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Renzi sta indebolendo l’Italia #intervista @ilgiornale

“Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”. Matteo Renzi, il promotore del governo giallorosso, veste nuovamente i panni di Jep Gambardella e sembra pronto a far cadere Giuseppe Conte. Abbiamo chiesto a Gianfranco Pasquino, di analizzare l’attuale situazione politica.

Intervista raccolta da Francesco Curridori Domenico Ferrara 

Renzi, da leader di un partito “a vocazione maggioritaria” rischia di passare alla storia come un Mastella qualunque o il nuovo Ghino di tacco. Perché è avvenuta questa mutazione e dove lo porterà?

Io credo che la trasformazione sia effettivamente in corso, credo che il suo problema sia che non è mai riuscito a capire esattamente che cos’è la politica a livello nazionale e a questo punto è capo di un partitino e deve fare fruttare quella che è una rendita di posizione perché è in qualche modo il dominus di questo governo coi suoi parlamentari, una volta che si andasse a votare perderà questo ruolo e dunque scomparirà, quindi deve fare fruttare tutto adesso, dipende dalla sua mancanza complessiva di cultura politica.

Qual è l’obiettivo di Renzi? Rimpasto o elezioni?

Adesso apparentemente l’obiettivo immediato è di riuscire a controllare parte dell’ingente somma di denaro che verrà attraverso il Recovery Fund, l’obiettivo successivo probabilmente è un rimpasto anche se credo che non sia il problema di avere più ministri, forse vuole sconfiggere Conte con qualcuno che faccia più attenzione alle sue esigenze.

Il premier ha rilasciato una serie di interviste nelle quale si dice disponibile a trattare. La sua poltrona, stavolta, scricchiola per davvero?

No, io credo che Conte sia molto abile a contrastare queste che sono più che punture di spillo, sono tentativi di spingerlo giù da un burrone, credo che abbia dietro di sé Mattarella perché sa che non sarà facile sostituire Conte come primo ministro, credo che riuscirà a superare questo e lo farà cedendo parte del suo potere di controllo del denaro, credo che sia una buona cosa perché ha accentrato troppo nelle sue mani la gestione di questi ingenti fondi.

Nel merito del problema, sulla cabina di regia, Renzi ha ragione oppure è solo un pretesto per far cadere Conte?

Qualcuno mi accusa di essere prevenuto nei confronti di Renzi, io invece sostengo di essere postvenuto, cioè di aver visto e valutato tutti i suoi comportamenti a partire da quando fece cadere il governo Letta per sostituirlo, le sue affermazioni che poi contraddiceva coi suoi comportamenti, credo che abbia torto perché non sta operando per far funzionare meglio il governo del Paese ma sta intralciando questo funzionamento, sta minacciando, sta ricattando, indebolendo il governo, indebolendo l’Italia perché Conte è il volto italiano a Bruxelles.

Renzi, in caso di elezioni, è destinato a sparire oppure può sperare di avere di nuovo un ruolo centrale nella politica italiana?

Dipende moltissimo dalla legge elettorale, infatti Renzi dice una cosa che è sbagliata ma che contrasta quello che tutti chiamano il ritorno al proporzionale. L’attuale legge Rosato è una legge 2/3 proporzionale e 1/3 maggioritario, quindi nella proporzionale ci siamo già. Se ci sarà una soglia di esclusione del 5% Renzi non entrerà nel Parlamento.

