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La strage di Bologna e le sfide della democrazia @formichenews

Non ho mai avuto nessun dubbio che il più grave fatto di sangue della storia dell’Italia repubblicana doveva essere inteso come attentato alla democrazia e come volontà di colpire la sinistra nel suo luogo simbolo del buongoverno. La democrazia italiana ha vinto quella sfida, ma le sfide non finiscono mai. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di scienza politica

Quel sabato 2 agosto 1980 stavo attraversando il campus di Harvard, noto come The Yard. Avevo terminato la penultima settimana di lezioni alla Harvard Summer School. A classi di un ventina di studenti ciascuna, insegnavo due corsi: “Eurocommunism” e “The Role of the Military in Politics”, due ore al giorno cinque giorni la settimana. Mi pagavano abbastanza bene, ma ero soprattutto interessato agli USA, a quegli studenti (uno di loro sinteticamente mi spiegò, much to my disbelief, perché Ronald Reagan avrebbe vinto la Presidenza, novembre 1980), ai pochi colleghi ancora in zona in una torrida estate. La notizia dell’esplosione di una bomba alla stazione di Bologna me la diede appunto un allarmatissimo collega che l’aveva appena appresa ascoltando il programma radiofonico BBCWorld. Poi sarebbero seguite alcune telefonate dall’Italia. Fin dall’inizio ebbi due tipi di pensieri/preoccupazioni. Il primo riguardava l’incolumità dei parenti, degli amici, dei colleghi. Seppi poi da molti di loro che l’interrogativo era stato condiviso. La stazione era un luogo da tutti noi molto frequentato, per motivi di lavoro e in agosto per le vacanze. Nessuno fu coinvolto. Poi, inevitabilmente, i colleghi americani vollero conoscere la mia interpretazione e le mie valutazioni.

   Non ho mai avuto nessun dubbio che il più grave fatto di sangue della storia dell’Italia repubblicana doveva essere inteso come attentato alla democrazia e come volontà di colpire la sinistra nel suo luogo simbolo del buongoverno. Bologna non era stata scelta a caso e certamente non soltanto perché snodo cruciale del traffico ferroviario (e stradale) Nord/Sud. Ai miei colleghi e amici dissi subito della mia convinzione che la strage era fascista. I terroristi rossi, i brigatisti assassinavano persone e rivendicavano, perfino giustificandoli, i loro omicidi. Colpendo indiscriminatamente I neo-fascisti miravano a creare un clima di panico che conducesse ad una svolta a destra, alla dichiarazione dello stato d’emergenza, a una soluzione autoritaria.

Dopo di allora, tutte le volte che mi è stato fisicamente possibile, moltissime, sono andato, da solo o con i miei figli, alla stazione per la commemorazione della strage. La mia tristezza non è mai venuta meno. Le mie aspettative, che si scoprissero e si punissero, non “esemplarmente”, ma secondo le leggi vigenti, i responsabili, non le ho mai abbandonato. Da parlamentare ho contribuito a sostenere e mantenere vivo il disegno di legge di origine popolare sull’abolizione del segreto di Stato sui fatti di terrorismo e strage, operazione tanto indispensabile quanto complicata poiché inevitabilmente coinvolge(va) i servizi segreti di molti paesi. Attraverso una lunga sequenza di processi tutti coloro che hanno fisicamente partecipato e collaborato all’attentato sono stati individuati, processati e condannati. Disapprovo fortemente coloro che sminuiscono la portata di questi esiti processuali attribuibili a magistrati che vi hanno lavorato indefessamente. Tuttavia, senza nessuna inclinazione complottistica, sono altresì convinto che nessuno è finora riuscito a individuare i mandanti politici della strage di Bologna.

   Vorrei potere concludere che nel corso del tempo sono stati fatti molti passi avanti nella direzione giusta, forse sì forse no. Ritengo giusto avanzare ipotesi e formulare congetture anche all’insegna del cui prodest, chiedendosi a chi il caos, il panico, l’emergenza avrebbero potuto portare profitto politico. Mi pare che la risposta più soddisfacente, forse l’unica plausibile, è che ne avrebbero ottenuto vantaggi visibili e concreti alcuni non marginali spezzoni dell’apparato statale e alcuni, neppure loro marginali, settori della destra politica italiana, non soltanto neo-fascista. Non riesco a spingermi fino all’affermazione del coinvolgimento di apparati stranieri. Continuare a cercare i mandanti risponde a effettive esigenze di verità e giustizia. Concludo sottolineando che la democrazia italiana ha comunque vinto quella sfida, ma le sfide non finiscono mai.

