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Pd e 5S facciano fronte comune sul Colle e tirino fuori dei nomi credibili #intervista @ildubbionews #Elezione #Quirinale


Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Alma Mater di Bologna, è scettico sulla strategia di Pd e M5S per il Colle, dice che «non stanno facendo fronte comune» e che in caso di elezione di Draghi al Colle «se vogliamo avere continuità deve esserci un capo del governo che vada avanti con la stessa maggioranza di oggi».
Professor Pasquino, Pd e M5S bisticciano tra di loro in attesa di un nome per il Colle proposto dal centrodestra. Riuscirà il centrosinistra a trovare un’alternativa valida da sottoporre ai grandi elettori?
Non so se ci riusciranno, ma è sicuro che dovranno fare una riunione non soltanto Letta e Conte, ma Letta, Conte, Di Maio, Patuanelli, Orlando, Guerini e Franceschini. Cioè le varie anime di Pd e M5S. Serve un accordo su una rosa di tre o quattro nomi, per trovare poi uno su quale possono convergere anche altri partiti. L’iniziativa non spetta per forza a Salvini o Berlusconi, ma a chi è in grado di prendersela. Letta e Conte stanno sbagliando alla grande.
Crede che Di Maio stia giocando una partita tutta sua sul Colle per cercare di riprendere la guida del Movimento?
Questa domanda riguarda l’andamento del Movimento 5 Stelle, non tanto il voto per il Colle. Vengono attribuite a Di Maio delle strane mire. Ha fatto una carriera ministeriale straordinaria e quindi credo sia soddisfatto di quello che c’è. Credo voglia un po’ di unità nel Movimento e quindi non penso che ambisca a mettere i bastoni tra le ruote a Conte. Peraltro c’è anche Fico che sta avendo una sua visibilità e vorrà dire la sua.
In ogni caso la strategia attendista di dem e grillini sta portando i suoi frutti, visto l’ormai probabile passo indietro del Cavaliere.
Berlusconi non tramonta perché Letta ha detto che non è votabile, ma perché ci sono dubbi nello stesso centrodestra e perché i suoi telefonisti non riescono a convincere quelli a cui telefonano. I giallorossi non stanno facendo fronte comune, il che era eticamente doveroso. L’iniziativa è tirare fuori dei nomi, non dire “no” e giocare di rimessa e in difesa. Per quanto prestigiosissimo, il nome giusto non può essere Liliana Segre, sarebbe bello votarla in massa come segno di stima ma è chiaro che non si può andare avanti su di lei. Non è questo il modo in cui, essendo i due partiti più grandi, si entra in Parlamento per scegliere il presidente della Repubblica.
Quali nome potrebbero entrare nella rosa di Pd e M5S?
Non sono dell’idea che si devono trovare dei nomi che possono unire. Sono stufo dell’aggettivo “divisivo”, è stupido usarlo perché chiunque fa politica deve essere divisivo, altrimenti non è un buon politico. Aldo Moro ad esempio era divisivo, forse è proprio per questo che abbiamo deciso di non salvargli la vita, ma di certo sarebbe stato un ottimo capo dello Stato. Non possiamo credere che Rosy Bindi o Giuliano Amato o Pierferdinando Casini non possano fare il presidente della Repubblica. Stessa cosa per Draghi e Franceschini, l’importante è decidere un nome e giustificarlo.
Nell’altro campo l’operazione scoiattolo per portare Berlusconi al Colle sembra al capolinea. Se l’aspettava?
Berlusconi ci credeva veramente. Non combatte mai battaglie per la sua bandiera, che ha già issato molto in alto. Piaccia o non piaccia è già nella storia del paese e questa doveva essere la sua ultima battaglia. Non è un decoubertiniano. Dopodiché la battaglia si è fatta ardua e delicata perché gli mancano i numeri. Certamente fossi un parlamentare non potrei mai votare un condannato per frode fiscale.
Crede dunque che il centrodestra unito convergerà ora su un altro nome?
