna trovare gli alleati adeguati, leali, competenti. Useremmo questi tre aggettivi per il M5S? certamente no. Eppure è un alleato necessario. Primo perché probabilmente loro stessi non sanno dove andare e poi perché senza quel 15% non si può fare nessun campo largo. Quindi buona fortuna a Letta, perché non vedo altri pezzi di sinistra, alcuni tra questi sono cespugli.
I socialisti portano in dote una grande storia e grandi valori…
Sono assolutamente d’accordo: la cultura politica socialista è stata una cultura importante e ancora oggi si ritrova in alcuni esponenti, però temo che non ci sia sufficiente convinzione nei portatori passati della cultura socialista. Bisogna riprendere la materia culturale senza troppe recriminazioni sul passato ma guardando avanti, guardando all’Europa e ai partiti socialdemocratici. Quindi lo spazio c’è e deve essere colmato con un po’ di innovazione. Lo dico così: bisogna ripensare il socialismo, guardando al futuro e con un progetto. Ricostruire una cultura socialista nel Paese è un’operazione ambiziosa che si può fare, che poi era il tentativo fatto da Gigi Covatta. La cultura socialista è esistente, le altre si sono dissolte.
I referendum sulla giustizia saranno risolutivi sulle questioni sollevate o serve una riforma di sistema in Parlamento?
Il problema della giustizia è un tema anche di reclutamento, preparazione e di criteri di promozione dei magistrati. Inoltre, più di qualsiasi altra attività che si svolge in un sistema politico, la magistratura ha bisogno di persone che abbiano un senso etico, che sappiano che le loro decisioni incidono sulla vita delle persone e complessivamente sul benessere del sistema politico. Su uno dei quesiti sono d’accordo e sarei disposto a votare sì: bisogna assolutamente cambiare il sistema elettorale del CSM e renderlo tale che non possa essere manipolato dalle correnti della magistratura che ne hanno fatte di tutti i colori. Su tutte le altre tematiche credo che la riforma debba essere fatta in parlamento, con calma, conoscenza, in maniera chirurgica.
Lei ha scritto in libro autobiografico che si chiama ‘Tra scienza e politica litica’. Le va di farci un bilancio dei suoi primi 80 anni?
(.. sorride..) L’idea è di raccontare quello che mi è successo, da partecipante attivo e curioso di un sistema politico, che ha imparato molto attraverso la scienza politica, grazie a Norberto Bobbio e a Giovanni Sartori. Il mio bilancio personale è positivo: ho avuto fortuna ma me la sono anche conquistata, ho sempre lavorato molto. Nel libro cito la mia esperienza in Cile, l’insegnamento in alcune università americane e nei college inglesi, esperienze importanti per capire come si pratica la politica altrove. C’è anche un po’ di amarezza per tutte le cose che si potevano fare e non sono state fatte, e perché ho visto troppi errori, manipolazioni, furbizie. Questo è un paese che vive al di sotto delle sue capacità intellettuali e culturali perché troppi pensano esclusivamente al loro destino personale, al loro narcisismo e questo è davvero un peccato sistemico. Quindi il paradosso è che sono molto soddisfatto ma quando mi guardo intorno, mancando la coesione collettiva, vedo molte cose che non vanno bene.
Lei diceva: cose che si potevano fare, non sono state fatte. Ma che si possono fare ancora, anche da chi è al governo?
Certamente. Draghi, che ho conosciuto quando era un giovane dottorando, ha imparato moltissimo e ha secondo me la prospettiva di governo giusta. Però intorno a lui vedo dei profittatori che hanno guadagnato dalla sua presenza in politica e non vedo la loro capacità di contribuire a un progetto collettivo. Quindi si porrà il problema di cosa succederà dopo le elezioni marzo del 2023. Ci sono ancora molte cose che si possono fare e dobbiamo soprattutto essere grati all’Europa: “non dobbiamo mai chiederci che cosa l’Europa debba fare per noi ma cosa noi dovremo fare per l’Europa, in Europa”. Draghi questo lo sa, molti altri no. Il mio augurio di professore e cittadino è che tutti studino e imparino. Presto.
Pubblicato il 4 giugno 2022 su Avanti Settimanale
La Repubblica non può restare appesa a Draghi e Mattarella @fattoquotidiano

“Un lavoro so trovarmelo da solo”. Questa secca frase pronunciata con irritazione da Mario Draghi contiene molti elementi che non debbono essere sottaciuti. Certo c’è anche una sottile e assolutamente comprensibile critica nei confronti di coloro che non hanno voluto o saputo favorirne l’elezione al Quirinale. Soprattutto, però, è un messaggio ai dirigenti dei partiti per quello che fanno e quello che non fanno. Troppo affannati a rincorrere l’ultima dichiarazione di un qualsiasi parlamentare e a soffermarsi su polemichette di corto respiro e poco interesse, troppi commentatori perdono di vista gli elementi strutturali della politica italiana. Alla nascita del governo Draghi, che riduceva notevolmente potere e presenza dei partiti, molti sostennero che all’ombra del governo, i partiti avrebbero avuto modo e tempo per cercare di ridisegnare le loro strategie, ma soprattutto di riorganizzarsi e rimettersi in sintonia con gli italiani. Non è avvenuto praticamente nulla di tutto questo. Al contrario, l’elezione presidenziale ha dimostrato l’impreparazione di tutti i protagonisti e l’inadeguatezza delle loro visioni politiche. Per evitare la cosiddetta “crisi di sistema” il Parlamento ha richiamato il non troppo reticente Presidente uscente facendone quasi un uomo della Provvidenza. L’altro uomo della Provvidenza, ovvero Mario Draghi, insostituibile, ha potuto così continuare alla guida del governo per proseguire e portare a augurabile compimento l’opera di ripresa e resilienza consentita all’Italia dagli ingenti fondi europei.
