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INVITO Parole della politica #26settembre #Imola @edizionimulino

Venerdì 26 settembre 2025
ore 17,30
Circolo Giovannini, via Scarabelli 4
Imola

La Cooperativa Andrea Costa invita la S.V. alla conversazione su

Parole della politica
di Gianfranco Pasquino
Edizioni il Mulino

Ne parleranno:
Gianfranco Pasquino
Professore emerito di Scienza politica
Fabrizio Castellari
Consigliere Regionale Emilia-Romagna
Luca Martignani
Esperto di marketing e comunicazione
Modera:
Carlo Bacchilega
Componente CdA Coop. Andrea Costa

Buona politica ripartiamo dal vocabolario “Parole della politica” #recensione di Stefano Folli @repubblica #1giugno

Gianfranco Pasquino Parole della politica il Mulino pagg. 230 euro 17

Gianfranco Pasquino è  un noto politologo, professore emerito all’Università di  Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, saggista, coautore con Bobbio e Matteucci della prima edizione del Dizionario di politica nel 1976. Ma Pasquino non è rimasto chiuso nella fatidica torre distaccata dal popolo: si è rimboccato le maniche e ha partecipato alla vita politica. Ha vissuto intensamente gli anni dell’Ulivo di Romano Prodi, che ancora rimpiange. Parole della politica, il titolo della sua ultima opera, è in realtà la riedizione, rivista, rifusa e allargata, del volume edito nel 2000. Ma è come se si trattasse di un saggio nuovo di zecca, tanto l’Italia è cambiata in un quarto di secolo. E con lei è cambiato (in peggio) il modo di far politica, la comunicazione tra il “palazzo” e gli elettori, la diffidenza di questi ultimi verso i politici di tutti gli schieramenti, la fortuna di un termine che ha voluto essere la sintesi di fenomeni diversi, talvolta più complessi della loro definizione: anti-politica. La conclusione del libro è al tempo stesso l’espressione della nostalgia verso una stagione migliore per la sinistra italiana e un rimprovero sottinteso — ma non troppo — verso la realtà di oggi. Pasquino considera grave il venir meno di un’identità politica riconoscibile, come pure di un ideale calato in un programma riformatore. L’Ulivo, scrive, sapeva quel voleva: «primo, una precisa definizione del perimetro della coalizione; secondo, un esplicito impegno per la costruzione di una democrazia maggioritaria e bipolare; terzo, il ricorso alle primarie per la designazione dei candidati alle cariche elettive a tutti i livelli. (…) Forse bisognerebbe aggiungervi l’elaborazione di una cultura progressista. Quel che è certo è che nessuno oggi vi sta lavorando e che il “campo largo” non è neppure minimamente il tentativo di riprendere l’esperienza e rilanciare le promesse dell’Ulivo». Il libro è un viaggio nel vocabolario della politica, aldilà del velo del politichese che spesso ne maschera o ne stravolge il senso profondo. Gli intenti manipolatori della cattiva politica verso l’opinione pubblica non si scoprono oggi. Pasquino fa opera meritoria di pedagogia, imparziale ma non neutrale. L’obiettivo palese è contribuire a riavvicinare il cittadino alle istituzioni. Non è ambizione da poco.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Andreatta: quel che ricordo e mi fa bene #Arel #rivista

Pubblicato nel fascicolo della rivista “AREL”, n, 2.3/2024, dedicato a Nino Andreatta, pp. 104-106

Andreatta: quel che ricordo e mi fa bene

 “La politica economica dei dirigenti del Partito comunista è molto migliorata da quando si fanno consigliare dagli economisti borghesi miei allievi”. Ricordo sempre con un sorriso questa frase pronunciata con nonchalance da Andreatta un giorno dell’autunno 1984. Come talvolta capitava, all’arrivo del volo del mattino Bologna-Roma (la Freccia Rossa ancora non esisteva) con gentilezza, ma anche per avere compagnia e per curiosità (avere da noi notizie, impressioni, valutazioni), Andreatta dava un passaggio da Fiumicino al Senato a Filippo Cavazzuti, per l’appunto l’economista borghese suo allievo, e Gianfranco Pasquino, entrambi suoi colleghi di Facoltà a Scienze politiche di Bologna e senatori della Sinistra indipendente. In quanto presidente della Commissione Bilancio per i suoi spostamenti Andreatta poteva usufruire della macchina con autista. Si appallottolava di fianco all’autista e cominciava la conversazione. Era molto fortunato (sic): economia con Cavazzuti, istituzioni con me. Facevamo entrambi parte della Commissione bicamerale per le Riforme istituzionali (30 novembre 1983-1 febbraio 1985) nota come Commissione Bozzi dal nome del deputato liberale di lungo corso Aldo Bozzi. Andreatta frequentò spesso la Commissione le cui elaborazioni non furono affatto prive di interesse. Alla fine di quei lavori, purtroppo, anche per la dichiarata ostilità dei socialisti, a nulla interessati tranne al rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio (Bettino Craxi in carica da metà agosto 1983), nessuna delle relazioni, né quella di maggioranza né quelle di minoranza, una delle quali firmata da me e dal Senatore Eliseo Milani, Sinistra indipendente del Senato, venne, come sarebbe stato doveroso, mai discussa in aula. Probabilmente perché aveva apprezzato alcuni miei interventi, Andreatta mi chiese di curare un volume sulla politica istituzionale del partito comunista. Sorpreso, compiaciuto e onorato mi misi subito al lavoro. Anche grazie alla cura di Mariantonietta Colimberti, l’esito fu il volume Arel La lenta marcia nelle istituzioni: i passi del PCI, (Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 461), tutt’ora, ne sono convinto, utile da compulsare e leggere.

Avevo conosciuto Andreatta all’inizio degli anni settanta. Eravamo colleghi nella Facoltà di Scienze politiche di Bologna, a quei tempi luogo di eccellenza: Nicola Matteucci, Giuseppe Alberigo, Achille Ardigò, Roberto Ruffilli, Giorgio Basevi, naturalmente Filippo Cavazzuti, persino Romano Prodi. Entrambi eravamo assidui frequentatori dei Consigli di facoltà nei quali Andreatta primeggiava, ma non spadronegggiava, in maniera spesso imprevedibile. L’altro luogo di incontro, ugualmente se non più importante era l’Associazione di cultura e politica “il Mulino”. Ne ero stato cooptato giovanissimo nel 1970, prima di lui, e me ne vanto, adesso. Quasi ogni sabato facevamo un incontro mattutino, seguito da un pranzo, con una ventina di soci, i fondatori fra i quali ancora Matteucci, Luigi Pedrazzi e Federico Mancini, l’operatore editoriale indispensabile Giovanni Evangelisti, l’inesauribile produttore di idee Arturo Parisi, poi altri eminenti studiosi come Ezio Raimondi, Gerardo Santini, Gino Giugni, Pietro Scoppola. Frequenti e rumorose erano le incursioni di Andreatta. Ci occupavamo, lo scrivo proprio così, platealmente, di idee e, naturalmente, di libri pubblicati, letti, da proporre. La politica italiana stava sullo sfondo, ma qualche volta, meritava attenzione per le sue inadeguatezze, ritardi, stupidità. Ricordo un intervento di Andreatta sulla scuola, tema che interessava noi tutti, ma sul quale le differenze di opinione erano notevoli. L’opinione, senza dubbio autorevole, di Andreatta non era maggioritaria. Prendendone atto, lui ci spiazzò tutti “allora, scriverò un disegno di legge!”. Non trattenemmo qualche meritata risata. Quei sabati del Mulino, ho spesso pensato, furono luogo di cultura e di apprendimento comparabile ai mercoledì dell’Einaudi. Allora.

Di Andreatta ho molti ricordi personali belli. Per esempio, quando mi corteggiò lungamente, pure fortemente lusingato, seppi resistere, per mandarmi a insegnare Scienza politica nell’Università della Calabria che, insieme a Paolo Sylos-Labini, tentò di costruire come grande campus all’americana, fonte di sviluppo per il Mezzogiorno. Il ricordo più bello viene dal Senato. Come anche, forse persino di più, alla Camera dei deputati, catturare l’attenzione vera dei colleghi parlamentari è molto difficile. Discussione importante aula affollata, ma anche intenso e denso frusciare delle pagine dei quotidiani (la Rassegna stampa non arrivava sui cellulari). Quando il presidente di turno dava la parola al Sen. Andreatta, non importa quali quotidiani e quali articoli stessero leggendo i colleghi, si faceva immediato silenzio, l’indicatore più sicuro e possente del prestigio dell’oratore e dell’aspettativa che dicesse (diceva, eccome, s e le diceva) parole importanti, efficaci, spiazzanti. Dall’alto del mio banco ho ancora negli occhi e nelle orecchie, nella mente quel silenzio quanto mai raro e eloquente.

