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In Europa: meno opportunismo, più convinzioni

Che cosa resta del tentativo di adesione di Grillo al gruppo parlamentare di Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa e del netto rifiuto espresso da quel gruppo? Troppo facile soffermarsi sull’opportunismo politico del (non) leader del Movimento Cinque Stelle ratificato on line dal 78 per cento dei votanti i quali, evidentemente, sono disposti ad andare un po’ dovunque sulla scia del capo. Sarebbe bello potere aggiungere che in quel 78 per cento si sono espressi anche coloro che, forse, non sono anti-Unione Europea e neppure anti-Euro. Non lo sapremo. Già sappiamo, invece, che almeno due europarlamentari Cinque Stelle se ne sono andati dal gruppo, segno che si trovavano a disagio insieme con coloro, gli europarlamentari di Farage, che la Brexit l’hanno fatta e che coerentemente dovrebbero lasciare il prima possibile, vale a dire sei mesi fa (sì, proprio così) il loro scranno europeo. Oltre a sapere qualcosa su Grillo et al. abbiamo imparato che da qualche parte a Bruxelles c’è molto più di un europarlamentare che non è disposto a negoziare voti in cambio di cariche, principi in cambio di scatti di carriera. Certo, il Presidente dei Liberal-Democratici, il belga Guy Verhofstadt non fa parte degli immacolati se, come sembra fin troppo probabile, avrebbe usato quei diciassette voti degli europarlamentari a Cinque Stelle per rafforzare la sua non solida candidatura alla Presidenza del Parlamento europeo (il primo round di votazioni si terrà martedì 17 gennaio).

Troppo si discute della crisi dell’Unione Europea e delle sue istituzioni senza ricordare e evidenziare le cause di quella che, tecnicamente, non è una crisi, ma un groviglio di difficoltà: due di origine esterna e una tutta europea. Lo stato di costante difficoltà, seppure di diversa misura, delle economie europee è ancora conseguenza dei disastri bancari degli USA ai tempi di George W. Bush. L’impennata dell’immigrazione discende anch’essa in buona parte dalla guerra in Iraq voluta da Bush e sostenuta da Tony Blair con tutte le conseguenze sul mondo arabo, che non possono essere messe sotto controllo e portate a soluzione da nessuna grande potenza che operi da sola: né dagli USA né dalla Russia né dall’Unione Europea. Lasciando da parte l’attesa per le elezioni presidenziali francesi (maggio) e le parlamentari tedesche (settembre), la terza grande difficoltà dell’Unione Europea deriva dall’incapacità dei capi di governo degli Stati-membri di formulare politiche comuni lungimiranti, ma anche, talvolta, di rispondere rapidamente alle emergenze. Il luogo dell’impasse e di negoziati inconcludenti è il Consiglio dei capi di governo. Prendersela con la Commissione, criticando i tecnocrati e i burocrati, significa non sapere come funzionano le istituzioni europee e non conoscere la composizione della Commissione.

Nominata dai capi di governo, con il suo Presidente pre-designato dagli elettori europei che hanno dato la maggioranza relativa ai Popolari, indirettamente legittimando il loro candidato Jean-Claude Juncker, la Commissione è composta da persone, ex-capi di governo ed ex-Ministri degli Stati membri,che, al loro curriculum politico spesso aggiungono notevoli competenze specifiche che giustificano positivamente la qualifica di tecnocrati. Se il Consiglio è spesso luogo di conservazione dello status quo, la Commissione è il motore dell’Unione e ha imparato che può essere tanto più efficace quanto più viene appoggiata e sostenuta dal Parlamento europeo il quale, lentamente, ma gradualmente ha acquisito notevoli poteri di controllo e di legislazione. Oggi, la carica di Presidente del Parlamento non è soltanto prestigiosa. Può essere politicamente molto influente. Verhofstadt tentava di inserirsi nel duello italiano fra Antonio Tajani, candidato dei Popolari, e Gianni Pittella, candidato dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici.

Non provo neanche a suggerire che gli europarlamentari delle Cinque Stelle avrebbero potuto giocarsi la carta del voto per uno dei due italiani in cambio di un impegno serio su qualche politica davvero europea. Mi limito a concludere che il grave errore di Grillo, Casaleggio e i loro consiglieri ne ha ridimensionato l’influenza, il che probabilmente è un bene per tutti coloro che pensano e credono che l’Unione Europea è il luogo dove le convinzioni (europeiste) riescono a prevalere sulle convenienze (particolaristiche).

