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Il vento del welfare può far tornare in pista #(s)profondorosso @formichenews

formiche 216 | Agosto – Settembre 2025
Sinistra, work in progress
QUEL CHE SO DELLE SINISTRE
Nel mondo la sinistra un po’ vince un po’ perde, come è giusto che sia nelle democrazie competitive. In Europa, anche nei momenti peggiori dei cicli elettorali, alcuni partiti di sinistra, laburisti in Gran Bretagna, socialdemocratici in Svezia e Germania, socialisti in Francia, Spagna, Portogallo, vincevano e ottenevano abbastanza seggi per governare soli oppure, più spesso, in coalizione. In Italia, no: nessuna vittoria limpida, poche presenze e poco caratterizzanti in governi di coalizione. In generale, la condizione delle sinistre non può, però, essere considerata né buona né soddisfacente, ma neppure catastrofica e irreversibile. I critici, più, ma spesso, meno costruttivi, danno per finiti troppi partiti di sinistra e persino, lo dirò con termine desueto, l’afflato di sinistra.
Quand’anche fosse così, alcune sinistre europee potrebbero, anzi, dovrebbero ricordare a tutti che hanno cambiato la storia non soltanto ciascuna nel suo paese, ma anche nel resto del mondo democratico. Qualche anno fa avrei aggiunto “in maniera irreversibile”. Oggi, sarei più cauto, ma non meno speranzoso. Per inquadrare il discorso anche in chiave comparata faccio riferimento a importanti binomi: da un lato, organizzazione e visione (che preferisco a ideologia); dall’altro, keynesismo e welfare. Forza e debolezza, successi e sconfitte, declino e rilancio sono tutti fenomeni che è possibile studiare, capire e modificare facendo riferimento ai due binomi sopra presentati.
Non era stato facile sindacalizzare e organizzare le classi operaie, che crescevano numericamente, ma aveva portato cospicui vantaggi elettorali. Già i lavoratori tecnici mostrarono irrequietezza organizzativa. Poi arrivarono figli e nipoti anche delle aristocrazie operaie a chiedere rappresentanza postmaterialista, nuovi stili di espressione e di vita. Il colpo definitivo sono stati i migranti la cui presenza è una sfida culturale e economica che ha diviso il mondo dei lavoratori. La visione di una società che, anche senza diventare socialista, offrisse istruzione, lavoro, eguaglianza di opportunità, non era più sostenibile. Gli operai nativi e sovranisti sono passati dall’altra parte.
Eppure, quelle sinistre di governo avevano saputo cogliere le occasioni governanti migliorando l’economia, facendo leva sul keynesismo, e la società costruendo il welfare. Dando per scontato il benessere acquisito anche attraverso questi strumenti, alcuni settori dei ceti medi e molti figli di operai divennero “individualisti”. Con il loro livello di istruzione, con la loro professionalità, grazie alla generosità del welfare pensa(ro)no di non avere più bisogno di rappresentanza politica come quella che i partiti di sinistra avevano garantito ai loro nonni e ai loro padri. Le differenziazioni politiche crebbero indebolendo in particolare i partiti classicamente socialdemocratici. In aggiunta, per quello che riguarda in particolare l’Europa, si manifestarono due seri problemi. Primo, le politiche keynesiane condotte nei singoli paesi non sfondarono a livello europeo (per fortuna, di recente, Mario Draghi le ha sommessamente riproposte). Anzi, politiche di austerità e di stabilità rendono impossibili alcune scelte di sinistra. Secondo, soprattutto, le difficoltà delle sinistre dipendono dal successo delle politiche del welfare. Cittadini più istruiti, e quindi, più esigenti, ma anche più convinti di farcela senza bisogno di politica, cittadini che, anche grazie alla qualità dei sistemi sanitari, vivono più a lungo (e più a lungo godono di pensioni generose) sono l’esito di quello che il grande sociologo tedesco Ralf Dahrendorf definì il secolo socialdemocratico.