Diversamente eloquente era Andreatta quando raccontava ai soci del Mulino la sua idea di partito, radicato sul territorio, rappresentativo della società di cittadini laboriosi, presente nel discorso pubblico, un vero e proprio Volkspartei (che era la parola da lui usata). Della contendibilità della leadership non gliene importava proprio nulla, un fico secco, poiché quelle leadership non erano incollate alle poltrone, ma si curavano delle persone e sapevano quando andarsene, liberare il posto. Non era la politica come “servizio”. Erano convinzione e stile, visione. Quando gli feci notare che quella che descriveva era nel migliore dei casi la DC del Trentino e del suo amico Bruno Kessler e forse di pochi altri luoghi del paese e che anche il PCI in molte zone che mi vantavo di conoscere era allora un Volkspartei assentiva con rispetto per gli attivisti e gli elettori, meno per alcuni dei dirigenti. Soltanto un fortissimo senso del dovere, mi sono molto spesso ripetuto, può spiegare che Andreatta si trovasse in aula alla Camera dei deputati il 15 settembre 1999, dopo cena intorno alle 22 per ascoltare gli interventi in una discussione generale. Questo è un ricordo che mi opprime, una mancanza dolorosa. So che parleremmo dell’aggressione russa all’Ukraina, del terrorismo di Hamas, dell’Unione Europea, presente e futuro, del modo di governare. So anche che direbbe parole originali, non solo pour èpater i soci del Mulino, “ma, Nino, non ti sembra di esagerare” (voce di Pedrazzi e di Arrigo Levi). So che, accavallate scompostamente le gambe e mostrati i calzini spaiati, non intonati come colore ci/mi ascolterebbe con interesse abbozzando un sorriso ironico talvolta beffardo. Un altro mondo, altre persone.

Fare lavoro intellettuale con competenza e responsabilità #NuovaInformazioneBibliografica

In “Nuova informazione bibliografica”, n. 2 Aprile-Giugno 2024, pp. 151-156

 “Non ci sono più gli intellettuali di una volta”. Oltre ad una buona dose di nostalgia, da me ampiamente condivisa, questa frase solleva una pluralità di interrogativi importanti.  Primo, a quale fase, in quale mondo, si riferisce “una volta”? Secondo, di quali intellettuali specificamente lamentiamo l’assenza e perché? Terzo, abbiamo ancora bisogno di intellettuali?

Con ogni probabilità, le lettrici si chiederanno come erano, e chi, gli intellettuali di un volta. A questa più che legittima domanda, il mio libro Il lavoro intellettuale non offre una risposta diretta e precisa. Fin dall’inizio ho deliberatamente scelto di non darla. Non dovremmo sentire il bisogno di nessun concorso per l’Oscar degli intellettuali. Pertanto, usando il linguaggio corrente in politica, non ho proceduto a paracadutare dall’alto nessun intellettuale, già bello formato, famoso, di successo, influente, da collocare al vertice di qualsiasi graduatoria. Al contrario, ho preferito lasciare emergere dal basso una pluralità di tipi di intellettuali, guardando alle modalità con cui lavorano e dovrebbero lavorare, alle loro fonti e ai loro esperimenti nel laboratorio costituito dal mondo in cui viviamo, agli obiettivi degni di essere perseguiti, al senso da attribuire al successo e alle conseguenze. Ho effettuato questa scelta strategicamente importante, ma difficilissima da mantenere integralmente senza eccezioni, non soltanto perché fin troppi libri sono dedicati ad alcuni, spesso i soliti (nomi) intellettuali, ma perché mi sono convinto che a contare è il modo con il quale gli intellettuali lavorano, soprattutto, ma non esclusivamente, per produrre idee, discutere in pubblico, plasmare le opinioni, parlare al, per, contro il potere politico e i potenti, influenzare le decisioni, dice molto sulle società e, via all’iperbole, sul mondo.  

Naturalmente, ho in mente e nutro grande ammirazione per gli intellettuali che hanno pensato, scritto e agito in nome di alcuni valori: libertà, democrazia, giustizia sociale, eguaglianza, ma sono maggiormente interessato a capire perché lo hanno fatto, da dove veniva l’ispirazione, verso quali esiti intendevano/intesero orientare l’opinione pubblica e i potenti, con o senza l’appoggio di altri intellettuali, e perché tutto questo risulti oggi praticamente assente tanto nei sistemi politici democratici quanto nei molti regimi non-democratici diversamente oppressivi e repressivi.

Costruire conoscenze. Il lavoro intellettuale, come l’ho interpretato leggendo quanto scritto e fatto dagli intellettuali, non soltanto i professori, ad esempio, George Orwell e Albert Camus, e ho tentato di praticarlo, comincia con la lettura, con l’escursione a tutto campo e anche fuori confine, di quanto prodotto sull’argomento in oggetto. Contro ogni specialismo, comunque mai da valutare negativamente, il lavoro intellettuale prende le mosse da libri, documenti, film che gettino luce su quel che si vuole studiare. Anche attraverso la pratica delle recensioni, un modo, forse il migliore, per il confronto di approcci, prospettive, obiettivi, cause e conseguenze. Nel contesto italiano, invece, le recensioni sono spesso modi di esprimere l’appartenenza ad una scuola e di procedere al killeraggio di chi, da altra o da nessuna scuola, si permetta interpretazioni critiche. Peraltro, molte scuole e troppi accademici praticano il silenzio, l’oscuramento, il negletto. A mio modo di vedere, questo è un bruttissimo esempio di “tradimento dei chierici”. Invece, l’obiettivo nobile delle recensioni è quello di apportare anche solo una briciola in più a quanto già noto, magari correggendo alcuni elementi, evidenziandone altri, suggerendo percorsi, il tutto in consapevole umiltà.

   Molto raramente sarà possibile giungere a scoperte tanto significative da essere definite “cambi di paradigma”. Questa ambiziosa ricerca dello scibile già acquisito è l’esercizio con il quale si concretizza il “salire sulle spalle dei giganti”. Accumulando le conoscenze, sottoponendole a numerosi vagli, cercando di capire come e perché i vari studiosi eccellenti che ci hanno preceduto sono pervenuti a generalizzazioni, spiegazioni, teorie. Qui mi limiterò ad un solo importantissimo esempio. Senza leggere i libri di Orwell, La fattoria degli animali e 1984, la comprensione di cosa è il totalitarismo rimarrebbe seriamente inadeguata. Sento di dovere aggiungere anche per provocazione appunto intellettuale che per capire cosa fu per molti intellettuali il comunismo continua ad essere utilissimo il libro di autori vari Il Dio che è fallito (Comunità 1957).

Lo scavo nelle fonti e il confronto debbono essere operazioni il più estese, a tutto raggio, e trasparenti possibili. Al proposito, sono deplorevoli non soltanto le mancanze attribuibili a ignoranza e settarismo, ma può comparire anche un altro fenomeno: il plagio. Lo ritengo senza ombra di dubbio la violazione più grave, a mio parere imperdonabile, dell’etica professionale degli intellettuali perpetrata ai danni dei lettori, ingannati, e dei colleghi plagiati, privati del riconoscimento della paternità di quanto da loro scritto. Prendere dagli scritti di chi ci ha preceduto, ma anche da quelli dei contemporanei idee, frasi, citazioni, indicazioni di ricerca senza attribuirle alla fonte è tecnicamente un furto assolutamente squalificante. Non può esserci nessuna accondiscendenza per comportamenti simili che dovrebbero essere sempre, appena scoperti, condannati nella maniera più assoluta e irrevocabile e i loro responsabili sanzionati.

Le comparazioni. Non basta accumulare conoscenze, è indispensabile saperle comparare. Non smetto di citare l’affermazione di Giovanni Sartori, quasi un’intimazione: “Chi conosce un solo sistema politico [ma potrebbe essere una sola forma di governo, un solo partito politico, un solo tipo dei leadership] non conosce neppure quel sistema politico”. La comparazione è, al tempo stesso, strumento per la valutazione delle ipotesi, delle generalizzazioni e delle eventuali teorie probabilistiche e modalità di formulazione di altre ipotesi di ricerca e di quel molto che segue. Farò l’esempio contemporaneo più significativo: la proposta di elezione popolare diretta del Primo ministro. Mi limito a pochi cenni: i) il cosiddetto premierato è mai esistito da qualche parte? se sì, con quali esiti?; se no ii) in che modo si propone di costruirlo? iii) quali obiettivi politici e istituzionali stanno a fondamento di questa nuova forma di governo? A ciascuna di queste domande le risposte soddisfacenti non possono che essere comparate. Tagliando molto corto un discorso già cominciato, abbastanza male, ma destinato a durare abbastanza a lungo, l’evidenza comparata dice che il premierato così come proposto non è mai esistito; le modalità di sua costruzione contengono elementi di incostituzionalità; gli obiettivi indicati sono probabilmente meglio conseguibili con altri e diversi interventi.

 Applicare i frutti del lavoro intellettuale. Non ho mai capito che cosa facciano gli intellettuali confinatisi nella Torre d’Avorio. Qualche volta, in maniera del tutto anacronistica e assolutamente senza cercare nessuna rappresentatività, mi chiedo se Aristotele, Dante, Galileo avessero mai pensato a trovare albergo e rifugio nella più vicina Torre d’Avorio. Grazie a Wikipedia sono in grado di precisare che l’espressione Torre d’Avorio “dal XIX secolo è usata per indicare un mondo o un’atmosfera dove gli intellettuali si rinchiudono in attività slegate dagli affari pratici della vita di ogni giorno. Come tale, la locuzione ha solitamente la connotazione peggiorativa di una disconnessione volontaria dal mondo; una ricerca esoterica, troppo dettagliata, o anche inutile; un elitarismo accademico, se non aperto sussiego.” Coloro che, invece, fanno il lavoro intellettuale degno del mio apprezzamento hanno appreso due insegnamenti fondamentali. Primo, qualsiasi nuovo contributo o revisione intelligente e migliorativa di un precedente apprezzabile contributo discende in buona misura da quanto scoperto, scritto, discusso da altri, Secondo, la qualità dei contributi personali, la loro accettazione, la loro diffusione dipendono dalla valutazione degli altri. Questo duplice confronto è il modo più appropriato per fare progredire le conoscenze in tutti i settori dell’attività intellettuale.

