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State-building in Palestina, pace per la democrazia, e viceversa #ParadoXaforum

Nonostante molte critiche, più o meno fondate e saccenti, il Piano di Pace di Donald Trump ha posto, almeno finora, termine al conflitto Israele-Hamas e consentito lo scambio fra circa duemila detenuti palestinesi e 48 ostaggi israeliani vivi e morti. Poi, è certamente opportuno e doveroso porre nel mirino delle critiche quello che risalta, l’impianto affaristico della ricostruzione a Gaza, e quello che viene progettato, una fase di indefinita durata di un governo «tecnocratico e apolitico». Non entrerò nei dettagli, pure importantissimi, poiché voglio giungere all’elaborazione del punto che ritengo decisivo. Premetto che due elementi mi hanno colpito molto sfavorevolmente. Il primo è che nessuno dei quattro firmatari del documento: il presidente egiziano El-Sisi, il presidente turco Erdogan, l’emiro del Qatar Hamad al-Thani e, per dirla tutta, neppure il Presidente americano Trump, è un «sincero democratico». Il secondo elemento è la sfilata ossequiosa dei leader a stringere, uno per uno, in poco splendida solitudine e distanziati, la mano di Trump con relativa foto di rito. Apprezzabile la ritrosia di Giorgia Meloni, visibile nelle sue espressioni facciali e nel suo body language. La celebrazione ostentata è andata fuori misura e pone gran parte dell’onere dell’attuazione degli accordi sulle spalle del Presidente USA.
Il problema cruciale dell’attuazione è che esiste una controparte, ma non l’altra. Anche se cambiasse, come è possibile, per scaramanzia non scrivo probabile, il primo ministro di Israele, ci saranno altri governanti a garantire che lo Stato di Israele manterrà fede agli impegni presi. Al momento, i palestinesi di Gaza sono privi non soltanto di qualsiasi rappresentanza politica, ma di voce in capitolo. L’Autorità Nazionale Palestinese, vecchia, screditata e da molti accusata di alto tasso di corruzione, non controlla il territorio e, soprattutto, non dispone di milizie armate in grado di controllare Hamas. Nel documento manca qualsiasi riferimento alla necessità che i palestinesi abbiano/si dotino/ottengano uno Stato (la cui «esistenza» è incredibilmente già riconosciuta da più di 150 Stati sui 190 facenti parte dell’ONU).
Proprio perché sono assolutamente consapevole delle enormi difficoltà dei processi di State-building, l’assenza nel documento di indicazioni e linee guida che vadano oltre il ricorso ad un comitato «tecnocratico e apolitico» (costruire uno Stato è un compito di enorme complessità e politicità), forse presieduto da Tony Blair, la cui fama mediorientale non è propriamente elevatissima, è decisamente grave.
Si è aperta una grande finestra di opportunità per uno Stato palestinese in grado di mantenere l’ordine politico e di sfruttare le ingenti risorse che affluiranno per la ricostruzione di Gaza e, perché no?, anche per il lancio su scala internazionale del turismo balneare sulla striscia. Infine, per chi crede con me, e con una significativa «striscia» di ricerche e di analisi, e come me che gli Stati democratici non si fanno la guerra fra di loro, uno Stato palestinese democratico sarebbe un attore decisivo per la pace duratura nel Medio-oriente. Mi fermo qui senza procedere a speculazioni, pure possibili e plausibili, sul perché i governanti autoritari degli altri sistemi politici medio-orientali non vedrebbero con favore, vero e sincero understatement, la nascita nei loro dintorni di uno Stato democratico. Avremo modo, temo presto, di tornarci.
Pubblicato il 15 ottobre 2025 su PARADOXAforum
Francesca Albanese cittadina onoraria di Bologna #intervista al prof. Gianfranco Pasquino @RadioRadicale
https://www.radioradicale.it/scheda/771187
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati.
“Francesca Albanese cittadina onoraria di Bologna, intervista al prof. Gianfranco Pasquino” realizzata da Lanfranco Palazzolo con Gianfranco Pasquino (politologo, professore emerito di Scienza Politica all’Università degli Studi di Bologna).
L’intervista è stata registrata venerdì 10 ottobre 2025 alle ore 12:00.
Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Bologna, Cittadinanza, Comuni, Esteri, Gaza, Geopolitica, Guerra, Hamas, Israele, Lepore, Manifestazioni, Medio Oriente, Meloni, Nobel, Pace, Palestinesi, Polemiche, Premio, Terrorismo Internazionale, Trump, Violenza.