Personalmente, non credo alla crisi di sistema, ma appendere le sorti della Repubblica italiana alla longevità di Mattarella e al prolungamento di un ruolo politico per Draghi significherebbe comunque, rimanere sostanzialmente nella crisi politica che ha caratterizzato tutta la legislatura in corso. La controprova viene dai partitini, un tempo sarebbero stati definiti “cespugli”, assembrati intorno al centro geopolitico, che la loro convergenza vorrebbero effettuarla sotto la guida di Draghi contando su voti aggiuntivi che, discutibilmente, il nome del Presidente del Consiglio apporterebbe loro. Di idee ricostruttive che scaturiscano da quei cespugli: la “moderazione”? la “fine del bipolarismo feroce”?, proprio non se ne vedono. Nel frattempo, nel centro-destra, che alcuni di loro propagandisticamente definiscono “compatto”, permane una lotta dura per la leadership e soprattutto appare enorme la distanza nelle posizioni relativamente all’Unione Europea. Il campo nel quale si è insediato il Partito Democratico è largo nelle intenzioni, ma non demograficamente in crescita, in attesa di elettori le cui aspettative non vengono soddisfatte da messaggi politici rilevanti e innovativi. Troppo facile parlare di lotta alle diseguaglianze senza indicare con precisione gli obiettivi da perseguire e le relative modalità. Eppure, è proprio dalla ripresa dell’economia che bisogna sapere trarre stimoli per procedere verso la riduzione delle diseguaglianze e l’ampliamento delle opportunità.
La cosiddetta “agenda Mattarella” esplicitata nel discorso del Presidente contiene una indicazione molto significativa concernente il ruolo del Parlamento che non va compresso e schiacciato dal governo, meno che mai a colpi di decreti accompagnati dalla imposizione di voti di fiducia. Quel ruolo potrà migliorare, ma di poco, grazie alla riforma dei regolamenti parlamentari, ma riuscirà ad affermarsi soltanto se i parlamentari saranno eletti con modalità che li liberino dalla sudditanza ai capipartito e capicorrente che li hanno nominati e li obblighino sia a trarre consenso dai loro elettori sia a essere responsabili nei loro confronti. Il cattivo funzionamento del parlamento è la condizione prima e fondamentale che incide sulla qualità di una democrazia parlamentare e che rischia di aprire una crisi di sistema senza prospettive.
Pubblicato il 15 febbraio 2022 su Il Fatto Quotidiano
Legge elettorale: tutti ne parlano senza sapere @fattoquotidiano

Si è detto che i partiti avrebbero approfittato dell’interludio garantito dal governo Draghi per procedere ad una loro raccomandabile ristrutturazione politica e programmatica. Ingenuamente ho sperato che anche i parlamentari e i giornalisti utilizzassero questo tempo per leggere e per imparare. Invece, leggo sul “Corriere della Sera” (29 ottobre), un occhiello in bella evidenza: “Berlusconi è il padre del maggioritario, è lui che ha creato il sistema bipolare. La legge elettorale deve restare maggioritaria”. Questa frase, non commentata, in buona parte riflette il pensiero politico-istituzionale di Antonio Tajani, ma anche di chi ha scelto di evidenziarla. Contiene almeno quattro errori gravi e fuorvianti. Il primo è che il padre dell’unico sistema elettorale quasi maggioritario, vale a dire la Legge Mattarella, fu il referendum elettorale del 18 aprile 1993 (osteggiato dagli amici politici di Berlusconi). Mai davvero gradita a Berlusconi poiché attribuiva tre/quarti dei seggi in collegi uninominali nei quali i candidati di Forza Italia, spesso poco conosciuti (ah, già: i “civici”), non ottenevano prestazioni brillanti, la Legge Mattarella venne sostituita dalla Legge Calderoli nel 2005. Una legge elettorale proporzionale con un più o meno ingente premio di maggioranza non è, secondo errore, un “maggioritario”. Nel migliore dei casi, che non è quello della Legge Calderoli, è un sistema misto a chiara prevalenza proporzionale. No, terzo errore, non è Berlusconi che ha “creato” il sistema bipolare. Il bipolarismo, al quale se, seguendo gli accorati appelli dei commentatori del Corriere, Direttore incluso, facesse la sua comparsa un centro di buone dimensioni, non arriveremmo mai, è stato incoraggiato e quasi conseguito dalla Legge Mattarella. Vero è che i premi di maggioranza incentivano una competizione bipolare, ma il rischio in questo caso è che, invece di due poli, si facciano strada due coalizioni eterogenee (qualcuno ha usato il termine “ammucchiata”, ma non mi permetterei mai espressioni così antipolitiche!) nelle quali i piccoli, ma indispensabili contraenti farebbero valere il loro potere di ricatto, che sperimenterebbero non pochi problemi di governo.
