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Lezioni dalla Francia. La democrazia funziona @DomaniGiornale del 10 luglio 2024

Tutt’altro che malandata, come troppi noiosi e sussiegosi commentatori continuano a ripetere, la democrazia funziona. Offre ai cittadini la possibilità di votare liberamente in elezioni competitive fra molti partiti e di produrre qualche alternanza al governo. La buona affluenza alle urne in Gran Bretagna e, soprattutto, in Francia segnala anche che, quando la posta in gioco è alta e la scelta importante, gli elettori decidono che vogliono influenzare l’esito andando alle urne. La buona notizia è che, come è successo domenica in Francia, ci riescono. Dunque, lezione da imparare, l’astensionismo può essere ridotto non solo con pure opportuni interventi che facilitino l’espressione del voto, ma se e quando i partiti, o quel che rimane di loro, vogliono e sanno offrire alternative programmatiche, politiche, valoriali chiare e credibili.

Contrariamente a opinioni malamente diffuse e variamente intrattenute, la democrazia non contiene affatto la promessa che l’esito elettorale si tradurrà immediatamente in un governo chiavi in mano (del Primo ministro). Questa situazione è molto frequente in Gran Bretagna e in alcuni altri sistemi politici che definisco anglosassoni, prodotta non (sol)tanto dalla legge elettorale, ma soprattutto dal formato e dal funzionamento bipartitico del sistema dei partiti, fattori tanto invidiabili quanto sostanzialmente non imitabili, non importabili. Altrove, come nella odierna Francia semipresidenziale, ma abitualmente in tutte le democrazie parlamentari, il governo si forma in Parlamento riflettendo sia i seggi dei partiti sia le loro vicinanze politiche sia le loro preferenze programmatiche sia, quando esistono, le loro collocazioni ideologiche. Sono tutti elementi complessi e mutevoli, ma anche conoscibili e controllabili da chi ha esperienza politica soprattutto laddove la storia politica è storia delle coalizioni di governo. 

Definire con allarmismo davvero peloso (ah, ah: quell’arrogante e presuntuoso Presidente Macron se l’è voluta e meritata) ingovernabilità questa situazione complessa che dopo il voto del 7 luglio caratterizza l’Assemblea Nazionale francese, è francamente fuori luogo. Fuorviante. Sbagliato. Comunque, la presunta ingovernabilità della Francia, che riguarderebbe il sistema politico e dei partiti, non deve in nessun modo essere fatta discendere da una non meglio precisata crisi della democrazia (francese e globale).

Tenere a bada e sconfiggere, questo è il verbo giusto, la sfida del Rassemblement National ha obbligato le sinistre a fare alleanze in parte eterogenee e a congegnare (abilità politica) desistenze indispensabili per vincere nei collegi uninominaIi. Chapeau alla generosità dei desistenti e all’ingegno di chi ha selezionato gli “insistenti”, la quasi totalità dei quali ha vinto. C’è bisogno di ricordare che generosità politica e ingegno istituzionale sono qualità delle quali i centro-sinistri (plurale) italiani non sembrano né disporre né apprezzare né volere imparare? Sì, certo, fatte salve pochissime eccezioni che al momento proprio non riesco a ricordare…

Adesso, la sfida, certamente molto insidiosa, consiste nel tenere insieme le neanche troppo sparse membra delle sinistre francesi. Non è una sfida alla democrazia, il cui stato di salute in Francia ha dimostrato di essere tutto sommato buono. Piuttosto è una sfida alle capacità istituzionali del Presidente Macron e alla saggezza politica dei dirigenti e dei parlamentari di quella che è una maggioranza abbastanza larga e altrettanto composita. Perdere la sfida significherebbe aprire la strada ad una fase di difficoltà di governo, non automaticamente di ingovernabilità. Mi pare una discussione molto prematura da lasciare ai profeti di sventure ricordando a tutti che nessuno dei sistemi politici europei diventati democratici nel secondo dopoguerra ha cessato di esserlo.

