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Revisione punitiva in salsa populista @MicroMega

La riforma sulla separazione delle carriere apre alla concentrazione di potere nelle mani dell’esecutivo

Lo scorso 30 ottobre è stato approvato il testo di riforma dell’ordinamento giudiziario. Il provvedimento – già pubblicato in Gazzetta ufficiale – entrerà in vigore solo dopo eventuale referendum confermativo, che con ogni probabilità si terrà nella primavera del 2026. MicroMega ha dedicato e continuerà a dedicare al tema – cruciale per la tenuta della nostra architettura democratica – diversi approfondimenti, che troverete mano a mano raccolti qui.

De minimis non curat praetor. Questa frase latina mi pare quanto mai appropriata per dare inizio a una sintetica riflessione sul significato politico e istituzionale della separazione delle carriere (che non è la riforma della giustizia) e su alcune importanti implicazioni. Sia chiaro che fanno opera meritoria tutti quei commentatori che analizzano punto per punto la riforma, criticano il criticabile, propongono soluzioni alternative. Un lavoro del genere in parte era stato proposto nell’iter della legge, ma la maggioranza parlamentare, va sottolineato, ha contrapposto una chiusura netta. La separazione delle carriere di pubblici ministeri e magistrati giudicanti è una legge di revisione costituzionale voluta dal governo Meloni, elaborata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, approvata dalla maggioranza parlamentare Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati. Senza accettare nessun apporto di origine esterna.

La revisione è significativa e avrebbe meritato una preparazione basata su dati e confronti che dovevano servire a rispondere al quesito principe: “in Italia il funzionamento della giustizia non è soddisfacente, rispetto a quali criteri e parametri? Perché i magistrati godono della possibilità di passare da Pubblici Ministeri a giudici e viceversa? Quanti di loro approfittano di questa possibilità?”

Valentina Maglione scrive su il “Sole 24 ore” il 14 ottobre 2025: “In base ai dati del Csm, in dieci anni, tra il 2015 e il 2024, sono stati in totale 362 i passaggi di funzione. Di questi, 147 sono stati mutamenti da funzione giudicante a requirente, mentre sono stati 215 i transiti dalle procure agli uffici giudicanti. In particolare, nel 2024, su 8.817 magistrati in servizio al 31 dicembre, sono stati 42 i passaggi di funzione, vale a dire lo 0,48% dell’organico”. Perché e in che modo questo davvero esiguo numero di passaggi comporta o ha comportato conseguenze negative, in particolare per i cittadini, nell’amministrazione della giustizia? Alcuni casi esemplari riconosciuti come gravissimi errori (drammatica la vicenda di Enzo Tortora) sarebbero stati evitati o resi impossibili con carriere separate?

Non volendo entrare nei dettagli – a mio modo di vedere, non è affatto lì che si trova il diavolo revisionatore – sono due gli ambiti che più o meno direttamente suggeriscono che, lungi dall’essere positiva per i cittadini, la separazione delle carriere produce rischi e crea ansie.

Il primo ambito è costitutivo dei regimi democratici: la separazione dei poteri. In democrazia, esecutivo, legislativo e giudiziario debbono godere di una loro autonomia funzionale e operativa. Però, da qualche decennio a questa parte alcuni autorevoli studiosi hanno rilevato che i confini delle reciproche autonomie sono flessibili e variabili e che l’autonomia si accompagna alla competizione. Governi instabili saranno facili prede dei Parlamenti che li hanno fatti nascere e morire, sostituendoli ad libitum. Parlamenti espressione di leggi elettorali balorde che danno poco potere agli elettori e molto ai dirigenti di partito saranno popolati da eletti non in grado di esercitare l’autonomia di cui pure disporrebbe la loro istituzione. Un potere giudiziario frammentato, di bassa produttività e con scarso prestigio avrà poche chance di fare valere il controllo di legalità sugli atti e sui comportamenti tanto dell’esecutivo quanto del legislativo.

Ristabilire i confini e ripristinare sfere di operatività e discrezionalità sono obiettivi condivisibili. Però, l’affermazione del Ministro Nordio che la separazione delle carriere è un, forse il, modo particolarmente importante “per fare recuperare alla politica il suo primato costituzionale”, è discutibilissima, anche pericolosa. Anzitutto, il primato costituzionale appartiene al popolo “che lo esercita nelle forme nei limiti della Costituzione” (art.1). In secondo luogo, subordinare l’autonomia di una istituzione, il giudiziario, a un’altra istituzione, l’esecutivo, squilibra il sistema in direzione potenzialmente autoritaria.

Questo rischio risulta moderatamente più elevato in un sistema politico come quello italiano, secondo ambito di cui tenere conto, che non ha mai brillato per il riconoscimento del primato della rule of law e la sua applicazione. Da Mani Pulite in poi il conflitto “politici contro magistrati” è stato una costante. Ricordiamo, a titolo di esempio, due affermazioni particolarmente gravi e rivelatrici di concezioni politiche profondamente errate. La prima è l’invito sferzante ai giudici che si intromettono nella vita politica a farsi eleggere come se l’elezione in Parlamento debba essere l’unico modo per contare in una società. La seconda è la convinzione manifestata da Berlusconi che conquistare il potere di governo implica la legittima possibilità di dettare i comportamenti a tutte le altre istituzioni. Il popolo avrebbe “unto” un leader che ha, dunque, acquisito il potere/dovere di guidare e decidere senza lacci e lacciuoli. Il cosiddetto premierato nasce anche da questa concezione istituzionale.

Non bisogna cercare coerenza in comportamenti perlopiù dettati da opportunismo, ma la decisione del governo Meloni di sottoporre a referendum costituzionale il disegno di legge approvato dal Parlamento si giustifica proprio per il desiderio di dimostrare la sua rispondenza alle preferenze del popolo.

