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Letta deve aprire il campo largo a tutti quelli affidabili @DomaniGiornale

La strada è tracciata o, quantomeno, indicata: “campo largo”. Il centro-destra non è compatto né nel momento elettorale, come dimostrato dagli esiti delle elezioni ammnistrative, né qualora arrivasse al governo (ma su questa eventualità non mi avventuro) diviso com’è su scelte importanti a cominciare dall’Unione Europea. Tuttavia, continua ad avere più voti del centro-sinistra. Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, tiene la barra e incassa qualche non marginale risultato. Certo, continuare a credere nel Movimento Cinque Stelle richiede una straordinaria pazienza e anche molta generosità. Tuttavia, dovrebbe stare diventando sempre più chiaro ai pentastellati, di ieri e di oggi, per quelli di domani servirà una buona campagna elettorale, che, da solo, il Movimento 5 Stelle non va da nessuna parte. Meglio, si avvia verso la quasi totale irrilevanza, Insomma, il PD è alleato essenziale per le Cinque Stelle. Merito di Letta è di non farlo pesare in attesa che il Conte titubante ne prenda pienamente atto e non faccia nessun avventuroso giro di tarantella.

   I Cinque Stelle sono necessari, ma non sufficienti a fare un campo largo capace di ottenere tutti i voti richiesti per arrivare alla maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Dunque per allargare l’attuale campo, con il PD che, non dimentichiamolo, oltre il 21-22 per cento su scala nazionale sembra non essere in grado di andare, è imperativo trovare altri alleati. Alcuni, ad esempio, Più Europa, sanno che, anche programmaticamente, i Democratici sono non solo il referente da privilegiare, ma la loro àncora di sicurezza. Altri, penso ad Italia Viva, sono piuttosto (è un eufemismo) inaffidabili ed è difficile che si emendino. Altri ancora, come Azione di Calenda, pongono una preclusione dirimente: niente Cinque Stelle nel campo largo. In questo modo, però, la sconfitta appare garantita.

   La formulazione della strategia che porti alla crescita e le sue modalità stanno tutte nelle mani di Letta. Mi sembra che nel PD non siano molti (anche questo è un eufemismo) coloro che, invece di badare alla conservazione del loro personale seggio, si dedichino all’elaborazione di idee e magari anche a un sano e impegnativo lavoro sul territorio, questo sì diventato largo assai dopo la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari. Sono giunto alla conclusione, parzialmente rivedibile dopo le dure lezioni della storia, che Letta deve tenere aperti gli ingressi nel suo campo largo a tutti coloro che garantiscano europeismo e impegno convinto e effettivo all’attuazione integrale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Deve promettere che il governo del quale il Partito Democratico sarà comunque il perno s’impegnerà nella crescita culturale e economica dell’Italia. Chi non volesse assumere congiuntamente questo impegno non è un alleato affidabile, e allora sarebbero/saranno guai per tutti.

Pubblicato il 15 giugno 2022 su Domani  

Berlusconi spera nel colle ma ha in mente un piano B @DomaniGiornale

Neanche per un momento è giustificabile pensare che Berlusconi abbia già abbandonato la speranza di diventare il prossimo Presidente della Repubblica. I numeri sui quali può contare in partenza sono il pacchetto più consistente di qualsiasi altro candidato. Dal quarto scrutinio, quello per il quale sarà sufficiente la maggioranza assoluta, i suoi numeri potrebbero, grazie ad una pluralità di apporti, essere decisivi. Composito è lo schieramento di coloro che deciderebbero di votarlo. Comprende i molti parlamentari che, in un modo o nell’altro, sentono/sanno che Berlusconi sarebbe generoso con loro, anche perché lo è già stato, e soprattutto quelli che pensano che Berlusconi presidente non scioglierebbe il Parlamento, ma consentirebbe la prosecuzione della legislatura fino alla sua conclusione naturale (marzo 2023). Per la precisione, quell’obiettivo, del tutto legittimo, di conservazione del posto di lavoro, appare molto importante sia ai parlamentari di Forza Italia e di Italia Viva, che saranno inevitabilmente a alto rischio, causa la riduzione del numero dei parlamentari, sia agli eletti del Movimento 5 Stelle, già dimezzati. Allo stato, solo i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni sono certi di crescere numericamente. Peraltro, Meloni non può negare la qualifica di patriota a Berlusconi il cui incipit della discesa in campo rimane assolutamente memorabile: “L’Italia è il paese che amo”.