I due binomi: “organizzazione/visione” e “keynesismo/welfare” sono diventati insostenibili e improponibili. Le classi operaie sono largamente minoritarie e hanno perduto, talora senza neppure averla avuta nel passato, qualsiasi coscienza di classe. Un po’ dappertutto quel che rimane delle organizzazioni di partito sente il fiato sul collo della personalizzazione della politica. Divertente, deprimente, esasperante, la personalizzazione fluttua e non costruisce nulla né di buono né di sinistra. Anzi, non poche volte è la premessa di slittamenti populisti. La sinistra non slitta, ma neppure riesce a contrapporre una nuova visione.
Probabilmente la Terza Via di Tony Blair e Anthony Giddens è stata l’ultima visione riconducibile alla sinistra, però travolta dal suo livore anti Old Labour e segnata da eccesso di ambizione di Blair. Rielaborare il keynesismo è importante; ristrutturare il sistema del welfare è indispensabile. Nessuna delle due operazioni avrà successo se non sarà condotta pazientemente e rigorosamente a livello dell’Unione Europea. A quel livello, l’europeismo può caratterizzarsi come visione lungimirante di società giusta. Nel frattempo, le sinistre continueranno a essere frammentate diversificate, conflittuali, plurali (è, dicono, una “ricchezza”), a perdere le elezioni, ma anche, più raramente, nel contesto italiano rarissimamente, a vincerle e a governare. Ça, forse, suffit.
Gianfranco Pasquino è professore emerito di Scienza politica.
Apologia del (vero) liberalismo. Così le istituzioni proteggono i diritti @DomaniGiornale


Il problema non è il neo-liberalismo (troppo spesso identificato con ricette economiche meglio definibili come neo-conservatrici). Il problema sono i sedicenti liberali che parlano di qualcosa che non conoscono. Per molti di loro, essere liberali significa porsi contro la sinistra in qualsiasi versione si presenti. Per molti di loro, soltanto i liberali possono scrivere e discutere di liberalismo. Dissento verticalmente e qui argomenterò, inevitabilmente a grandi, ma credo sufficienti, linee, perché e come.
Ricostruisco il liberalismo al quale sono stato esposto come studente da Norberto Bobbio, Luigi Firpo (docente di Storia delle dottrine politiche a Torino), Nicola Matteucci e Giovanni Sartori. Poi, sì, grazie a loro, ho letto molti altri libri importanti. A richiesta ne provvederò i riferimenti bibliografici. All’origine di tutto voglio porre tre essenziali principi derivati dagli scritti del sicuramente liberale John Locke (1632-1704), nell’ordine: libertà, vita, proprietà. Senza libertà non c’è vita degna di essere vissuta. Proteggere la vita non consiste unicamente nel garantire le condizioni minime di esistenza, grazie alla proprietà di alcune risorse, ma significa opporsi a qualsiasi ingerenza fisica a cominciare dalla tortura. Tre secoli dopo Locke, l’eminente filosofa politica ebrea nata in Lettonia Judith Shklar (1928-1992) denunciò la crudeltà come il peggior vizio illiberale. Concordo e mentre rimando ad una valutazione complessiva del suo importantissimo lavoro contenuta nel volume curato da Bernard Yack, Liberalism without Illusions: Essays on Liberal Theory and the Political Vision of Judith N. Shklar (University of Chicago Press, 1996), attendo di sentire l’opinione e dei (no, non scrivo più “sedicenti”) liberali italiani.
Stabiliti quei principi tuttora irrinunciabili, dunque, liberale non è mai colui che attenta, fatto salvo un discorso su come sia stata acquisita, alla proprietà delle persone, il liberalismo non esce come Minerva dalla testa di Giove. Si dipana, invece, gradualmente, da un lato, sul versante delle istituzioni, dall’altro, sul versante dei diritti, con la precedenza delle prime, troppo spesso trascurate dai liberali contemporanei, sui secondi. Strappare al re il potere giudiziario e il potere legislativo è quanto suggerisce Montesquieu nel suo De l’esprit des lois (1748), l’inizio della separazione/separatezza delle istituzioni. Il Re d’Inghilterra resisterà strenuamente, ma i coloni americani indipendentisti (1776) fecero delle istituzioni separate l’asse portante del loro presidenzialismo. Quelle istituzioni erano separate come origine anche elettorale, ogni 2 anni i Rappresentanti e un terzo dei Senatori, ogni 4 anni il Presidente, ma condividevano i poteri. Il Senato interviene nelle nomine presidenziali, persino dei Ministri (Segretari) e, ancor più significativamente, dei giudici della Corte Suprema nominati dal Presidente. Quei giudici possono fare decadere le leggi approvate dal Congresso e firmate dal Presidente che, peraltro, può porre il suo veto per lo più vincente su leggi sgradite.