Giunti al termine dell’elaborazione di un testo complesso, articolato, in più punti originale, i Costituenti non ebbero dubbi. Bisognava consentire la correzione, l’adattamento, l’aggiornamento del testo costituzionale da effettuarsi attraverso leggi approvate dal Parlamento, senza specificare chi ne potessero essere i proponenti. Delinearono una procedura “garantista”, che consiste in una doppia lettura in ciascuna camera a distanza minima di tre mesi per consentire un esame approfondito e non nervoso con approvazione definitiva a maggioranza assoluta. Stabilirono anche che la revisione potesse, non dovesse (il referendum costituzionale è, pertanto, facoltativo) essere sottoposta a referendum su richiesta di “un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. Due punti meritano di essere evidenziati. Fra i soggetti autorizzati a chiedere il referendum non c’è nessuna menzione del governo, sebbene, naturalmente, la richiesta non sia preclusa ai parlamentari della maggioranza governativa. Secondo punto, poiché la revisione entra senz’altro in vigore dopo tre mesi dalla sua approvazione, è logico ritenere che siano gli oppositori a chiedere il referendum con l’obiettivo di bocciarla, farla cadere. Dunque, non è affatto corretto usare l’aggettivo confermativo per il referendum costituzionale. L’esito può sì essere di conferma, ma il referendum chiesto contro la revisione merita semmai l’aggettivo oppositivo.

Nessun referendum è possibile se nella seconda lettura ad approvare la revisione sono stati i due terzi dei componenti di entrambe le Camere. In un sistema politico ad alto tasso di antiparlamentarismo i Costituenti vollero evitare una deleteria contrapposizione tra elettorato e parlamentari, di cui sarebbe apparsa evidente la non rappresentatività. Infine, senza necessità di un quorum di affluenza alle urne, la maggioranza dei votanti determina l’esito. I Costituenti vollero così premiare i cittadini interessati, informati partecipanti. Chi vota conta. Chi non vota ha, in qualche modo non apprezzabile, delegato la decisione a chi ha dedicato parte del suo tempo e delle sue energie a esprimere la sua preferenza.

Pur avendo fortemente sostenuto tutto l’iter parlamentare della separazione delle carriere, giustamente rivendicando l’esito e meno opportunamente proceduto alla richiesta del referendum, il Presidente del Consiglio ha ripetutamente dichiarato che non si dimetterà in caso di sconfitta. In effetti, dal punto di vista costituzionale le sue dimissioni non sono affatto obbligate. Dal punto di vista politico, però, avendo fatto della separazione delle carriere un preminente obiettivo politico, avendo impegnato il suo governo a sostegno della revisione fino a praticamente trasformare il referendum in una sorta di plebiscito sulla sua persona, Giorgia Meloni dovrebbe considerare il rigetto della revisione da lei voluta e imposta come equivalente a un voto di sfiducia. Esiste un precedente molto eloquente: le dimissioni nel dicembre 2016 di Matteo Renzi, duramente sconfitto nel referendum da lui voluto sulle “sue” revisioni costituzionali e da lui personalizzato facendone sostanzialmente un plebiscito sulla sua persona.

Resta da chiedersi quanto questo referendum influenzerà la più ancora ambiziosa proposta di revisione costituzionale della forma di governo. Infatti, l’eventuale elezione diretta del Presidente del Consiglio significa la fuoruscita dal parlamentarismo, modello istituzionale nel quale il governo è espresso, non dal popolo, ma dal Parlamento e a lui responsabile. Sarebbe un passo in più verso la concentrazione di potere nelle mani del capo dell’esecutivo.

Pubblicato il 17 novembre 2025 su Micromega

Il PD è un partito indispensabile. Chi lo sabota aiuta la destra @DomaniGiornale

Per lo spazio che occupa, per le politiche che propone, per il ruolo che può svolgere, il PD è un partito indispensabile. Questa sua indispensabilità, unita alle incertezze, alle contraddizioni e agli errori dei suoi dirigenti lo rende particolarmente e giustamente esposto alle critiche. Facendo tesoro di queste critiche, filtrandole e selezionandone il meglio, i suoi gruppi (proprio così, al plurale) dirigenti riuscirebbero fare crescere il partito oltre il 20 per cento o poco più degli attuali consensi elettorali.

  Lo spazio occupato è grosso modo equidistante fra due piccoli partiti che si contendono il centro, non propriamente affollato da elettori, e due organizzazioni che mirano ad un elettorato più orientato a sinistra. In assenza del Partito Democratico nessuno di questi raggruppamenti avrebbe qualche chance di contrastare credibilmente il governo di centro destra e di controproporre politiche rilevanti. Sulle politiche, il Partito Democratico soffre degli stessi problemi che hanno inciso e continuano ad incidere negativamente su molti partiti socialisti e progressisti. Per un insieme di ragioni, tutti hanno effettuato uno scivolamento verso politiche culturali, di genere e molto attente ai diritti, venendo percepiti come meno inclini e meno capaci di elaborare politiche economiche e sociali gradite e utili alle classi popolari. Per dirla in maniera giornalistica, insieme ad altri partiti simili, il PD è diventato il partito della ZTL dimenticando le periferie e i suoi abitanti/elettori e, naturalmente venendo fortemente penalizzato in termini di voti. Eguaglianza economica irraggiungibile, dislivello di status, di riconoscimento, di prestigio incolmabile: quasi il peggior dei mondi possibili.