Ciò detto, va subito aggiunto che i frutti del lavoro intellettuale sono spesso comunque destinati a fuoriuscire dai confini della comunità intellettuale. Anzi, gli sconfinamenti, il trespassing, come scrisse uno dei grandi intellettuali tedeschi Albert O. Hirschman (1915-2012), deve addirittura essere deliberatamente perseguito. Arditamente, sosterrò che lo sconfinamento avviene non soltanto fra i diversi campi di studio degli intellettuali, le loro discipline, i loro interessi, le loro metodologie, ma anche fra la comunità accademica e l’opinione pubblica. Sento di dovere aggiungere “colta”, ma ho l’impressione che lo sconfinamento diventi a sua volta strumento efficace per influenzare e educare l’opinione pubblica. Per molti intellettuali il loro lavoro si esplica soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica nazionale, i concittadini, e nella misura del possibile internazionale, i cittadini del mondo. Al proposito menziono due casi di lavoro intellettuale di enorme duratura popolarità e influenza: Francis Fukuyama e La fine della storia(1992) e Samuel P. Huntington e Lo scontro delle civiltà (1996). Non aggiungo nulla, a un dibattitto che tuttora si dipana intorno a molte delle idee contenute in quei due saggi, ma sottolineo che si tratta di due casi del secolo scorso.

Dire la verità al potere. Quasi soltanto nelle democrazie, l’opinione pubblica svolge il suo compito fondamentale, ma non esclusivo, di controllare il potere politico, il potere dei decisori. Quindi, indirettamente, talvolta senza la minima intenzione, chi fa lavoro intellettuale acquisisce la consapevolezza che attraverso l’opinione pubblica le due idee, le sue critiche (l’intellettuale come “critico sociale” è la versione delineata da Michael Walzer), le sue proposte, chi fa lavoro intellettuale si troverà proiettato della sfera del potere politico, della produzione di scelte e decisioni che riguardano una collettività.

Circolante nella comunità accademica, diffuso nell’ambito dell’opinione pubblica, il frutto del lavoro intellettuale, specialmente di alcune categorie di studiosi: economisti, sociologi, scienziati della politica, demografi, scrittori, in qualche modo erratico raggiunge i detentori del potere politico e decisionale. Sì, anche i consiglieri del Principe talora fanno lavoro intellettuale. Più probabile che proprio perché lo hanno fatto nel passato siano stati reclutati dal Principe. Legittimo è chiedersi quanto effettivamente nella formula spesso usata negli Stati Uniti d’America, quei consiglieri interpretino il loro lavoro intellettuale come “dire la verità al potere”. Senza cedimenti, senza abbellimenti, senza opportunismi. Qui si apre un intero campo per ricerche: quali intellettuali in quali circostanze in quali sistemi politici e con quali conseguenze hanno saputo concretamente “dire la verità al potere”? Anche la ricezione da parte del potere di quelle parole di verità merita la massima attenzione. Another time another place.

Invece, questo è il momento e il luogo per interrogarsi sulla assenza di intellettuali pubblici di fama mondiale comparabile a quelli della seconda metà del XX secolo. La responsabilità/colpa deve essere attribuita alle mutate forme della ricerca intellettuale oppure alle trasformazioni della comunicazione, non solo politica, ma in senso più lato sociale oppure, infine, ai cambiamenti nella vita politica, sociale, culturale? Tutto questo richiederebbe, comunque, ricerche comparate molto complesse e approfondite. Non ho finora trovato risposte soddisfacenti.

Andare oltre. Concludo con due considerazioni. La prima riguarda quegli intellettuali che hanno saputo dire parole di verità al potere. In ordine alfabetico, ma non è un elenco esaustivo: Hannah Arendt, Raymond Aron, Norberto Bobbio, Albert Camus, Piero Gobetti, George Orwell, Karl Popper. Sono pochissimi e riflettono le mie preferenze. La seconda considerazione è che lo spirito dei tempi non sembra più andare nella direzione di differenze di opinioni tali da suscitare dibattiti importanti fra intellettuali che prendano le mosse da lavoro intellettuale già svolto e/o da intraprendere. Troppo facile rispondere facendo riferimento al binomio “guerra/pace”, che finora non ha prodotto nulla di particolarmente significativo e originale. Meglio confrontarsi con la tematica della società giusta a partire dal pensiero e dagli scritti del filosofo politico John Rawls (1921-2002). Nel frattempo, ma tutt’altro che a scopo consolatorio, ricorro alla parafrasi di una giustamente famosa esclamazione del grande drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (a proposito di Galileo Galilei): “sventurati quei paesi che non hanno intellettuali pubblici”.

Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei. I suoi libri più recenti sono Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021); Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022) e Nuovo corso di scienza politica (il Mulino 2024).

Astensionismo #DemocraziaFutura del 02 luglio 2024

Il professor Gianfranco Pasquino, anticipando per Democrazia futura un contributo destinato alla nuova edizione del volume Le parole della politica, analizza una parola chiave nel dibattito recente in Italia, ovvero “astensionismo”. “Nella sua essenza, il non voto è una relazione complessa fra promesse, (in)adempimenti, comportamenti. Non è espressione di un vago disagio, di sentimenti di inutilità, del crescere delle diseguaglianze, tutte spiegazioni – chiarisce l’Accademico dei Lincei – incontrollate, mai sostanziate da fatti e numeri, ampiamente circolanti nei da salotti televisivi e nel chiacchiericcio” radiofonico e social”. Facendo riferimento ad uno studio di tre grandi politologi, Pasquino analizza le tre categorie individuate “di non partecipanti, quindi anche, a maggior ragione, non votanti. Sono coloro che alla domanda relativa al perché della loro astensione, del loro non voto rispondono: “non posso”; “non voglio”; “nessuno me l’ha chiesto” – che a suo parere – “offrono una spiegazione esemplare delle motivazioni per le quali uomini e donne, cittadini democratici (perché è solo nelle democrazie che esiste la libertà di scegliere fra votare e non votare) si astengono”. 

“Tutti promettono. Nessuno mantiene. Vota nessuno”.

Tre lapidarie, pregnantissime frasi scritte sui muri di Bologna, città di diffuse tradizioni civiche e intenso impegno politico partecipativo, introducono splendidamente alla problematica dell’astensionismo. Nella sua essenza, il non voto è una relazione complessa fra promesse, (in)adempimenti, comportamenti. Non è espressione di un vago disagio, di sentimenti di inutilità, del crescere delle diseguaglianze, tutte spiegazioni incontrollate, mai sostanziate da fatti e numeri, ampiamente circolanti nei da salotti televisivi e nel chiacchiericcio radiofonico e social. Per mettere ordine credo che il modo migliore di procedere sia di affidarsi alla teorizzazione di tre grandi politologi statunitensi Kay Lehman SchlozmanSidney Verba, Henry E. Brady, autori di una importantissima ricerca sulla partecipazione politica: The Unheavenly Chorus. Unequal Political Voice and the Broken Promise of American Democracy[2]

In maniera come si deve, esauriente, esclusiva, elegante gli autori hanno individuato tre categorie di non partecipanti, quindi anche, a maggior ragione, non votantiSono coloro che alla domanda relativa al perché della loro astensione, del loro non voto rispondono: “non posso”; “non voglio”; “nessuno me l’ha chiesto”.

Nell’insieme, le tre risposte offrono una spiegazione esemplare delle motivazioni per le quali uomini e donne, cittadini democratici (perché è solo nelle democrazie che esiste la libertà di scegliere fra votare e non votare) si astengono. Con una importante nota di cautela, è possibile che i non votanti qualche volta siano tali perché non hanno potuto votare, qualche volta perché non hanno voluto, qualche volta perché non sono stati raggiunti da chi non ha saputo/voluto sollecitare il loro voto. Ciò opportunamente rilevato e rimarcato, ciascuna singola motivazione deve essere spacchettata con grande profitto analitico.

Chi risponde Non posso.

Votare non è mai un atto semplice. Prima di tracciare una crocetta, premere un tasto, scrivere un nome, il potenziale elettore deve essere iscritto nelle liste elettorali. In alcuni sistemi politici, l’iscrizione avviene alla nascita con un provvedimento amministrativo automatico. Non sempre, però, i mutamenti di residenza vengono registrati automaticamente e rapidamente. Quindi, per molti, “non posso” significa

“non sono stato in grado di registrarmi, non mi hanno registrato”.

A lungo, negli Stati Uniti d’America la registrazione nelle liste elettorali è stata politicamente difficile, discriminando l’elettorato di colore. In anni recenti, i Repubblicani hanno eretto nuovi ostacoli manipolando tempi, luoghi e documentazione per l’iscrizione.

Alcune società sono particolarmente mobili, come, ma non solo, gli Stati Uniti. Milioni di lavoratori e di studenti non si trovano nei loro luoghi di residenza il giorno del voto (primo martedì di novembre). Se non hanno preveggentemente provveduto a chiedere il voto per posta, non potranno votare. In Europa, gli straordinari successi socio-economici del Mercato Unico, libera circolazione di persone e servizi, e del programma Erasmus con studenti sparsi in una molteplicità di sedi, creano grandi difficoltà di partecipazione elettorale.

Vivere più a lungo si può, nelle democrazie, ma spesso lo stato di salute degli anziani, che hanno perso compagni/e della loro vita e i cui figli sono sparsi sul territorio, non consente loro di andare alle urne. “Non posso” è una spiegazione soddisfacente dell’astensionismo, qualche volta una giustificazione dolente per uomini e donne che per decenni sono stati in grado di esercitare il diritto di voto e di adempiere a quello che la Costituzione italiana (art. 48) statuisce come dovere civico.   

Chi risponde “Non voglio.

“Sono tutti eguali”.

“Nessuno si cura di me”.

“Non ho tempo e energie da sprecare”

“Vinca l’uno o l’altro la mia situazione non cambierà”.  