Il quarto errore consiste nel sostenere che la legge elettorale vigente, Legge Rosato, sia maggioritaria e, peggio, che debba restare. Tanto per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la Legge Rosato dovrà comunque essere ritoccata e molto poiché il numero dei parlamentari da eleggere è stato ridotto di un terzo. Inoltre, da qualsiasi parte la si rigiri, la Legge Rosato non è maggioritaria. Infatti, poco più di un terzo dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali, mentre quasi due terzi sono eletti con riferimento proporzionale alle percentuali di voti ottenute dai loro partiti che abbiano superato una bassa soglia percentuale di accesso alla Camera e al Senato. Dunque, ripeto: la Legge Rosato non è maggioritaria. Per la precisione, in tutti i testi sui sistemi elettorali solo due di loro vengono definiti maggioritari: l’inglese applicato in collegi uninominali dove vince la candidata che ottiene un voto più dei concorrenti, e il francese, dove, nei collegi uninominali vince al primo turno chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi, e al secondo turno chi ottiene la maggioranza relativa.
Temo che fare chiarezza sulla definizione dei sistemi elettorali, pur assolutamente indispensabile, non sia sufficiente, non lo è stato finora, per influenzare la necessaria stesura di una nuova, sperabilmente buona a duratura, legge elettorale. L’ossessione, intrattenuta dai politici, alimentata dai commentatori, non contrastata dagli studiosi, alcuni dei quali, anzi, ne sono complici, è che la legge elettorale serva/debba servire a eleggere il governo (meglio se la sera stessa del voto). Invece, come tutte le democrazie parlamentari del continente europeo, alcune da più di cent’anni, e lo stesso Regno Unito confermano con la forza dei dati, il compito delle leggi elettorali consiste nell’eleggere bene un Parlamento, nel dare buona rappresentanza politica all’elettorato, alla società. Poiché l’ho già detto e scritto una pluralità di volte sono certo di essermi salvato l’anima. Vorrei, però, che i legislatori andassero nella direzione giusta che è quella, non di governi di larghe intese al massimo ribasso, ma della rappresentanza politica degli italiani, con i parlamentari che rispondono in maniera responsabile ai loro elettori (non ai dirigenti dei partiti che li hanno nominati in collegi sicuri o collocati ai vertici delle liste elettorali) di quanto fanno, non fanno, fanno male e con gli elettori che hanno la possibilità di premiarli e di punirli con il loro voto. Guardando fuori dei confini dello stivale si può fare. Questo è il momento.
Pubblicato il 2 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano
Dalle elezioni il governo esce rafforzato. Ora il premier accontenti il Pd #intervista @ildubbionews


Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Come soddisfare i dem? «Ad esempio con un atteggiamento molto favorevole sul rinnovo del reddito di cittadinanza, pur con le variazioni, sulle pensioni, sull’immigrazione e sullo ius soli»
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, spiega che «Salvini e Meloni dovrebbero riflettere sui propri errori invece di scaricare le colpe su altri» e che il governo esce «appena rafforzato» dal voto, ma «ora Draghi deve rendersi conto che forse a qualche esigenza del Pd si deve rispondere».
Professor Pasquino, a chi è attribuibile la vittoria del centrosinistra alle Amministrative?
La vittoria è al 50 per cento di Letta. È stato ostinato, tenace, sobrio ed è riuscito a ottenere quello che voleva. Il restante 50 per cento è da dividere: attribuisco un 10 per cento a Conte, perché aveva fatto capire agli elettori del Movimento di votare per i candidati del centrosinistra; un 25 per cento agli stessi candidati, perché sono competenti e hanno buone idee per governare le loro città; un 15 per cento al programma complessivo del centrosinistra, che è meno contundente di quello del centrodestra. Sono rimasto stupefatto, come sa sono abbastanza critico del Pd ma Gualtieri, Lo Russo e anche Russo che ha perso a Trieste sono stati candidati efficaci. Insomma il centrosinistra ha scelto bene.
Il Movimento 5 Stelle è destinato a diventare junior partner del Pd nella coalizione di centrosinistra?
Credo che ormai sia inevitabile. Il ruolo di Conte sarà quello di far passare alcune delle idee del Movimento nella coalizione. Non dimentichiamoci tuttavia che è riuscito a convincere una parte di elettori pentastellati romani che non era il caso di astenersi e men che mai di votare per Michetti. In una vittoria con il 60 per cento dei consensi è difficile che non ci siano anche elettori del M5S. Stessa cosa a Torino, ma a Roma l’apporto di Conte è stato diretto.
Letta ha parlato di coalizione larga, da Conte a Calenda, anche se quest’ultimo non è apparso molto entusiasta. Cosa ne pensa?
Credo che la coalizione debba fare affidamento sulle leadership che ci sono. Quindi purtroppo bisognerà parlare anche con Calenda e Renzi. Ma poi ci sono gli elettori, che sanno che o si allarga la colazione o il paese finisce in mano a Salvini e Meloni. Non sono affatto sicuro che Calenda riesca a convincere i suoi elettori a fare cose contronatura. Renzi ci proverà e alzerà il prezzo ma anche gli elettori di Italia viva sanno che è meglio sopravvivere in uno schieramento di centrosinistra che finire schiacciati da Lega e Fratelli d’Italia.
A proposito di Lega e Fratelli d’Italia, di chi è la colpa della sconfitta?