Potrebbe ora aprirsi un’altra partita e se Fratelli d’Italia, come dice Lollobrigida, ha dei nomi, è bene che li tiri fuori. Bisogna dire quali carte si hanno in mano. Letizia Moratti è sicuramente presidenziabile, anche se si può discutere del suo conflitto di interessi. Fossi Salvini giocherei anche su Giorgetti, che ha più di 50 anni, piace in Europa e potrebbe essere il nome giusto.
Non è che alla fine la spunta Draghi?
Certamente, e a quel punto Salvini potrebbe piazzare il colpo grosso: Giorgetti a palazzo Chigi. Draghi ha il profilo giusto, ha dimostrato di aver imparato delle cose in politica, è abbastanza equilibrato e il resto lo faranno i suoi collaboratori.
Come dicevamo, a quel punto si aprirebbe la crisi di governo. A quei scenari andremmo incontro?
Se vogliamo avere continuità deve esserci un capo del governo che vada avanti con la stessa maggioranza e qui ci sono due inconvenienti: non vorrei che eleggendo Draghi Forza Italia si tiri fuori dalla maggioranza, ipotesi avventata che spero sia rimessa nel cassetto dai ministri azzurri; in secondo luogo potrebbe diventare presidente del Consiglio qualcuno di centrodestra. In questo caso Salvini deve avere la forza di dire che il prossimo presidente del Consiglio sarà proposto dai segretari dei partiti che fanno parte della coalizione di maggioranza, non imposto da Draghi, che andrebbe su Franco. Insomma potrebbe aprirsi un braccio di ferro tra Draghi e i partiti difficile da gestire.
Con Draghi al Colle il prossimo inquilino di palazzo Chigi dovrà comunque venire dall’attuale governo, ad esempio Cartabia, per garantire continuità politica?
So che dovrebbe essere un o una parlamentare, ad esempio Franceschini, ma non per forza un uomo o una donna dell’attuale governo. Dobbiamo prendere atto che non si può sempre chiamare un tecnico da fuori. Serve un parlamentare che conosce i colleghi e abbia esperienza politica pregressa. Cartabia, che non conosco, mi dicono sia molto, forse troppo, vicina a Comunione e Liberazione. I mesi passati a fare la ministra della Giustizia non garantiscono che sarebbe anche una buona presidente del Consiglio.
Pubblicato il 19 gennaio 2022 su IL DUBBIO
Caro Berlinguer, il Pd è fallito perché non ha cultura
Intervista raccolta da Giulia Merlo per Il Dubbio
«Ritroviamo un minimo di lezione gramsciana! Il consenso non è soltanto la forza dei numeri elettorali ma la capacità di plasmare una visione diversa del mondo. Può anche essere che i dem vincano, ma a che servirebbe?»
Sorride, poi quasi ruggisce il suo dissenso. Gianfranco Pasquino, politologo allievo di Norberto Bobbio e senatore dal 1983 al 1994 per la Sinistra Indipendente, affronta punto per punto le tesi esposte da Luigi Berlinguer nella sua intervista a questo giornale dal titolo «Basta gufi e nostalgici, il Pd è forte e vincerà». Uno scontro tra due anime della sinistra post- comunista sul futuro del partito che proprio quella tradizione si era proposto di incarnare.
Professore, Luigi Berlinguer dice che al Pd «serve ancora tempo e chi ne predica il fallimento fa il vate del malaugurio». Lei non è d’accordo?
Guardi, qualsiasi partito ha bisogno di tempo per arrivare a qualcosa. Sinceramente, però, io non capisco a che cosa dovrebbe arrivare il Pd, secondo Berlinguer. Non può ignorare che moltissimi dirigenti di quel partito dicono che qualcosa nel Pd non va e alcuni se ne sono anche andati. Insomma, esiste uno stato di profonda insoddisfazione complessiva e lui dice che basta un po’ di tempo?
Lei, invece, che cosa dice?