Pubblicato il 11 dicembre 2020 si ilgiornale.it

La voglia di voto e i mezzi silenzi del Colle

In via di principio non esiste nessuna relazione pericolosa fra l’approvazione di una nuova e indispensabile legge elettorale e l’indizione di elezioni anticipate. Basterebbe riflettere, cosa che nessuno dei protagonisti sta facendo, sull’unico motivo politicamente e costituzionalmente valido per sciogliere il Parlamento prima della sua scadenza naturale (fine febbraio 2018): quando non esista più un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare in grado di funzionare. Non sembra questa la situazione del governo Gentiloni rispetto al quale, anzi, ripetutamente, il segretario del Partito Democratico continua ad affermare, però, in maniera un po’ contorta, il suo sostegno. Certo, in nome della governabilità che gli è sì cara, Matteo Renzi non dovrebbe rendersi responsabile di fare cadere tre governi guidati da esponenti del PD (Letta, il suo, Gentiloni) nella stessa legislatura. Ma, si sa, non c’è il due senza il tre. È possibile contrastare questo detto rilevando, lo stanno facendo in molti, che esistono importanti leggi da approvare, quantomeno quelle contro la tortura e per il testamento biologico, ma soprattutto la Legge di Stabilità. Non sembra, però, sufficiente a fare desistere coloro che vogliono elezioni anticipate a prescindere da qualsiasi considerazione: è la posizione apertamente dichiarata di Matteo Salvini, di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo. Forse Renzi aspetta un incidente di percorso del governo Gentiloni che gli tolga le castagne dal fuoco offrendo lo spunto migliore al Presidente Mattarella per, come si dice con un’espressione davvero sgradevole, “togliere la spina al Parlamento” e aprire la campagna elettorale. Si voterebbe, sconfiggendo con una agguerrita campagna elettorale il Generale Ferragosto, alla fine di settembre. Qualcuno addirittura, anche se la nuova legge elettorale italiana non ha quasi più nulla a che vedere con quella vigente in Germania, evoca il 24 settembre, data già fissata per le elezioni del Bundestag tedesco, regolarmente in carica per l’intero suo mandato quadriennale.

Tutte queste voci hanno fatto perdere la pazienza a Napolitano il quale, pure, è responsabile di avere dato a Renzi l’incarico di capo del governo nel febbraio 2014 e di averne sostenuto con ripetuti interventi le riforme costituzionali e il relativo referendum. Non è solo la delusione profonda nel segretario del PD che motiva Napolitano, ma la sua consapevolezza che qualsiasi campagna elettorale anticipata avrebbe un costo elevatissimo per l’Italia in termini economici — è già cresciuto lo spread con i titoli tedeschi–, e in termini di credibilità. Quali impegni possono “credibilmente”, ad esempio, agli occhi della Commissione Europea, dei singoli Commissari e degli operatori economici internazionali, prendere Gentiloni e Padoan se è molto probabile che fra qualche settimana diventino “anatre zoppe” (come i Presidenti USA a fine mandato) e fra pochi mesi non saranno neppure più al governo? Per di più, la grande maggioranza dei commentatori ripete da tempo due considerazioni sull’esito elettorale: non sarà affatto facile formare un nuovo governo; sarà un governo di coalizione fra il PD di Renzi e Berlusconi (per molte ragioni un esito nient’affatto rassicurante per gli investitori stranieri e per le autorità europee).

Temo che il chiacchiericcio sulle elezioni anticipate abbia, comunque, già fatto molti e irreversibili danni. I cosiddetti “quirinalisti” offrono diverse interpretazioni del silenzio del Presidente Mattarella: è pronto a dare il via libera allo scioglimento oppure tace sperando che la finestra temporale dello scioglimento anticipato si chiuda da sola. Credo, invece, che il Presidente che, secondo l’art. 87, “rappresenta l’unità nazionale”, dovrebbe fare sapere con solennità, ovviamente nelle forme e nei modi che preferisce, che l’interesse nazionale sta molto al disopra del miope tornaconto dei singoli partiti e dei loro dirigenti. Quella che sta arrivando è un’occasione da manuale per l’esercizio della moral suasion, anzi, della dissuasione morale, argomentata, anche in un messaggio alle Camere, affinché serva da lezione costituzionale.

Pubblicato AGL 8 giugno 2017

Tre sistemi elettorali a confronto: Mattarellum, Porcellum e Italicum

paradoxaforum

Restaurare non è mai una scelta apprezzabile soprattutto perché, quando sono coinvolti uomini e donne, e non statue e quadri, è impossibile riavvolgere il tempo. Cambiano gli uomini, cambiano le donne, entrambi imparano, il tempo passa e crea nuove situazioni. Dunque, non si “restaurerà” il Mattarellum che abbiamo conosciuto e che, utilizzato in tre elezioni, produsse esiti di volta in volta migliori. Riflettendo su vent’anni di elezioni e tre sistemi elettorali, è possibile fare meglio.