Sono motivazioni molto diffuse, spesso persino condivisibili, contrastabili con argomentazioni razionali piuttosto che sentimentali.

Interessante è il cangiante tenore della motivazione “nulla cambia”. Indicatore di disaffezione/alienazione di elettori che ritengono con qualche buona ragione che il loro voto non serve, il “nulla cambia” può spiegare anche il fenomeno dell’astensione di coloro, un tempo li avremmo chiamati yuppies (young, urban, professional) che pensano di avere le risorse, nell’ordine, culturali, sociali e materiali per fare a meno della politica. La loro vita, le loro sorti personali e professionali, il conseguimento degli obiettivi ai quali mirano possono essere in qualche modo e in una incerta misura intralciati dalla politica, ma, per lo più, sono nelle loro mani, conseguibili grazie al loro impegno e alle loro capacità senza politica, al di fuori della politica. Perché, dunque, sciupare tempo e energie per dare un voto quasi sicuramente ininfluente?

Chi risponde “Nessuno me l’ha chiesto”.

Questa risposta segnala immediatamente l’esistenza di due fenomeni:

  • Da un lato, l’isolamento sociale, molto più che, ma talvolta anche, geografico;
  • dall’altro, la debolezza del tessuto associativo del luogo, paese, regione, sistema politico dove si trova a vivere la persona che ha risposto.

Il titolo americano del libro di Robert Putnam, dedicato alle vicissitudini del capitale sociale e al suo declino, Bowling Alone (2000)[3] fotografa la situazione delle società contemporanee. Tutte le associazioni un po’ dovunque, dai sindacati alle associazioni professionali, dalle associazioni religiose a quelle industriali, tranne forse quelle si impegnano nella difesa dell’ambiente, dalle società di mutuo soccorso a quelle per il tempo libero, hanno perso iscritti.

Le loro riunioni sono meno frequentate, durano poco tempo, in maniera crescente si svolgono online. Un lustro e più fa Putnam additava la televisione come la maggior colpevole di un declino apparentemente inarrestabile.

Oggi, sappiamo che la proliferazione dei social network erode quel che rimane di molte associazioni e crea bolle di simili, contenti di chattare, raramente con oggetto la politica, quasi esclusivamente fra simili, non di impegnarsi in azioni collettive, meno che mai andare a votare.

Osservazioni conclusive

Le notevoli differenze nelle motivazioni di non voto attraversano le classi sociali, le generazioni e i generi per lo più rendendo poco significative le analisi tradizionali basate su queste caratteristiche.

Suggeriscono anche di evitare i discorsi giornalistici che fanno del “partito di chi non vota” il vincitore di molte elezioni. Con le motivazioni tanto distanti fra loro che stanno a fondamento del loro non voto, gli astensionisti non riuscirebbero mai a mettersi insieme, neppure opportunisticamente, in qualsivoglia partito.

E, poi, rimane il punto davvero dirimente: chi non vota non conta.

Da qualche tempo, anche a causa della crescita e della diffusione in ogni latitudine dell’astensionismo, austeri e severi commentatori hanno iniziato a lamentarlo e a denunciarlo come un problema di prima grandezza, una ferita inferta alla e alle democrazie, che potrebbe portarle alla morte.

Non sappiamo, non esistono precedenti, se le democrazie implodono per mancanza di partecipazione, specificamente elettorale. Partecipare/non partecipare, votare/non votare sono opzioni alternative che soltanto le democrazie offrono ai loro cittadini, le garantiscono e le proteggono.

In molti contesti l’astensionismo è smobilitazione individuale, graduale, silenziosa, tanto rispettabile quanto criticabile senza piagnistei e vittimismi da coccodrilliAlcuni studiosi sostengono che, senza in nessun modo rimanere indifferenti nei confronti dell’astensionismo e degli astensionisti, dovremmo temere molto più l’eventualità di una rimobilitazione improvvisa su vasta scala degli astensionisti ad opera di un demagogo che li abbindoli e li conduca in massa contro tutto e contro tutti.

Alla fin della ballata, prendendo atto che ci sono sempre cittadini che partecipano alla cosa pubblica e cittadini che se ne stanno nel privato, possiamo permetterci di concordare con Pericle che i partecipanti sono cittadini migliori.


[1] Contributo preparato per la nuova edizione de Le parole della politica, Bologna, il Mulino. Data prevista di pubblicazione marzo-aprile 2025.

[2] Kay Lehman Schlozman, Sidney Verba, Henry E. Brady, The Unheavenly Chorus. Unequal Political Voice and the Broken Promise of American Democracy, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2012, 728 p.

[3] Robert Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon&Schuster,2000, 541 p.

Pubblicato il 2 luglio 2024 su ilmondonuovo.club

Che cos’è e come opera il potere? #11giugno #Bologna #presentazione POTERE E SOCIETÀ @edizionimulino

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI

Martedì 11 giugno 2024 –
SALA ROMEI, Via dei Bersaglieri, 6 – 2° Piano
ORE 14.30 -16.30

Marco Marzano, UniBG, Presenta il suo libro
Potere e società, Il Mulino, 2024

Discute con l’autore:
Gianfranco Pasquino, Professore emerito Unibo

Presiede
Asher Colombo, Università di Bologna

LA DEMOCRAZIA NEI PARTITI (DEGLI ALTRI)

da La democrazia nei partiti (degli altri), in “il Mulino”, vol. LXVIII, Novembre/Dicembre 2019, pp. 908-915)

Se non c’è democrazia nel Partito Socialdemocratico tedesco, che cerca di introdurre la democrazia nel sistema politico della Germania imperiale e lotta per ottenerla, la democrazia non potrà mai affermarsi. Al contrario, si imporrà, scrisse memorabilmente Robert Michels, “la legge ferrea dell’oligarchia” (La sociologia del partito politico, ed. originale 1911, trad. it. Il Mulino, 1966. Questa edizione contiene una splendida, illuminante e insuperata introduzione di Juan Linz, Michels e il suo contributo alla sociologia politica, pp.VII-CXIX). L’apparentemente inevitabile concentrazione di potere nelle mani di coloro che controllano le informazioni, le comunicazioni, la distribuzione delle cariche e le fonti di finanziamento delle associazioni impedisce la comparsa della democrazia nel sistema politico a tutto vantaggio delle oligarchie, anche di partito, nei partiti. In sostanza si presenta il dilemma se sia meglio costruire un’arma organizzativa (copyright Philip Selznick 1960) per vincere le elezioni in modo da avere l’opportunità di tradurre i programmi del partito in politiche pubbliche che soddisfino le preferenze e le necessità degli elettori oppure dare voce agli iscritti, agli attivisti, spesso carrieristi, talvolta ideologicamente irrigiditi e lasciarsi guidare dalle loro maggioranze spesso mutevoli qual piume al vento che potrebbero essere poco rappresentative degli elettori e incapaci di conseguire vittorie elettorali. Un po’ dovunque questo dilemma, spesso non così limpidamente visibile, si presenta ai dirigenti dei partiti pressati dal desiderio di vincere le elezioni, ma obbligati a tenere conto delle preferenze e delle opinioni, se non degli iscritti, quantomeno dei militanti ai quali debbono le loro cariche e senza i quali l’organizzazione partitica non potrebbe funzionare.

Che cosa vuole comunicare agli italiani l’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione riferito alla concorrenza fra partiti per “determinare la politica nazionale”? Michels si preoccupava giustamente dell’emergere di una oligarchia di/nel partito che si sarebbe dedicata prevalentemente al perseguimento degli obiettivi di avanzamento personale e di carriera dei dirigenti a scapito delle preferenze degli iscritti. Però, se (anche) così facendo, quell’oligarchia di funzionari avesse condotto il partito a vittoria elettorale dopo vittoria elettorale e conquistato il potere di governare, avrebbe/avremmo comunque dovuto lamentare la mancanza o le limitazioni di democrazia all’interno del partito? Giunto al governo quel partito ha la grande opportunità di produrre politiche pubbliche che migliorano la vita del suo elettorato, forse di tutti gli elettori e, di conseguenza, anche dei suoi iscritti. È accettabile sacrificare un po’/molta/quanta democrazia interna all’efficienza politica? Oppure dovrebbero tutti i partiti considerare la democrazia al loro interno non soltanto un mezzo, ma, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, un fine in se stesso?

Leggendo criticamente Michels e andando al cuore della sua tesi, Giovanni Sartori (Democrazia, burocrazia e oligarchia nei partiti, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, n. 3, 1960, pp. 119-136) ha sostenuto che i partiti hanno la facoltà di darsi qualsiasi modalità organizzativa preferiscano. È presumibile e auspicabile che coloro che si iscrivono ad un partito ne conoscano almeno in una certa misura le modalità di funzionamento e, con la loro iscrizione, le accettino. Potranno, poi, nel corso del tempo anche cambiare idea passando, come ha acutissimamente messo in rilievo Albert O. Hirschman (Lealtà defezione protesta, Bompiani 1982, ed. originale 1970), dalla lealtà, il sostegno ai dirigenti e alle loro attività, alla protesta (voice), vale a dire la critica dei comportamenti, fino alla defezione (exit), all’abbandono del partito. Protesta e defezione sono i comportamenti più probabili quando il partito perde voti e di conseguenza subisce sconfitte elettorali a presumibile causa della linea politica applicata dai dirigenti e della candidature da loro prescelte. Allora, forse soltanto allora, gli iscritti accuseranno i dirigenti di scarsa democrazia interna, per l’appunto, avendo formulato un brutto programma, selezionato malamente le candidature, avendo condotto una inadeguata campagna elettorale.