  Nel contesto italiano forse un po’ di più che in altri contenti occidentali multipartitici, il ruolo che il PD può svolgere e al quale, spesso, adempie è doppiamente cruciale. Con la sua presenza attiva e convinta l’opposizione acquisisce maggior peso, visibilità, efficacia. Senza il suo contributo, le sue attività, le sue personalità non è minimamente concepibile/immaginabile che si affermi e esista una qualsiasi alternativa politico-elettorale praticabile al governo Meloni. Se, poi, è vero, come credo e sono in grado di documentare, che la qualità dei governi dipende anche dalla qualità delle opposizioni, ne consegue che il contributo complessivo del PD al funzionamento del sistema politico sarebbe elevato e ricadrebbe positivamente anche sui ceti popolari.

  Per essere all’altezza della sua indispensabilità (e del suo nome) il PD non può fare a meno del pluralismo interno, dell’incontro/scontro di posizioni diverse, di proposte, persino di prospettive in competizione. Mi pare che definire questa competizione come riguardante in maniera schematica, da un lato, i “movimentisti radicali” capeggiati dalla segretaria Schlein, dall’altro, i sobri “riformisti” che hanno abbandonato Bonaccini, sia troppo semplicistico e poco illuminante. Inoltre con riferimento alle dichiarazioni e alle non nuove prese di posizione dei riformisti vedo il duplice gravissimo rischio di indebolire il partito tanto nel ruolo di centro propulsore dell’opposizione quanto come asse portante dell’alternativa a venire. Comunque, il criterio principe con il quale valutare il tasso di riformismo dei riformisti non può essere quello di correre in soccorso delle “riforme” come quella della magistratura fatte dal governo Meloni, quasi un anticipo del soccorso da portare al più impegnativo e più dirompente premierato. Indebolendo il PD i rifomisti non stanno affatto facendo avanzare una prospettiva riformista. Al contrario, in parte danno qualcosa di più di una immeritata apertura di credito al governo (poi, si sa, i governi hanno sempre la possibilità di essere generosi), in parte maggiore ridimensionano il ruolo del loro partito, la sua indispensabilità e la sua efficacia. In definitiva, non giovano neppure al miglior funzionamento del sistema politico.

Pubblicato il 5 novembre 2025 su Domani

Meglio il diavolo che conosci: perché Meloni è ancora forte @DomaniGiornale

Appena superato per durata il governo Craxi, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si avvia a raggiungere i due governi più longevi della Repubblica guidati da Silvio Berlusconi, il II 1287 giorni e il IV 1412 giorni, e a centrare l’obiettivo più ambizioso. Infatti, il governo Meloni I ha notevolissime probabilità di diventare il primo e unico dei finora 68 governi italiani a completare l’intera legislatura 2022-2027. Così facendo, lo scrivo e lo sottolineo, farebbe cadere il presupposto fondante del suo disegno di legge costituzionale che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio “per il rafforzamento della stabilità del Governo”. Da tempo sappiamo che, da un lato, la stabilità dei governi è effettivamente un problema nelle democrazie parlamentari; dall’altro, che non dipende affatto dalla sua elezione diretta e popolare, che non esiste da nessuna parte. La stabilità dei governi parlamentari dalla Svezia alla Norvegia, dalla Germania alla Spagna dipende dalla coesione politica delle coalizioni e dalla loro condivisione programmatica, con il contributo essenziale, ma variabile, del capo del governo.

Nel caso italiano, sicuramente la leadership governativa di Giorgia Meloni ha fatto la sua parte che i sondaggi rilevano positivamente. Invece, le prestazioni del governo non sono certamente mirabolanti tantomeno se paragonate con gli obiettivi programmatici. In altri paesi esistono istituti che eseguono l’opera meritoria di valutare nella maniera più scientifica possibile il fatto, il non fatto, il malfatto. Qui lascerò da parte le mie preferenze politiche e programmatiche personali e enucleerò sommariamente solo alcune tematiche. L’immigrazione non è stata posta sotto controllo e il tanto vantato centro in Albania per lo più ospita meno di una ventina di persone al costo di parecchie migliaia di euro. Il tasso di crescita economica dell’Italia non è soltanto molto basso, è anche inferiore alla media degli Stati-membri dell’Unione Europea. Vero è che il governo ha riportato il deficit sotto il 3 per cento e, forse, eviteremo la procedura di infrazione, ma il debito pubblico rimane altissimo, 135 per cento del Prodotto Interno Lordo. Il livello medio dei salari italiani è al penultimo posto nell’UE. Il numero delle persone che vivono sotto la soglia della povertà è cresciuto.

Mai una priorità nelle preoccupazioni politiche degli italiani, la politica estera ha, comunque, offerto alla Presidente del consiglio grandi opportunità di mostrare che è una governante tenuta in considerazione, per lo più valutata affidabile e, talvolta, persino, nonostante qualche contraddizione, nient’affatto “cortigiana”, ma con una vicinanza a Trump che la rende relativamente influente. Poiché quel che conta è il parere dell’elettorato non sembra dubbio che nell’insieme Giorgia Meloni ha (re)suscitato una buona dose di orgoglio nazionale (un tempo prerogativa della squadra di calcio quando vinceva i mondiali. Il 12 luglio del 1982 ricordo di avere festeggiato con un gelato tricolore. Più o meno significativamente anche questo si riflette in maniera positiva sul governo. E poi si vede un’alternativa?