Solo un governo fatto da vassalli non riconosce la Palestina @DomaniGiornale

Giorno dopo giorno Gaza diventa il condensato dei drammi e delle contraddizioni del conflitto in Medio-Oriente e delle incapacità, delle inadeguatezze e dei neppure molto oscuri disegni di alcuni protagonisti. In primis non possono che stare le tremende condizioni in cui Netanyahu ha ridotto i gazawi. Non basta dire che tutto finirebbe se Hamas liberasse gli ostaggi anche se le pressioni sui capi di quell’organizzazione debbono essere intensificate da tutti e l’eventuale bluff merita di essere chiamato con un cessate il fuoco temporaneo. I dirigenti israeliani e i loro sostenitori non possono avere dimenticato in che modo furono trattati gli ebrei nell’Europa dell’Olocausto. Oramai raggiunti dall’accusa di genocidio e con Netanyahu criminale di guerra dovrebbero porre un limite alle loro efferate azioni a Gaza. Questo esito sarebbe più probabile se il Presidente Trump smettesse di inviare armi ad Israele. Non verrà avvicinato dalla sequenza di riconoscimenti dello stato della Palestina.
Oggettivamente, quello stato non esiste e la sua costruzione richiederà tempo e impegno. Legittimo è anche pensare che l’attuale Autorità Nazionale Palestinese non abbia né l’autorevolezza politica né la credibilità e la competenza per procedervi in maniera efficace. E’ altresì possibile dubitare che Abu Mazen riesca a controllare, disarmare, escludere i dirigenti di Hamas, ma molto difficile sarà comunque evitare che le migliaia di palestinesi che anni fa votarono Hamas e che lo hanno a lungo sostenuto non intendano avere un ruolo politico nel nuovo stato. Se il riconoscimento è un gesto politico inteso a mandare soprattutto, credo, un messaggio di profonda riprovazione al governo Netanyahu e in subordine di sostegno alle aspirazioni di molti palestinesi, anche il non riconoscimento è un gesto politico. Se il cancelliere tedesco Merz sente giustamente il peso di un passato indimenticabile, le motivazioni del governo italiano appaiono fragili e sono forse opportunistiche.
Non compiere un gesto simbolico, ma tutt’altro che ininfluente soprattutto perché risulterebbe sgradito al Presidente degli USA, è una posizione molto criticabile che segnala subordinazione, mancanza di autonomia, forse persino rinuncia all’esercizio della sovranità nazionale da parte del governo italiano. Ancora più triste sarà il giorno in cui il riconoscimento dello Stato palestinese da parte del governo italiano dovesse arrivare a ruota di quello di Trump. Peggio ancora se quel riconoscimento fosse rivendicato come contributo alla posizione comune e condivisa dell’Occidente.
Quello che sappiamo delle opinioni pubbliche nelle democrazie europee e occidentali nelle quali hanno la possibilità di esprimersi liberamente è che il governo israeliano ha bruciato gran parte del capitale di sostegno di cui ha a lungo goduto. Dappertutto le opinioni pubbliche occidentali hanno, per così dire, svoltato. Le immagini di repressione e di oppressione ad opera del governo israeliano assolutamente e inequivocabilmente sproporzionate rispetto a qualsiasi comprensibile rappresaglia per le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre 2023, soprattutto l’agonia e la morte di un numero elevatissimo di bambini, hanno giustamente contribuito alla crescita di sostegno per i palestinesi. Quel sostegno non può essere intaccato neppure dalle totalmente deprecabili manifestazioni di dissennata violenza dei sedicenti pro-Pal italiani. Al tempo stesso, quel sostegno è tuttora privo di uno sbocco politico in direzione di un reale sollievo per i palestinesi di Gaza.
Resta da vedere se l’operazione della Global Sumud Flotilla riuscirà a conseguire i suoi obiettivi, a cominciare dalla rottura pacifica del blocco navale imposto da Israele. Da un lato, rinunciando a scorte armate, i partecipanti dimostrerebbero che mezzi non violenti possono conseguire obiettivi di notevole importanza, non tanto contro Israele, ma soprattutto a favore della popolazione di Gaza. Dall’altro lato, al governo israeliano si offre la grande opportunità di dimostrare che “pietà non l’è morta”.