   Consapevole delle comunque reali difficoltà della sua candidatura, sicuramente “divisiva”, probabilmente Berlusconi ha già elaborato un piano “b”. Da un lato, vuole riprendersi il ruolo del protagonista, potrebbe essere l’ultima volta. Dall’altro, vuole impedire, come tutti i suoi “comunicatori” hanno subito affermato, che al Quirinale vada un candidato della sinistra, del PD (che per lui e forse anche per loro sono la stessa cosa). Dall’altro, ancora vorrebbe che l’uomo o la donna che verranno eletti al Colle più alto gli siano già debitori di qualcosa, siano riconducibili a lui per la sua carriera. A questo punto, inevitabilmente, bisogna fare i nomi e, in effetti, qualche nome ha già cominciato a circolare. Strappato alle sue fatiche di scrittore, Marcello Pera, già Presidente del Senato, è stato visto a Roma. Viene sussurrato il nome di Antonio Martino, già Ministro della Difesa. Inevitabilmente grazie alla sua carica, l’attuale Presidente del Senato Elisabetta Casellati, già parlamentare di Forza Italia, si trova nella cerchia dei papabili. Qualcuno potrebbe aggiungervi, non l’improbabile nome di Gianni Letta, ma quello di Antonio Tajani, ex-presidente, senza infamia e senza lode, del Parlamento europeo e coordinatore in carica di Forza Italia. Nient’affatto implausibile sarebbe la candidatura dell’ex-ministra dell’Istruzione, già sindaco di Milano, Letizia Moratti. Sembra abbia suscitato irritazione in Berlusconi, forse perché non proposta da lui stesso che non potrebbe vantarsene e che si vede privato della mossa a sorpresa.

   Non intendo discutere nei dettagli le credenziali e le qualità presidenziali di queste eventuali candidature, ma due considerazioni meritano di essere formulate. Prima considerazione: nel ventennio berlusconiano il leader non ha in nessun modo proceduto al reclutamento e alla formazione di una classe politica. Forza Italia è rimasta un partito personale e occasionale con qualche eccezione di persone che hanno ricoperto e ricoprono cariche ministeriali. Seconda considerazione: nessuna delle potenziali candidature è dotata di una visibilità significativa, di una qualche popolarità, di fonte di potere proprio. Ma, azzardo, forse queste carenze non dispiacciono a Berlusconi.

Pubblicato il 22 dicembre 2021 su Domani

Gli apllausi non faranno cambiare idea a Mattarella sul no a un mandato bis #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, spiega che gli applausi della Scala a Mattarella non gli faranno cambiare idea, perché «non vuole che si ripeta ciò che è accaduto con Napolitano» e mette in guardia dalle elezioni anticipate in caso di elezione di Draghi al Colle, perché «agli occhi della Commissione europea l’Italia ha bisogno di stabilità».

Professor Pasquino, il leghista Fontana dice che nelle strategie per il Colle il Carroccio guarderà in primis a Renzi. È sorpreso?

Assolutamente no. Fontana ha fatto un’analisi adeguata dei movimenti di Renzi, il quale tuttavia è assolutamente inaffidabile ed essere sicuri che mantenga quel che dice nella trattativa è tutta un’altra storia. Renzi è vicinissimo a Berlusconi, sono al governo insieme ed entrambi sostengono di essere stati loro ad aver voluto Draghi, quindi la vicinanza Lega- Italia viva non sarà un problema per il centrodestra.

Potrebbe esserlo per Giorgia Meloni, che già da ora dice che dopo l’elezione del presidente della Repubblica si deve andare al voto.

Non so cosa farà Meloni dopo l’elezione del presidente, dipende da che tipo di governo verrà fatto nel caso in cui venga eletto Draghi. Ma Meloni deve sfruttare il suo ruolo in una coalizione di centrodestra e quindi l’unica cosa da fare è aspettare le elezioni politiche.

A proposito di elezioni, come giudica la vicenda Letta- Conte- Calenda sul collegio di Roma I?

È stata una vicenda molto mal gestita. Letta non doveva offrire niente a nessuno. Doveva essere Conte semmai a offrire la sua candidatura e in quel caso Letta doveva dare il suo avallo. Che sia stato un errore di Letta o uno di Conte la storia è comunque bruttina. Calenda si candida a tutto, lo trovo sconveniente. È un parlamentare europeo eletto nella circoscrizione del Nord Est con i voti del Pd e quello deve fare, non altre cose assolutamente riprovevoli, come cercare di dimostrare che sia lui a dominare la scena romana. Non è questo il modo di fare politica che preferisco.

Coraggio Italia e Italia viva si stanno muovendo assieme per formare una pattuglia consistente nella corsa al Colle. Crede che lo schema sarà riproposto anche alle Politiche del 2023?

Per le Politiche del 2023 bisogna aspettare di vedere che legge elettorale verrà fatta. Potrebbe arrivarne una che garantisca il centro, ma se dovessi farla io la farei in maniera che il centro non conti, a prescindere dai nomi, perché serve una competizione bipolare, non una che dà potere di ricatto ai partitini. Per quanto riguarda la corsa al Colle possono fare tutte le prove tecniche che vogliono, ma bisogna capire quale sia il loro candidato. I nomi girano a dismisura e se ne hanno uno dovrebbero dirlo adesso, per poi andare a parlare con il centrodestra e con il centrosinistra. Ci sono 234 miliardi da spendere e devono essere gestiti dal Colle più alto di Roma.