Il detonatore di tutte queste accuse e critiche è la sconfitta elettorale nella libera competizione per ottenere voti e seggi cosicché, ha affermato Sartori, quel che conta di più non è la democrazia nei partiti, in quello specifico partito, ma la democrazia fra i partiti, che si esplica nella, per usare la parola che deriva dalla Costituzione italiana, concorrenza fra i partiti. Infatti, gli esiti negativi della concorrenza politica e elettorale per alcuni partiti possono condurre a pratiche da considerarsi democratiche: sostituzione totale o parziale dei gruppi dirigenti (scrisse Michels che la circolazione delle élites “non avviene come un ricambio vero e proprio, quanto piuttosto sotto la forma di un amalgamarsi dei nuovi elementi con i vecchi”, p. 502), più ampio coinvolgimento degli iscritti nella selezione delle candidature e nella formulazione del programma, estensione della partecipazione degli iscritti alle decisioni che riguardano tematiche giorno per giorno, ma anche di lungo periodo. Esiste la possibilità che la concorrenza “con metodo democratico” fra i partiti, comunque elemento imprescindibile della democrazia nel sistema politico, stimoli e produca pratiche democratiche anche all’interno dei singoli partiti. Tuttavia, questo punto è molto importante, ciascuna e tutte queste pratiche non sono imposte per legge, ma dipendono essenzialmente dalla valutazione e dalla volontà dei dirigenti e degli iscritti, delle loro interazioni. Saranno loro a scegliere quali pratiche utilizzare, come e quando. Sottolineo questo punto poiché sento pericolosamente serpeggiare la tentazione di imporre dall’alto ai partiti una regolamentazione che finirebbe per essere omologante e persino oppressiva. Rimango dell’idea che per tutte le associazioni dei più vari generi, ma soprattutto per quelle che esplicano attività politiche in senso lato, allo stesso modo che per i partiti deve valere l’invito-auspicio pronunciato nella sua fase liberaleggiante dal compagno Presidente Mao zedong: “che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”. A scanso di equivoci, temo di dovere precisare che so che non esisteva ieri e non c’è oggi un elevatissimo tasso di democrazia nel Partito Comunista Cinese.

Nella misura in cui viene posto l’accento sulla concorrenza/competizione fra partiti da effettuarsi con “metodo democratico” per procedere alla determinazione della politica nazionale diventa inevitabile prendere in considerazione le leggi elettorali. Rassicuro subito i lettori. Non intendo riesumare l’infinito, never ending e pessimo dibattito italiano in materia né avventurarmi in qualsiasi nuova e sorprendente proposta. Già da tempo, dovremmo avere acquisito le conoscenze necessarie e avere imparato che i dirigenti di partito intendono quasi esclusivamente manipolare: non una buona legge per il paese, ma una legge che li ponga in condizione di vantaggio, comunque svantaggiando i concorrenti. Mi limito, invece, a sottolineare due punti. Se pensiamo con Sartori che la democrazia fra i partiti sia essenziale per offrire agli iscritti opportunità di partecipazione incisiva, allora abbiamo l’obbligo scientifico e “civico” di segnalare quali sono i criteri più appropriati per valutare i sistemi elettorali che consentano una migliore, più limpida, più trasparente concorrenza, quei sistemi che conferiscono maggiore potere agli elettori. Andiamo per esclusione. A determinate, non facili da attuare, condizioni, i sistemi elettorali proporzionali sono in grado di garantire una rappresentanza fair, equa all’elettorato, ma,se hanno liste chiuse, da un lato, limitano fortemente il potere di scelta degli elettori, dall’altro, la loro formula di traduzione di voti in seggi, soprattutto quando gli spostamenti da un partito all’altro sono contenuti, raramente consente di dire chi fra i (dirigenti dei) partiti ha davvero perso e chi ha davvero vinto. A fronte di variazioni del consenso misurabili in pochi punti percentuali, che è spesso la norma quando si usano leggi proporzionali, tutti o quasi i dirigenti dei partiti riusciranno facilmente a trovare giustificazioni plausibili e accettabili. Invece, nei sistemi maggioritari uninominali sia a turno unico sia a doppio turno, è sempre chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Quindi, la responsabilità dei dirigenti di partito è molto più facilmente individuabile, attribuibile, valutabile. Non è certamente casuale che i dirigenti dei partiti in sistemi multipartitici che votano con leggi di rappresentanza proporzionale siano sostituiti con molta minore frequenza di quelli dei partiti laddove si vota con sistemi maggioritari. È un bell’argomento per ricerche comparate.

Riprendiamo il discorso da una semplice, ma cruciale affermazione: democrazia nei partiti non è solo possibilità e effettività di sostituzione dei gruppi dirigenti. Possiamo estendere il raggio d’azione dell’inciso “con metodo democratico” dalle attività e competizioni elettorali, che debbono essere combattute senza ricorso a forme che implichino violenza, manipolazioni, ricatti e altre modalità improprie, che oggi comprenderebbero anche la diffusione delle fake news e le interferenze elettroniche, l’hackeraggio, a quanto succede dentro le organizzazioni di partito. Infatti, sappiamo, che nella discussione sulla stesura di quell’articolo, una parte dei Costituenti, in particolare, liberali, moderati e democristiani, avevano di mira proprio le modalità di organizzazione interna dei partiti, il loro statuto, il loro funzionamento, e che socialisti (in particolare, Lelio Basso, il segretario del partito) e comunisti proprio non ne volevano sapere temendo, aggiungerei giustamente, intromissioni di ogni tipo, anche poliziesche, nella vita interna dei loro partiti, da parte di chi avrebbe ottenuto il potere di governare. Poi, ciascuno di quei partiti si diede il proprio statuto e l’organizzazione che riteneva più funzionale ai suoi obiettivi e forse anche per raggiungere quelle parti di elettorato che intendeva rappresentare. Nel bene e nel male, questo punto è da fermare.

In estrema sintesi, i democristiani diventarono un partito di oligarchie competitive nel quale le correnti rappresentavano effettivamente pezzi di società e si aggregavano variamente all’interno del partito. La corrente che occupava il centro poteva praticare la politica di più forni, e lo faceva. In un certo senso, le modalità di competizione e aggregazione della DC furono sempre relativamente democratiche, ma “gestite” da un ristretto gruppo di dirigenti. Ugualmente partito di correnti, il PSI ebbe un funzionamento che più si avvicinava alla democrazia intesa come competizione fra le correnti, ma certamente questa qualità non fu affatto di giovamento per il suo consenso elettorale. Quelle correnti socialiste ad alto tasso di ideologia non pescavano a sufficienza nella società e talvolta, invece, di battersi per attrarre elettori entravano in conflitto interno per conquistare le cariche dirigenziali –nessuna delle quali veniva definita “poltrona”. Quando nel 1968 telefonai alla Federazione del PSI di Torino chiedendo quali fossero i candidati giolittiani e lombardiani, poiché intendevo dare loro le mie quattro preferenze,mi risposero negando l’esistenza di simili appartenenze.

Molto è stato scritto sul centralismo democratico, il principio organizzativo interno del Partito comunista italiano, ma anche di tutti i partiti comunisti, occidentali e no. Sappiamo che nella grande maggioranza dei casi le decisioni erano prese dal gruppo dirigente al vertice, che, certo, aveva previamente raccolto e conosceva gli umori della base, e venivano poi trasmesse agli iscritti che le ratificavano per convinzione e per conformismo (sarebbe bello potere misurare la quantità di entrambi). Le candidature alle cariche elettive erano talvolta espresse dalla base, talvolta paracadutate dal vertice, talvolta emerse da processi sociali che avevano individuato leadership “naturali”, vale a dire, dotate delle qualità desiderate. A lungo e prevalentemente, i due principi del modello organizzativo: centralismo e democrazia interagirono in maniera virtuosa, ma in quello che avrebbe potuto essere un momento di straordinaria svolta: “i fatti di Ungheria”, il centralismo, consapevole delle preferenze di quella che chiamerò la Piattaforma Stalin, prevalse e i dissenzienti, soprattutto del mondo intellettuale, dopo avere espresso la loro protesta (voice), si sentirono obbligati ad andarsene (exit). Mi sono spesso chiesto quanto la impossibile alternanza abbia contribuito al mantenimento del centralismo democratico che consentiva al vertice di evitare qualsiasi “punizione” per le sconfitte elettorali, ad esempio, nel 1948 e nel 1979 e poi 1983. Eppure, a lungo il centralismo democratico servì anche alla politica comunista della rappresentanza: reclutare e candidare persone che avessero radicamento in taluni ambienti e fossero portatrici di istanze di alcune associazioni, già fiancheggiatrici oppure da raggiungere.

Nulla di tutto questo esiste più oggi. Chi si preoccupa, più o meno ipocritamente, della mancanza di democrazia all’interno dei partiti italiani, sa che dovrebbe cominciare da Forza Italia, sempre dominata et pour cause da Silvio Berlusconi. Quanto alle procedure decisionali su qualsiasi argomento, possiamo soltanto dire che portano a esiti che riflettono le preferenze di volta in volta espresse da Silvio Berlusconi. Sappiamo che non esiste nessun luogo dove si procede alla scelta delle candidature alle cariche elettive tranne Arcore e la modalità è appropriatamente definita casting, quello che fanno i registi teatrali e cinematografici. Non conosciamo, considero questo il test decisivo, nessuna situazione nella quale le preferenze di Berlusconi siano state sconfitte in una qualsivoglia votazione. Ricordo che nel corso del tempo, Forza Italia e Berlusconi sono stati solo saltuariamente raramente criticati per la mancanza di democrazia interna all’organizzazione, e mai dagli aderenti, dai dirigenti, dai parlamentari, dagli eletti nelle varie assemblee. Al polo, per così dire, opposto stanno LiberieUguali per i quali la scelta delle candidature è stata l’esito di una complessa negoziazione fra piccoli oligarchi, che non ha nulla a che vedere con qualsivoglia modalità democratica.