Qui cercherò in maniera sintetica di esaminare gli effetti del Mattarellum e del Porcellum paragonandoli a quelli proposti e promessi dall’Italicum che mai fu. Un sistema elettorale, tutti i sistemi elettorali debbono essere valutati, anzitutto, con riferimento al potere che danno agli elettori, in secondo luogo, con riferimento al Parlamento che eleggono, in terzo luogo, con riferimento alla formazione del governo. Il potere degli elettori varia a seconda che possano votare solo per un partito oppure anche per il candidato che li rappresenterà oppure anche per la coalizione preferita. Nelle democrazie parlamentari, gli elettori non votano mai per il governo. Il loro voto dà vita ad un parlamento nel quale si formerà il governo che da quel parlamento potrà essere “rimpastato” oppure sostituito nella sua interezza.

Tenendo a mente questi cinque elementi (scelta dei candidati, voto ai singoli partiti, elezione dei parlamentari, indicazione delle coalizioni, formazione del governo), è possibile costruire un indice che misuri il potere elettorale complessivo dei cittadini. A ciascun elemento sarà assegnato un punteggio che va da 0 (nullo) a 3 (massimo), con punteggi intermedi che indicano un potere ridotto (1) o medio (2). L’indice di “potere degli elettori” andrà, dunque, da 0 (nessun potere agli elettori) a 15 (massimo potere elettorale).

Partiamo dal Mattarellum. Questo sistema consentiva di votare per i candidati nei collegi uninominali e, alla Camera, anche per liste di partito. Dal momento che gli imperativi elettorali spingevano alla formazione di coalizioni pre-elettorali a sostegno dei candidati nei collegi uninominali, gli elettori avevano anche la possibilità di scegliere fra coalizioni che si candidavano al governo. La tabella che segue sintetizza questi elementi.

tabella-1

Nel caso dei candidati il punteggio non può essere il più elevato poiché grande fu il numero dei candidati paracadutati, quindi, 2. Per quel che riguarda le coalizioni sempre si trasformarono in governi. Quindi, 3. Le coalizioni “mascheravano”, almeno in parte, i partiti, quindi, punteggio 2 per il voto di partito. Nel caso del Parlamento, tenendo conto dell’alto numero dei trasformisti, il punteggio deve essere non più di 1. Soltanto inizialmente i governi furono espressione delle coalizioni. In nessuna delle tre elezioni 1994, 1996, 2001, il governo che aveva iniziato la legislatura riuscì a concluderla. La composizione dei governi cambiò, rispettivamente: molto nel 1996, abbastanza nel 2001, poco nel 2006 (punteggio 2).

Molto diversi sono stati gli effetti del Porcellum, un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza alla coalizione che ottiene il più alto numero di voti e liste bloccate.

Con il Porcellum, gli elettori erano confinati a tracciare una crocetta sul simbolo della coalizione e nulla più in questo modo acconsentendo all’elezione dei candidati nell’ordine deciso dai capipartito (punteggio 0). I simboli dei partiti coalizzati erano visibili (punteggio 1), ma nell’opzione di voto la coalizione ha sicuramente avuto il sopravvento (punteggio 2). Anche i parlamenti eletti con il Porcellum (2006, 2008, 2013) sono stati caratterizzati dalla comparsa di un alto numero di trasformisti (punteggio 1). I governi ai tempi del Porcellum sono stati molti. Pochi derivanti dall’esito elettorale: Prodi 2006-2008 e Berlusconi 2008-2011. Altri nacquero in corso d’opera: Monti 2011-2012; Renzi 2014-2016; Gentiloni 2016-2017. Il governo Letta 2013-2014 è un mix, soltanto in parte conseguenza dell’esito elettorale (punteggio 1).

Per quel che riguarda l’Italicum, la legge che, secondo Matteo Renzi (e i suoi corifei), “tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato”, stiamo parlando, tecnicamente, di un aborto: una legge nata morta. Tuttavia, mentre attendiamo la probabilmente inutile e sicuramente tardiva sentenza della Corte Costituzionale, possiamo valutare quelli che sarebbero stati i suoi potenziali effetti.