Che il Pd è nato male e sta andando peggio.
Si riferisce alla famigerata “fusione fredda”?
Non solo alla fusione fredda, che è talmente scontata come problematica da non meritare altre parole. La questione vera è che nel Pd non esiste cultura politica, anzi è un partito che è nato avendo abbandonato le culture politiche.
Eppure il Pd è nato con la vocazione di unire gli eredi delle grandi tradizioni del centrosinistra.
Ci avevano raccontato che il Pd nasceva dalla contaminazione del meglio delle culture politiche del Paese, quella cattolico- democratica e quella marxista- gramsciana. Si sono dimenticati la cultura socialista, e non a caso nessun socialista è entrato nel Pd. Ma dove sarebbe oggi questa contaminazione con cui ci hanno ammaliato? Qualcuno oggi sa dire quale sia la cultura politica del Pd? Io credo nessuno sia in grado.
Lei come descriverebbe, oggi, l’essere di sinistra?
Chi si sente di sinistra elabora la sua posizione in riferimento ad alcuni valori. Ci si può dire di sinistra se si è laici; se si pensa, come scriveva Norberto Bobbio, che le disuguaglianze debbono essere contenute e ridotte; se si crede che un Paese debba garantire a tutti i cittadini uguaglianza di opportunità non solo in ingresso, ma in ogni passaggio della vita, dalla scuola al lavoro. Si è di sinistra, insomma, se si ha come cardine la giustizia sociale.
E questi riferimenti valoriali li ritrova in un qualche partito fuori dal Pd?
La risposta è no, e infatti bisognerebbe costruire un contenitore che conquisti questo spazio. Il punto, però, è che questo contenitore non è certamente il Pd di oggi.
Berlinguer ha usato parole dure contro le scissioni, definendole «il male storico della sinistra, che alimentano il pulviscolo di forze politiche». Lei come valuta invece la scissione di Mdp?
Io concordo sul fatto che la scissione sia un male per ogni partito, ma nel caso del Pd ritengo che sia stata resa inevitabile e che sia addirittura giunta tardivamente. Attenzione, non penso che le scissioni risolvano problemi, ma ritengo anche che, quando esse avvengono, il gruppo dirigente del partito abbia l’obbligo di chiedersi che cosa è stato fatto per evitarle. Invece ricordo che nel Pd gli atti di dissenso venivano castigati, anzichè affrontati con risposte politiche.
E quindi guarda all’esperienza di Campo progressista e degli scissionisti del Pd?
Guardi, la mia idea di sinistra non è il “ campo progressista” che si delimita o ha dei confini. Per descrivergliela recupero Achille Occhetto, a cui forse la sinistra dovrebbe ricordarsi di dovere qualcosa: la sinistra è una carovana. Ci si deve mettere in cammino, decidendo magari la meta, si raccoglie chi vuole salire e si lascia scendere chi vuole andarsene. La mia sinistra è aperta nei confronti di chi vuole unirsi e dialoga con chi vuole invece lasciarla per capire le sue ragioni.
Esiste un partito che rispecchia la sinistra di cui lei parla?
(Esita un momento e poi scoppia a ridere ndr) La socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt. La sinistra italiana ha fatto di tutto per farsi del male da sola e arrivare nelle condizioni in cui versa oggi. A partire dall’estremo conformismo del Pci e dall’eccesso di personalizzazione del Psi.
Lei non ha ancora nominato la leadership, ma il centrosinistra è ormai avviluppato in un dibattito che torna sempre a quella questione.
Io stavo con coloro che dicevano che prima del Congresso serviva una conferenza programmatica, in cui parlare di che tipo di Italia e soprattutto di Europa vogliamo. Ricordo la frase di Altiero Spinelli (scritta durante il confino, negli anni quaranta), secondo il quale la distinzione destra- sinistra non esisterà più, ma ci sarà una distinzione tra chi vuol costruire un’Europa politica federale, ovvero i progressisti, e quelli che invece vogliono resistere con il potere nazionale. Ecco, a me piacerebbe vedere un partito che si pone come partito europeo, perché lì è il futuro. La leadership sarebbe dovuta venire dopo e invece c’è stata molta fretta, perché lo scopo di Renzi era quello di venire confermato segretario, far cadere il governo e tornare a fare il premier vincendo le elezioni sull’onda del congresso.