Le istituzioni USA, hanno sostenuto alcuni studiosi recenti, non si limitano a condividere (sharing) i poteri fino ad una situazione di “governo diviso” (stallo e/o ingovernabilità) pur preferibile ad una Presidenza onnipotente, “arrogante” nelle parole del Sen. William Fulbright, “imperiale” nell’analisi dello storico Arthur Schlesinger Jr, ma sono entrati in una nociva, costante competizione per strapparli a proprio favore.
Qui si inserisce il secondo elemento istituzionale/costituzionale eminentemente liberale: checks and balances. Nessuna istituzione deve mai trovarsi in condizione di prevaricare sulle altre e nessuna di essere “prevaricata”. Freni e contrappesi sono meccanismi delicati costantemente bersagli di battaglie politiche e culturali. Coloro che ottengono attraverso elezioni libere, eque (fair), periodiche (qui l’importanza di buone leggi elettorali) e occupano cariche politiche debbono rispondere dei loro comportamenti agli elettori: accountability. Non è solo l’obbligo di accettare le proprie responsabilità e rendere conto di quanto fatto, non fatto, fatto male. L’accountability è la virtù liberaldemocratica per eccellenza, totalmente coerente con l’assenza di qualsiasi vincolo al mandato (art. 67 della Costituzione italiana) e sostanzialmente incompatibile con limiti temporali imposti ai mandati, misura di chiaro stampo populista.
Espressione del potere e delle preferenze dei cittadini, le istituzioni liberali proteggono e promuovono i diritti. Sancite la libertà di parola e opinione e libere elezioni, il Bill of Rights inglese del 1689 è tutto focalizzato sui rapporti istituzionali fra Re e Parlamento e sui rispettivi poteri. Cent’anni dopo la Costituzione USA è un documento tutto istituzionale. Nel 1791, il Bill of Rights USA entrò a farne parte integrante in qualità di primo emendamento. I diritti liberali sono di due tipi, civili e politici. Libertà di parola, di opinione, di stampa, di culto, di associazione e di movimento sono diritti civili essenziali. Votare e essere votati, costruire organizzazioni politiche e partecipare alla politica in varie forme attraverso tentativi di influenzare i detentori del potere politico con proteste e movimenti sono tutti diritti politici. Una società che riesce a esprimersi secondo queste modalità è, ricorrendo agli aggettivi frequentemente usati nel lessico politico/logico USA, “robusta e vibrante”. Poiché la competizione pluralista fra idee, proposte, soluzioni è quanto il liberalismo auspica, considera importante, ‘impegna a garantire quella società è definibile liberale. La competizione, non l’eguaglianza, è il suo tratto distintivo.
L’unica eguaglianza indispensabile e caratterizzante del liberalismo è quella davanti alla legge. La diseguaglianza intollerabile dal liberalismo è quella che deriva dall’uso del denaro per conquistare il potere politico. Il principio “una persona un voto” è eguaglianza politica liberale. Il conflitto di interessi fra le attività e le risorse economiche personali e l’esercizio di cariche pubbliche è la ferita più profonda inferta alla concezione e alla pratica dello Stato liberale.