Pubblicato il 24 settembre 2025 su Domani
Gaza è una tragedia dell’Umanità @DomaniGiornale

Gaza è una tragedia, non “umanitaria”, aggettivo tremendamente ambiguo in questa situazione, ma dell’umanità. Conseguenza anche, ma nient’affatto esclusiva e necessitata, dei crimini commessi da Hamas il 7 ottobre e che probabilmente Hamas avrebbe potuto evitare liberando senza condizioni gli ostaggi israeliani, Gaza sta affondano sotto il tiro incrociato di altri crimini, di gravissimi errori, di deprecabili ambizioni. La rappresaglia, secondo qualsiasi criterio davvero sproporzionata, scatenata dal Primo ministro Netanyahu lo ha giustamente reso un criminale di guerra. Finora la continuazione della rappresaglia contro Hamas e i palestinesi gli è anche servita, obiettivo da non dimenticare, a mantenere la carica e a procrastinare il processo per reati di corruzione.
L’opinione pubblica israeliana, inevitabilmente attraversata da molte linee di divisione, sembra dare priorità allo sforzo bellico. Una piccola parte protesta contro quella che è l’indifferenza del capo del governo alla sorte degli ostaggi ancora in vita. La destra, soprattutto quella religiosa, trae vantaggio dalla situazione che contempla il suo ruolo indispensabile per la continuazione del governo e ne approfitta per espandere gli insediamenti. Grande e fondato appare il timore che la democrazia in Israele venga imprigionata e sottomessa dai comportamenti di Netanyahu e dei suoi sostenitori.
Il riconoscimento, da parte di alcuni governi, non soltanto europei, di un improbabile Stato palestinese, risulta essere poco più che una mossa propagandistica più o meno apprezzabile e condivisibile, che purtroppo fa anche correre il rischio che si tralasci di pensare e di operare rapidamente per soluzioni più concrete e praticabili. La foto del segretario di Stato Marco Rubio a Gerusalemme con il Primo ministro israeliano proprio nelle ore in cui questi lanciava l’invasione di Gaza che dovrebbe essere l’operazione finale (non commento la terminologia e la sua macabra assonanza con “soluzione finale”) è certamente meno raccapricciante di quelle dei tre autocrati Xi Jinping, Putin, Kim Jong-un a Shanghai alla ricerca di un diverso ordine internazionale, mai specialità dei dittatori. Però, segnala l’impotenza degli USA e la connivenza del loro Presidente con il governo israeliano.
L’affarista newyorkese insediatosi alla Casa Bianca, stende il tappeto rosso per il criminale di guerra Putin in cambio di nulla (certo non, visti gli esiti del pessimamente organizzato e deprecabile incontro bilaterale, l’agognato Premio Nobel), ma fa di peggio con Netanyahu. Smettesse di sostenerlo economicamente e soprattutto con abbondanti forniture di armi potrebbe cercare di avvicinare la fine del conflitto. Qualcuno dovrebbe far sapere a Trump l’immobiliarista che soltanto a conflitto concluso sarà possibile cominciare i lavori per costruire, incuranti degli ordigni bellici che saranno rimasti in grande quantità, luoghi di vacanze di superlusso. Quanto breve in questa visione malata è il passaggio di Gaza dalla tragedia alla farsa che, però, sarebbe riscattata dalle migliaia di posti di lavoro a disposizione dei palestinesi locali. Questo è, finora non sono arrivate smentite e neppure indicazioni alternative, il livello di raffinatezza del pensiero geopolitico elaborato a Washington.
Immagino che sul continente europeo molti, come me continuino a sentire acutamente un profondo senso di colpa per i comportamenti dei loro governanti e dei loro connazionali ai tempi dell’Olocausto. Nessuno creda che la tragedia di Gaza offra l’opportunità di liberarsi di sensi di colpa. Anzi, dovremmo tutti interrogarci sulle ragioni della nostra inadeguatezza di pensiero e di azione. Giusto armare l’Unione Europea per dissuadere gli attacchi dal fronte orientale e difendersi adeguatamente, In qualche modo, però, interrogandosi sugli errori commessi in Medio Oriente l’Unione Europea deve provvedere anche a elaborare una strategia ad ampio raggio per il perseguimento di paci giuste fuori del suo continente, a cominciare da quel che resterà di Gaza.