Nel Partito Democratico, quelle che sono pudicamente definite le varie sensibilità (o anime) del partito sono, fuori dai denti, vere e proprie correnti con gli affiliati che votano secondo le indicazioni sostanzialmente vincolanti del capo corrente e, da quel che sappiamo, con le candidature imposte dal segretario del partito a prescindere da qualsiasi considerazione che esuli dalla fedeltà delle prescelte/i. La novità del PD è che le candidature alle cariche elettive monocratiche, ad esempio, sindaco e presidente della regione, e l’elezione del segretario del partito sono affidate ad un “selettorato” che non è fatto dagli iscritti al partito, ma, senza nessuna garanzia, da tutti coloro che si autocertifichino come simpatizzanti del partito, passati, e probabilmente futuri, elettori del partito. Possiamo attribuire una valutazione positiva alla pratica delle primarie e all’elezione popolare del segretario, ma certo hanno poco o nulla a che vedere con la democrazia all’interno del partito. Anzi, com’è noto, non sono pochi gli iscritti al Partito Democratico che lamentano la perdita di potere a favore dei partecipanti alle primarie e all’elezione del segretario.

Diverso è il discorso che deve essere fatto per le procedure affidate alla Piattaforma Rousseau dal Movimento Cinque Stelle, utilizzate per la scelta delle candidature a varie cariche, nel 2018 quelle parlamentari, e di recente messe in atto per decidere come i parlamentari dovessero comportarsi/votare se consentire oppure no ai magistrati di porre sotto processo l’allora Ministro Matteo Salvini e, infine, se dare vita o no ad una coalizione di govern o con il Partito Democratico. Tralascio qualsiasi considerazione, peraltro, del tutto legittima, sulla opacità della piattaforma, quella meno legittima sulla tempistica della consultazione e quella, a mio parere sbagliata, sull’esito che avrebbe vincolato i parlamentari. Credo che il quesito di fondo riguardi, piuttosto, se queste consultazioni degli iscritti alla Piattaforma si configurino oppure no come una modalità di esercizio del metodo democratico. Per rispondere correttamente e convincentemente al quesito, è tanto opportuno quanto indispensabile tentare di definire il metodo democratico e stabilire come concretamente dovrebbe estrinsecarsi, vale a dire quali sono le sue componenti minime e imprescindibili.

Ipotizzo e argomento che, da un lato, debbano essere gli iscritti stessi a formulare e approvare le regole riguardanti i loro diritti, i loro doveri e i loro poteri fino a scrivere un vero e proprio Statuto (e non mi importa se verrà definito non-Statuto o con qualsiasi altra denominazione); dall’altro, pur con qualche perplessità, credo che fra i poteri degli iscritti sia indispensabile collocare in bella evidenza quello di fare ricorso ai tribunali della Repubblica per dirimere i conflitti interni riguardanti le eventuali violazioni degli Statuti. Rimango, però, fermo nella mia convinzione che non è affatto auspicabile ricorrere alla stesura e all’imposizione di uno Statuto tipo a tutte le organizzazioni, politiche e no, che, qui sta il discrimine, intendano presentare candidature alle elezioni. Questo non significa affatto che le procedure prescelte dalle varie organizzazioni. Movimento 5 Stelle compreso, non possano essere criticate una volta che siano chiaramente esplicitati i criteri in base ai quali sono formulate le critiche.

Non è questo il luogo nel quale formulare proposte dettagliate relativamente al se e al come incardinare il “metodo democratico”nel funzionamento dei partiti italiani. Preferisco suggerire di guardare, poiché lo ritengo di gran lunga più importante, alle condizioni nelle quali si trova la società italiana nei suoi rapporti complessivi con la politica. Ci sarà anche stata un’esplosione di interesse per i talk show dell’agosto 2019 subito dopo e durante la crisi di governo. A proposito, attraverso quali procedure decisionali Matteo Salvini giunse alla stesura della mozione di sfiducia del governo di cui faceva parte come Ministro degli Interni? Chi ratificò e come, con una votazione fra gli iscritti?, quanto da lui deciso? La transizione degli italiani da spettatori a attori rimane tutta da valutare. Quello che sappiamo, però, è che è tuttora molto elevata la percentuale di coloro che dichiarano di non interessarsi alla politica, che rivelano di avere conoscenze molto limitate sulla politica, che partecipano poco ad attività politiche diverse dal voto, ad esempio, iscrivendosi ai partiti e contribuendo personalmente alla loro vita(lità), al loro funzionamento. Sappiamo anche che la qualità della conversazione politica e democratica è notevolmente peggiorata a cominciare dal lessico: inciucio, poltrone, casta, accordicchi, ribaltoni etc. Che di questo peggioramento portano grandi responsabilità non soltanto gli uomini (e le donne) in politica, ma i comunicatori stessi a cominciare dai giornalisti che commentano gli avvenimenti politici e molti di coloro che usano i social network. In queste condizioni generali, andare alla ricerca di modalità che consentano di applicare il metodo democratico alla vita dei partiti è un obiettivo forse nobile, ma che ha pochissime chance di essere conseguito.

Sono giunto alla conclusione, che esprimo come congettura, che il meglio che è possibile ottenere in Italia oggi e domani è la creazione di condizioni che consentano alla competizione fra i partiti di essere massima, senza rete, nella speranza che le conseguenze sui partiti consistano nell’accrescimento del potere degli iscritti sia nella valutazione dei dirigenti e degli eletti sia nel comminare sanzioni. Alla fine, la circolazione delle elite e la trasparenza delle procedure decisionali, sono quasi certo che Michels concorderebbe, è un risultato tutt’altro che disprezzabile.

Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Dal 2005 è socio dell’Accademia dei Lincei.

Italia, Santiago

da il Mulino n. 501, pp. 156-163

Sono andato a vedere il docu-film di Nanni Moretti. Mi ha fatto riemergere una pluralità di ricordi che, probabilmente, non hanno interesse e valenza esclusivamente personali. Li metto qui in ordine cronologico con qualche riflessione che serve a puntualizzare e a rischiararli.

La prima volta che incontrai il Cile fu nel settembre 1970. Nella sua strategia di attivare nelle Facoltà di Scienze Politiche corsi che avessero riferimento con la Scienza politica come madre di tutte le discipline politologiche, Giovanni Sartori mi chiese (sic!) di andare a Firenze come professore incaricato di Storia e istituzioni dei paesi dell’America latina. Naturalmente, aggiunse, avrei potuto insegnare il corso nella versione Sviluppo politico che era il mio argomento di ricerca di quel periodo. Nel dicembre 1970 uscì il mio primo libro Modernizzazione e sviluppo politico (Il Mulino). Grazie alla presenza di un numero relativamente ridotto di studenti, una ventina circa, il corso si tenne in forma seminariale con gli studenti che leggevano di volta in volta alcuni brevi testi che assegnavo loro e che discutevamo ampiamente, approfonditamente e con grande soddisfazione in classe. In un certo senso, gli studenti si erano auto reclutati: un giovanissimo professore con credenziali di sinistra, un corso tutto meno che paludato dove, ricordo che siamo nel 1970, riusciva a fare la sua (ri)comparsa persino Che Guevara (e Cuba), la possibilità di scambiare idee senza peli sulla lingua. Studiando intensamente acquisii conoscenze sufficienti a comprendere e trasmettere l’evoluzione politica di quattro paesi latino-americani: Argentina, Brasile, Cile, Perù. Tre di quei quattro erano già caduti sotto governi militari, e bisognava spiegare perché, affrontando il tema dei militari in politica (uno degli aspetti indispensabili di qualsiasi analisi dello sviluppo politico e/o della decadenza politica nonché della formazione e del funzionamento dei regimi autoritari). Controtendenza, il socialista Salvador Allende era diventato Presidente del Cile in maniera pienamente costituzionale il 24 ottobre 1970, ma attraverso una procedura complessa che avrebbe potuto dare un esito molto diverso. Nelle elezioni presidenziali Allende aveva ottenuto di pochissimo la maggioranza relativa: 1.075.616 voti (36,63%) contro Jorge Alessandri , già Presidente del Cile dal 1958 al 196, il candidato della destra, 1.036.278 Voti (35,29%), terzo piazzato Radomiro Tomic, candidato del Partito Democratico Cristiano, 824.849 voti (28,08%).

Non avendo nessuno dei candidati ottenuto la maggioranza assoluta dei voti popolari, la decisione passò al Congresso. La Democrazia cristiana cilena, trovatasi ago della bilancia fra Allende e Alessandri, si spaccò con la maggioranza che, votando insieme ai parlamentari di una variegata sinistra consegnò la Presidenza ad Allende (che era candidato per la terza volta). Costituzionalmente corretta, la procedura che portò all’elezione di Allende non poteva cancellare il fatto politicamente rilevante che due terzi dei cileni non avevano votato per lui. Ne seguirono tre anni molto turbolenti nei quali Unidad Popular non riuscì ad ampliare il suo consenso, mentre, da un lato, la destra politica, sociale ed economica sostenuta dagli Stati Uniti, ostacolava in ogni modo l’attuazione del programma del Presidente Allende, dall’altro, sarò drastico, molti intellettuali di sinistra europei, fra i quali, in particolare, Régis Debray e Rossana Rossanda, lo incitavano irresponsabilmente ad avanzare verso il socialismo (attraverso le nazionalizzazioni, a cominciare dalle miniere di rame e di settori industriali). L’11 settembre 1973, com’era prevedibile (ed era stato previsto da uno studioso delle Forze Armate cilene), i comandanti dell’Esercito, dell’Aviazione, della Marina e dei Carabineros eseguirono un sanguinoso colpo di Stato chiedendo le dimissioni di Allende. Il Presidente si rifiutò e decise di morire togliendosi la vita nella Moneda, il Palazzo presidenziale. L’episodio è riferito anche nelle testimonianze raccolte nel film di Moretti (di più sotto).