Salvini e Meloni dovrebbero riflettere sui propri errori invece di scaricare le colpe su altri. Non è il tempo che è mancato, sono loro che hanno scelto tardi i candidati. I quali sono stati pescati dai leader, prima di tutto Michetti e Bernardo. Scegliendo un politico a Milano il centrodestra sarebbe stato molto più competitivo. Dovrebbero riflettere anche sul fatto che i sondaggi fotografano una situazione per quel che riguarda l’andamento del partito ma dall’ultima fotografia sono accadute alcune cose, come il caso Morisi, il caso Fd’I a Milano, l’assalto alla Cgil. Fatti non prodotti dalla sinistra, ma dai loro seguaci.
La forte astensione è causata dalla pandemia, dal fatto che tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia sostengono Draghi o cos’altro?
Lascerei stare Draghi, che non c’entra niente. Ci mancherebbe che collegassimo l’astensione alla soddisfazione o meno sul governo Draghi. Il punto è che chi vuole vincere deve saper mobilitare i propri elettori e sia Salvini che Meloni non l’hanno saputo fare. Il Pd evidentemente ha una capacità di mobilitazione maggiore. Forse la Meloni doveva impegnarsi di più in prima persona, non soltanto a Roma.
Non pensa ci sia comunque un problema di disaffezione nei confronti della politica?
Dell’astensionismo dobbiamo certamente preoccuparci, perché è chiaro che una parte di elettori crede poco in questa politica e quella parte va recuperata. Ci sono poi strumenti che facilitano la partecipazione, come il voto per posta, e questi strumenti ormai andrebbero presi in considerazione per recuperare un 5, forse 10 per cento di astenuti.
Crede che una legge elettorale di stampo proporzionale, di cui già si parla, porrebbe le basi per la nascita di un nuovo centro?
Non sono dell’idea di costruire un centro artificiale mettendo insieme Calenda, Renzi e altri. Vorrei che fosse un’operazione più limpida e non fatta solo per dare ragione al direttore del Corriere della Sera o a qualche suo editorialista. Poi possiamo anche avere una legge proporzionale ma dev’esserci uno sbarramento per evitare la frammentazione del sistema politico e per impedire il potere di ricatto di qualche partitino.
Crede che il Pd per la troppa euforia o la Lega per sparigliare le carte potrebbero staccare la spina al governo e chiedere elezioni anticipate?
Mi pare che dal punto di vista numerico non basta che la Lega esca dal governo perché si vada a votare. E sarebbe anche un atto abbastanza grave, non condiviso da almeno un terzo del partito. Il governo sarebbe uscito indebolito se avesse vinto il centrodestra. Ne esce invece come prima o forse appena rafforzato, ma ora Draghi deve rendersi conto che forse a qualche esigenza del Pd si deve rispondere.
In che modo?
Ad esempio avendo un atteggiamento molto favorevole sul rinnovo del reddito di cittadinanza, pur con delle variazioni, sulle pensioni, sull’immigrazione e sullo ius soli. Sarebbe il modo migliore per compensare il Pd, che è l’alleato fin qui più forte e credibile del governo.
Cosa cambia in vista del voto per il nuovo presidente della Repubblica?
È ancora troppo presto, dico solo che il nome giusto sarebbe quello di Pier Ferdinando Casini, che è un decano del Parlamento, apprezzato da tutti, con molte conoscenze e infine un bravo ragazzo. Ma su alcune candidature ci sarà uno scontro bestiale. Preferirei non venisse eletto Draghi, perché vorrei che il governo andasse avanti fino al 2023. Ma deve scegliere lui, che ne sa più di me e lei. È una sua scelta personale.
Pubblicato il 20 ottobre 2021 su Il Dubbio
Dalle elezioni comunali ripercussioni sui partiti ma il governo è salvo #intervista @LumsaNews


Il politologo Pasquino a Lumsanews:il 40% degli elettori decide all’ultimo
Intervista raccolta da Tommaso Bertini
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, intervistato da Lumsanews, ha descritto come le prossime elezioni amministrative potranno influenzare la politica nazionale.
Il sistema elettorale delle amministrative presenta secondo lei delle criticità? Se ci sono, quali potrebbero essere le alternative?
“Ci sono altri metodi sicuramente, ma non credo che siano migliori di quello che abbiamo in Italia. Penso che coloro che criticano il sistema elettorale italiano si dimenticano che abbiamo avuto in passato un sistema che consentiva ai partiti di scegliere il sindaco dopo le elezioni, tagliando fuori il parere degli elettori”.
L’alleanza tra Pd e M5s in alcuni comuni italiani sarà la prova generale per una alleanza nazionale alle prossime politiche?
“Nelle elezioni amministrative comunali conta il territorio, e dunque in qualche territorio si possono fare alleanze di un certo genere, e in altri quelle alleanze sono impossibili. Detto questo, al momento vedo un’alleanza di centrosinistra meno compatta rispetto a quella ipotizzata per il centrodestra.”
Ci saranno ripercussioni sui rapporti di forza tra Lega e Fratelli d’Italia?
“Faranno tutti delle acrobazie per dimostrare che hanno vinto loro: che ha vinto Fratelli d’Italia qui e la Lega là. Le elezioni locali hanno una loro specificità, è difficilissimo mettere insieme i voti ottenuti a Milano con quelli ottenuti a Roma o a Torino, o nelle molte località di cui non parliamo perché non sono grandi città.”