Nelle democrazie parlamentari con governi stabili le opposizioni contrastano sul merito i disegni di legge del governo, argomentando e proponendo, in piena consapevolezza che quel governo non cadrà anzitempo. Invece, le opposizioni italiane danno all’elettorato l’impressione che una “spallata” sia spesso possibile e praticabile in parte illudendolo in parte allarmandolo. Quella parte di elettorato –singoli e associazioni dei più vari tipi- non ampia, spesso decisiva, che gradisce la stabilità, ma sarebbe disponibile al cambio, vede le divisioni e le distanze politiche, le ambizioni e le gelosie, i personalismi delle e nelle opposizioni italiane che renderebbero un loro potenziale governo tutto meno che stabile. E, allora, ragionatamente, better the devil we know, si tiene più meno rassegnatamente, il governo Meloni I. Almeno fino a che le opposizioni, anche stimolate da commentatori e commentatrici non zelanti, ma capaci di criticarle per i loro molti errori, riescano a elaborare posizioni comuni lealmente sostenute e praticate. Domani potrebbe essere un altro giorno.

Pubblicato il 22 ottobre 2025 su Domani

I CPR in Albania non servono. La risposta deve essere europea @DomaniGiornale

Porre rimedio a un fallimento come quello, da più parti dichiarato, dei centri per migranti collocati in Albania, è persino più difficile di individuare una soluzione decente, praticabile, in grado di durare per un futuro imprevedibile. Le motivazioni giuridiche del fallimento sono state impeccabilmente argomentate da Vitalba Azzollini. Prima il governo ne prende atto meglio sarà. Sapere quel che non si deve fare, questa è la vera lezione anche per gli altri paesi europei e i loro capi di governo, non avvicina, però, nessuna soluzione. Dovremmo avere imparato che nessuna soluzione esiste a un fenomeno epocale di massa se non è una soluzione europea. Lo sanno anche molti “patrioti” che ciascuno dei loro governi, quand’anche si arrocchi orgogliosamente, non riuscirà a fermare i flussi migratori e dovrà comunque pagare un prezzo economico e securitario, anche sociale, nient’affatto marginale. Da tempo, un po’ tutti sostengono che la riposta debba essere europea, ma tutti sanno altresì che non sono solo i patrioti ad opporsi a quella soluzione.

I sostenitori della soluzione europea, è opportuno tornare ai punti fondamentali, la appoggiano a due considerazioni diversamente inoppugnabili. Non so in quale ordine metterle, ma si tratta di diritti e di bisogni. La questione dei diritti è molto complessa poiché riguarda persone che sono costrette a lasciare il loro paese oppresso da governanti autoritari che impediscono loro non solo di esercitare i diritti politici di oppositori, ma anche di guadagnarsi da vivere per sé e per le loro famiglie. I respingimenti e i rimpatri coatti nei paesi d’origine sono una condanna per evitare la quale i migranti sono comprensibilmente disposti ad accettare i più alti rischi. La individuazione dei paesi “sicuri” (Egitto? Bangladesh?, più sono sicuri meno migranti li lasceranno) non può essere affidata a nessun singolo governo europeo. L’elenco deve essere stilato dall’Unione Europea e dall’apposito Commissario con riferimento alle numerose ricerche esistenti su libertà, corruzione, democrazia.

La questione dei bisogni riguarda non solo i migranti stessi, la loro provenienza da paesi nei quali economicamente hanno solo la prospettiva della fame e della miseria (ma, attenzione, i dannati della terra non hanno neanche le risorse per tentare di emigrare). Riguarda il bisogno di migranti che, a causa dell’inarrestabile declino demografico, è lampante, persino crescente in un po’ tutti i paesi europei. Potrebbe essere tradotto in una relazione virtuosa: accoglienza in cambio di lavoro. Noi europei non dobbiamo provare che siamo buoni e accondiscendenti. Dobbiamo dimostrare che siamo civili e comprensivi. Il problema è che dimostrare civiltà e comprensione non è qualcosa che passa attraverso le parole e le mozioni degli affetti nelle quali parte della sinistra e dei cattolici sembra bearsi. Richiede impegno concreto e condiviso, consenso politico ampio, efficienza amministrativa diffusa.

Si potrebbe stilare la lista degli Stati-membri dell’Unione Europea che dispongono di queste essenziali risorse e in quali quantità, ma anche con quale disponibilità a metterle all’opera per fare fronte alla sfida, che non è solo sociale e culturale, ma anche tecnica e burocratica, dei migranti. Va detto che è proprio su questo terreno che l’Unione Europea dovrebbe dimostrare che l’unione fa la forza, che mettere insieme risorse, esperienze, competenze è un vero grande salto di qualità, che, più banalmente non saranno uno più centri albanesi a produrre soluzioni efficaci, decenti e a costi contenuti. Nel suo piccolo, questa è la lezione che discende da quel che è successo in/con l’Albania, da non ripetere. Per quanto difficile, la strada europea è l’unica perseguibile. Se ha imparato la lezione forse il governo italiano potrebbe prendere l’iniziativa.

Pubblicato il 12 febbraio 2025 su Domani

Mattarella e le lezioni di diritto alla destra @DomaniGiornale

Arbitro, equilibratore, notaio: nel corso del tempo, ai Presidenti della Repubblica italiana è stata data una collocazione super partes e attribuito un ruolo variamente definibile come asettico. Con Cossiga e soprattutto con Scalfaro e poi Napolitano, quel ruolo divenne di grande protagonismo costituzionale. Memorabile la risposta di Napolitano a chi lo accusava di essere di parte: “sì, sto dalla parte della Costituzione”.