All’incirca il 60 per cento dei parlamentari diventerebbe tale per designazione dei capipartito/capicorrente (punteggio 1). I rimanenti avrebbero dovuto conquistarsi i voti di preferenza (disprezzatisssimi da molti corifei). Gli elettori sono costretti a votare i partiti (punteggio 2). Il parlamento potrebbe comunque esibire un alto numero di trasformisti (punteggio 2). Nessuna coalizione avrebbe interesse a formarsi (punteggio 0). Al ballottaggio gli elettori attribuirebbero un premio in seggi che consentirebbe/obbligherebbe il partito vittorioso a governare (punteggio 3). In buona misura questo sistema avrebbe, da un lato, fortemente distorto la rappresentanza politica e enormemente ridimensionato il ruolo del Parlamento, dall’altro, avrebbe prodotto la fuoruscita dal modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana.

Il punteggio complessivo comparato, per i tre sistemi elettorali, è indicato nella figura 1.

Figura 1

Figura 1

Alla luce di questa graduatoria comparata, c’è molto da lavorare per soprattutto per quei riformatori elettorali che mirino, ancora una volta, presuntuosamente, a inventare qualcosa che tutta l’Europa ci invidierebbe, invece di imitare il meglio che in Europa funziona da almeno cinquanta e più anni.

Pubblicato i 19 gennaio 2017 su ParadoXaforum

La leadership della rottamazione

Larivistailmulino

“E’ un’illusione -tanto pericolosa quanto diffusa- che nelle democrazie contemporanee quanto più un leader domina il suo partito e il governo tanto più è grande” *

Articolo pubblicato da La rivista il Mulino,

fascicolo n. 478, 2/2015 (pp. 254-259)

A fior di pelle, l’emergere di un leader mini-populista nel corpo affaticato del Partito Democratico, appesantito dalle resistenze, per lo più verbali e poco contro-propositive, degli epigoni del PCI e della DC, è un fenomeno interessante. Per il momento, lascio la descrizione della rapida sequenza degli avvenimenti alle cure degli storici contemporanei (anche perché ce ne siamo già variamente occupati nei saggi curati da G. Pasquino e F. Venturino, Il Partito Democratico secondo Matteo, Bononia University Press 2014). In questa sede, intendo valutare come il nuovo leader del PD si è finora espresso, in quali direzioni sta andando, con quali risultati. Salvati suggerisce due ambiti sui quali concentrare l’attenzione: l’innovazione mediatico-organizzativa e l’innovazione politico-ideologica. Mi pare che le due presunte innovazioni si intersechino e si sovrappongano. Pertanto, pur facendovi riferimento, più o meno indiretto, non le terrò distinte. Per capire il renzismo bisogna inserirlo nel quadro più ampio della transizione politico-istituzionale del sistema politico italiano iniziata nel 1994 e mai chiusa da Silvio Berlusconi, leader inizialmente carismatico, poi più semplicemente personalista, provatosi incapace di istituzionalizzare il suo carisma e di preparare la sua successione. Sembrò a molti che sarebbe toccato al Partito Democratico guidato da Bersani di chiudere la transizione anche se con l’espressione troppo spesso ripetuta: “la Costituzione più bella del mondo”, alcune delle necessarie riforme non avrebbero comunque mai visto la luce. La non-vittoria elettorale di Bersani e la sua cattiva gestione del partito portarono, invece, ad una rielezione senza precedenti del Presidente della Repubblica. Imposero la formazione di un altro governo di transizione, incidentalmente, un altro esemplare di “governo del Presidente”. Produssero l’ennesima crisi interna al Partito Democratico della quale Renzi seppe trarre profitto incassando con gli interessi il suo investimento personale, politico, organizzativo effettuato fin dalle primarie del novembre-dicembre 2012 concessegli con fin troppa generosità (o eccesso di sicurezza) da Bersani.