Pubblicato il 17 settembre 2025 su Domani
Per arrivare alla pace servono veri mediatori @DomaniGiornale

A nessuno sono note le capacità di mediazione del Presidente Trump. Al contrario, le sue esternazioni all’inizio del secondo mandato (tertium non datur!) hanno mostrato propensioni autoritarie e impositive che mal si conciliano, anzi, per niente, con gli assi portanti di qualsiasi mediazione minimamente efficace e produttiva. Infatti, i suoi maldestri passi non hanno finora prodotto nulla di positivo e molto di deprecabile. L’accettazione del cessate il fuoco, tra Russia e Ucraina e tra Netanyahu e Hamas, deve costituire senza se senza ma la premessa imprescindibile di un negoziato che conduca in tempi necessariamente non predefinibili ad una pace decente (sì, lo so che il mantra è “pace giusta e duratura”, ma non sembra funzionare). I mediatori non dovrebbero porsi nessun altro obiettivo né quello di ottenere il conferimento del Premio Nobel per la pace né quello della trasformazione delle spiagge della striscia di Gaza in una riviera internazionale di lusso. I desideri di Trump lo squalificherebbero fin dall’inizio come mediatore credibile se non fossero sostenuti dalla potenza militare gli USA e dalle dimensioni spropositate del suo ego. Quello che è da temere ancor più è la sua visione complessiva, espressa politicamente e visivamente nell’incontro in Alaska con l’autocrate Putin, di come ricostruire l’ordine internazionale, vale a dire con accordi bilaterali. Chi vuole mediare non deve stendere nessun tappeto rosso, meno che mai omaggiando l’aggressore né, naturalmente, deve continuare a vendere armi al governo israeliano.
Trump non è né il mediatore ideale né l’unico mediatore possibile anche se è inevitabile. L’Unione Europea ha l’obbligo politico e, lo scrivo con convinzione, morale di rivendicare un posto di rilievo al tavolo delle trattative. Lo può fare e deve cercare di farlo fin da adesso se le sue autorità, a cominciare dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri Kaja Kallas, prendono l’iniziativa. A quel tavolo dovrebbe essere presente e avere un ruolo anche il segretario generale delle Nazioni Unite. Però, sono consapevole che per le sue posizioni espresse in maniera imprudente e talvolta esagerata, Antonio Guterres è persona sgradita tanto a Zelensky quanto a Netanyahu (che gradisce solo se stesso).
La situazione generale dei due conflitti mi pare talmente grave, complicata, potenzialmente foriera di sviluppi ancora più drammatici da richiedere qualche innovazione che potrebbe essere sostenuta dai policy-makers di una pluralità di stati, anche, forse soprattutto, dai Volenterosi e dalle loro opinioni pubbliche. Non soltanto credo che sarebbe opportuno che a Putin e Zelensky e a Netanyahu e Hamas venisse chiesto di suggerire un certo, piccolo, numero di mediatori a loro graditi e nei quali hanno fiducia, ma anche che emergessero candidature autorevoli di personalità di indiscusso prestigio dotate di competenza in materia. Finora sono circolate idee vecchie, inadeguate, senza retroterra storico-culturale, talvolta essenzialmente desideri, non tutti pii, purtroppo alcuni piuttosto empi.
Più pensieri più proposte più soluzioni verranno affacciate meglio sarà e più probabile sarà trovare le strade da percorrere oggi e domani perché certo porsi anche il compito di evitare la riproposizione di conflitti simili è oramai imperativo.
Tutto questo sembra un futuribile alquanto improbabile a sostegno del quale, peraltro, non sarebbe difficile sollecitare riflessioni condivise, valutazioni dei pro e dei contro, indicazioni che i protagonisti, da Trump ai governi in conflitto e ai loro sostenitori, siano in linea di principio disponibili a muoversi in questa mai sperimentata direzione che, peraltro, presenta, a mio parere, più opportunità che rischi. L’alternativa è sotto gli occhi di tutti: prosecuzione dei conflitti e dei massacri che creano anche situazioni peggiori nelle quali trattare e costruire futuri accettabili.
Pubblicato il 27 agosto 2025 su Domani
Teheran libera? solo se l’input verrà da dentro @DomaniGiornale

Che, insieme alle molte brutture, ferite, traumi e morti, la guerra possa aprire qualche finestra d’opportunità è noto a quasi tutti gli studiosi delle relazioni internazionali nonché i ai più colti e avveduti policy makers. Nel passato, certo, i famigerati neoconservatori intorno al Presidente George W. Bush (2000-2008) hanno esagerato nel credere all’abbondanza di opportunità che non sapevano cogliere e meno che mai coltivare. Oggi non è chiaro se intorno a Donald Trump, Commander in Chief, e lui stesso ci sia qualcuno che vede lucidamente che la sconfitta della Guida Suprema Alì Khamenei e la cacciata dal potere degli ayatollah significhino l’apertura di una enorme finestra di opportunità per cambiamenti profondi, rivolgimenti sostanziali.