Non sta nella concezione dello Stato liberale il terzo insieme di diritti, quelli sociali: istruzione, salute, lavoro, pensione. Nulla osta che, come scrisse il grande sociologo inglese T.H Marshall già nel 1950: Citizenship and Social Class, a quei diritti si possa pervenire. Sono diritti caratterizzanti le esperienze e le politiche socialdemocratiche, ma non per questo incompatibili con lo Stato liberale e dai liberali rigettati. Al contrario, rispetto ai diritti sociali le differenze fra liberali e socialdemocratici non stanno affatto nell’importanza attribuita a quei diritti, ma nelle modalità con le quali perseguirli. I socialdemocratici affidano il compito prevalentemente allo Stato e alle sue istituzioni. I liberali pensano che debbano essere i cittadini attraverso la libera competizione politica a stabilire, fatta salva una rete di sicurezza, se, come e quanto investire in istruzione e sanità, in lavoro e pensioni. Da questo punto di vista gli Stati Uniti sono molto più liberali della Gran Bretagna. Prova ne è che la riforma sanitaria di Obama è stata bollata come socialista, mentre il sistema scolastico viene fortemente criticato per la sua produzione e riproduzione di enormi diseguaglianze e privilegi.
Se l’assenza di qualsiasi intervento sostitutivo o correttivo o di indirizzo ad opera dello Stato che neghi la prospettiva formulata da John Maynard Keynes per l’economia e non la voglia/sappia estendere ai settori istruzione, sanità, lavoro è definibile come neo-liberalismo, allora la sua distanza dal pensiero liberale classico è, se non incolmabile, certamente considerevole. Ma, pur esigenti, non buoni/sti come troppi, questa volta la qualifica sedicenti merita di tornare, liberali italiani si compiacciono di essere, i liberali degni di questo nome non sono crudeli e una competizione politica ben regolata continua a promettere e spesso a conseguire esiti apprezzabili.
Pubblicato il 10 agosto 2023 su Domani
Felicità e benessere: non è solo questione di Pil
Non di solo PIL si vive è il titolo di un articolo pubblicato da «la Repubblica» che presenta i dati del World Happiness Report 2019. In verità, chi legge la classifica dei vari paesi non può fare a meno di notare che ai primi dieci posti si trovano sistemi politici, in gran maggiorana europei, ai quali attribuiamo, anzitutto, la qualifica di ‘civili’. Sono luoghi dove molti pensano, a ragione, che la qualità della vita sia alta. Potremmo saperne di più procedendo ad una semplice operazione di comparazione. Da decenni le Nazioni Unite usano un indice, detto dello Sviluppo Umano, per misurare il livello di benessere all’interno di ogni stato. È basato su tre indicatori: livello di istruzione, salute (aspettativa di vita), reddito medio pro capite. Abbiamo messo in correlazione i due indici nella figura 1. Come si vede abbastanza chiaramente, esiste una forte correlazione fra lo Sviluppo Umano e la Felicità percepita, vale a dire che, se alto è il livello di sviluppo umano, elevato e crescente è anche il grado di felicità.
Fig. 1. Correlazione tra l’Indice di Sviluppo Umano e Indice di Felicità nel 2018/9
Per quel che riguarda l’Italia, curiosamente, alla sua collocazione (24° posto), complessivamente buona rispetto allo Sviluppo Umano (favorita essenzialmente dall’elevata aspettativa di vita), non corrisponde una posizione simile relativamente alla felicità. In questo caso, l’Italia si trova soltanto al 37°posto. Da altre ricerche sappiamo, peraltro, che la percentuale di italiani che si dichiarano soddisfatti delle loro condizioni personali di vita e nutrono aspettative di miglioramento è nettamente più elevata di quella di coloro che si dichiarano soddisfatti del sistema politico e pensano che possa migliorare nell’anno che verrà.
Ne vorremmo trarre una sola conclusione, semplice, ma non proprio lapalissiana. La relazione positiva non sta fra il PIL e la felicità, ma fra condizioni di vita, complessivamente molto buone, e la felicità. Insomma, il benessere inteso in senso lato – comprese le politiche di welfare e la diffusione di capitale sociale tra gli individui, e dunque non il solo reddito – è un potente coadiuvante della felicità.