Pubblicato il 10 luglio 2024 su Domani

Il modello laburista condivisibile ma difficile da esportare in Italia #intervista @ildubbionews del 6 luglio 2024

Secondo il professore emerito di Scienza Politica a Bologna nel nostro Paese «possiamo guardare alla Francia» mentre il Regno Unito è lontano

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Secondo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, la vittoria di Starmer dimostra che «per vincere bisogna riuscire a rappresentare o ad attrarre almeno una parte del centro» anche se «quello di Starmer, comunque lo si guardi, è qualcosa che non può essere riprodotto in Italia» dove invece «possiamo guardare alla Francia».

Professor Pasquino, il voto britannico ha certificato il ritorno dei laburisti al governo, con la svolta al centro impressa da Starmer: che ne pensa?

La Gran Bretagna offre sempre lezioni di democrazia. In questo caso ne ha offerte tre: la prima è che chi ha il potere si logora. Quattordici anni di governo sono lunghi, i conservatori hanno fatto qualche errore anche nella scelte delle loro leadership e alla fine hanno dovuto cedere il potere. La seconda è che il sistema elettorale incentiva i cambiamenti di opinione, amplificandoli. La terza, molto rilevante, è che per vincere bisogna riuscire a rappresentare o ad attrarre almeno una parte del centro. Che non significa, ovviamente, abbandonare destra e sinistra.

Quel centro che invece in Francia è in grande difficoltà, con Macron stretto tra destra e sinistra. È giusto fare alleanze solo “contro” qualcuno, come è il Fronte popolare?

Il centro di Macron ha perso dei pezzi negli ultimi anni ma in parte li ha anche recuperati. E io penso sia giusto creare alleanze contro qualcosa. In Francia la situazione è molto più polarizzata che in Gran Bretagna. Il Le Pen inglese sarebbe Farage, che però ha già vinto con la Brexit. Le Pen deve invece ancora dimostrare di aver tagliato i ponti con quella destra dalla quale provengono lei, suo padre e gran parte degli elettori. Inevitabilmente il Fronte popolare è un’alleanza contro, ed è normale che sia così. Poi possiamo riflettere sulle contraddizioni ma è logico che sia orientato contro l’estrema destra. E non è in nessun modo anti democratico.

In Italia tendiamo sempre a voler riprodurre le mode che vengono dall’estero, e infatti in molti già parlano di seguire l’esempio di Starmer: è replicabile?

Quello di Starmer, comunque lo si guardi, è qualcosa che non può essere riprodotto in Italia. Perché è capo di un grande partito, ma non di una colazione. Noi un partito grande lo abbiamo avuto con la Democrazia Cristina, alla quale dobbiamo ancora essere in buona misura grati, ma sarebbe un errore guardare alla Gran Bretagna. Possiamo guardare alla Francia, ma lì c’è il doppio turno che è un grande dispensatore di opportunità politica a chi sa coglierle. E sembra che la sinistra le abbia colte attraverso le d’esistenza. Che però sono possibili e anzi rese imperative dal sistema elettorale.

E dunque cosa dovrebbe fare il centrosinistra italiano per tornare vincente?

Il centrosinistra italiano deve pensare in maniera generosa. La France Insoumise di Melenchon ha rinunciato a una parte considerevole di loro candidati perché era l’unico modo per creare un campo alternativo a Le Pen. Quanti in Italia tra Conte, Renzi, Schlein e gli altri sarebbero disposti a fare queste rinunce purché vinca un candidato comune? È un discorso proponibile ma difficile, e questo è il vero scoglio da superare.

È difficile desistere se le posizioni nella coalizione sono opposte…

Bisogna avere una base valoriale comune che deve essere ovviamente la Costituzione. Dopodiché si possono accettare le diversità su alcune politiche ma bisogna sapere definire e negoziare. È un’operazione complessa e che richiede enorme pazienza, intelligenza e che di certo un doppio turno come quello francese faciliterebbe.

Chi ha provato, con successi alterni, a riproporre la terza via in Italia è stato Matteo Renzi, ormai dieci anni fa: cosa è cambiato da allora?