Il nuovo corso del M5s influirà sul risultato elettorale, o le elezioni saranno un test per la leadership di Conte?
“Le elezioni non andranno né male né bene per loro, perché ci sono delle zone nelle quali i 5 stelle andranno relativamente bene, altre nelle quali andranno relativamente male. Conte sfrutterà al massimo i voti dove è andato bene, e dirà che nei luoghi dove è andato male non è colpa sua, ma che il processo di rinnovamento è appena agli inizi.”
In queste elezioni comunali quanto peso avrà l’ideologia e quanto invece la capacità di risolvere pragmaticamente i problemi delle città?
“Al di là del contesto milanese, dove il sindaco uscente cerca un secondo mandato, non si sa se i candidati saranno buoni sindaci, sarà una scommessa. Dopodiché, gli elettori italiani si orientano a seconda delle preferenze generali (sono più o meno di sinistra o destra) e sulla base della personalità del candidato. Questo può fare la differenza, come nel caso di Manfredi a Napoli.”
E le disuguaglianze economiche e sociali influiranno sul voto?
“Quelli che hanno poche risorse economiche, culturali e di status, sono quelli che abitualmente votano meno degli altri, che hanno meno informazioni. Ma complessivamente, l’Italia non è un Paese così diseguale, e quindi le disuguaglianze avranno poco impatto sul voto.”
Il voto degli indecisi ora sarà determinante o i giochi sono prevedibili?
“No, i giochi non sono prevedibili. Guardando i sondaggi dobbiamo essere molto preoccupati dall’imprevedibilità dell’elettorato italiano. Abbiamo circa un 40 per cento degli elettori che si dichiarano indecisi. Questi sceglieranno gli ultimi due o tre giorni.”
Questo voto avrà dei riflessi sulla politica nazionale? Se sì quali scenari si potranno creare?
“Se il M5s va particolarmente male, questo sarà un campanello d’allarme per il Pd in vista delle prossime elezioni politiche. Se la Lega va molto male, rispetto a Fratelli d’Italia, Salvini dovrà interrogarsi su quanto gli costa rimanere nell’esecutivo. Ma il governo Draghi non ha quasi nulla da temere. Infatti, se i 5 stelle perdono voti, dovranno rimanere al governo. Se Salvini esce, nessun problema, perché la maggioranza c’è ancora, con un qualche vantaggio per Forza Italia, che può sperare di catturare quella parte di leghisti che sanno benissimo che hanno bisogno dell’Europa, e che esprimono una linea pro-Europa.”
Pubblicato il 30 settembre 2021 su LumsaNews.it
Lo SPID referendum fa bene alla democrazia @fattoquotidiano

La apparente facilità con la quale, grazie all’uso dello SPID, sembra essere diventato possibile raccogliere le firme per i referendum abrogativi finirà per svuotare la democrazia parlamentare? Il quesito, seppure posto in maniera molto semplicistica, è legittimo. Per rispondervi adeguatamente è necessaria una riflessione a tutto campo sulle caratteristiche fondamentali della democrazia parlamentare. Il punto di partenza è che in tutte le democrazie parlamentari, a partire dalla loro “madre”, la democrazia di Westminster, all’incirca almeno l’80 per cento delle leggi sono di iniziativa governativa. In un senso molto preciso, non è il Parlamento che “fa le leggi”. È giusto così. Infatti, i partiti e i parlamentari della coalizione che dà vita al governo hanno ricevuto voti e consenso anche con riferimento al programma che hanno sottoposto agli elettori. Quindi, hanno il dovere politico e istituzionale di cercare di attuare quel programma. In Parlamento la maggioranza sosterrà la bontà dei disegni di legge del “suo” governo, peraltro, mantenendo il potere di emendarli e migliorarli, mentre l’opposizione dovrà svolgere il suo compito di controllo, ma anche di emendamento, fino al possibile rigetto di quei disegni di legge.
Dunque, è il controllo sull’operato del governo, non il “fare le leggi”, il compito più importante del Parlamento ed è anche la modalità con la quale l’opposizione può fare stagliare il suo profilo, dimostrare di essere influente, proporsi credibilmente come alternativa. Nessuna raffica di referendum sarà, da un lato, in grado di eliminare le leggi del governo, dall’altro, sostituire in toto la funzione di controllo del Parlamento. In effetti, quando i Costituenti italiani scrissero l’art. 75, oltre a mettere al riparo dal referendum alcune materie, “leggi tributari e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, stabilirono che il referendum ha come obiettivo “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge”. Pertanto, nessun referendum riuscirà mai a sostituire la scrittura, l’esame e l’approvazione parlamentare dei disegni di legge. Il referendum abrogativo italiano interviene esattamente come strumento di controllo sulle leggi approvate dal parlamento.
Nel corso del tempo abbiamo imparato che il taglio di alcun frasi e persino della punteggiatura di una legge finisce per produrre un testo nuovo, addirittura opposto alla legge “taglieggiata”. Sappiamo anche che il quesito referendario è sottoposto all’esame di ammissione/ammissibilità, prima della Corte di Cassazione, poi anche della Corte costituzionale. Infine, lo stesso Parlamento ha la facoltà di impedire che si tenga un referendum legiferando in materia e non soltanto, come spesso si sostiene, seguendo gli intenti perseguiti dai promotori del referendum. Anzi, potrebbe persino risultare che fra i loro intenti i referendari perseguano proprio quello di sollecitare il Parlamento a legiferare. In questo caso, i parlamentari godono della possibilità/opportunità di agire in tutta autonomia dal governo, che sia loro oppure no. Ne consegue che non è affatto vero che i referendum che, per brevità e scherzosamente chiamerò SPID, svuotano la democrazia parlamentare. Anzi, semmai la arricchiscono spingendo i cittadini ad attivarsi, diffondendo informazioni, creando una interlocuzione con il Parlamento (e con il governo).