   Ricordare e spesso insegnare la Costituzione alle nipotine e ai nipotini di coloro che votarono contro, sempre contrapponendo il presidenzialismo alla democrazia parlamentare, e a coloro che, anche quando, raramente, l’hanno letta, non sono andati oltre la prima riga dei diversi articoli, è il compito, come ha scritto Daniela Preziosi, di “pedagogia costituzionale” nel quale Mattarella dà il meglio di sé. Con buona pace delle diplomatiche smentite del Quirinale, è spesso possibile cogliere nelle brillantemente dosate parole del Presidente severe critiche alle azioni e alle dichiarazioni del governo e dei partiti, non solo di governo. Inevitabilmente, se le politiche governative contrastano palesemente con il dettato costituzionale, il Presidente della Repubblica ha non soltanto il diritto, ma il dovere di intervenire. Quando il riferimento è ad un articolo della Costituzione sembra utile per una migliore comprensione fare riferimento alle conoscenze e alle motivazioni che stanno a fondamento di quell’articolo. Ad esempio, non pochi Costituenti erano stati costretti all’esilio dal fascismo. Insieme a loro molti oppositori avevano avuto vita grama nei paesi che li ospitarono. Il riconoscimento, sancito nell’art. 10, del diritto d’asilo politico, è la logica conseguenza di esperienze di vita vissuta nonché di una visione del mondo ispirata a giustizia e solidarietà.

    Il Presidente della Repubblica non è un freno e un contrappeso costituzionale al governo, a nessun governo di qualsiasi composizione. Sono, comunque, governi da considerare legittimi in quanto espressione di una maggioranza parlamentare scaturita dalle elezioni, governi il cui capo ha lui stesso nominato e i cui ministri ha approvato. Nella misura in cui si sente costretto a intervenire il Presidente lo fa in nome della Costituzione non per favorire qualsivoglia opposizione. È sufficiente ricordare il sostegno esplicito agli aiuti alla “martoriata” (l’aggettivo più frequentemente usato dal Papa) Ucraina. Con l’art. 11 i Costituenti, ancora una volta per esperienze personali e per maturata concezione del mondo, ripudiarono le guerre “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, accettando la partecipazione italiana ad azioni coordinate che conducano alla pace e alla giustizia.

     Non mi pare necessario procedere a calcolare tutte le volte che gli oppositori dell’attuale governo hanno espresso posizioni contrarie a quelle, pienamente in linea con la Costituzione, argomentate e sostenute da Mattarella. Mi limito a sottolineare con forza che non si deve fare uso della Costituzione italiana à la carte, prendendo quel che piace e manipolando quel che va contro le proprie preferenze politiche. Il Presidente, instancabile predicatore costituzionale, ricorda a smemorati, opportunisti e manipolatori che le loro posizioni sono semplicemente sbagliate.

La riforma del cosiddetto premierato toglierebbe al Presidente della Repubblica i suoi due poteri costituzionali più importanti: nomina del Presidente del Consiglio e scioglimento o no del Parlamento. Rimarranno sulla carta, totalmente svuotati di sostanza. Quanto questo svuotamento inciderebbe sul ruolo complessivo del Presidente è un quesito tanto legittimo quanto rilevante. Appare molto improbabile, persino a prescindere dalle sue qualità personali e competenze, fattore comunque da non sottovalutare, che un Presidente fortemente ridimensionato, disarmato, riuscirebbe a diventare e rimanere un convincente predicatore costituzionale, protagonista della vita della Repubblica. Memento.

Pubblicato il 18 dicembre 2024 su Domani

Premierato, scandali e Orbán: bilancio di due anni meloniani @DomaniGiornale

“Chi conosce un solo biennio (di governo), non conosce neppure quel biennio”.  Infatti, non potrà dire che cosa è accaduto di eccezionale poiché non sa che cosa accade normalmente in un biennio (di governo). Su un punto delle rivendicazioni orgogliose del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si può e deve essere d’accordo. Il suo (primo) governo ha già conseguito il settimo posto nella classifica di durata dei governi italiani. In buona parte, quindi, ha usufruito di quella stabilità politica la cui mancanza Meloni ha messo come fondamento al suo disegno di legge costituzionale per “l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri”, il cosiddetto “premierato”. Incidentalmente, nel programma presentato da Fratelli d’Italia agli elettori nel 2022 non si trova il premierato ma il molto diverso presidenzialismo. Se, poi, il governo Meloni durasse (durerà?) per cinque anni, sarebbe il primo governo italiano a riuscirvi, manderebbe logicamente in frantumi la necessità del premierato. Non serve l’elezione diretta per durare. “Basta” la politica.

   Per una valutazione istituzionale più articolata dell’eventuale successo del governo, è naturalmente indispensabile guardare anche ai ministri. A mo’ di utile comparazione fino al 1992, i Presidenti del Consiglio cambiavano, pur meno spesso dei loro governi, ma molti ministri rimanevano in carica, talvolta era quasi un gioco dei quattro cantoni, molto a lungo, garantendo la stabilità e prevedibilità dell’azione politici di governo. Da questo punto di vista, il governo Meloni ha già avuto qualche problema (dimissioni, forzate, del sottosegretario Sgarbi, e “volontarie” del ministro della Cultura Sangiuliano. Ci sono poi un sottosegretario Delmastro Delle Vedove e un ministro Daniela Santanché rinviati a giudizio e un ministro e vice-presidente del Consiglio Matteo Salvini già sotto processo, sentenza attesa per il 20 dicembre. Censurare il profilo etico-politico del governo? No, solo ricordare qualche fatto meritevole di considerazione e comparazione. Nient’affatto meritevole, invece, dello scontro istituzionale fra il Ministro della Giustizia accompagnato dal Presidente del Senato e da una molteplicità di rappresentanti della maggioranza contro (settori del)la magistratura. Rebus sic stantibus, forse, il biennio appare meno brillante.