Prenda due fotografie: una di Renzi mentre parla in pubblico o in Senato e una di Starmer mentre fa campagna elettorale. La personalità di Renzi era travolgente. Era ego all’ennesima potenza. La figura di Starmer è quella di mi coordinatore di un’attività politica rilevante, di un selezionatore dei parlamentari. E che offre agli elettori l’immagine di un leader rassicurante. Tutto quello che faceva Renzi serviva solo alla sua grandeur e questo è stato l’errore drammatico. La sua personalità ha sfasciato un’operazione che poteva essere vincente se fosse stata condotta con meno personalismo e maggiore generosità.

Schlein ha aperto al centro negli ultimi giorni: può essere lei la figura in grado di compiere questo passo?

Se la domanda è “può essere” la risposta è affermativa, se la domanda è “sta tentando di farlo” la risposta è probabilmente sì, se la domanda è “ci sta riuscendo” la risposta è probabilmente ancora no. Perché Schlein viene da un passato movimentista piuttosto acceso e quindi ci sono dei “sospetti” nei suoi confronti. Serve che faccia qualcosa di più ma non posso essere io a dirle cosa fare. Ma certamente deve capire quali sono i punti di resistenza alla sua leadership, che ci sono. E cercare di capire come superarli.

Come può inserirsi in questo contesto il Movimento 5 Stelle di Conte?

Conte è in una tenaglia. Deve in qualche modo entrare in quel campo se vuole vincere ancora. Riuscendo a smussare alcune delle sue punte. Dall’altro lato deve mantenere alcuni aspetti di sua visibilità utili a tenere un certo elettorato in quel campo. Forse Conte l’ha capito ma non so se sarà in grado di fare un’operazione del genere. La vittoria lo vedrebbe premiato in uno schieramento nel quale non potrà mai essere primo. La sconfitta avrebbe ripercussioni sul Movimento e sullo stesso Conte.

Pubblicato il 6 luglio 2024 su Il Dubbio

 Cambiare ora il conducente è stupido e costoso @DomaniGiornale

“Quando il tram arriva al capolinea” disse memorabilmente Claudio Martelli, vice-segretario del PSI “scendono tutti, anche il conducente” (che, maggio 1989, era Ciriaco De Mita). Certamente, Conte, al quale manca la verve politica di Martelli, non ricorda questa frase, ma, peggio, non ha neppure il coraggio di chiedere che il guidatore Draghi scenda dal tram del suo governo. Peraltro, il governo non è affatto arrivato al capolinea e non è proprio il caso di cambiare l’unico conducente che conosce tutto il percorso e sa quali sono le fermate intermedie importanti. A nessuna di quelle fermate corrisponde il segnale “verifica”, ma, ovviamente, al conducente deve essere riconosciuta la possibilità, a fronte di un qualsiasi ostacolo, di fermarsi per valutarlo e rimuoverlo. Il tram può arrestare temporaneamente la sua corsa se un gruppo di passeggeri ha deciso di scendere prima della fermata che avevano indicato all’inizio del viaggio.

   Il conducente non deve mai fare balenare la sua indisponibilità a continuare il servizio prima della fine del suo turno. Per Mario Draghi, pienamente consapevole della difficoltà del percorso, il turno, d’accordo con il Supervisore massimo Sergio Mattarella, ha come termine prefissato marzo 2023. Sono molti i passeggeri che desiderano arrivare al capolinea. Alcuni vorrebbero già da adesso che l’attuale conducente accetti l’impegno a continuare alla guida anche nella corsa successiva. Forse, il Supervisore ha suggerito al conducente di non abbandonare il tram fintantoché c’è un numero di passeggeri tale da giustificare i costi, non solo monetari, della continuazione del servizio. Altrove, in Europa, costantemente sorpresi dalla numerosità dei conducenti che si susseguono in Italia, ha già fatto immediato capolino la preoccupazione sia per un eventuale nuovo non sperimentato conducente (anche donna) che non sappia assumere il comando rapidamente sia per la sua (in)affidabilità nel riconoscere le fermate a ciascuna delle quali corrisponde un impegno da rispettare.