Per capirne di più e meglio bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco esiziale, nel quale sprofondarono i neocon di Bush e sembrano dibattersi troppi attori e commentatori. “Cambio di regime” non significa affatto che, affossata la teocrazia iraniana ne consegua senza colpo ferire l’avanzata trionfante di una democrazia. Il crollo del regime iraniano aprirebbe una benvenuta, ma del tutto indeterminata, transizione nella quale una pluralità di protagonisti: autorità militari, parte del clero, quel che rimarrà dei pasdaran, i movimenti delle donne, forse alcune elite di professionisti iraniani in una società schiacciata, ma non priva di vitalità, giocherebbero le loro carte dando vita a coalizioni composite. Ci sarà confusione e rimarranno tentazioni e comportamenti autoritari. Quello che appare improbabile, ma anche molto sconsigliabile, è una soluzione che venga da fuori, come prospetta il figlio dell’ultimo shah della dinastia Pahlavi. Quarantacinque anni di lontananza implicano che non ha basi né relazioni. Quando toccò a loro i meno famosi esuli iracheni, alcuni coccolati negli USA, mostrarono rapidamente la loro quasi assoluta irrilevanza. Fin d’ora meglio non illudersi e non operare per l’insediamento di un governo fantoccio a prevalenza di revenant.
Comunque, il problema da risolvere è la costruzione di un assetto che, certo per quanto non ancora democratico, sia in grado di garantire ordine politico, inteso come prevedibilità di comportamenti con riduzione al minimo di quelli oppressivi e repressivi. Sarebbe già una situazione positiva e promettente dalla quale, per esempio, a quasi quindici anni dal rovesciamento di Gheddafi, la Libia appare tuttora lontanissima. L’ordine politico è/dovrebbe essere l’obiettivo condiviso, non imposto, fatto valere senza eccessi, senza umiliazioni, senza mortificazioni degli sconfitti alle quali, però, Il Primo ministro israeliano non sembra volere rinunciare. Trump non si sa. Oggi sì, domani no, dopodomani sarà un altro giorno.
Oltre all’ordine politico interno all’Iran è indispensabile porsi l’obiettivo dell’ordine politico a Gaza che, ovviamente, non può essere affidato a Hamas, fermo restando che l’Autorità nazionale palestinese, che non ha finora dato buona prova delle sue capacità, deve imparare ad assumersi responsabilità vere e sostanziali. Al momento, è giusto nutrire dubbi. Nessuno di questi ordini politici, peraltro assolutamente auspicabili, fattibili e indispensabili è in grado di reggere se non viene accompagnato e sostenuto a livello superiore. Senza una visione sistemica conflitti, repressioni, oppressioni, comportamenti odiosi continueranno a ottenere risposte parziali e inadeguate. Ambiziosamente, i policy makers, non soltanto quelli volubili degli Usa, ma anche quelli degli Emirati del Golfo, dell’Arabia Saudita, finalmente dell’Unione Europea, e persino il turco Erdogan debbono impegnarsi a disegnare e coordinare una strategia che conduca anzitutto ad un ordine politico accettabile in e per tutto il Medio-Oriente. Allora apprezzeremo al meglio i frutti scaturiti dal regime change, che è giusto cercare di conseguirlo anche perché contiene generose ricompense.
Pubblicato il 25 giugno 2025 su Domani
Non genocidio, ma crimini di guerra #ParadoXaForum

Non ho nessuna ragione specifica, personale, famigliare, amicale, di tipo culturale, neppure politica nel senso di appartenenza, per sentire, continuare a provare un profondo senso di colpa per le leggi razziali e, soprattutto, in maniera dolorosa per l’olocausto. Quel binario 21 della stazione di Milano dal quale intere famiglie di ebrei furono deportate ad Auschwitz e le pietre di inciampo che si trovano anche Bologna per ricordare alcuni di loro colpiscono costantemente le mie emozioni più profonde. In maniera non del tutto spiegabile razionalmente. Nessuno della mia famiglia e dei progenitori è stato ebreo. Non ho avuto compagni di scuola riconoscibilmente ebrei, non professori al liceo e all’Università, e neppure colleghi identificabili come ebrei. I miei scrittori italiani preferiti Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Italo Calvino non hanno nulla a che vedere con l’ebraismo e di ebraismo non hanno scritto. Certo, Lessico familiare di Natalia Ginzburg è un romanzo che ho amato, ma il ricordo ammirevole e ammirato che Bobbio ha fatto di Leone Ginzburg sta su un altro piano. Il mio Pantheon degli antifascisti mette in ordine Piero Gobetti, Giacomo Matteotti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli. Quando lessi Se questo è un uomo di Primo Levi mi ero già fatto un’idea di che cosa era stato l’olocausto. La foto dell’ingresso al campo di Auschwitz si era già stampata nella mia mente.