Torniamo al presente, allora. Berlinguer dice che il Pd ha «l’imperativo morale di vincere». Lei crede invece che perderà?
Io mi trovo in disaccordo profondo con Berlinguer proprio su questo: lui dice che prima bisogna vincere le elezioni, io invece penso che prima bisogna convincere. Ritroviamo un minimo di lezione gramsciana! Il consenso non è soltanto la forza dei numeri elettorali ma la capacità di plasmare una visione diversa del mondo e di riuscire a creare cultura. Ecco, il Pd crea cultura? Non direi proprio. Detto questo, può anche essere che vinca le elezioni, attraverso qualche inghippo o premietto di maggioranza. Ma a che servirebbe questa vittoria?
Poniamo che il Pd riuscisse a proporre il dibattito che lei ha descritto. Riuscirebbe a convincerla e a recuperarla come elettore, oppure ormai è troppo tardi?
Guardi, aspetto la campagna elettorale. Sentirò i toni e le proposte, se queste mi faranno pensare che il Pd può essere un leale partito di governo, potrei anche votarlo. Altrimenti è chiaro che guarderò altrove, tendenzialmente a Mdp. Sa che cosa mi piacerebbe, però?
Che cosa?
Mi piacerebbe che il segretario del partito fosse interessato non alla sua carriera ma al suo partito. Vorrei che, se andrà alle consultazioni da Mattarella, dicesse: “il Pd è un partito di governo, ma se qualcuno non vuole me acconsento a che venga scelto un altro, al quale daremo sostegno convinto e senza guerriglia parlamentare”. Ecco, vorrei sentire queste parole da Renzi, ma anche da Guerini, da Lotti e dalla Boschi. Da queste specie di gendarmi vorrei sentire parole che riflettono la realtà di una democrazia parlamentare e la visione di un partito che si propone di cambiare il Paese. Ecco, questo per me farebbe la differenza.
Pubblicato il 17 agosto 2017
Il sale delle regionali
Gli sconfitti nelle urne si celebrano vincenti con le parole. Perdendo anche la razionalità
Alle regionali non hanno vinto tutti, ma soprattutto non tutti hanno capito che hanno perso e perché. In effetti, oltre ai sette governatori e governatrici (Catiuscia Marini in Umbria, ingiustamente lasciata in ombra), l’unico che ha davvero vinto è Matteo Salvini. Mettendo da parte i suoi temi qualificanti e i suoi toni spesso squalificanti, è anche l’unico che, con la sua incessante attività sul territorio e sull’etere televisivo e con la micidiale semplificazione comunicativa, se l’è davvero meritato. Anche se in Veneto Luca Zaia che, però, è un leghista vero, e la sua lista vanno alla grande, in Liguria Giovanni Toti (chi?) è totalmente debitore a Salvini della sua vittoria. Le Cinque Stelle tornano a splendere sulle miserie di una politica “impresentabile” e di protagonisti mediocri e lividi e pongono le premesse per continuare nella loro corsa al secondo posto (che darà accesso al ballottaggio dell’Italicum che quelli del senno di poi cominciano a capire quanto sarebbe rischioso). Qualche piccolo risultato positivo, ma casuale, in qua e in là, consente a Berlusconi di non addentrarsi nella penosa analisi di una inarrestabile emorragia di voti. L’autunno del patriarca è triste, solitario y final. Pochi hanno avuto voglia di dirglielo, neppure con il necessario affetto filiale.