   Senza esagerare con paragoni che sollevino l’Italia dalle responsabilità del mal funzionamento della rete dei poteri e degli attori della democrazia parlamentare, è vero che anche altrove, ad esempio, in Israele e addirittura in Gran Bretagna, altri tram sono arrivati al capolinea e i rispettivi conducenti sono scesi in maniera più meno turbolenta. Non potevano fare altrimenti. Comunque, i costi dei rispettivi disservizi sembrano meno elevati di quelli italiani. Facciano due conti gli italiani sul tram attuale, anche coloro che prenderanno il prossimo tram che si troverà ad aumentare e non di poco il prezzo del biglietto. Stupidi sono, scrisse elegantemente il grande storico dell’economia Carlo Cipolla, coloro che causano danno agli altri senza trarre nessun vantaggio per se stessi. Sursum corda.

Pubblicato il 13 luglio 2022 su Domani

La fragilità dei partiti danneggia le democrazie @La_Lettura #vivalaLettura

Nelle democrazie si vota. Liberamente. Per eleggere assemblee, parlamenti, Presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicamente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresentarsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresentanti e i governanti sono consapevoli di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercheranno di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguatezza politica e personale ingaggiando una campagna elettorale permanente a colpi di slogan ad effetto. Altri mireranno a sopravvivere galleggiando fino al tempo del voto. Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresentanti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranze in grado di formare un governo. Come conseguenza, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutamente chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamentari non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desidererebbe.

Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentemente ripetute perché non risolutive costituisce un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferimento è superficiale, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazionali drasticamente differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratiche che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazioni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro, Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna hanno avuto in anni recenti legislature troncate e elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele nel quale fra l’aprile 2019 e il marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato ben cinque volte, ma in un arco temporale più lungo dal maggio 2012 al luglio 2019, per due volte nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatura dal settembre 2015 al luglio 2019.

In Austria l’instabilità è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustamente considerano la madre di tutte le democrazie parlamentari lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitata in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi. Evidentemente, non è il sistema elettorale maggioritario a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizione bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019. A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistenti difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti “ribaltoni” ovvero i legittimi cambi di maggioranze) senza ricorrere a ripetute elezioni che “logorano” le istituzioni oltre che la pazienza politica degli elettori.

Per ciascuno dei paesi che hanno sperimentato numerose e ravvicinate consultazioni elettorali è possibile individuare motivazioni specifiche non generalizzabili. La più evidente delle motivazioni specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativa nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimentato è la conseguenza di clamorosi errori del Premier Conservatore David Cameron. Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidentali. La chiave di volta delle difficoltà di formare i governi, mai automaticamente risolte da rinnovate elezioni, è costituita dalla frammentazione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenza immediata di questa frammentazione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. e quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.

In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzione dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizione alla democrazia e positivamente responsabili per la sua affermazione, sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmente ridimensionato sia i Popolari sia i Socialisti. Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su un partito molto grande per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi partitici multipartitici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmente, i partiti che organizzano il loro consenso e danno rappresentanza sono espressione delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentate per governare le quali sono largamente preferibili, spesso assolutamente necessari governi di coalizioni multipartitiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericamente decisivo che, ha scritto Sartori, ha “potere di ricatto”. Alcuni partiti piccoli, ma indispensabili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamentari, ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi, è diventata una fatica di Sisifo. Ma, chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?

Pubblicato il 12 gennaio 2020 su la Lettura – Corriere della Sera

Riforme confuse dalle conseguenze imprevedibili INTERVISTA RadioRadicale

Riforma costituzionale e referendum. Intervista realizzata da Maurizio Bolognetti mercoledì 14 settembre 2016 a margine della conferenza “Dialogo sulla Costituzione” di Gianfranco Pasquino al Teatro Stabile di Potenza organizzata da Fondazione Basilicata Futura

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ASCOLTA QUI ►  //www.radioradicale.it/scheda/486320/iframe

 

“Riforme brutte, fatte, male, da persone che non conoscono la Costituzione, che non conoscono il funzionamento del sistema politico italiano, e non conoscono il funzionamento dei sistemi politici comparati. Sono anche riforme confuse che avranno conseguenze imprevedibili ma certamente non miglioreranno il sistema politico italiano…”