“Colpevolizzare” referendum e referendari con prospettive allarmistiche è sbagliato e finisce anche per allontanare l’attenzione dai problemi veri della democrazia parlamentare italiana. L’intasamento causabile dai referendum è poca, pochissima cosa rispetto al restringimento della funzione di controllo parlamentare sull‘operato del governo causato dai troppi decreti, derivanti spesso da inadempimenti del governo stesso, e dalle richieste di voti di fiducia, che fanno cadere tutti gli emendamenti, anche quelli sicuramente migliorativi. Le soluzioni sono state proposte da tempo: riforma dei regolamenti parlamentari, ma non a scapito dei tempi e dei poteri dell’opposizione, e delegificazione (al cui proposito mi sento di aggiungere che, più o meno direttamente, “ce lo chiede l’Europa”!).
Una democrazia parlamentare non teme mai che i suoi cittadini si attivino, si organizzino, diventino influenti anche grazie a pratiche referendarie. Una democrazia parlamentare sa che il suo buon funzionamento e la sua efficacia dipendono dalle relazioni Governo/Parlamento. Con tutti i meriti che, personalmente di persona, sono disposto a riconoscere al governo Draghi, ritengo che il suo ricorso ai voti di fiducia, nel silenzio neppure imbarazzato dei commentatori che, con alto tasso di partigianeria lamentavano l’autoritarismo dei DPCM di Conte, sia eccessivo e per nulla consono al miglioramento della democrazia parlamentare e della politica in Italia.
Pubblicato il 29 settembre 2021 si Il Fatto Quotidiano
Marta Cartabia al Quirinale? Perché no: potrebbe essere la donna giusta al momento giusto #intervista @ildubbionews


Il professore Pasquino parla della possibile candidatura della Cartabia al Quirinale. E sul Governo dice: «E’ destinato a durare, non vedo scossoni».
Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, spiega perché «alla Lega converrebbe essere europeista», dice di vedere di buon occhio Marta Cartabia al Colle ed è convinto che «se la ripresa continua il governo è destinato a durare».
Professor Pasquino, come cambieranno i referendum nel prossimo futuro?
Firmare con lo Spid agevola in maniera piuttosto significativa coloro che vogliono proporre un referendum, anche se introduce una distinzione tra i cittadini che hanno facile accesso ai sistemi di tecnologia e gli altri. Oggi i firmatari sono gruppi più facili da attivare, come giovani e professionisti, e nel complesso questo produce maggiore facilità di raccogliere le firme e in misura non enorme incentiva la produzione di referendum.
Alcuni propongono l’innalzamento delle firme necessarie a proporre un referendum. È d’accordo?
Di aumento delle firme si parla da molto tempo per via delle norme scritte dai costituenti, quando l’elettorato italiano era di 30 milioni di persone mentre oggi è di 54. Allora scrissero 500mila e penso che 800mila firme, cioè la cifra sulla quale si è assestato il dibattito, è accettabile nel momento in cui viene reso più facile firmare come accade con lo Spid.
Si parla poi di abbassare il quorum, che ne pensa?
L’esito dei referendum è una storia diversa. Partiti e organizzazioni possono invitare all’astensione e quindi vanificare il referendum per mancanza di quorum. Per scongiurare questo fenomeno gli stessi che vogliono aumentare le firme dicono che bisogna ridurre il quorum in base alla percentuale di votanti all’ultima elezione nazionale che precede il referendum. Anche questa proposta mi pare abbia una sua logica e una sua validità.
Alcuni studiosi auspicano poi un controllo anticipato della Corte sull’ammissibilità dei quesiti. Arriveremo a questo correttivo?
Anche questo è fattibile ma sarebbe utile sentire cosa ne pensano i giudici costituzionali. Ma c’è un rischio: che ci sia un alto numero di richieste di referendum e quindi si intasi la Corte. Tuttavia se le cifra minima richiesta per il controllo è centomila firme, allora è difficile che ci siano molte richieste. Mi lasci dire però che la Corte non è stata brillante nel dichiarare l’accettabilità o meno del quesito in passato.
Cioè?
Se il referendum abrogativo si propone di abrogare la legge, bisogna che la abroghi nella sua interezza, non cambiando le virgole. Invece si è consentita l’abrogazione di alcune parti creando confusione.
Addentriamoci nell’agone politico. Come giudica l’addio alla Lega di Francesca Donato?
Come un segno che c’è qualcosa che non va. Ma il problema è a monte. La Lega alle Europee ha candidato diverse persone senza sottoporle a qualche filtro, raccogliendo un po’ di tutto. Una parte di quel tutto oggi si trova insoddisfatta e se ne va. Spesso poi converge in Fratelli d’Italia e lo fa solo perché Fd’I è in crescita. Pura strategia di sopravvivenza politica.
Se alle Amministrative Fratelli d’Italia dovesse scavalcare la Lega si arriverà alla resa dei conti?