Quando si parla di Renzi e dei suoi subalterni collaboratori, la parola affetto appare del tutto fuori luogo. Neanche la parola coraggio ha cittadinanza, il coraggio di dirgli che, una volta che voglia smettere di affidarsi ad un conteggio inadeguato (cinque a due prima delle elezioni e cinque a due dopo le elezioni significano un pareggio), il conto è salato. Le due donne candidate, renziane assolute, per le quali si è speso di più, hanno perso. Inconsolabili (?) si struggono in lacrime da sindrome di abbandono. Dove i candidati del PD hanno vinto non erano (e non diventeranno) renziani. Loro sono loro. Sarà, comunque, dura per Renzi staccarsi dall’immagine, dalla personalità e dalle relazioni pericolose di De Luca. Nel frattempo, quello che si è davvero staccato, anzi, si è spaccato, è il Partito della Nazione rigettato dagli elettori alle percentuali di un partito medio-grande che non ha gli strumenti per capire il dissenso interno e per trasformarlo in appello aggiuntivo all’elettorato, scriviamola la parola deplorevole, “di sinistra”.
Qualcuno metterà nel suo archivio le parole tracotanti di Guerini, Orfini, Serracchiani. Qualcuno ricorderà anche gli insulti a Rosy Bindi. Qualcuno, invece, (personalmente sono con costoro), senza perdere nessuna memoria, porrà il doppio tema del partito e del governo. Entrambi interessano un po’ tutti gli italiani. Un partito sbrigativo, sgangherato, con, da un lato, la persistenza di baroni locali, e, dall’altro, di cacicchi imposti dall’alto, non può stabilizzare il suo consenso elettorale e usarlo al meglio. Un governo il cui capo pensa di sapere tutto, di non avere bisogno di alleati, di garantire rappresentanza alla nazione senza dovere confrontarsi con i gruppi intermedi, anzi, “disintermediandosi, né con le associazioni (destando irritazione in Locke e Tocqueville, no, non due autori di cartoni animati, ma i maggiori teorici del pluralismo e dell’associazionismo), rischia di non fare riforme decenti e di non riuscire ad attuarle. La lettura che i renziani danno della loro battuta d’arresto, imputata alle minoranze, fa cadere le braccia e costringe a pensare che fra gli sconfitti di queste elezioni non si trovi neppure un briciolo di razionalità. Che è l’indispensabile sale della tanto sbandierata governabilità. Ahi loro.
Pubblicato su terzarepubblica.it il 2 giugno 2015
Sopruso politico dei renziani
Sostituire i componenti di una Commissione non viola né il regolamento della Camera né, tantomeno, la Costituzione. Il titolare è malato oppure, come avviene abbastanza spesso, è impegnato in un’altra Commissione -quelle non permanenti prosperano. Oppure è bloccato da inconvenienti logistici, trasporti difficili e in ritardo, oppure è in missione ufficiale in Italia/all’estero. La sostituzione, riguardante uno al massimo due componenti di un gruppo, non soltanto è praticabile, abitualmente decisa dal capogruppo (che, lo dico subito, nel Partito Democratico al momento non esiste), è anche indispensabile per garantire il numero legale e la funzionalità della Commissione. Il caso estremo, ma molto importante, è dato dalla sostituzione temporanea, ad rem, vale a dire per un provvedimento specifico, affinché subentri un parlamentare particolarmente esperto della materia in discussione. Nulla di tutto questo si applica alla sostituzione di massa, addirittura dieci, degli esponenti della minoranza del Partito Democratico in Commissione Affari Costituzionali. Non risulta che i subentranti, il cui unico titolo è quello di essere renziani “spinti”, siano più competenti in materia elettorale di coloro che hanno sostituito né che posseggano expertise non altrimenti acquisibile né, quel che conta molto, abbiano seguito il dibattito, lungo, aspro, serrato e quindi siano particolarmente preparati e in grado di dare qualche contributo per migliorare l’Italicum. Anzi, i sostituti sono stati chiamati per stare zittissimi e votare la linea. Curioso che gli stessi renziani che sostengono che non esiste un sistema elettorale perfetto difendano l’Italicum come se fosse perfetto e non accettino, per principio, nessuna miglioria.