La registrazione audio ha una durata di 4 minuti

I talentuosi delle democrazie azzardate

La terza Repubblica

Scintillando scintillando, Antonio Polito conduce i lettori del suo La roulette russa nelle democrazie (“Corriere della Sera”, 5 luglio 2016) su un terreno molto scosceso, e ruzzola. O come ruzzola! Le democrazie veramente competitive creano rischi e incertezze per le elite politiche, che, proprio come voleva Vilfredo Pareto, sono costrette a circolare, e creano opportunità e potere decisionale per il popolo (demos che ha kratos). Il resto, al di là e al di qua della Manica, lo fanno quelli che, compagni oppure no, sbagliano, magari perché non ne sanno abbastanza, magari perché giocano d’azzardo, magari perché sono entrati in un talent che non sanno dirigere e nel quale lavorano con attori e attrici esordienti. Il grandissimo, incolmabile vantaggio delle democrazie su tutti gli altri, e sono tanti, regimi a noi noti, è quello, non soltanto di sostituire il taglio delle teste con la fine delle carriere spericolate, ma soprattutto di correggere gli errori. Quindi, se, come ipotizza il Polito, le prossime elezioni a Londra, immagino per Westminster, poiché a Londra c’è già un sindaco musulmano chiaramente europeista, le vince uno schieramento europeista, farà quello che ha promesso al popolo sovrano che, nel frattempo, avrebbe, com’è sua facoltà, cambiato idea anche sulla Brexit.

I referendum sono uno degli strumenti democratici a disposizione del popolo. Nelle elezioni legislative si manifesta il potere dal popolo verso i suoi rappresentanti; nei referendum è il potere del popolo direttamente sulle decisioni e sulle politiche. Nelle democrazie anglosassoni, il Parlamento è sovrano, ma, per l’appunto, se il Parlamento indice un referendum, il popolo risponde sulla base delle informazioni che ha, che sono quelle che i politici hanno saputo trasmettere in maniera più o meno convincente. Il Remain inglese paga il meritato prezzo di decenni di cattiva, incerta, contraddittoria comunicazione/conversazione su quello che l’Unione Europea effettivamente è, anche per la Gran Bretagna.

Quanto al referendum costituzionale nella Costituzione italiana, le cose non stanno affatto come, molto disinvoltamente, lambendo affettuosamente il renzismo, le pone Polito. Per fare le riforme costituzionali non c’è nessun permesso da chiedere al popolo. Bisogna avere come minimo una maggioranza assoluta in Parlamento. Ed è fatta. Se, poi, gli oppositori credono di sapere convincere il popolo, quello attento e partecipante, allora saranno loro (non il governo e la sua maggioranza parlamentare che le riforme le hanno fatte) a chiedere il referendum. Invece, è proprio Renzi che l’ha voluto il referendum. Continua a spronare i renziani delle varie ore a costituire Comitati del SI’. Promette che da quei comitati uscirà la nuova classe dirigente grazie ai meriti acquisiti a mettere banchetti, raccogliere firme, portare faldoni, tutte faticosissime e impegnative corvées che preparano a rappresentare e a governare. Minaccia sfracelli, quello dello scioglimento immediato del Parlamento dovrebbe costargli subito un rimprovero costituzionale dal Presidente Mattarella, ripetendo che, come ha memorabilmente (nel senso che me lo ricordo perfettamente) scandito, se lui perdesse il referendum se ne andrebbe e, come avrebbe commentato Togliatti, ci lascerebbe soli.

Altro che, come scrive Polito, “spruzzare un po’ di democrazia diretta sulla democrazia parlamentare”! La minaccia o ricatto plebiscitario (è venuto di moda parlare pudicamente di “eccesso di personalizzazione”) inquina il referendum e fuoriesce dalla democrazia parlamentare. Sarà giocoforza votare, come non avviene in nessuna democrazia parlamentare, sul governo, poiché il capo del governo ha stravolto una delle procedure più delicate e importanti, quella della valutazione popolare delle modifiche costituzionali, a suoi fini personali. Purché non finisca per travolgere il paese. La risposta, comunque, è NO.