Le altre rivendicazioni di Meloni che riguardano le politiche finora attuate sono tutte tanto orgogliose quanto vaghe a cominciare da quella relativa alla messa in ordine dei conti pubblici e quella assolutamente controversa sull’aumento della spesa relativa alla sanità. Una buona opposizione avrebbe già anche contrapposto i suoi numeri per valutare l’aumento dei posti di lavoro, la diminuzione della disoccupazione, la crescita o no dei salari, l’impiego appropriato e le conseguenze degli ingenti fondi provenienti dal Piano Nazionale Ripresa e Resilienza. Dal canto mio, solo in parte, ma necessariamente, sento di dovere contraddire la mia posizione sulla indispensabilità di dati duri. Quindi, chiedo se alcuni provvedimenti come il più recente sulla maternità surrogata reato universale e il primo sui rave party, in mezzo quello relativo alla presenza delle organizzazioni pro-vita nei consultori per l’interruzione della gravidanza, qualche censura a scrittori scomodamente famosi, e, naturalmente il non troppo impalpabile senso di fastidio e di disgusto nei confronti dei mass media che non si possano controllare e normalizzare, come la RAI, non si configurino come un arretramento civile e culturale della nazione. Si scivola verso l’introduzione lenta e strisciante di elementi di illiberalismo à la Orbán, l’amico ritrovato, in attesa che “la madre di tutte le riforme” (Meloni), il premierato, al quale già vedo cedimenti di alcuni politici e costituzionalisti manovrieri, sia risolutivo: durare e decidere senza controlli e senza freni e contrappesi.

Pubblicato il 23 ottobre 2024 su Domani

La manovra non è solo numeri: per il futuro serve una vera strategia @DomaniGiornale

Dalle democrazie parlamentari anglosassoni, non dal presidenzialismo USA che è tutta un’altra non raccomandabile storia, è facile imparare che la legge finanziaria è l’atto più importante di qualsiasi governo. Dunque, non soltanto i governanti debbono scriver(se)la, ma hanno piena facoltà di far(se)la approvare dalla loro maggioranza parlamentare. La finanziaria è, ovviamente, soprattutto un documento economico con i numeri che contano, ma anche che, a saperli interrogare, raccontano molte storie. Anzitutto, c’è la storia delle modalità con le quali i vari governi hanno affrontato le esigenze dei loro concittadini, meglio se loro elettori. Del come hanno reagito alle urgenze, alle sfide. Del modo come hanno quantomeno cercato di tradurre le loro preferenze in politiche pubbliche.

Nella finanziaria i migliori fra i governi esprimono e articolano una filosofia, una visione di lungo periodo. Quando appare probabile che quella compagine di governo abbia la prospettiva di durare nel tempo, è lecito attendere e pretendere che gli interventi che riguardano l’economia, la società e la cultura esprimano con sufficiente chiarezza l’dea di nazione che quella compagine ha. Dalla terza finanziaria del governo Meloni sarebbe/è pertanto lecito aspettarsi qualcosa di più di soliti e stucchevoli riferimenti ai sacrifici, ovviamente, “per tutti” (magari graduati a seconda di chi più ha e che spesso neanche si accorgerà di un eventuale “sacrificio”), delle critiche al passato dei governi della parte politica opposta, degli scaricabarile e degli alibi: “ce lo chiede l’Europa”.

Al Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti non è possibile concedere di essere cattivo, come ha annunciato, se non spiega con chi, perché e in che modo vorrà e saprà esercitare la sua cattiveria. Sulla base dei precedenti, non gli riuscirà di fare granché, ma, soprattutto, questo è il punto da fermare, la sua cattiveria sarà episodica, marginale, non collegabile al disegno dell’Italia del futuro che il primo governo davvero e orgogliosamente di destra promette di costruire. Da un governo Meloni/Salvini/Tajani nessuno si aspetta l’indicazione di un’Italia sociale,” socialdemocratica” nella quale sacrifici e tagli riguardino quasi esclusivamente i settori già privilegiati. Con le parole del grande filosofo politico John Rawls, bisogna esigere che qualsiasi intervento non vada a scapito dei ceti inferiori, ma, al contrario, nei limiti del possibile, ne migliori le condizioni di vita e ne accresca le opportunità. Invece, anche la terza finanziaria di destra è un patchwork che mette insieme interventi disordinati senza un filo (né, comprensibilmente, rosso, né nero, né tricolore).

Le opposizioni hanno gioco facile a criticare ciascuno dei singoli provvedimenti, spesso indicando lo spostamento di risorse da un intervento ad un altro: dalla balorda gestione dell’immigrazione all’inadeguato finanziamento della sanità. Sono, tuttavia, colpevoli dello stesso difetto attribuibile alla maggioranza governativa. Le loro controproposte sono episodiche e non delineano quel tipo di società che vorrebbero costruire. Per stare nel discorso sulla necessità di convergenza e di coordinamento di un’area, di un campo (più) largo, ciascuna opposizione preferisce gioca nel suo campetto, con il suo pallone, persino con sue regole. Probabilmente, è già venuto il tempo di capire che una credibile alleanza che si candida al governo dovrebbe sfruttare l’opportunità della finanziaria elaborando un documento comune, una vera e propria finanziaria alternativa, lezione di metodo e di sostanza. Per la prossima volta, ma si può già cominciare subito.