Da qualsiasi prospettiva la si guardi la sostituzione di massa dei Commissari della minoranza non è soltanto una forzatura. E’ un sopruso politico. Grave sarebbe se diventasse anche un precedente. Tutte le volte che un capogruppo subodora che un Commissario del suo gruppo/partito esprimerà riserve o, peggio, addirittura il suo esplicito argomentato dissenso (lasciando nei resoconti una traccia significativa) che potrebbe culminare in un voto contrario, voilà, procederà fulmineamente alla sua sostituzione, naturalmente, ad rem, solo per quella discussione e votazione. Renzi, Boschi, Guerini e Serracchiani, all’unisono con tutti i renziani della prima e delle prossime ore, ovvero le ore delle (ri-)candidature, dichiarano che un partito non è e non deve essere un’armata Brancaleone (che, lo ricordo, era variegata, ma anche molto divertente). Preferiscono fare del PD una caserma dove i soldati sono costretti all’obbedienza assoluta senza discussione dai sergenti di turno. La democrazia non abita nelle caserme anche se, qualche volta, per migliorarne la funzionalità persino i sergenti ascoltano i soldati che ne possono sapere di più su aspetti specifici della vita militare.
No, i pasdaran renziani non hanno questa volontà e neppure la capacità di ascolto. Sostengono, contro tutto quello che hanno scritto i teorici della democrazia da Hans Kelsen a Norberto Bobbio, che la democrazia è decisione a maggioranza “senza se e senza ma”. Imponendo di uniformarsi alla maggioranza del gruppo, adesso in Commissione, poi, lo hanno già annunciato, coartati dal voto di fiducia, anche in Aula, i renziani rischiano di calpestare l’art. 67 che prescrive ai parlamentari di esercitare le loro funzioni “senza vincolo di mandato”. Purtroppo, non posseggo la famosa e indispensabile sfera di cristallo per prevedere che Renzi voglia comunque utilizzare l’Italicum per andare subito, facendo saltare la riforma, peraltro non di spettacolare qualità, del Senato, a elezioni anticipate sia se approvato sia se bocciato. Sono sicuro che, comunque vada, la sostituzione dei dissenzienti in Commissione è il prodromo della loro non ricandidatura. Peccato, l’imperfetto Italicum rimarrà brutto e cattivo, il Partito Democratico darà dimostrazione che il suo aggettivo non è perfettamente attinente, i cittadini non avranno maggiore potere elettorale e le prossime elezioni non miglioreranno la qualità dei parlamentari (ancora nominati per circa tre quarti).
Pubblicato AGL 23 aprile 2015
Il libro dei sogni di Renzi &Co
Stiamo fin troppo ascoltando il Presidente del Consiglio e i suoi collaboratori-corifei che ci promettono un paese dei balocchi e delle meraviglie. Sapremo chi ha vinto le elezioni la sera stessa, persino un po’ prima. Come nessun altro al mondo? Il vincitore si troverà in condizione di garantire la governabilità per cinque, lunghi, anni e farà una riforma al mese, fino ad esaurimento. L’Italicum che, pazzescamente il professor D’Alimonte definisce un sistema elettorale maggioritario (al contrario, è una variante di un sistema che assegna i seggi in proporzione ai voti e attribuisce un brutto premio di maggioranza) , ripristinerà il bipolarismo dei nostri (non di tutti) sogni. E’ a questo punto che ci siamo accorti che stavamo, per l’appunto, sognando. Per Craxi, il bipolarismo “DC-PCI” bisognava spezzarlo. Per Andreotti, il bipolarismo significava avere due forni dai quali approvvigionarsi di pane, pardon, di voti, per i suoi governi proiettati nell’impossibile eternità. Per Renzi, Boschi, Serracchiani e Guerini (ma altri si aggiungerebbero volentieri, e lo faranno), il bipolarismo è: il Partito Democratico incamera il premio di maggioranza, mentre le opposizioni, al plurale, si spartiscono in maniera assolutamente proporzionale, le briciole della frammentazione, e l’alternativa, in parlamento e nel paese viene rimandata alle calende minacciosamente greche.