Pubblicato il 7 luglio 2016

Qual è il Parlamento più produttivo? I numeri della produzione legislativa dei Parlamenti democratici

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È ora di uscire da un confuso e manipolato dibattito sull’improduttivo bicameralismo paritario italiano e di dare i numeri sulla produttività di alcuni Parlamenti democratici. Naturalmente, sappiamo da tempo che i Parlamenti, oltre ad approvare le leggi, svolgono anche diversi molto importanti compiti: rappresentano le preferenze degli elettori, controllano l’operato del governo, consentono all’opposizione di fare sentire la sua voce e le sue proposte, riconciliano una varietà di interessi. Sono tutti compiti difficili da tradurre in cifre, ma assolutamente da non sottovalutare per una migliore comprensione del ruolo dei Parlamenti nelle democrazie parlamentari, nelle Repubbliche presidenziali e in quelle semipresidenziali. Qui ci limitiamo alle cifre sulla produzione legislativa poiché una delle motivazioni della riforma del Senato italiano, in aggiunta alla riduzione del numero dei parlamentari e al conseguente, seppur limitatissimo, contenimento dei costi della politica, consiste nel consentire al governo di legiferare in maniera più disinvolta, di fare più leggi più in fretta. È un obiettivo non considerato particolarmente importante dalla maggioranza degli studiosi.

La produzione di leggi ad opera di un Parlamento dipende da una pluralità di fattori, fra i quali tanto la forma di governo quanto l’obbligo di ricorrere alle leggi per dare regolamentazione ad un insieme di fenomeni, attività, comportamenti. Pertanto, i dati concernenti forme di governo molto diverse fra loro sono inevitabilmente non perfettamente comparabili, ma sono sicuramente molto suggestivi. I dati sulla Germania riguardano la legislatura 2005-2009 che ebbe un governo di Grande Coalizione CDU/SPD e quella successiva nella quale ci fu una “normale” coalizione CDU/FDP. Dal 2007 al 2012 la Francia semipresidenziale ebbe un governo gollista con la Presidenza della Repubblica nelle mani di Nicholas Sarkozy. Dal 2010 al 2015 la Gran Bretagna fu governata da una inusitata coalizione fra Conservatori e Liberaldemocratici. La prima presidenza Obama (2008-2012) fu per metà del periodo segnata dal governo diviso ovvero con i Repubblicani in controllo del Congresso. Ricordiamo che negli USA l’iniziativa legislativa appartiene al Congresso, ma il Presidente può porre il veto, raramente superabile, su tutti i bills approvati dal Congresso. Per l’Italia abbiamo scelto tre periodi: 1996-2001, con diversi governi di centro/sinistra; 2001-2006, governi di centro-destra con cospicua maggioranza parlamentare; 2008-2013, prima un lungo governo di centro-destra che si sgretolò gradualmente, poi dal 2011 un governo non partitico guidato da Mario Monti. Questi due elementi spiegano perché la legislatura 2008-2013 abbia prodotto meno leggi delle due che l’hanno preceduta.

Complessivamente, però, i dati indicano chiaramente che il bicameralismo italiano paritario non ha nulla da invidiare ai bicameralismi differenziati sia per quello che riguarda la produzione legislativa sia per quello che riguarda la durata dell’iter legislativo. I dati presentati nella tabella mostrano come la quantità di produzione legislativa del Parlamento Italiano sia in linea con la produzione legislativa della maggiori democrazie occidentali, se non, in qualche caso, addirittura superiore. Una considerazione analoga può essere fatta per i tempi di approvazione. Nei Parlamenti e nelle legislature esaminate, l’approvazione di una legge richiede in media circa dodici mesi, nove negli Stati Uniti, e otto mesi o poco più nel caso italiano. Il Parlamento italiano quindi fa molte leggi e le fa in tempi piuttosto celeri.