Due volte favorito dal contesto, ma anche due volte capace di sfruttarlo, il renzismo è velocità e opportunismo, Renzi conquistò in rapida, quasi ineluttabile, sequenza il partito e il governo (grazie anche alla non opposizione del Presidente Napolitano e alla sua non-richiesta di formale apertura in Parlamento della crisi del governo Letta)). Questa breve, sintetica, ma corretta, storia, che richiederebbe approfondimenti politici e istituzionali ad ogni passaggio (al fine di evitare errori, non soltanto interpretativi, e di non ripeterli) dell’ascesa dell’ex-sindaco di Firenze mi pare non abbia praticamente nulla in comune con la lunga lotta di Tony Blair e di Gordon Brown, entrambi facilitati dalle riforme introdotte nel corpo del partito dal loro predecessore e mentore John Smith, finalizzata ad ammodernare il partito laburista e farne il New Labour (incidentalmente, sulla scheda elettorale queste due parole non hanno mai fatto la loro comparsa). Non c’è paragone possibile neppure con la conquista del governo che per Blair passa attraverso una convincente vittoria elettorale nel 1997. Lasciando da parte il confronto delle personalità Blair/Renzi, della loro oratoria, dei loro riferimenti, non si deve sottacere che il leader laburista ha alle spalle un tirocinio parlamentare durato 14 anni. Infine, intorno a Blair c’è un gruppo dirigente composto da personalità di alto livello esposta ad un’elaborazione culturale di alto livello (e molto disposta ad accettarla) il cui esponente da noi più noto è un grande sociologo, Anthony Giddens, oggi Lord Giddens, il vero ispiratore e teorico della Terza Via.

Nel ristretto circolo di persone che si dice consiglino Renzi ho cercato invano intellettuali dello spessore di Giddens. Non mi è parso di cogliere nelle varie Leopolde una elaborazione culturale e politica in qualche modo paragonabile a quella dei laburisti e dei think tank che, senza identificarsi con il New Labour, formulavano idee per il rinnovamento del partito e delle sue politiche. Di conseguenza, ho definitivamente abbandonato il paragone Renzi/Blair (e PD/New Labour) ritenendolo sbagliato, fuorviante, improponibile. Il Partito Democratico di Matteo Renzi non ha praticamente nulla in comune con il New Labour di Blair. L’oratoria di Blair non ha mai fatto ricorso a termini come rottamazione, non soltanto perché la tradizione in Gran Bretagna conta, l’esperienza è ritenuta una qualità, le conoscenze si apprendono, e non ha mai fatto riferimento a Peppa Pig o simili. Per quanto brillante e sferzante, come Max Weber sapeva dovessero essere i Primi ministri inglesi, “dittatori del campo di battaglia parlamentare”, campo peraltro frequentato da Blair quasi unicamente nei mercoledì del question time, il Primo ministro inglese non ha mai dimenticato che la più alta carica di governo richiede gravitas. Da parte mia, aggiungo che tutti i grandi capi di governo delle democrazie occidentali (da Churchill a De Gasperi, da de Gaulle a Brandt, da Kohl a Merkel) hanno mostrato questa gravitas e che proprio la levitas (spero che i lettori apprezzino il mio eufemismo) berlusconiana ha costituito un elemento di straordinaria vulnerabilità della sua stagione di governo e, giustamente, della sua statura di leader.

Niente di tutto quello che riguarda il Partito laburista, la conquista della leadership, l’esercizio del potere di governo è, evidentemente, folclore. Fa parte di una cultura politica che segnala quanto imbarazzante è il paragone con quella italiana. Dunque, meglio fuoruscire dal paragone nobilitante e passare sul terreno dell’innovazione organizzativa. L’abbandono del partito di massa, già avvenuto qualche tempo prima dell’anno 1 dell’era di Renzi, non può certamente essere considerato un suo apporto alla modernizzazione. Ci si potrebbe chiedere come è strutturato e come funziona il Partito Democratico di Renzi. E’ una domanda legittima in particolare poiché Renzi e i renziani di tutte le ore occupano attualmente le cariche più importanti nel partito a tutti i livelli. Non importa se sono diminuiti gli iscritti poiché questo è un trend generale in Europa in tutti i partiti grosso modo di sinistra. Un conto, però, è la tendenza di fondo, un conto molto diverso sono, invece, i crolli. Sappiamo che il leader mediatico non ha bisogno di iscritti. Non ha il tempo di andare a cercarli; non incoraggia nessuna campagna di reclutamento per la quale i renziani dovrebbero impegnarsi a parlare di politica con i già iscritti, che vorrebbero andarsene, e con i non iscritti, che desiderano farsi convincere. Forse nell’era dei talk show e di Twitter i voti si conquistano con le nuove tecnologie, ma, direbbe Gramsci (“chi?”), il consenso duraturo e, soprattutto, la formazione di una cultura politica diffusa non passano sul web.