Pubblicato AGL il 17 gennaio 2017 con il titolo L’Unione diventa un groviglio

La paura non si batte con le parole

Immagino che molti lettori siano infastiditi da affermazioni sul pericolo del terrorismo pappagallescamente ripetute che suonano vuote e ipocrite. Credo che ciascun lettore desideri informazioni precise e indicazioni convincenti. Mi ci provo. Primo, sì, dobbiamo avere paura. I terroristi islamici, tali poiché professano quella religione e in nome del loro Dio uccidono, hanno dimostrato di sapere colpire dovunque. Volendo fare stragi eclatanti scelgono luoghi dove le persone si affollano: stazioni ferroviarie, metropolitane, sale da ballo, aeroporti e stadi (anche se a Parigi, in questo caso, non hanno avuto successo). Chiunque frequenti quei luoghi, ed è evidente che un po’ tutti noi in quei luoghi ci siamo stati e ci ritorneremo, deve essere consapevole del rischio e deve, ovvero, può avere paura. Consapevoli dei rischi sarebbe opportuno che ci comportassimo con grande cautela e seguissimo l’indicazione che ho visto nella metropolitana di Washington, D.C.: see something say something. Traduco liberamente: chi vede qualcosa dica qualcosa.
Naturalmente, sappiamo per certo che ci vuole molto altro per evitare gli attentati e le stragi. Dovremmo anche sapere che criticare i servizi segreti, di ogni paese, la loro eventuale inadeguatezza, la loro mancanza di coordinamento serve esclusivamente qualora le proposte per risolvere i problemi siano rapidamente operative. Dovremmo anche sapere che qualsiasi servizio segreto efficiente non si vanterà mai di avere sventato una strage, evitato un attentato, catturato i presunti kamikaze poiché mira, giustamente, a tenere coperte le sue fonti, a salvaguardare i suoi informatori, a non svelare nulla del suo modus operandi. Rimane verissimo che la cooperazione, la condivisione e la prevenzione sono essenziali, ma è altrettanto vero che, salvo deplorevoli casi di gelosie professionali o, peggio, nazionalistiche, non pochi servizi segreti si scambiano già da tempo una pluralità di informazioni. Se ci sono falle, oltre al chiedere conto agli operatori dei servizi segreti, la responsabilità va attribuita ai ministri e ai sottosegretari che a quei servizi sono predisposti.
Non serve a niente colpevolizzare l’Europa e gli europei per il loro colonialismo, per il capitalismo predatore, per politiche gravemente sbagliate: dall’intervento in Iraq alla defenestrazione di Gheddafi all’inazione in Siria. Non è ragionevolmente possibile tornare indietro e riparare a errori e a crimini. Imparata la lezione (temo non da tutti), non ne consegue affatto che diventa possibile pensare che la sfida dei terroristi kamikaze armati di tutto quel che serve, con sostegno finanziario e logistico, sia risolvibile con parole di pace. Uno dei due responsabili, forse il maggiore, dell’intervento in Iraq, che ha sollevato il coperchio del vaso di Pandora di tutte le contraddizioni, le rivalità, le tensioni anche religiose nel mondo mediorientale, Tony Blair, sostiene che è necessario ricorrere a un “centrismo muscolare”. Insomma, non si può rinunciare all’uso delle armi sia per difendersi sia per dare aiuto a coloro, non sembra che siano la maggioranza, che tentano di (ri)costruire stati in grado di garantire, se non una, al momento impossibile, democrazia, almeno ordine politico e sicurezza personale.
Un giorno, magari, si dovrà anche usare la ragione per discutere del multiculturalismo, del suo fallimento, della sua pessima attuazione (“fate quel che vi dettano i vostri costumi”), della sua ridefinizione. Nel frattempo, però, gli europei e, più in generale, gli occidentali hanno il dovere morale e politico di rispettare e attuare i valori sui quali hanno costruito le loro comunità e l’Unione Europea e di esserne orgogliosi. Sono anche autorizzati a chiedere a chiunque voglia venire a vivere in Europa e crescervi i suoi figli e le sue figlie di rispettare quei valori. Quando gli europei avranno eletto Presidente della Commissione un islamico, quel Presidente dovrà dichiarare che riconosce la separazione fra le Chiese, al plurale, compresa la sua, e lo Stato, e che la sharia nella “sua” Europa è fuorilegge.
Pubblicato AGL 25 marzo 2016