Secondo me no, perché sarà tutto il centrodestra a non andare bene. Fratelli d’Italia ha imposto un candidato non brillante a Roma e altrove la Lega ha fatto lo stesso. Ma il loro futuro è comunque legato, perché separati non andranno lontano. Magari nemmeno insieme vinceranno, ma di certo quella è una condizione per provarci. Il problema sarà decidere il candidato alla presidenza del Consiglio. E lì se ne vedranno delle belle.
La nuova centralità di Berlusconi e il sostegno senza condizioni di Fi al governo Draghi daranno linfa alla parte moderata del centrodestra?
La parte moderata ed europeista del centrodestra non può fare tanti passi avanti rispetto a quelli che ha già fatto. L’europeismo è ormai attribuito al Pd, che è un partito convintamente europeista, senza nessuna tensione o cedimento. Si parla inoltre della candidatura di Berlusconi al Colle ma sarebbe il primo caso di un presidente della Repubblica eletto da condannato e in più a 85 anni. È un’operazione di vetrina che sminuisce il ruolo dell’istituzione della presidenza della Repubblica.
Per la quale invece si parla di Marta Cartabia, che ha appena portato a casa la riforma del penale. Come la vede?
Mi pare in fase ascendente. I candidati di cui si parla di più sono Mattarella, che ha già detto che non vorrebbe fare un altro mandato, e Draghi, che è indeciso tra l’ambizione personale del Quirinale e mettersi in gioco per cambiare in profondo il paese come sta già facendo. Tuttavia molti pensano che serva una donna e Marta Cartabia è la donna giusta al momento giusto. È stata presidente della Corte costituzionale, è ministro della Giustizia e sembra che abbia fatto una buona riforma. In più non ha nemici visibili e questo nel segreto dell’urna può giovare.
Un 5- 0 per il centrosinistra alle Comunali farà togliere qualche sassolino dalla scarpa a Enrico Letta?
Ci sono buone possibilità di un 5- 0, anche se Torino non mi pare messa bene per il candidato di centrosinistra. Se dovesse arrivare, Letta dovrebbe prendersi la vittoria che però a Milano sarebbe di Sala e a Bologna del Pd locale. Lui deve occuparsi di vincere a Siena e di cambiare il partito. Per ora di cambiamento non se n’è visto molto.
Sullo stesso fronte il Movimento è diviso tra l’estrema visibilità del presidente Conte e la fatica nel raccogliere voti sul territorio. Come andrà?
Il M5S ha cominciato con Parma e poi ha vinto a Torino e Roma. Quindi non è sempre andato male sul territorio. E anzi se andrà “meno male” di quello che pensiamo potrà anche dire che è in ripresa, ad esempio con una Raggi al 18- 20 per cento a Roma. Gli serve un risultato competitivo con il Pd e con la possibilità che numericamente la loro somma si avvicini a quella del centrodestra. Al Movimento servirebbe maggiore decentramento, favorendo i gruppi che si riferiscono ai Cinque stelle in provincia. Ma non è questa l’intenzione di Conte e di un partito che ha deciso di affidarsi a un leader improvvisato.
Intravede scossoni nei prossimi mesi di governo, magari a causa della Lega, o si andrà dritti fino al 2023?
Gli scossoni non li intravedo. La Lega ha dei ministri al governo ma soprattutto ha una classe dirigente che si è formata nella amministrazioni locali. Parlamentari e ministri hanno un contatto diretto con una parte di società che ha capito che rimanere in Europa è fondamentale, perché a questo sono legati i profitti delle imprese. È per questo che alla Lega converrebbe essere europeista. Il governo, se questa ripresa continua, è destinato a durare.
Pubblicato il 23 settembre 2021 su Il Dubbio
Quale coalizione tradirebbe Letta con il simbolo del Pd a Siena? @DomaniGiornale


Sostiene Letta che la sua scelta di “correre” per il collegio uninominale di Siena senza il simbolo del Partito Democratico è dettata dalla volontà di “privilegiare lo spirito di coalizione”. Non sono in grado di giudicare se e quanto quello spirito aleggi e volteggi su Siena e sulla coalizione, ma vedo alcuni inconvenienti di quella scelta. Certamente, Letta non si vergogna, come sostengono giornali e commentatori di destra, del suo partito in quanto tale, ma in qualche misura vuole segnare una distanza fra il PD e la faccenda brutta del Monte dei Paschi. Però, non è questa la fase, anche se lo volesse fare, in cui può permettersi di criticare i dirigenti, i candidati, gli ideologi (sic) del PD. Tuttavia, credo che qualche cenno critico mirato sarebbe utile. Ad esempio, a Bologna ne hanno già fatte di tutti i colori, in occasione delle primarie e nella scelta delle candidature al Consiglio comunale. Non essendoci rischi per la vittoria del candidato del partito, qualche parola critica relativamente alle carenze di democrazia e democraticità di un partito che si definisce “democratico” non sarebbe soltanto doverosa, ma anche utile.