Il fatto è che, altro che innovazione “mediatico-ideologica”!, il Partito Democratico di Renzi è piantato nel contesto del sistema dei partiti italiani. Con appena qualche ritardo (ma soltanto perché Veltroni, incamminatosi, con maggiore consapevolezza, su quella strada, era stato costretto a fermarsi) sta diventando, come hanno notato i migliori analisti, ad esempio, Mauro Calise e Ilvo Diamanti, un partito personalista. Nessuno può sostenere neanche per un momento che, lasciando da parte i partiti in senso lato socialisti di tutta l’Europa, i laburisti inglesi, neppure quando il loro leader era Blair, possano essere definiti “personalisti”. Invece, in Italia, nessuno avrebbe dubbi sull’esistenza di molti partiti personalisti. Anzi, ho già argomentato altrove (Italy: The Triumph of Personalist Parties, in “P&P Politics and Policy”, vol. 42, n. 4, August 2014, pp. 548-566), che tutti i partiti italiani sono personalisti e che i loro effetti sulla qualità della democrazia (che un leader dovrebbe volere e sapere migliorare) risultano assolutamente negativi. Qualcuno obietterà che il PD ha organismi decisionali, strutture e sedi, ma, non soltanto a mio modo di vedere, esibisce anche tutti i tratti caratteristici dei partiti personalisti: a) la presenza di un leader dominante e di un’organizzazione per scelta debolmente istituzionalizzata (dopo gli scandali di Venezia, Milano e Roma, diremmo giustamente anche “permeabile”); b) il dominio da parte del leader della comunicazione televisiva; c) il rapporto privilegiato a tutto campo con gli elettori (anche a scapito del rapporto con gli iscritti); d) il suo totale disinteresse per l’ideologia; e) la sua raccolta diretta di fondi. Al proposito, i più colti fra i politologi richiamerebbero anche la sindrome del partito pigliatutti di Otto Kirchheimer (1965) e avrebbero ragione da vendere. Naturalmente, se questa era/è l’intenzione dei fondatori del Partito Democratico e dei suoi cantori, ne prendo atto, ma soltanto dopo avere evidenziato i punti più significativi.

Qualche volta i leaders cambiano stile passando dal partito al governo, da alcune costrizioni a notevoli opportunità. Non è certamente questo il caso di Matteo Renzi. Decisionista nel partito, sostenuto da una solidissima maggioranza di renziani di tutte le ore, il capo del governo è riuscito, almeno fino ad ora, a fare credere che il suo è un governo che fa le riforme non fatte mai, almeno negli ultimi trent’anni (nel fascicolo 5/2014 “il Mulino” ha già gentilmente ospitato il mio articolo Un’altra narrazione che smentisce in maniera documentata quanto affermano il capo del governo e i suoi collaboratori). Non è questo il luogo nel quale entrare nei dettagli delle riforme proposte e dello stato della loro attuazione. Suggerisco un criterio semplice da applicare sui due casi da Renzi considerati decisivi. Il testo detto Italicum della riforma elettorale (incidentalmente un sistema proporzionale con premio di maggioranza che quasi nulla ha a che vedere con i sistemi maggioritari, meno che mai, come molto erroneamente scritto nello stesso fascicolo de “il Mulino”, p. 751 e p. 752 con quello francese maggioritario a doppio turno in collegi uninominali) ha una lontana somiglianza con le tre proposte formulate da Renzi nel gennaio 2014. La modifica del Senato approvata in prima lettura presenta non poche differenze rispetto all’iniziale disegno di legge del governo. Insomma, il capo del governo e il suo Ministro per le Riforme rilevano di avere idee poco chiare e convinzioni non forti in materia elettorale e istituzionale.