Pubblicato il 28 marzo 2019 su PARADOXAforum
Sì a una vera Sinistra per una società più giusta e non sovranista #Europa
Internazionalista, attenta al lavoro e all’istruzione, abbattere le diseguaglianze: un articolo del politologo Gianfranco Pasquino per Globalist su come vorrebbe le sinistre d’Europa
“La sinistra non può essere sovranista, non può che essere internazionalista”. E deve ” concentrare sforzi e investimenti nel settore del lavoro collegandolo strettamente all’istruzione “. Lo scrive in questo articolo per globalist.it Gianfranco Pasquino: politologo, docente alla sede bolognese della Johns Hopkins University, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, accademico dei Lincei, è una delle voci critiche più sensibili e attente della scena politica italiana.
La sinistra e la società giusta in Europa
Le sinistre hanno un rapporto tormentato con l’Unione Europea. Come spesso nella loro politica nazionale, le sinistre variamente configurate cercano di combinare posizioni internazionalistiche con posizioni nazionaliste, difensive, se non addirittura, non scriverò affatto “loro malgrado”, sovraniste. La sinistra, però, non può che essere internazionalista. Ha l’obbligo politico ed etico di operare per il superamento dello Stato nazionale, causa prima delle due guerre civili europee e tuttora ostacolo principale ad una convergenza politica sovranazionale. Eppure, la convergenza, questo è già un tema da enfatizzare nella campagna elettorale, si trova fin dall’inizio dell’unificazione europea, quando alcuni grandi statisti, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, pungolati da Jean Monnet e Altiero Spinelli, seppero guardare molto avanti, ed è posta a fondamento di tutte le istituzioni europee.
Sottolineare l’importanza della libera circolazione di persone, capitale, merci e servizi è giusto. Tuttavia, molto di più l’accento va messo sul fatto inconfutabile che l’Unione Europea è il più ampio ed esteso spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo, ancora in espansione (poiché molte sono le domande di adesione). È anche il luogo nel quale uomini e donne godono delle maggiori opportunità di partecipazione politica incisiva– e coloro che non sfruttano quelle opportunità sono essi stessi parte del problema e non della soluzione. La sinistra dovrebbe, dunque, rivendicare con convinzione tutto quello che è già stato ottenuto, il cosiddetto acquis communautaire, prima di criticare l’esistente e di proporne, non il superamento, ma il perfezionamento.
Concentrarsi sul lavoro e l’istruzione
Due sono gli ambiti nei quali le politiche di sinistra sono argomentabili e fattibili. Sono ambiti nei quali in molte esperienze nazionali, la sinistra ha conseguito grandi successi e meriti. La rimodulazione del welfare state, per giovani e anziani, per disoccupati e sottooccupati, per donne e bambini, può essere proposta e ottenuta soltanto in una prospettiva europea che impedisca le rendite di posizioni e i vantaggi derivanti dagli squilibri fra gli stati che proteggendo meglio i loro cittadini sono esposti alle sfide di chi li protegge poco. Più specificamente è indispensabile concentrare sforzi e investimenti nel settore del lavoro collegandolo strettamente all’istruzione. Il secondo ambito è parte della sua storia, ma riguarda il futuro che la sinistra deve volere costruire, non tanto per la sua sopravvivenza, quanto per la sua visione: contenere e ridurre le enormi e crescenti diseguaglianze.
Le diseguaglianze incrinano la democrazia
Non è vero che la democrazia nasce promettendo l’eguaglianza, tranne l’eguaglianza di fronte alla legge. Piuttosto, è assolutamente certo che le diseguaglianze di ogni tipo incidono negativamente sulla democraticità di un sistema politico e sulla qualità della sua democrazia. La sinistra deve affrontare il compito di costruire eguaglianze di opportunità (al plurale), di intervenire non una sola volta, all’inizio, ma ripetutamente, per ricreare ad ogni stadio le opportunità necessarie. Qualsiasi operazione di questo genere richiede, non soltanto la volontà politica, che discende dalla capacità di “predicare” il valore delle eguaglianze di opportunità, ma soprattutto la consapevolezza che la sinistra deve mirare a dare vita e mantenere una società giusta, compito da svolgere e obiettivo conseguibile esclusivamente ad un livello più elevato, quello europeo.