No, non riesco proprio a equiparare il genocidio programmato dai nazisti come “soluzione finale del problema ebraico” e da loro eseguito fino al 27 gennaio 1945 a nessun altro, per quanto grave, sterminio di massa. Pertanto, sono più che riluttante, nettamente contrario ad accusare gli ebrei in blocco e il governo di Netanyahu specificamene di genocidio dei palestinesi. Invece, colgo le sembianze di un possibile genocidio nello slogan From the river to the sea Palestine will be free, non so quanto inconsapevolmente pronunciato da molti, da troppi. Comunque lo ritengo ignobile e pericolosissimo. Non aggiungo controproducente poiché è evidente che quello slogan non agevola e non avvicina nessuna soluzione della rappresaglia, legittima, ma diventata enormemente sproporzionata, del governo israeliano contro Hamas. Vorrei che, da un lato, fossero continuamente segnalate le responsabilità in questo conflitto di Hamas e dei suoi sostenitori e finanziatori, e dall’altro, fosse e rimanesse chiaro che nessuna soluzione potrà diventare duratura fintantoché i terroristi di Hamas godranno di agibilità politica. La eliminazione di una potente organizzazione terroristica è un obiettivo bellico giustificabile. Non significa certamente genocidio del popolo palestinese. Però quello che va detto a chiare lettere è che anche nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori debbono valere alcuni principi relativi alla proporzionalità della risposta e alla salvaguardia nella più alta misura possibile dei diritti e della vita della popolazione civile. Da questo punto di vista, non solo è opportuno porre l’interrogativo se il governo Netanyahu abbia commesso crimini di guerra. Tenendo quei crimini nettamente distinti dalle accuse di genocidio, è assolutamente doveroso perseguirli imputandoli a chi ne sarà individuato come responsabile sia fra i governanti israeliani sia fra i dirigenti di Hamas.
Pubblicato il 22 maggio 2025 su ParadoXaforum
Prepotente e incompetente il micidiale riformatore USA @DomaniGiornale

Con un misto di superficialità, improvvisazione e prepotenza, il Presidente USA ha annunciato che intende riformare il mondo. Applicherà una dottrina semplice, bella pronta, ready made: Rifare Grande l’America. Apparentemente, né lui né i suoi collaboratori, scelti prevalentemente con il criterio del tasso di adorazione nei suoi confronti, si sono interrogati sulle cause del più o meno significativo declino dell’America nei grosso modo vent’anni trascorsi. Da lui in parte interpretata e rappresentata, anche visceralmente, e in larga misura guidata, la reazione è stata diretta contro la cultura woke. In sintesi, woke compendia tutte le tendenze socio-culturali e di stili di vita espresse e in parte, in maniera molto/troppo acritica, accettate e lodate dai democratici e dall’influente, ma tutt’altro che egemone, establishment nel mondo dell’informazione, delle università d’élite, del cinema. A quei comportamenti, peraltro non ancora adeguatamente valutati né nei loro eccessi né nella loro spinta positiva verso una società DEI, ovvero caratterizzata da Diversità, Equità, Inclusione, Trump ha contrapposto un ritorno al passato. Il suo annuncio è sembrato molto rassicurante, con qualche punta di risentimento e di rivalsa, all’elettorato che, per ragioni di conoscenze e tipo di attività lavorative, si sentiva e considerava non solo sfidato, ma lasciato indietro, umiliato e abbandonato. Un’America più grande darebbe più prestigio anche a loro, li renderebbe patrioti orgogliosi.
Da tycoon per il quale i soldi sono la misura non soltanto della ricchezza, ma dell’abilità personale e del successo ottenuto, Trump si è buttato anzitutto sui dazi per recuperare la potenza economica USA. Poi ha cercato di dimostrare che lui è in grado di rimettere gli USA al centro dell’ordine (disordine) internazionale. I dazi si stanno rivelando, come tutta la teoria economica ha sempre sostenuto, un fallimento gigantesco, costoso, non recuperabile. Anche la risposta ai due gravi conflitti in corso, pur molto diversi fra loro: aggressione russa all’Ucraina; e prolungata e sproporzionata rappresaglia israeliana contro Hamas e i palestinesi, evidenzia una visione inadeguata e persino pericolosa di Trump sia sul mondo che c’è sia su quello che si potrebbe/dovrebbe costruire.