tabella

Gianfranco Pasquino e Riccardo Pelizzo

Pubblicato i 3 giugno 2016

Oltre il bicameralismo imperfetto

l'Unità

Il bicameralismo italiano, non essendo affatto “perfetto”, come troppi, persino fra gli addetti ai lavori, si ostinano a dire, deve , comunque, essere riformato. Meglio definito paritario o simmetrico, il bicameralismo può anche essere abolito del tutto. Esiste il monocameralismo in paesi non scivolati sotto il tallone dell’autoritarismo né di altri “ismi”  come la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Svezia. Altrimenti può essere differenziato in maniera risolutiva ed efficace, vale a dire, affinché se ne giustifichi la persistenza. Fermo restando che in nessun sistema politico bicamerale sono entrambe le Camere a dare (e a togliere) la fiducia, questa non può essere l’unica nota differenziante e la giustificazione di una presunta migliore governabilità sarebbe davvero meschina e insufficiente. La differenziazione che conta è quella che riguarda la competenza, congiunta o esclusiva, per materia. Se il prossimo Senato dovrà essere una camera di “riflessione”, allora bisogna che siano chiare le materie sulle quali darà il suo apporto.

La grandissima maggioranza dei parlamenti bicamerali basa la sua differenziazione sulla rappresentanza territoriale. Le due eccezioni sono costituite dal prototipo della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord, composta da Lord ereditari o di nomina reale, ha un collegamento minimo con il territorio, e dal prototipo della democrazia presidenziale, gli Stati Uniti d’America, dove il Senato, probabilmente, il più forte ramo parlamentare esistente al mondo, ha certamente un collegamento fortissimo con il territorio, gli Stati, ma sarebbe alquanto improprio definirlo camera di rappresentanza territoriale. In Europa, la migliore e più forte rappresentanza territoriale è offerta dal Bundesrat tedesco. I suoi solo 69 componenti sono nominati dalle maggioranze di governo di ciascun Land. Vittoriosi in Baviera i democristiani nominano i loro rappresentanti al Bundesrat senza nessuna concessione ai socialdemocratici e ai verdi. Nei Länder dove vincono, i Socialdemocratici e i Verdi fanno altrettanto nominando soltanto loro rappresentanti.  Lo stesso vale per tutti gli altri Länder.

Mutatis mutandis, purché i mutamenti siano limitatissimi, questa modalità di composizione del prossimo, numericamente ridottissimo, Senato italiano, sono facilmente imitabili. Come stanno le cose, in Lombardia, saranno la Lega Nord e Forza Italia a nominare i loro rappresentanti (che potrebbero anche essere senatori uscenti, o giù usciti), mentre in Emilia-Romagna sarà il Partito Democratico a farlo, tenendo conto degli eventuali alleati al governo della Regione. Esiste, però, anche una modalità più innovativa, che garantirebbe rappresentanza territoriale, dando grande potere agli elettori e agli eletti. Una volta stabilito il numero complessivo dei prossimi Senatori, suggerirei non più dei componenti del Bundesrat, e distribuiti fra le Regioni di modo che quelle piccole ne abbiano uno soltanto e quelle grande non più di quattro/cinque, la loro elezione avverrebbe in una competizione su scala regionale, in inglese si dice at large. Vale a dire che ciascun elettore avrebbe un solo voto con il quale scegliere il suo candidato in liste regionali presentate dai partiti, ma anche da associazioni dei più vari tipi. Coloro che otterranno il più alto numero di voti individuale saranno eletti e andranno a rappresentare la loro Regione, proteggendone e promuovendone gli interessi in Italia, e anche in Europa, se a questo nuovo Senato saranno affidate le politiche europee e se l’UE riuscirà mai a diventare effettivamente l’Europa delle Regioni.

Stabilita con criteri chiari e univoci la composizione del nuovo Senato, dovrebbe risultare più semplice la differenziazione delle materie di competenza delle due camere. Comunque, se l’attuale Senato mira a giustificarsi come camera di riflessione, ne ha l’opportunità immediata. Respinga la blindatura imposta dal governo e proponga una riforma all’altezza della sfida. Hic Rhodus hic salta.

L’Unità 31 marzo 2014