In fretta e furia scrissi un articolo che sintetizzava quanto avevo fino ad allora imparato sul Cile e cercai una rivista che mi garantisse la pubblicazione più rapidamente possibile. Giorgio Galli mi mise in contatto con Giuseppe Faravelli , socialista turatiano, Direttore di “Critica Sociale” che molto gentilmente pubblicò il mio articolo: Militarismo e imperialismo contro “Unidad Popular”, 20 ottobre 1973, pp. 482-485 (con note a seguire).

Il mio corso dell’anno accademico 1973-74, ridenominato “Teoria e politica dello sviluppo” cominciò all’inizio di novembre. Naturalmente, la sconfitta politica di Unidad Popular e il golpe di Pinochet ebbero spazio notevole in chiave comparata, vale a dire collegandoli alle difficoltà dei partiti di sinistra negli altri paesi latino-americani e ai governi militari già esistenti, specialmente in Argentina, Brasile e Perù. Fin dalla elezione in Congresso di Allende, Sartori che aveva cominciato la sua collaborazione al “Corriere della Sera” allora diretto dal suo collega di Facoltà Giovanni Spadolini, guardò con preoccupazione all’esperimento di Unidad Popular e ne fu fortemente critico in alcuni durissimi editoriali. Tuttavia, non interferì in alcun modo, neppure chiedendomi il contenuto delle lezioni e i testi di riferimento, nel mio corso. Non ricordo più i particolari, ma, da un lato, alcuni studenti, dall’altro, alcuni esuli cileni mi avvicinarono per chiedermi se fosse possibile, alla luce dei drammatici avvenimenti cileni, organizzare qualcosa sul Cile. Ci accordammo per una Tavola Rotonda a conclusione del mio corso nel maggio 1974. In qualche modo ottenemmo la disponibilità di alcuni esuli cileni: da me coordinati e sotto la mia supervisione, un socialista, un comunista, un esponente del MAPU (Sinistra cristiana) avrebbero analizzato la situazione. Naturalmente, per quell’attività, definita extracurriculare (e assolutamente straordinaria non solo alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, ma in quasi tutte le Facoltà di Scienze politiche in quel periodo) dovetti chiedere l’autorizzazione al Preside, il Professore di Sociologia Luciano Cavalli che, comprensibilmente, era molto preoccupato. Mi fu concessa. Seppi poi che decisivo fu Sartori che, dagli USA dove era Visiting Professor, interpellato da Cavalli, rispose: “se la responsabilità se la prende Pasquino, lo si autorizzi”.

In un pomeriggio soleggiato e tiepido di fine maggio, in un’aula affollata da duecentoventi studenti circa (questa era la capienza), con la gradita presenza di Forze dell’ordine sia davanti all’aula sia all’ingresso della Facoltà, Via Laura 48, per tre ore e mezza si discusse pacatamente, ma con passione, della situazione in Cile. Ricordo che nessuno degli esuli s’immaginava che la Giunta militare sarebbe rimasta al potere per quindici lunghi anni. Nel mio libro Militari e potere in America latina (Bologna, Il Mulino, 1974) pubblicato proprio in maggio, avevo argomentato che un conto sono i governi militari che possono durare poco meno o poco più di un anno, un conto sono i colpi di Stato effettuati unitariamente dalle Forze Armate che intendono, come già stavano facendo da quasi dieci anni i militari brasiliani, ristrutturare il sistema politico dando vita a un vero e proprio regime militare.

Non posso seguire la complessità degli avvenimenti sulla scia del golpe dell’11 settembre 1973, ma, come dovrebbe essere notissimo, il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, con tre lunghi e densi articoli su “Rinascita” lanciò la strategia del compromesso storico. Argomentandolo variamente, che vuole dire in più luoghi e in più modi, formulai il mio dissenso, più compiutamente in un testo pubblicato nella rivista “il Mulino”. Sartori, che aveva seguito con grande apprensione quanto era successo in Cile, criticò duramente la proposta di compromesso storico, un grande accordo fra le due maggiori forze politiche destinato a durare nel tempo, si configurava, naturalmente, come una violazione delle regole di una democrazia liberale, fondata sulla competizione fra partiti e/o fra coalizioni, con possibilità di alternanza al governo. Dunque, qualsiasi compromesso storico, che non si configurasse come alleanza straordinaria per un periodo di tempo predeterminato e breve, era, in via di principio, inaccettabile. Nella tragedia cilena, le cui responsabilità addebitava ampiamente alla sinistra stessa, Sartori vide anche, a ragione, una conferma della validità del modello di competizione partitica, “pluralismo polarizzato”, da lui formulato alcuni anni prima (la cui elaborazione finale si trova in Parties and party systems, Cambridge University Press, 1976). Laddove il centro viene svuotato da due opposizioni anti-sistema –tecnicamente che, se vincono, sovvertono il sistema- il crollo del sistema politico è probabilissimo. Nell’aprile del 1975, la “Rivista Italiana di Scienza Politica” da lui diretta (e della quale ero il Redattore capo, cioè colui che la “cucinava” fino a portarla all’editore, Il Mulino) pubblicò un denso solido documentato saggio di un giovane politologo cileno Arturo Valenzuela, Il crollo della democrazia in Cile, lettura tuttora essenziale.

Passarono non pochi anni prima del mio re-incontro con il Cile. Da tempo molti esuli cileni, stabilitisi in varie zone d’Italia, come documenta il film di Moretti, avevano preso atto che il rovesciamento del regime non era affatto dietro l’angolo. Tuttavia, meritoriamente, molti di loro cercavano in ogni modo di sostenere l’opposizione interna. Alcuni dei più attivi si trovavano a Roma. A loro, sulla base di progetti specifici, la Sinistra Indipendente del Senato offriva sostegno finanziario per le cose da fare. In quanto conoscitore dell’America latina, spesso fui personalmente coinvolto nei rapporti con gli attivisti cileni a partire dalla mia elezione nel 1983. La svolta vera e propria avvenne quando la Giunta Militare cilena, più di tutti lo stesso Pinochet, si sentì tanto sicura di godere del consenso dei cileni da indire un referendum, in realtà un plebiscito sulla persona, per sancire il prolungamento della durata in carica per altri otto anni del loro leader. Ricordo l’effervescenza (e qualche timore) degli esuli cileni a Roma incerti sul da fare, ma consapevoli che il loro ritorno in patria li avrebbe esposti a molti rischi. Passarono pochi mesi nei quali giungemmo alla decisione che sarebbe stata una buona idea, anche come segno di persistente solidarietà dell’Italia, inviare una delegazione di parlamentari come osservatori del corretto svolgimento della consultazione popolare. Andai personalmente a proporlo al Presidente del Senato, Giovanni Spadolini che accettò immediatamente congratulandosi per l’iniziativa. Una dozzina di senatori in rappresentanza dei rispettivi gruppi parlamentari approdarono a Santiago qualche giorno prima della domenica 5 ottobre 1988, data in cui si svolse il referendum. Molto gentilmente e efficientemente, l’Ambasciatore italiano aveva organizzato alcune escursioni e incontri il più importante dei quali alla sede del Parlamento cileno a Valparaiso, non distante dalla bella cittadina turistica Viña del Mar, dove era noto si trovasse la tomba di Salvador Allende. Quando, dopo un rapido consulto con gli altri senatori, chiesi che ci conducessero appunto al Cimitero di Viña del Mar, neppure troppo sorpresi, gli organizzatori-accompagnatori acconsentirono. Il custode del Cimitero disse di non sapere dove era sepolto Allende. Stava a noi cercarne la tomba. Fatti alcuni passi all’interno del Cimitero, fummo avvicinati da un ragazzino che ci fece intendere di saperci condurre a quella tomba (lieto, naturalmente, di ricevere opportune donazioni da parte di tutti noi, anche, ci feci caso, di Cristoforo Filetti, allora capo del gruppo dei senatori del MSI).Non c’era il nome di Allende sul piccolo monumento, ma quello della famiglia Gossens e di sua sorella. Di quei momenti, conservo alcune foto scattate da un collega senatore in una delle quali appaio, mi è stato fatto notare, inaspettatamente commosso.