In verità, a noi di quelle opposizioni non potrebbe importarcene di meno. Stanno facendo di tutto per meritarselo il loro destino di frammentazione e di irrilevanza. Berlusconi non ha ancora capito e nessuno, tranne, qualche volta, Fitto, ha finora avuto il coraggio di dirglielo, che se, fra il 2008 e il 2013 Forza Italia ha perso circa sei milioni e mezzo di voti, dal 2013 a oggi ne ha persi altri 3 milioni. Che se Lui non si fa da parte, prendendo atto che “l’autunno del patriarca” è cominciato da qualche tempo, e se non consente una seria e dura battaglia per la successione, il suo lascito politico consisterà in una nota di due righe e mezza a fondo pagina nei libri di storia (quei pochi non scritti dai “comunisti”). Noi per le note su Berlusconi non nutriamo un interesse spasmodico, ma quando pensiamo al sistema politico italiano, ci viene il dubbio euristico che, forse, la rappresentanza tanto politica (e saremmo persino disposti a scrivere “ideale”) quanto di interessi sarebbe opportuno garantirla in maniera un po’ più equilibrata.
Non siamo mai riusciti a sapere né quanto moderati né quanto liberali fossero i liberali e i moderati ai quali Berlusconi mandava promesse e dai quali traeva un’abbondante messe di voti. Più che liberali e moderati ci sono sembrati creduloni. Sappiamo, però, che nessun sistema politico può funzionare in maniera decente -“normale” non abbiamo mai capito che cosa significhi esattamente: come in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Spagna, nella dimenticata Svezia?-, se una parte del paese, una parte dell’elettorato non si sente rappresentata e, forse, anche quando si sente sottorappresentata ad arte, schiacciata da massicci e artificiali premi. Ci hanno persino raccontato che i governi funzionano meglio quando l’opposizione, non frammentata, è in grado di criticare, (contro)proporre, presentare alternative. Non sembra che questa sia l’opinione prevalente fra i renziani e i loro trafelati fiancheggiatori.
Nelle notti di inverno, ma i più bravi anche nelle lunghe notti d’estate, sono soliti raccontare che i democristiani si felicitassero dell’esistenza di una opposizione comunista. Avevano ragione. Tre anni dopo la scomparsa di quei comunisti che ritenevano il partito una ditta, ma anche una scuola, persino i democristiani scivolarono silenziosamente in un cono d’ombra. Non ci fu neppure bisogno di quella rottamazione che l’ex-Cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi dovrebbe conoscere e praticare, anche su di sé. Sarebbe un contributo utile alla sopravvivenza di Forza Italia e, a determinate condizioni, quasi tutte da (ri)creare, al suo rilancio. Non sappiamo se gli elettori moderati e liberali se lo meritino, un qualsiasi rilancio. D’altronde, molti italiani neanche si “meritano” Renzi, la sua velocità, la sua (raccapricciante) conoscenza dell’inglese, il suo libro dei sogni, i giornalisti che, persino sdraiati/e, ne raccontano le gesta eroiche. Finirà che usciremo a guardare le stelle, nient’affatto cadenti, che già adesso continuano a essere molte più di cinque.