Pubblicato il 2 agosto 2022 su Formiche.net

Cittadini senza scettro Le riforme sbagliate. La Premessa

 

 

 

 

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Cittadini senza scettro Le riforme sbagliate Milano, Egea, 2015

PREMESSA

Qualche mese dopo la conclusione dei lavori della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali, detta Commissione Bozzi dal nome del suo Presidente, il deputato di lungo corso del Partito Liberale Italiano Aldo Bozzi, l’editore Giuseppe Laterza mi propose di scrivere un libro sulla mia esperienza, su quanto era successo in Commissione, sullo stato delle riforme istituzionali. Avendo lavorato regolarmente, con una seduta tutte le settimane, dalla fine del novembre 1983 al 1 febbraio 1985, la Commissione aveva prodotto molto materiale utile, interessante, di buona qualità. Sulle prime risposi negativamente alla proposta dell’editore. Con Eliseo Milani, anche lui senatore della Sinistra Indipendente e grazie al formidabile aiuto del giovane consulente giuridico Pietro Barrera, avevamo appena terminato la stesura della Relazione di Minoranza (tuttora disponibile negli uffici del Senato), che conteneva la nostra visione complessiva della tematica, le nostre critiche alla Relazione di Maggioranza, le nostre proposte. In seguito, inaspettatamente, si aprì una finestra di opportunità.

A partire dalla seconda metà di luglio ebbi tutto un mese da dedicare all’argomento. Mi trovavo a Harvard, ospite dell’ufficio che il collega Robert D. Putnam mi aveva gentilmente lasciato per l’estate e, in grado di usufruire dell’imponente biblioteca dell’Università. Scrivendo in piena tranquillità (non c’erano ancora i telefonini) tutti pomeriggi, poiché la mattina insegnavo alla Harvard Summer School, tranne una pausa piscina, e due o tre ore dopo cena, completai un dattiloscritto. L’editore lo prese al volo e fu in grado di pubblicarlo splendidamente (nessun pasticcio e nessun refuso) in circa tre mesi. Ci accordammo subito sul titolo che prendeva spunto da un’importante volume sulla Costituzione scritto da Lelio Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Milano, Feltrinelli, 1958. A quel principe, ovviamente il popolo, sovrano secondo il primo articolo della Costituzione, chiaramente non il capo del governo (come qualcuno fraintese allora e altri, peggio, continuano a sbagliare oggi), era possibile restituire lo scettro attraverso ben congegnate riforme istituzionali. La partitocrazia, di governo e di opposizione, lo aveva espropriato. Da questa riflessione e da questo impegno deriva quel titolo che, almeno nel linguaggio quotidiano, certamente non nella pratica, ha avuto un certo successo.

Il debutto del libro avvenne nella mia città, Torino, il 15 dicembre 1985, con due presentatori d’eccezione: il relatore della mia tesi di laurea Norberto Bobbio e l’on. Pietro Ingrao, Presidente del Centro per la Riforma dello Stato. Seguirono molte altre presentazioni (ma pochissime recensioni), fra le quali ricordo con piacere quella, nel giugno 1986, all’Istituto Gramsci di Grosseto con Achille Occhetto, allora coordinatore della segreteria del Partito Comunista Italiano, che era diviso fra una burbera maggioranza di sedicenti nobili conservatori costituzionali e una minoranza di innovatori. Ancora oggi, ascoltando i cantori della “Costituzione più bella del mondo”, è difficile dire chi ha vinto. Quello che è certo è che Occhetto condusse il partito sulla strada dei referendum e delle riforme elettorali. In seguito, con enorme fatica si fece anche altro, non sempre di buona qualità, come documento in appendice, in particolare la pessima legge elettorale formulata e approvata dal centro-destra nel novembre-dicembre 2005. L’eterogenesi dei fini ha voluto che proprio gli inconvenienti prodotti da quella legge elettorale, da ultimo, nelle elezioni del febbraio 2013, seguiti da una sentenza della Corte Costituzionale che, praticamente, ne distrugge gli assi portanti, abbiano rimesso in moto il discorso sulle riforme necessarie e possibili.

La Costituzione è certamente una splendida sessantenne, come dichiarò in quell’anniversario il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sicuramente, qui la mia valutazione si distacca da quella del Presidente, non basteranno pochi ritocchi a quelle che sono più che semplici rughe per consentirle di svolgere gli essenziali compiti, finora adempiuti con altalenante successo, di restituire effettivo potere al popolo sovrano, di incanalare il conflitto politico, di oliare i freni e di bilanciare i contrappesi istituzionali, di garantire la libera competizione fra tutti i soggetti politici. Infatti, alcuni articoli della Costituzione, nient’affatto soltanto nella seconda parte: l’Ordinamento dello Stato, ma anche nella prima: Diritti e doveri dei cittadini, sono invecchiati e meritano di essere, se non eliminati, significativamente riscritti (anche, se qualcuno ci riuscirà, “al femminile”) . La partitocrazia, alimentata da partiti molto più deboli, non ha mollato la presa. Dunque, a trent’anni di distanza dal mio libro, si pone ancora il problema di come riuscire a Restituire lo scettro al principe. Le pagine che seguono mirano proprio a reimpostare il problema, a criticare i terribili semplificatori e gli ostinati conservatori e a formulare le migliori soluzioni possibili. Esistono.

Gianfranco Pasquino
2 dicembre 2014