Al nostro arrivo a Santiago eravamo stati accolti da alcuni rappresentanti dell’opposizione che si rapportarono a ciascuno di noi secondo le nostre appartenenze politiche, dandoci alcune informazioni essenziali e chiedendoci se volevamo effettivamente fare gli osservatori elettorali. La giovane donna di sinistra che si rivolse a me, di origine italiana, mi interrogò sulla mia disponibilità ad andare in una località a una sessantina di chilometri da Santiago. Avuta la mia accettazione, organizzò il viaggio in auto. Fui ricevuto da un uomo più o meno della mia età, rappresentante dell’opposizione. Appresi quasi subito che era un comunista e che possedeva della terra e un orto e con sua moglie e qualche contadino ne traeva il suo sostentamento. Mi chiese, con discrezione e trepidazione, se ero disposto a pranzare a casa sua o se preferivo una trattoria. Fui lieto di condividere il loro pasto, in una piccola cucina con pavimento di pietra, assicurandomi che non avevano preparato nulla di speciale. Subito dopo mi portò a vedere/ispezionare tre o quattro seggi elettorali (mesas: tavolate intorno alle quali sedevano gli scrutatori). Erano otto, uno di loro, era in rappresentanza ufficiale dell’opposizione. Era una bella giornata, con foschia nella prima mattinata, poi soleggiata, sarebbe diventata fresca nel tardo pomeriggio. Ho ancora negli occhi la scheda elettorale di colore bianco-giallastra conteneva nel bel mezzo il quadratino del SÌ che sovrastava quello del NO. Chiesi con le parole di rito se “il procedimento elettorale si sviluppava regolarmente” (frase incessantemente ripetuta da radio e televisioni). Ottenuta una vociante conferma, chiesi se avevano già votato. Riposta unanime alla quale seguì la domanda se mi dicevano per chi avevano votato. Fra le risate sette di quegli otto giovani, nessuno di loro mi pareva avesse più di una trentina d’ anni, mi risposero che avevano votato “per il candidato” –conferma che si trattava effettivamente di un plebiscito. Che cosa avrei votato io? Dichiarai la mia appartenenza politica; aggiunsi che in via di principio ero del tutto contrario a cariche di governo che si prolungassero troppo a lungo; dunque, il mio “No” era assolutamente logico e conseguente; conclusi augurandomi e augurando loro che il Cile tornasse a essere una democrazia. Fu, sotto gli occhi appena preoccupati del mio accompagnatore, uno scambio civile di opinioni favorito dalla convinzione assoluta di quei giovani che Pinochet avrebbe ottenuto quello che voleva.

Al mio ritorno a Santiago, non in albergo, ma alla residenza dell’Ambasciatore, attendemmo le notizie sullo spoglio delle schede ascoltando le radio e guardando la televisione che, ossessivamente, ripeteva che “el proceso electoral tuvo lugar regularmente”. Verso le ore 22, giunsero quasi contemporaneamente due notizie importantissime. La prima segnalava disagio e movimento in alcune caserme della capitale. La seconda pochi minuti dopo riportava una frase dell’Ambasciatore degli USA che si rallegrava per l’alta partecipazione elettorale (l’88,5 per cento) e riconosceva la regolarità del “proceso electoral”. Tutti, a cominciare dall’Ambasciatore italiano, cogliemmo in quelle parole il chiaro messaggio USA agli ufficiali pinochettiani e alla Giunta: l’Amministrazione americana si oppone a qualsiasi tentativo di non riconoscere o di stravolgere l’esito del voto. Terminava dopo quindici lunghi anni la brutale fase della Giunta militare con il 56 per cento degli elettori che aveva votato NO al prolungamento della Presidenza di Augusto Pinochet.

Tutti gli esuli cileni politicizzati con i quali avevamo avuto contatti a Roma come Sinistra Indipendente tornarono il prima possibile in Cile. Era l’inizio della transizione democratica. Anche ad alcuni di noi senatori, di nuovo grazie al Presidente Spadolini, fu data l’opportunità di ritornare come osservatori delle elezioni presidenziali il 14 dicembre 1989. Fin dai primi sondaggi fu chiaro che il democristiano Patricio Aylwin, candidato della Concertación Democratica (schieramento ampio nel quale i due partiti più grandi erano la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista) avrebbe sconfitto il candidato delle destre già al primo turno (3.850.571, 55.17 %). Non soltanto il Cile tornava alla democrazia, ma lo faceva ponendo termine alla spaccatura fra democristiani e socialisti. No, non era la realizzazione del compromesso storico, ma l’inizio di una competizione bipolare. Ai festeggiamenti per Aylwin incontrai dopo dieci anni Genaro Ariagada, potente segretario della DC cilena che avevo conosciuto dieci anni prima nel 1978 quando entrambi eravamo Fellows al Woodrow Wilson International Center for Scholars. Tre dei “nostri” esuli entrarono al governo, due come ministri, uno sottosegretario.

Il trait-d’union fra quei fatti e la mia visita successiva fu rappresentato da un esule cileno, che, comunista, aveva sostenuto come giovanissimo militante l’esperienza di Unidad Popular. Esule in Italia, aveva vissuto e lavorato a Modena, nutrendo molte perplessità su un suo ritorno in patria. Non più giovane si era iscritto a Scienze politiche, aveva seguito il mio corso di Scienza politica e deciso di “fare” la tesi con me. In estrema sintesi, l’argomento era: “che cosa è andato storto: la ‘pratica’ di Unidad Popular o la teoria?” Vale a dire, forse né i politici di Unidad Popular né gli intellettuali loro vicini avevano capito lo stadio di sviluppo del Cile e le sue possibilità di cambiamento, a quale ritmo? Tesi ambiziosissima, con una componente di riflessione personale e di autocritica. Furono diverse le stesure, insoddisfacenti per lui e per me. Poi, un giorno del 2006 venne a dirmi che aveva deciso di tornare in Cile. Quindi, dovevamo scegliere una stesura affinché potesse laurearsi in tempi brevi, cosa che avvenne rapidamente. Qualche tempo dopo mi scrisse da Santiago. Aveva trovato un lavoro come grafico. Si era sistemato, ma non aveva risolto nessuno dei suoi dubbi politici. Sapendo che insegnavo a Buenos Aires, al Master in Relazioni Internazionali organizzato dall’Università di Bologna e che ero stato invitato dalla Associazione degli studenti cileni a Santiago mi chiedeva di riservargli un pomeriggio-una serata per un incontro con i suoi amici per discutere a tutto campo della sinistra. Sì, il Cile era cambiato, ma la democrazia, disse, riecheggiando forse inconsapevolmente le parole di Bobbio, non manteneva le sue promesse, in particolare non riduceva le diseguaglianze. Sì, sapevano che non c’era scorciatoia, ma lui e i suoi amici non potevano nascondere il loro disamoramento per le sinistre che non trovavano e, forse, neppure cercavano più il bandolo della matassa. Le mie parole di conforto riformista le ascoltarono con grande scetticismo. Di recente, mi ha scritto che vuole lanciare una rivista tutta centrata sulla politica che desidera la mia collaborazione. Ho dato la mia disponibilità e gli ho fatto molti sinceri auguri.

Dal 12 al 16 luglio 2009 tornai in Cile in un’occasione molto diversa dalle precedenti: il XXI Congresso Mondiale della International Political Science Association (IPSA). Su invito dell’organizzatore cileno Manuel Antonio Garretón, Professore di Scienza politica, pluripremiato, socialista, già oppositore del regime militare, presentai un paper The Theory of Political Development (riflettendo sul tema del mio primo libro pubblicato nel 1970) e partecipai a una Tavola Rotonda in assemblea plenaria sull’Unione Europea. L’evento più importante e del tutto inaspettato fu l’invito (con il mio nome immagino suggerito dall’amico Garretón) da parte della Presidenta del Cile, la socialista Michelle Bachelet, padre generale dell’Aeronautica morto in seguito alle torture dei golpisti, lei stessa, allora poco più che ventenne, detenuta, torturata e costretta all’esilio, a una cena in piedi alla Moneda, palazzo presidenziale. Mi trovai, lo debbo proprio scrivere, poiché sto ancora gongolando adesso, fra i quaranta più importanti scienziati politici del mondo. La Presidenta ci salutò uno per uno, affabilmente, chiedendo informazioni su ciascuno di noi. Tenne un breve discorso sulla democrazia in Cile. Infine, ci regalò una visita da lei guidata delle sale a disposizione del Presidente. Giungemmo allo studio usato da Allende, una stanza modesta non grande con una finestra dalla quale erano giunti spari e bombe, una scrivania, escritorio, piccola e spoglia, alla quale il Presidente era solito lavorare e alla quale, così ci raccontò Michelle Bachelet, con voce ferma,parlando lentamente, con un velo di affettuosa commozione, trascorse i suoi ultimi attimi di vita. Dal nostro totale silenzio e dai volti di quei miei colleghi politologi, mi resi improvvisamente conto che, con tutta probabilità, rappresentavamo, forse casualmente, l’ala progressista dell’International Political Science Association.

 

Tutti questi ricordi, che mi legano al Cile, in maniera che non pensavo fosse tanto stretta e tanto significativa, sono comparsi alla mia mente in maniera graduale e continua mentre guardavo il docu-film “Santiago, Italia”. Ricordi di esperienze importanti, non solo per me, di politica e di vita. Ricordi che, mi pare, valeva la pena esplicitare, raccontare, condividere.

Dialogo “La politica domani. Vai alla voce formazione” #hoimparato #GiovanieFuturo @EnricoLetta

Enrico Letta e Gianfranco Pasquino dialogano su giovani e formazione politica prendendo le mosse dal libro di Enrico Letta “Ho imparato” (Il Mulino, 2018) e dal fascicolo “Giovani e futuro della politica. Oltre il disincanto” (Paradoxa 4, 2018) curato da Gianfranco Pasquino.

Roma 25 febbraio 2019 Istituto Luigi Sturzo
Evento organizzato dalla Fondazione Nova Spes
Riprese video a cura di Radio Radicale

Senza il sostegno delle forze armate i regimi autoritari contemporanei non possono reggere #Venezuela

Nessun governo/regime autoritario può durare se non ha l’acquiescenza e il sostegno delle Forze Armate. L’ho imparato tempo fa, vedi Militari e potere in America latina (Il Mulino 1974). Continua a essere vero come dimostrano gli ufficiali venezuelani ai quali, troppo coinvolti in attività economiche anche illegali, non basterà l’amnistia per le loro azioni violente. Per elezioni libere e eque ci vorranno molti mesi.