Pubblicato il 20 aprile 2015
Con questo articolo inizia la collaborazione del prof. Gianfranco Pasquino con TerzaRepubblica.it
La luna in cielo e la coscienza in Senato
Me li ricordo bene quei cento parlamentari laburisti che una decina di anni fa scattarono in piedi uno ad uno a Westminster per negare il voto al loro popolarissimo giovane e veloce Mr Prime Minister che imponeva al Regno Unito di andare in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. No, quella guerra non era stata decisa in nessun Congresso di partito. Non era stata preannunciata in nessuna campagna elettorale. Non era neppure (sic) soltanto un problema di coscienza, che, secondo la vice-segretaria del PD non si può chiamare in causa quando si riforma quel piccolo particolare che si chiama Costituzione. I parlamentari laburisti che, senza ombra di dubbio, ne sanno più di Serracchiani, Guerini e Moretti, sostenevano la loro coscienza con la scienza: non c’erano prove convincenti dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Sarebbero arrivate con gli americani di quel genio di Bush.
Non siamo inglesi. Qualcuno, però, potrebbe, studiando, cercare di diventarlo. Allora, impareremmo che la disciplina di partito può essere invocata su tutte le materie contenute nel programma elettorale con il quale quel partito (che, incidentalmente, non era ancora il “partito di Renzi”) ha chiesto e ottenuto voti, ha eletto parlamentari e ha avuto un mandato. Sì, il partito, e quindi il suo leader, ha avuto un mandato a tradurre quel programma, non le cose che si sono inventate i renziani e i loro costituzionalisti fiancheggiatori, in politiche pubbliche. Sì, chi dissente dalle politiche pubbliche che discendono dal programma del partito deve essere richiamato alla disciplina di partito, cum grano salis (espressione che non si ritrova né negli episodi di Peppa Pig, ma me ne faccio subito una ragione, né nella narrazione di Telemaco). No, la disciplina di partito non può esistere né quando si votano le persone, a maggior ragione se si tratta del Presidente della Repubblica, il quale non rappresenta un partito, nessun partito, ma l’unità nazionale (lo dice la Costituzione), o si tratta dei giudici costituzionali, nè quando si cambia la Costituzione.
Già, è durissima pensare che i parlamentari dissenzienti, tutti, come i loro colleghi sdraiatamente acconsenzienti, nominati da tre o quattro dirigenti di partito e da loro, in percentuali sicuramente diverse, rinominabili, siano in grado di farsi forti di una loro personale rappresentanza politica di elettori che condividano posizioni e preferenze che non hanno potuto esprimere nella campagna elettorale e che neppure possono andare a spiegare (e non soltanto perché sono francamente inspiegabili!) con la legge elettorale vigente e con quella prossima (s)ventura. Però, se la loro “scienza”, ovvero la conoscenza della Costituzione, è superiore a quella dei ministri di Renzi e dei suoi vice-segretari (in verità, non sembra volerci molto), allora bisognerà/ebbe tenerne conto. La scienza si accompagna, Serracchiani #stiaserena, alla coscienza poiché cambiare le regole del gioco costituzionale imponendo ai cittadini una chiara, netta e brutale riduzione di rappresentanza è effettivamente un problema, una scelta che riguarda proprio la coscienza. Soltanto parlamentari incoscienti e senza scienza, quindi preda dei costituzionalisti di Boschi e Renzi, e, loro sì, inclini a pensare in termini di indennità che solo il voto richiesto continuerà a garantire, possono votare un pasticcio che squilibrerà insieme all’Italicum (mai preso in considerazione il Tedescum? e l’ottimo Gallum di Astérix?)* tutta l’architettura costituzionale. Verranno ricompensati. Forse dovrei dire meglio: “indennizzati”, proprio perché non avranno dato buona prova di sé. No, davvero, non sono inglesi. Non corrono il rischio di diventarlo. Sono renziani.
*Peccato che quei “simulatori” del “Corriere della Sera”, 14 luglio, p. 8, non facciano riferimento a nessuno dei due sistemi elettorali che funzionano meglio in Europa.
Gianfranco Pasquino, probabilmente non è Professorone, sicuramente è Emerito di Scienza Politica, Università di Bologna. Per fortuna sua e di altri, non è mai stato preso in considerazione né per i Saggi né per i consessi dei costituzionalisti di riferimento.
Pubblicato il 16 luglio 2014 su Gazebos.it