I migranti lo sanno l’Europa c’è

Troppo bistrattata, l’Unione Europea non può in alcun modo essere considerata responsabile della migrazione di centinaia di migliaia di persone. Al contrario, per quei migranti, tecnicamente quasi tutti clandestini, ad eccezione di coloro che hanno diritto allo status di rifugiato politico, l’Unione Europea è, in buonissima misura, la soluzione almeno temporanea. Molti, se e quando potranno, rientrerebbero nelle loro patrie, cessassero mai le guerre civili, a cominciare da quella in corso in Siria e quella, non finita, in Sudan. Finora, contrariamente ai troppi e male informati critici, pure in assenza, questa sì criticabile, di una politica comune dell’Unione Europea, non pochi Stati-membri, soprattutto a cominciare dall’Italia a continuare con la spesso accusata Germania e con la silenziosa Svezia, hanno accolto moltissimi emigranti, magari non sapendo delineare criteri da condividere con Stati più riluttanti.

L’Unione Europea non ha creato il problema della migrazione. Non è responsabile né del disastro libico, anche se poteva interrogarsi prima su come gestire le conseguenze dall’intervento contro un dittatore sanguinario come Gheddafi. L’Unione Europea non porta nessuna responsabilità neppure delle guerre civili in Siria e nel meno noto caso dello Yemen. Piuttosto bisognerebbe ricordare agli americani, non principalmente a Obama, ma anche agli inglesi, i Conservatori votarono a favore, che furono loro ad appiccare l’incendio con la guerra in Iraq. Non “causa” delle immigrazioni, l’Unione Europea deve, tuttavia, trovare una o più soluzioni. Lo deve fare non per paura, infondata, dei migranti terroristi, ma per rimanere fedele ai suoi valori e ideali di protezione e di promozione dei diritti umani.

La paura che, in troppi luoghi dell’Europa, viene manipolata da alcuni leader, l’ungherese Orbàn, l’inglese Cameron, la francese Le Pen e, nel suo piccolo, dal leghista Salvini, è infondata. Con i migranti non arrivano i terroristi, i quali, dovremmo averlo imparato da tre brutti avvenimenti: gli attentati alla stazione di Madrid, alla metropolitana di Londra e al settimanale francese Charlie Ebdo, erano già qua, nati, vissuti male e decisi in nome di un qualche più o meno distorto precetto religioso a colpire gli europei. I migranti sono tutti alla ricerca di luoghi dove sopravvivere con le loro famiglie. Il loro arrivo in Europa costituisce, senza esagerare, un omaggio al cosiddetto vecchio continente. Un giorno, probabilmente, qualcuno scoprirà che i migranti hanno rivitalizzato, non soltanto demograficamente, l’Europa.

Che il problema non abbia, però, una soluzione soltanto europea, non significa affatto che non debba essere cercata anche nell’ambito dell’Unione. Il conservatore Cameron e la sua Ministra May, annunciando politiche di blocco degli ingressi e delle permanenze sul territorio inglese, denunciano la loro mancanza di volontà e la loro incapacità a trovare soluzioni. Bloccare gli immigrati prima che siano messi sui barconi da scafisti che perseguono il loro personale arricchimento, spesso tollerati qualche volta incoraggiati da governanti, come quelli libici e di alcuni paesi dell’Africa sub sahariana, che non controllano il loro territorio, è operazione difficilissima. Aiutare, anche con denaro, risorse, intelligence, qualche governante del Maghreb e del Medio-Oriente, a riportare un ordine decente e non repressivo nei loro paesi sembra politica più saggia e più produttiva, soprattutto nel medio periodo. Molto potrebbe farsi, come da tempo già succede soprattutto in Germania e in Svezia, con politiche nazionali di integrazione linguistica e lavorativa. Forse l’Unione Europea dovrebbe partire proprio da queste esperienze e tentarne la generalizzazione fra tutti gli Stati-membri. Il resto sono chiacchiere, più o meno politicizzate, particolaristiche, a vanvera.

Pubblicato AGL il 1°settembre 2015