Più forti, ma non per questo più convincenti, sono le idee di Renzi in materia di rapporti con le parti sociali, più precisamente con i sindacati e altre associazioni di categoria. Sicuramente, Tocqueville non figura in maniera preminente fra le letture del capo del governo. Che vi sia un legame strettissimo fra democrazia e pluralismo dovrebbe essere noto a tutti. Meno noto, forse, è che le difficoltà socio-economiche sono state superate più rapidamente negli anni settanta dai sistemi politici nei quali i rapporti fra governi e parti sociali: sindacati e associazioni industriali, diedero vita ad assetti definiti neo-corporativi. Nei sistemi politici nei quali si hanno scontri fra governi e sindacati l’esito non è mai efficace per il funzionamento dell’economia. Alla fine del decennio thatcheriano (1990), la Gran Bretagna, nella quale Margaret Thatcher aveva messo all’angolo i sindacati negando loro qualsiasi ruolo sociale e di rappresentanza, fu superata dall’Italia del pentapartito nella classifica delle nazioni più industrializzate. All’insegna della disintermediazione, Renzi potrà anche mettere ai margini i sindacati (che, dal canto loro, non sono esattamente le strutture più innovative del paese), ma avrà reso un cattivo servizio a tutta la società e resta da vedere se avrà rilanciato l’economia. Rottamazione della classe politica e disintermediazione della società non sembrano necessariamente le migliori ricette per cambiare la cultura politica, vale a dire le idee, le credenze, le concezioni degli italiani. Anzi, sembrano fatte apposta per coltivare il populismo che serpeggia nell’elettorato italiano, magari accompagnandolo con frequenti e ripetute critiche ai tecnocrati di Bruxelles ai quali i virtuosi governanti italiani imporranno di “cambiare verso”. Infine, che un leader non obietti alla definizione del suo partito come Partito della Nazione non può non destare qualche preoccupazione di scivolamento dal personalistico al solipsistico con venature di blando autoritarismo. Queste preoccupazioni crescono ascoltando il leader che dichiara “l’astensionismo è un problema secondario”.

E’ un segno dei tempi che quel che conta per misurare la leadership sia il metro della popolarità. In effetti, Renzi è molto popolare. Non sorprendentemente, poiché i capi di governo godono quasi sempre di maggior popolarità dei leader dell’opposizione soprattutto in un sistema multipartitico, Renzi risulta tuttora il più popolare dei leader italiani anche se i più recenti dati disponibili indicano la perdita di una decina di punti fra l’estate e l’autunno inoltrato del 2014. Non azzarderò nessun paragone con Churchill e de Gaulle e neppure con Blair e Merkel. La caratura di un leader si misura ex post facto, con riferimento alle sue riforme e allo stato del suo paese quando lo lascia: migliore o peggiore di come l’ha preso? Al momento, nessuno degli indicatori utilizzabili suggerisce che l’Italia stia meglio di poco meno di un anno fa, quando Renzi subentrò a Enrico Letta. Non ho nessuna remora a sospendere il giudizio, ma la sospensione non significa affatto che si debba dare un giudizio positivo sulle qualità di leader di Matteo Renzi. E’ consigliabile attendere che almeno alcune delle riforme siano completate e attuate. Sospendere il giudizio non significa sospendere le critiche, purché siano documentate. Anche se so che è fin troppo facile proiettarsi nel futuro, non posso trattenermi dal ricordare che la prova della pizza sta nel mangiarla. Ma la pizza confezionata da Renzi non è ancora pronta, e, più solennemente, che i grandi leader e gli statisti lasciano un paese in condizioni migliori di quelle in cui l’hanno trovato. Concludo citando una frase tratta da uno dei più importanti studi contemporanei sulla leadership (già citato in apertura): “in generale, l’accumulazione di enorme potere da parte di un singolo leader lastrica la strada per errori importanti nel migliore dei casi e per disastri nei peggiori”

*Archie Brown, The Myth of the Strong Leader. Political Leadership in the Modern Age, Londra, Bodley Head, 2014, p. vi.