Soltanto un megalomane poteva pensare di costruire qualcosa di decente nel conflitto russo/ucraino umiliando il Presidente Zelensky e stabilendo un rapporto personale diretto con Putin riconoscendo all’autocrate russo un potere da tempo perduto e irrecuperabile. Non ne sarebbe, comunque, derivata nessuna pace “giusta e duratura”, niente di cui vantarsi. Caduta l’opzione non si intravede nessuna strategia trumpiana alternativa. Anche nel Medioriente Trump non può sbandierare nessun successo. La striscia di Gaza non è destinata a diventare una “riviera” esclusiva per superricchi e sceicchi, spaventati dalla prospettiva di dover accogliere la diaspora palestinese. Quel che, da molti punti di vista, è peggio è che Trump non ha la minima idea di come convincere/costringere Netanyahu a concludere le sue oramai intollerabili, nei tempi e nei modi, e ingiustificabili operazioni belliche.
Nessun nuovo ordine internazionale potrà minimamente emergere se Trump continua a credere che l’Unione Europea ha sfruttato la “sua” America e concorda con il suo vice Vance che gli europei sono dei parassiti. Incidentalmente, non saranno i singoli governanti europei che asseriscono di comprendere le motivazioni del Trump sovranista piuttosto imperialista (a riprova le sue dichiarazioni su Groenlandia e Canada) a moderarne le mire e le politiche, ma neppure a trarne qualche vantaggio in esclusiva. Le photo opportunities, chiedo scusa, opportunistiche, diventano spesso rapidamente sbiadite. Al contrario, resistere a Trump e non lesinare motivate critiche è patriotticamente doveroso, ma, soprattutto, è politicamente indispensabile per porre le premesse di una strategia diversa, costruita su ampi accordi, mirati e lungimiranti. Quello che vorremmo dai volenterosi.
Pubblicato il 14 maggio 2025 su Domani
La tragedia medio-orientale e la mancanza di mediatori @DomaniGiornale

Nella tragica, non da oggi, situazione del Medio-Oriente non può, oggettivamente e augurabilmente, esserci un vincitore. Israele sa che può annichilire Hamas e gli Hezbollah per un certo periodo di tempo, ma non può cancellare i palestinesi né, tantomeno, l’Iran. Dal canto loro, i terroristi, teocrazia iraniana compresa, dovrebbero avere acquisito la consapevolezza che, per rendere la Palestina libera “dal fiume al mare” , sarebbe inevitabile innescare un conflitto anche nucleare. Nel primo caso, obiettivo che Netanyahu persegue anche per continuare a rimanere al potere, l’impossibile annichilimento non potrà che essere temporaneo. Con esagerato pessimismo, si può e, forse, si deve aggiungere, che, da un lato, soltanto la democratizzazione dell’intera area (una nuova primavera non solo araba), e dall’altro, la fuoruscita di Netanyahu sostituito da governanti che imbriglino i coloni, riuscirebbero a porre le basi iniziali minime di una soluzione ragionevolmente (avverbio al quale mi abbandono) duratura. Che quella soluzione significhi “due popoli due Stati” è facile dirlo, ma di enorme difficoltà progettarlo.
Nel frattempo, il progetto urgente consiste nel porre fine alle devastanti azioni e reazioni armate, magari riflettendo su come Hamas abbia potuto costruire un imponente e costosissimo reticolo di cunicoli variamente arredati e su come gli Hezbollah siano riusciti ad ammassare enormi quantità di armi e missili lungo un periodo ventennale. Fallimento delle (plurale) organizzazioni di intelligence oppure deplorevoli connivenze di alcuni stati che si compravano in questo modo la sicurezza interna?
Gli USA, protagonista indispensabile, non sono in questa fase di campagna presidenziale, in grado di svolgere credibilmente le attività necessarie. C’è da augurarsi che chi entrerà nella casa Bianca abbia la preparazione, le conoscenze e la determinazione per farsi valere. L’Unione Europea, grande donatrice di fondi ai palestinesi, sembra essersi ritagliata uno spazio di profilo bassissimo in attesa che la nuova Commissaria prenda pieno possesso della sua carica e si giovi del non avere bagagli pesanti provenienti dal passato. Tuttavia, forse, esiste un passato potrebbe portare qualcosa di positivo. Il punto più elevato di accordo fra israeliani e palestinesi fu raggiunto nel 2000 fra il primo ministro Ehud Barak e il presidente Yasser Arafat con la mediazione del Presidente USA Bill Clinton.