Pubblicato il 16 ottobre 2024 su Domani

Gridare al lupo è stucchevole. Ma il rischio illiberale esiste @DomaniGiornale

Non sono persona che cede facilmente agli allarmismi. Non credo all’esistenza di una troppo sbandierata crisi della democrazia. I dati oramai ampiamente disponibili, provenienti da più fonti e da diverse agenzie di ricerca evidenziano che nessun sistema politico diventato democratico nel secondo dopoguerra ha perso la sua democrazia, con l’eccezione del Venezuela. Vedo, però, che fanno spesso la loro comparsa una pluralità di problemi di funzionamento, di maggiore o minore gravità, un po’ in tutte le democrazie contemporanee. Nessuno di quei problemi è insuperabile; nessuno ha portato al crollo del regime democratico. Tuttavia, in un (in)certo numero di casi, è facile constatare e comprovare che ne risulta ridotta la qualità di quelle specifiche democrazie. Dalla storia (sic) ho anche imparato che troppo spesso i democratici, politici e studiosi, hanno sottovalutato i problemi, si sono dimostrati troppo permissivi, non hanno reagito tempestivamente e con adeguato vigore. Proprio per tutte queste ragioni, ritengo opportuno non gridare “al lupo al lupo”, ma esplorare se esistano tracce dell’avvicinarsi del lupo qui in Italia.

Mi attenderei che questa esplorazione si giovasse in particolare del contributo degli studiosi, dei commentatori, dei politici che si definiscono liberali e che chiedono a tutti prove di liberalismo. Se viene colpito il principio fondamentale delle democrazie liberali che si chiama separazione delle istituzioni per cui a qualche istituzione si consente di invadere e occupare la sfera di autonomia delle altre, c’è un grosso rischio democratico. Nessun governo dovrebbe mai piegare il parlamento, assemblea nella quale ha la maggioranza, attraverso l’eccesso di decretazione d’urgenza per di più accompagnato dalla micidiale richiesta del voto di fiducia che non solo vanifica qualsiasi emendamento, ma impedisce la discussione sul merito. So che questa pratica ha radici profonde, mai adeguatamente recise. So anche che alcuni Presidenti della Repubblica e qualche sentenza della Corte Costituzionale hanno vanamente cercato rimedio. Però, constato che nei suoi due anni di vita il governo Meloni vi ha già fatto ricorso in maniera smodata, superiore a quella di tutti i suoi predecessori. Aggiungo che non è compito del parlamento “fare” le leggi, ma controllare, emendare, migliorare le leggi del governo, tutto questo reso impossibile dalla tagliola “decreto più voto di fiducia”.

Cinque giudici costituzionali sono eletti dal parlamento, che, ancora una volta, può significare, senza scandalo alcuno, dalla maggioranza parlamentare. Il discorso diventa inevitabilmente valutativo ovvero incentrato sul curriculum e sulla competenza delle candidature. Il solo pensare di eleggere chi ha avuto il ruolo fondamentale nella stesura di un disegno di legge costituzionale sul quale molto probabilissimamente vi sarà una richiesta di referendum per “proteggerlo”, mi pare riprovevole. Gli inglesi affermerebbero “it’s simply not done”. Poiché lampante è il conflitto di interessi, semplicemente non s’ha da fare. Ricordo anche che il premierato, “madre di tutte le riforme”, espressione di Giorgia Meloni sulla quale meditare, ridimensiona significativamente i poteri del Presidente della Repubblica di agire come “freno e contrappeso”, compito cruciale nell’ottica liberale, all’esercizio del potere di governo.

Nelle democrazie da tempo esiste un quarto potere, in senso lato, i mass media. Attraverso di loro, i cittadini si informano e, in generale, ma anche di volta in volta, nasce, si manifesta, opera l’opinione pubblica. Governi che querelano giornali e giornalisti, che li intimidiscono, come più volte fatto dal governo Meloni, mirano a rendere più difficoltosa la formazione di un’opinione pubblica adeguatamente informata. Ancora peggio, naturalmente, quando la maggioranza governativa va ad occupare armi e bagagli l’azienda RAI che in quanto pubblica dovrebbe offrire informazione imparziale e pluralista. Ho segnalato quello che, a mio parere, è l’inizio di un percorso illiberale. Può certamente essere rallentato e addirittura fermato anche grazie ai liberali coerenti. Così, sperabilmente, sia.

Pubblicato il 9 ottobre 2024 su Domani

Fuori dal piccolo cerchio di parenti e amici, il vuoto @DomaniGiornale

Al governo e nei dintorni sono meglio i politici, ovviamente anche donne, “puri”, nel doppio significato dell’aggettivo. Chi ha scelto di fare della politica la sua professione cercherà di comportarsi in maniera tale da soddisfare il suo elettorato. Lo faranno certamente costruendo reti di relazioni, ma soprattutto mostrandosi capaci di comprendere le preferenze degli elettori. Alcune leggi elettorali, non quella vigente in Italia, consentono, incentivano e premiano questi comportamenti. Il politico puro vuole e ha bisogno di essere rieletto. Cercherà anche di non fare inquinare la sua politica da fattori esterni e estranei al programma del suo partito e del suo leader. Il rischio di un eccessivo, mistico attaccamento al programma è quello della troppa continuità, dell’incapacità di innovare, soprattutto se molti e molto stretti sono i rapporti con i gruppi esterni. Peggio, però, è quando chi viene eletto e diventa governante esercita un’attività professionale che trae vantaggi dalla politica, fa parte di qualche gruppo le cui sorti sono influenzabili direttamente dalla politica più che da qualsiasi altro fattore, quando quell’esponente può sfruttare la sua carica pubblica a fini di arricchimento privato.

   Se un partito cresciuto elettoralmente in tempi brevi viene catapultato per la prima volta al governo, è per lo più inevitabile che scopra di avere una classe dirigente numericamente limitata e politicamente inesperta, che si renda conto che deve procedere a reclutare dall’esterno, ma anche che non può fare meno di coloro che compongono il cerchio stretto dei militanti della prima ora e di lungo corso. Giorgia Meloni ha premiato i suoi qualche volta dando la preminenza all’affidabilità personale sulla competenza specifica. Nonostante la sua dichiarata, comprensibile e talvolta persino condivisibile, avversione ai “tecnici”, ovvero a persone prive di un curriculum di ruoli politici, è stata costretta ad affidare qualche ministero proprio ad alcuni “tecnici”. Sono emersi conflitti di interesse, peraltro facilmente prevedibili. Hanno fatto la loro comparsa inadeguatezze, ingenuità, incompetenze. Qualcuno si è anche montato la testa con esiti imbarazzanti.