La sinistra dei nostri desideri
In questa concezione, la sinistra non si arrovella sulle tematiche economiche salvo su quelle relative alla tassazione e alla redistribuzione, sottolineandone non la, talvolta troppo vantata, razionalità delle cifre, quanto, piuttosto, la loro utilizzazione al perseguimento di valori condivisi. Certo, le “parole d’ordine” efficaci, che dovranno essere accuratamente definite, riguarderanno la chiarezza degli obiettivi e il coinvolgimento incisivo dei cittadini europei che consentiranno di fare grandi passi avanti. La sinistra che sta nei miei desideri, sicuramente diffusi e condivisi in larga parte d’Europa, ha la possibilità di elaborare coerentemente il messaggio della società giusta.
Pubblicato il 17 febbraio 2019 su globalist.it
Le democrazie esistono. Hanno problemi. Imparano a risolverli senza violenza #IlRaccontodellaPolitica
IL RACCONTO DELLA POLITICA
Lezione 6Le democrazie esistono. Hanno problemi. Imparano a risolverli senza violenza
“La democrazia è una promessa. I cittadini, interessati, informati, partecipanti, operano per realizzarla. Cosi facendo migliorano la loro vita e le vite degli altri”
Chi fa i conti senza l’oste
“Fare i conti senza l’oste”. Dirigenti di partito, commentatori italiani e straneri, sondaggisti vari sono coloro che fanno i conti. Nel frattempo, l’oste, vale a dire l’elettorato italiano, è in tutt’altre faccende affaccendato: lavora o cerca un lavoro, studia, si occupa dei figli e, magari, dei genitori a carico. Ha poco tempo per pensare alla politica e ancora meno tempo per leggere indiscrezioni, gossip, retroscena. Si sta comunque facendo un’opinione di massima che il 4 marzo tradurrà in un voto oppure in un’astensione motivata e spesso irritata. Solo molto tangenzialmente pensa a quale maggioranza di governo uscirà dalle urne. Fra le cose che sa, qualche volta più di quelle che i politici credono, c’è che il governo dovrà avere una maggioranza e scaturirà da un accordo fra i partiti. Sa anche che ci sono partiti e dirigenti che non vorrebbe proprio vedere al governo del paese e teme che ancora una volta ci saranno parlamentari trasformisti pronti a trasferirsi in partiti e gruppi accoglienti e generosi nella consapevolezza che non ci sarà nessuna punizione elettorale né con la legge Rosato né con quella prossima ventura (che nessuno conosce, ma “l’oste” teme che non sarà congegnata per dargli potere effettivo).
I conti dovranno essere fatti in Parlamento, pensa l’oste, quindi tutti i voti conteranno per dare forza anche a raggruppamenti e partiti pur non grandi, dall’appeal attualmente non conoscibile. Non gli è facile, all’oste, immaginare come il suo voto, quello dei suoi famigliari e amici, dei suoi collaboratori e dei suoi clienti, sarà utilizzato. Vorrebbe che servisse a costruire una maggioranza governativa non troppo eterogenea, sufficientemente stabile, capace di dare rappresentanza politica effettiva agli elettori e di tradurre almeno in parte, meglio se in gran parte, le promesse elettorali in materia di lavoro, di istruzione, di governo dell’immigrazione. Gli piacerebbe ascoltare qualcosa di più sui rapporti con l’Europa e di cogliere maggiore impegno di tutti nella lotta alla corruzione. L’oste pensa anche che le persone contano in politica, con la loro carriera, il loro bilancio di cose fatte e non fatte, anche fatte male, con la loro biografia personale, forse con la loro coerenza politica. Terrà conto anche di questi fattori.