Tornando al punto, prendo sul serio l’affermazione di Letta sullo spirito di coalizione, ma vedo in giro molte interpretazioni diverse di questo spirito. Le traduzioni concrete sembrano ispirate non ad una meditata visione di fondo e di lungo periodo, ad una vera strategia politica, ma all’opportunismo di vantaggi immediati: un pugno di voti in più. Di qui la moltiplicazione di liste dei più vari tipi per le elezioni amministrative con l’obiettivo di “pescare” qualche elettore/trice in aree che il Partito Democratico con le sue proposte non raggiungerebbe mai. Spesso, ed è grave, neanche tenta di raggiungere. Quelle variegate liste non costituiscono affatto un modo positivo e efficace di alimentare lo spirito di coalizione. Al contrario, accettano e registrano la frammentazione delle ambizioni particolaristiche, non tanto della società “civile” quanto di molti spezzoni del ceto politico che cerca di stare a galla senza produrre idee e senza rinnovarsi. In questo modo, nessun rinnovamento può essere conseguito neppure dal PD.
È augurabile che a Siena il segretario del PD spieghi con dovizia di particolari quale sarà la coalizione da costruire nel periodo che ci separa dalle prossime elezioni politiche. In prospettiva sistemica, però, dovrebbe preoccuparsi soprattutto di rafforzare, trasformandolo significativamente, il suo Partito Democratico. Per ragioni oggettive, vale a dire, l’essere un partito e il potere contare su una relativamente buona percentuale di voti, toccherà proprio al PD di svolgere il compito impegnativo di coalition-maker. Finora non ho visto nessuna indicazione che né il segretario né i suoi collaboratori né i capicorrente abbiano iniziato a interrogarsi su come costruire una coalizione progressista e europeista. Persino l’ineluttabilità di un rapporto serio e solido con il Movimento 5 Stelle non è ancora stata declinata nei suoi lati positivi e in quelli negativi, che pure esistono. Mi pare che sia tuttora assente la necessaria riflessione sulla ristrutturazione del sistema dei partiti che molti avevano annunciato come uno degli effettivi positivi della “sospensione”, non della politica, ma della competizione fra partiti, derivante dal governo Draghi.
Infine, non resta che chiedersi se lo “spirito della coalizione” si manifesterà in occasione del passaggio più importante, forse addirittura conclusivo, di questa legislatura: l’elezione del Presidente della Repubblica. Immagino che Letta stia già invocandolo poiché l’esito di quella elezione segnerà anche la prossima legislatura. O no?
Pubblicato il 1° settembre 2021 su Domani
Durigon, duro e impuro
Il deputato della Lega Claudio Durigon è Sottosegretario all’Economia nel governo Draghi. Una volta decisa l’assegnazione dei ministeri, i sottosegretari sono nominati dal Consiglio dei Ministri. Le proposte vengono dai partiti che compongono la coalizione di governo. Qualche approfondimento e modifica possono essere richiesti, ma i veti sono rarissimi. Definito l’uomo forte della Lega nel Lazio, Durigon è nato a Latina da famiglia di origini venete. Sta occupando le pagine dei giornali d’agosto con la sua proposta di eliminare i nomi di Falcone e Borsellino dal Parco comunale di Latina sostituendoli con quello di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Alla sua rude maniera Durigon persegue obiettivi personalistici e politici che, però, rivelano qualcosa sul paese reale.
Per quel che riguarda la sua persona, l’obiettivo lo ha già sicuramente conseguito. La visibilità e la risonanza che voleva nel suo ambiente di riferimento: i fascio-leghisti di Latina e del Lazio, sono aumentate. Politicamente, l’obiettivo, condiviso e apprezzato dai suoi superiori, a cominciare da Salvini, è più ambizioso: contenere e frenare l’avanzata impetuosa dei Fratelli d’Italia e, se possibile, ridimensionarla. Il terreno è quello giusto poiché di voti che si travasano a Latina e nel Lazio ce ne sono molti, il momento anche poiché si sta andando verso importanti elezioni amministrative a cominciare da Roma. A ottobre i numeri canteranno. Nel frattempo, però, ha fatto la sua comparsa un problema istituzionale che richiede una riflessione storica, entrambi terreni sui quali Durigon non appare particolarmente preparato.
Può un sottosegretario della Repubblica suggerire abbastanza rozzamente che un fascista è preferibile a due giudici antimafia di enorme e meritato prestigio? Quel sottosegretario si è dimenticato di avere giurato sulla Costituzione italiana che è anche il prodotto dell’antifascismo? Durigon ritiene che la Repubblicana italiana debba onorare i fascisti a preferenza di coloro che combatterono e morirono per debellare il cancro della mafia? Può darsi che Durigon si sbagli e che i nostalgici del fascismo da attrarre con uno specchietto per le allodole, l’intitolazione di un parco, siano molto meno di quelli che lui spera, rimane, però, aperta la riflessione storica.
A più di settant’anni dalla sconfitta del fascismo, una parte almeno degli italiani continua a ritenere che c’era qualcosa di buono e, temo, una parte tutt’altro che marginale di zona grigia rimane disinteressata e indifferente rispetto a qualsiasi manipolazione della storia. La soluzione più elegante sarebbe che Durigon si dimettesse su richiesta, tipo moral suasion, di Salvini. La soluzione più rapida è che Draghi tolga tutte le deleghe a Durigon, sfiduciandolo. Altrimenti non resta che la sfiducia votata in Parlamento magari con un dibattito serio che chiarisca ancora una volta perché con il fascismo, i suoi simboli, i suoi protagonisti, i conti sono chiusi. Purché non ci sia una prossima volta.
Pubblicato AGL il 14 agosto 2021