Qatar e Egitto sembrano ragionevolmente in grado di esercitare qualche forma di mediazione, ma se il conflitto in Palestina va oltre quell’area geografica, ci vuole qualcosa, molto di più. Pertanto. il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per quanto sgradito ad Israele, dovrebbe farsi dare dalla sua organizzazione un vero e proprio mandato da condividere con la Commissaria Kaja Kallas e con alcune poche personalità accettabili sia dagli israeliani sia dai palestinesi (credibilmente rappresentati da chi?). Dovrebbero essere proprio loro a indicare nomi accettabili di negoziatori. Personalmente, sono convinto che sarebbe opportuno fare ricorso all’esperienza dell’ex-presidente Clinton. Libero da condizionamenti politici, forte del risultato ottenuto a suo tempo e sostenuto da alcuni suoi esperti collaboratori di un quarto di secolo, Bill Clinton sarebbe sicuramente in grado di esercitare un ruolo molto importante.
Pubblicato il 26 settembre 2024 su Domani
Il disordine mondiale e le chance dell’Europa @DomaniGiornale

Il problema del nuovo disordine politico internazionale è che, per fattori strutturali e fattori contingenti, non esiste nessuno in grado di prendere l’iniziativa. In subordine, ma di poco, i due conflitti più gravi sono nelle mani di uomini che sanno che il loro futuro politico dipende dal quando e dal come le “loro” guerre (operazioni militari speciali, però, non dello stesso tipo) termineranno. Per quanto sostenere che gli USA sono una potenza oramai declinata sia eccessivo (e prematuro), non c’è dubbio che il fattore strutturale più importante nel disordine mondiale è l’incapacità degli USA di tornare a svolgere un ruolo quasi egemonico. Il fattore contingente, ovvero la campagna elettorale presidenziale, una volta conclusasi, fa poca differenza chi vincerà, non avrà comunque quasi nessun effetto strutturale risolutivo. Neppure ridurrà l’incertezza.
La Cina è e sembra voler rimanere un attore importante senza assumersi nessun ruolo “ricostruttivo”. La sua espansione è lenta, continua, ma non ha di mira un nuovo ordine, semmai un riequilibrio di potere più marcato a scapito degli USA. Potremmo cercare di gettare la croce sull’Unione Europea, ma significherebbe credere, sbagliando, che l’UE abbia risorse tali da farne una Superpotenza, oggi e domani. Prendere atto che non è e non potrà essere così non condanna all’impotenza. Al contrario, suggerisce la necessità di un maggiore e meglio coordinato impegno comune fra gli Stati-membri. Stigmatizzare l’ordine sparso degli europei deve accompagnarsi alla prospettazione di iniziative diplomatiche rapide e vigorose.
Netanyahu non porta la responsabilità di avere scatenato una guerra di aggressione come quella di Putin contro l’Ucraina, ma tutti sanno che non potrà rimanere capo del governo un minuto dopo la cessazione del conflitto con Hamas e con i suoi troppi sostenitori in Medio-Oriente e dintorni. È anche lecito pensare che, per quanto difficilissima, la sua sostituzione in corso d’opera avvicinerebbe una tregua produttiva. La, al momento assolutamente improbabile, sostituzione di Putin potrebbe condurre all’apertura, voluta da quella parte del gruppo dirigente russo che teme la satellizzazione in corso a vantaggio della Cina, di una nuova fase diplomatica (lo scambio di uomini e donne fra Russia e USA non è stato accompagnato da nessun tipo di riflessione aggiuntiva? Non è stata seguita da nessuna presa d’atto che si può andare oltre, con vantaggi reciproci?) con esiti imprevedibili, vale a dire tutti da scoprire e fronteggiare.
Vedremo presto se la nuova Alta Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione, Kaja Kallas, già primo ministro dell’Estonia, riuscirà a dare vigore alla voce e alla presenza dell’Unione, dei suoi ideali e dei suoi interessi, nel sistema internazionale. Gli ostacoli sono molti a cominciare da quelli che in modo diverso frappongono alcuni capi di governo europei: Orbán che si esibisce in una sua personale diplomazia, Macron con la sua interpretazione del ruolo insubordinabile della Francia, Giorgia Meloni che punta molto, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, su rapporti bilaterali che le danno più visibilità che sostanza (e lei lo sa).
Anche nelle relazioni internazionali la pur comprensibile fretta a fronte dei massacri è cattiva consigliera. Poiché, però, sappiamo che quel che cambierà a Washington dopo il 5 novembre imporrà a tutti i protagonisti di riposizionarsi, sarebbe molto opportuno se in Italia e nell’Unione Europea si manifestasse fin d’ora un forte impegno alla elaborazione di una pluralità di scenari alternativi. Meno lamentazione più immaginazione è il minimo che si possa chiedere.
Pubblicato il 7 agosto 2024 su Domani