Poi, l’oste getta un’occhiata meno distratta del solito ad alcuni quotidiani e nota che è già cominciato quello che editorialisti e commentatori non particolarmente originali definiscono “totogoverno”. Con grande sussiego gli raccontano che nessuno dei tre schieramenti principali avrà, da solo, la maggioranza assoluta dei seggi né al Senato né alla Camera. Legge tanto pesanti quanto tardive critiche alla legge elettorale Rosato, anche da parte di chi in Parlamento l’ha scritta e approvata, pardon, imposta con voti di fiducia. Peraltro, lui aveva capito da subito che quella legge era stata elaborata non per migliorare le modalità di formazione del governo, ma per consentire a capipartito e capicorrente di “nominare” parlamentari i seguaci più fedeli e ossequienti ovunque candidabili, anche in più circoscrizioni. Non essendo interessato alle lacrime dei coccodrilli, che pure la loro abbuffata di collegi sicuri se la sono fatta, l’oste pensa che la settimana precedente le elezioni cercherà di saperne di più. Sente che la (grande?) coalizione adombrata fra i due protagonisti, Renzi e Berlusconi, del Patto nel Nazareno, che portò a brutte riforme costituzionali poi bocciate da un cospicuo numero di elettori, non riuscirà neanche a raggiungere la maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Quindi, è un’invenzione mediatica, comunque indigeribile. L’oste conclude che il conto glielo servirà lui ai partiti e che, alla fine, come sta scritto nella Costituzione, sarà il Presidente della Repubblica a decidere chi e come trarrà vantaggio da quel conto o dovrà pagarlo completamente. Tutto il resto dovrebbe essere, l’oste concorda con Amleto, silenzio e non manipolazione.
Pubblicato AGL 8 febbraio 2018
Per un esito sano, non eterodiretto, ricostituente #IoVotoNO
E’ difficile dire come la vittoria del NO verrebbe considerata in sede internazionale. È molto facile, invece, mettere in rilievo come la campagna elettorale del “Sì” si stia svolgendo all’insegna dell’allarmismo e di per sé contribuisca fortemente ad alimentare le preoccupazioni internazionali, tutte, comunque, da valutare e soppesare con cura.
Gli operatori economici stranieri, i governanti europei e non, la Commissione Europea che conta, eccome, non si aspettano tanto le riforme costituzionali, ma riforme economico-sociali: fisco, lavoro, istruzione, giustizia. Tutto quello che serve a rendere efficiente, dinamico, flessibile il cosiddetto “sistema-paese”. Quasi niente di questo dipende dalla nuova disciplina del referendum, dalla reintroduzione della supremazia statale sulle regioni, dall’abolizione del già largamente defunto CNEL, dalla brutta riforma del Senato che mai fu un ostacolo alla decisionalità di governi che sapevano quel che volevano. Molto dipende da politiche inadeguate. Le tempeste finanziarie si abbattono su paesi non “costituzionalmente” deboli, ma che sono inquinati e inguaiati dalla corruzione, dalla criminalità organizzata, da un enorme debito pubblico. Cercare nella Costituzione vigente il capro espiatorio del malaffare dei politici e delle loro incapacità è semplicemente sbagliato. Assolutamente non convincente.
Per stemperare il brutto clima creato da otto mesi di deliberatamente urticante campagna elettorale condotta dal capo del governo alla ricerca di un plebiscito sulla sua persona, quel capo del governo dovrebbe chiarire che, se sconfitto, si dimetterà affidando il seguito, proprio come vuole la Costituzione italiana, alla saggezza e ai poteri del Presidente della Repubblica. Non solo Renzi non si opporrà ad una sua rapida sostituzione, senza aprire le porte a qualsivoglia crisi al buio, ma l’agevolerà e contribuirà ad una fulminea soluzione (potrei aggiungere e auspicare come hanno fatto i Conservatori a Londra, ma la distanza fra Firenze e Londra in materia di fair play costituzionale mi pare immensa).
Votare sì a brutte riforme, nessuna delle quali promette davvero maggiore partecipazione e influenza dei cittadini sulla politica, solo perché ci si sente sotto ricatto, interno, e sotto pressione esterna, mi pare il peggiore dei modi per pervenire ad un funzionamento più efficace del sistema politico italiano.
Pubblicato il 22 ottobre 2016 sul sito Welfare Network


