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La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi @DomaniGiornale

C’è chi sostiene che la “la pacificazione” avverrà” quando entrambe le parti condivideranno la tesi che la Resistenza comportò una guerra civile. In verità, la guerra civile cominciò quando le squadre fasciste si avventarono sui lavoratori, sui sindacati e sui partiti e dirigenti di sinistra. Questa sequenza spiega anche, non necessariamente assolve, perché in alcuni contesti poco prima e dopo il 25 aprile, alcuni partigiani procedettero a “punire” i fascisti e i loro fiancheggiatori.

   Non so quanti abbiano letto il fondamentale volume di Claudio Pavone, appunto Una guerra civile (Torino, Bollati Boringhieri 1991), ma Pavone scrive di tre guerre nella Resistenza. Oltre alla guerra civile fra partigiani e fascisti, furono combattute due altre guerre: un patriottica e una di classe. Ovvio che i partigiani combattessero anche, in alcuni contesti, soprattutto contro i nazisti, invasori e occupanti. Fu una guerra, in termini moderni, di liberazione nazionale nella quale i fascisti si schierarono con i nazisti, divenendo più che collaborazionisti, veri e propri traditori della patria. In questo senso è accettabile parlare di morte della patria quando i fascisti costituirono lo stato fantoccio noto come Repubblica di Salò. La terza guerra fu una guerra di classe. Molti fra i partigiani, nient’affatto esclusivamente i comunisti, volevano dare una vita uno Stato dei lavoratori, molto diverso da quello che si era inchinato a Mussolini. Molti di loro, ripeto non soltanto fra i comunisti, ritenevano indispensabile cambiare la struttura di classe dello Stato italiano e, in senso più lato, i rapporti sociali per eliminare ogni traccia di fascismo e qualsiasi possibilità di suo ritorno. Senza volere troppo forzare le sue parole, uno dei grandi Costituenti, Piero Calamandrei, giurista esimio del Partito d’Azione, offrì indirettamente sostegno a quelli che erano gli obiettivi di rinnovamento profondo perseguiti dalla guerra di classe, affermando che la Costituzione era “una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata”. A lungo, non solo fra i partigiani si parlò a (s)proposito di Resistenza tradita.

   La parola d’ordine “attuare tutta la Costituzione” mirava proprio a dare sostanza a quegli obiettivi di rinnovamento sostanziale della società italiana, obiettivi che sono efficacemente delineati nell’art. 3 della Costituzione. Insistere nel sottolineare che la Resistenza è stata quasi essenzialmente una guerra civile e che è la destra finalmente al governo che generosamente offre la pacificazione manipola la molto più complessa verità storica. Tenta di fare dimenticare i crimini compiuti contro gli italiani dai fascisti solidamente sostenuti dai nazisti. Esclude dalla riflessioni l’obiettivo mancato del profondo rinnovamento di una società e delle organizzazioni: la Chiesa, la burocrazia, le associazioni industriali che con il fascismo erano venute a patti e che del tutto consapevolmente cercarono, anche offrendo rifugio ai fascisti sconfitti, ma non epurati, di mantenere i privilegi acquisiti e di averne fatto pessimo uso con conseguenze che sono tuttora visibili nel dibattito e nell’azione politica. In un certo senso, la necessità di profondi mutamenti sociali e culturali, è vero che la Resistenza deve continuare.

Pubblicato il 23 aprile 2023 su Domani

Il vuoto di memoria

Corriere di Bologna
L’ignoranza di massa sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna m’inquieta, ma non mi sorprende. Al contrario, sarei sorpresissimo se, come Fernando Pellerano ha scritto sul Corriere di ieri (29 luglio), esistesse una maggioranza anche risicata in grado di rispondere correttamente alle “classiche cinque domande”: dove, quando, come, chi, perché? Troppo spesso qualcuno si diletta in dibattiti di alto livello concernenti l’assenza di una memoria condivisa della storia del paese, dei suoi principali, talvolta drammatici, avvenimenti. Però, il problema non è la “condivisione” della memoria. E’ possibile vivere insieme senza condividere le memorie degli altri purché le si rispetti. Più ambiziosamente, purché si desideri e si sappia confrontare civilmente le proprie memorie. Il problema è, invece, che non abbiamo praticamente nessuna memoria seria e approfondita della storia di questo paese (e di questa città).

Molti hanno ricordi vaghi, confusi, parziali che non fanno né conoscenza né memoria. Troppo facile sostenere che la colpa è dei programmi scolastici che si fermano alla Seconda Guerra mondiale, quasi mai sconfinando nelle pericolose pagine della Resistenza, magari evidenziando anche gli aspetti di guerra civile che indubbiamente ebbe. Dunque, si diano una mossa i Ministri dell’Istruzione che si susseguono vorticosamente: tre negli ultimi tre anni. Oppure siano i presidi a suggerire, invitare, chiedere ai loro docenti di storia e filosofia (ah, s’insegnasse anche la Costituzione come parte integrante della storia d’Italia, “come, quando, chi”) di colmare la vergognosa lacuna. So per certo che molti docenti ci provano e so altrettanto per certo che, come nel caso di coloro che “insegnano” la Resistenza, molti si sono trovati sotto attacco dai genitori dei loro alunni. Poiché il coraggio, neppure quello civile, non se lo può dare chi non ce l’ha, in assenza di un contesto che li sostenga, anche gli insegnanti più motivati hanno fatto un passo indietro. All’assenza di memoria non possono neppure supplire le famiglie, meno che mai quelle che obiettano all’insegnamento della storia contemporanea in base ai loro confusi ricordi, alle loro preferenze politiche, alle loro idiosincrasie. Resterebbero gli operatori dei media e i politici.

Le persone della mia età ricordano (probabilmente in maniera condivisa) quanto significativa, rilevante, istruttiva, mi avventurerei persino a scrivere “bella”, fu la serie di trasmissioni televisive “La notte della Repubblica”, curate da Sergio Zavoli. Oserei proporne un aggiornamento. Credo che sarebbe cosa buona ritrasmetterle, magari aggiungendovi il materiale emerso negli ultimi vent’anni. Il resto spetta alla città di Bologna, alle sue autorità, alle sue scuole e all’Università (che dovrebbe utilizzare al meglio le sue competenze), persino alla Cineteca che è in grado di svolgere un’effettiva attività didattica. Non ho nessuna illusione. Un paese di balocchi, di fumetti, di fiction non riuscirà a darsi nessuna memoria, se davvero non cambia verso. Questa è un’opera da grandi politici e da grandi intellettuali. Nel suo piccolo, una città come Bologna, se dedica le sue energie meno a rievocazioni che ottengono pubblicità a misura di fischi e più all’insegnamento diffuso, riuscirebbe a fare parecchio.

Pubblicato sul Corriere di Bologna il 30 luglio 2014