   Nelle democrazie parlamentari, la soluzione esiste e viene praticata: la sostituzione degli incompetenti, di quelli che sono lambiti da procedimenti giudiziari, dei portatori, tutt’altro che sani, di conflitti d’interessi. La Presidente del Consiglio ha espresso la sua contrarietà ai rimpasti di governo nel timore che producano una destabilizzazione complessiva della coalizione che lei vorrebbe portare intatta o quasi fino al termine naturale della legislatura, oppure forse perché il numero e la qualità dei “rimpastabili” sono davvero limitati. La coperta delle competenze alternative disponibili, come appare già per il rimpiazzo di Fitto, nei nomi che circolano per la Cultura, nella pur flebile difesa del Turismo, sembra, anzi, è davvero molto corta.

Ministri dimostratisi inadeguati, esposti al fuoco di più che legittime critiche, incapaci di imparare e migliorarsi sono ovviamente una zavorra per qualsiasi governo, ancora di più per il governo Meloni che mira a segnare una cesura profonda con il passato (nel quale, peraltro, rimpasti efficaci ridavano non poco slancio all’azione). Le opposizioni fanno il loro mestiere (qualche volta capita…) chiedendo le dimissioni di alcuni ministri, e hanno ragione. Male, invece, fa il capo del governo a resistere per puntiglio. Peggio sarebbe se lo fa per conclamabile mancanza di personale alternativo. Da questa manfrina a uscirne indebolita è la amata Nazione.

Pubblicato il 4 settembre 2024 su Domani

L’alternativa non è più una chimera. Costruire coalizioni è l’arte della politica @DomaniGiornale

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico sotto lo splendido sole della Sardegna. Per conquistare una carica monocratica, la Presidenza della Regione, assegnata in un solo turno elettorale, è decisivo costruire preventivamente una coalizione a sostegno della candidatura prescelta. Ferme restando le loro personali preferenze politiche, gli elettori rispondono valutando l’offerta dei partiti, della coalizione, della candidatura, in parte dei programmi e della capacità di governare. La vittoria di Alessandra Todde in Sardegna è il prodotto virtuoso di questo pacchetto di elementi. La grande soddisfazione di dirigenti e attivisti dello schieramento del centro-sinistra che ha vinto è comprensibile (e da me, per quel che conta, condivisibile). Procedere a generalizzazioni assolutistiche, “la sinistra unita non sarà mai sconfitta” (“il governo Meloni è indebolito”) e proiettare automaticamente la possibilità/probabilità di un esito sardo anche sulle altre elezioni regionali e sulla elezione dell’Europarlamento (che è tutta un’altra storia) è esagerato, sbagliato, rischia di risultare controproducente.

Ciascuna regione, a cominciare dall’Abruzzo, la prima a votare prossimamente, ha le sue peculiarità di storia politico-partitica, di governo, di problematiche socio-economiche. Se la lezione generale è che le coalizioni si costruiscono di volta in volta, saranno i dirigenti politici di quella regione a decidere se, come, con chi, attorno a quale candidatura costruire un’alleanza. La buona notizia, non so quanto importante per l’Abruzzo, è che Calenda ha twittato che l’esito sardo “è una lezione di cui terremo conto”. Traduzione “correre” come polo autonomo è perdente. Aggiungo che rischia sempre di fare perdere il polo più affine (ma qualcuno proprio quelle sconfitte vuole produrre).

Stare insieme in coalizioni elettorali che possono diventare di governo porta ad una più approfondita condivisione di obiettivi, di preferenze, di soluzioni programmatiche. Il discorso sui valori è, naturalmente, molto più complesso. Parte dalla Costituzione e porta all’Europa, tema che riguarda anche i governi regionali. Rimarranno sempre differenze programmatiche e politiche nella schieramento di centro-sinistra. Meglio non esaltarle e neppure seppellirle additando le profonde divisioni esistenti nel centro-destra. Infatti, quei partiti e i loro dirigenti sembrano avere maggiore consapevolezza del fatto che, separati e divisi, perdono e che il potere è un collante gradevolissimo, generosissimo. Inoltre, i loro elettorati sembrano socialmente più omogenei. Alla eterogeneità e diversità, sociale e, forse, più ancora culturale, dei rispettivi elettorati di riferimento, non basta che i dirigenti del centro-sinistra esaltino le differenze come risorse. Debbono ricomporle attorno a obiettivi e a candidature comuni il più rappresentative possibili.

Le elezioni per il Parlamento europeo, poiché si vota con una legge proporzionale con clausola di esclusione del 4 per cento, suggeriscono due comportamenti. Primo, evitare la frammentazione nel e del centro-sinistra. Secondo, poiché i partiti, a cominciare dal Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle, giustamente vogliono misurare il loro consenso correndo separatamente, dovrebbero evitare di scegliersi come bersagli reciproci. La sfida è delineare una visione per l’Unione Europea dei prossimi cinque anni, non criticare la visione dei propri alleati nazionali. La critica va indirizzata agli opportunismi, alle contraddizioni, ai patetici resti di sovranismo provinciale, dello stivale, dei tre partiti del centro-destra. L’obiettivo di fondo non è la mission al momento impossible di fare cadere il governo e sostituirlo, ma di dimostrare che esiste un’alternativa di centro-sinistra all’altezza della sfida. Adelante con juicio.

Pubblicato il 28 febbraio 2024 su Domani