Crede che i cinque minuti di applausi con tanto di cori “bis” a Mattarella potrebbero fargli cambiare idea?

Mattarella non vacilla per applausi o critiche. È un uomo che ha una certa concezione della politica e parla solo dopo aver riflettuto molto. Ha detto che non vuole essere rieletto e manterrà questa idea. Sette anni sono lunghi, sono stati abbastanza difficili e non vuole che si ripeta ciò che è accaduto con Napolitano. Gli applausi sono stati corretti, non ho apprezzato invece quelle urla di bis, le ho trovate un po’ fuori luogo. Hanno certamente rallegrato il presidente ma eravamo alla Scala, non a San Siro.

Entrambi, sia la Scala che San Siro, erano gremiti, mentre in diverse parti d’Europa stadi e teatri sono chiusi. Anche questo è stato un segnale della nostra ripartenza?

Sì, ma dobbiamo tenere presente che il pubblico della Scala non è rappresentativo del paese e forse Draghi dovrebbe chiedere a quelle persone il famoso contributo di solidarietà.

Che non è entrato in manovra per divergenze in maggioranza, con conseguente sciopero di Cgil e Uil. Cosa ne pensa?

Non credo sia il momento di fare scioperi. Anche perché lo sciopero non cambierà nulla, tranne forse indebolire un po’ Draghi e Orlando. Se questo è l’obiettivo di Landini può anche raggiungerlo ma credo che Landini sia un compagno che talvolta sbaglia ed esagera. Ho l’impressione che questo sindacato difenda i garantiti e non si occupi di garantire altri e mantenere in moto la macchina dell’economia e della società italiana. Servirebbe un dialogo che non c’è stato perché Landini spesso ha alzato la voce e Draghi ha alzato le spalle.

Pensa che Draghi sia stia stancato di tenere uniti parti così diverse e stia pensando di correre per il Colle per poi indire le elezioni?

Non credo. Primo perché ho l’impressione che agli occhi di coloro che ci danno i soldi, cioè la Commissione europea, l’Italia ha bisogno di stabilità, non di una campagna elettorale di due mesi e la vittoria magari di qualcuno con una visione europea diversa. Andare al voto con Draghi al Colle penso sia sbagliato.

Calenda ha fatto il nome della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Almeno questa idea del leader di Azione la convince?

Calenda ha scelto Cartabia perché è politicamente corretto individuare una donna, e in questo momento lei è la più visibile tra le donne. È una legittima candidabile e presidenziabile, ma non è l’unica e non risponde nemmeno a tutti i requisiti che secondo me servono, come ad esempio un’esperienza politica maggiore rispetto a qualche mese al ministero della Giustizia.

Chi avrebbe questi requisiti?

(Sorride, ndr) Certo mi farebbe piacere avere al Colle il mio amico Draghi o il mio amico Pier Ferdinando Casini, che incontro sempre alle partite del Bologna o della Virtus. Casini ha la storia di un democristiano di destra, moderato. Non ha mai insultato nessuno, è stato presidente della Camera, è il decano del Parlamento italiano. Se eletto sarebbe totalmente indipendente. Riequilibrerebbe il sistema politico con competenza certa. La stessa che avrebbe Giuliano Amato, che viene criticato perché è stato molto più efficace degli altri nella sua azione politica. Ma non porrei nessun veto nemmeno a Rosy Bindi.

Pubblicato il 8 dicembre 2021 su IL DUBBIO

Una domanda a Draghi, legittima, sulla redistribuzione. Firmato Pasquino @formichenews

Dov’è la redistribuzione buona almeno come il debito che Draghi definisce buono? Oggi, in uno stato di frammentazione delle organizzazioni è difficile vedere chi saprebbe farsi portatore di quelle istanze e diventare credibile implementatore di politiche produttive-redistributive tenendo la barra diritta. Però, la domanda a Draghi va fatta. È una domanda legittima, anzi, buona, persino molto buona

Il problema non è sapere se e perché Draghi ha ceduto e non ha imposto il contributo di solidarietà per un paio d’anni sui redditi al di sopra dei 75 mila Euro l’anno (incidentalmente una soglia bassa anche e soprattutto in un paese di evasori medio alti). Neanche se lo ha fatto per non alienarsi i potenziali suoi elettori per la Presidenza della Repubblica, ipotesi che respingo sdegnosamente. Il problema è se Meloni e Salvini, Berlusconi e Renzi stanno segnalando che sono già d’accordo su alcune misure economiche oppure sono soltanto degli opportunisti oppure ancora stanno continuando con quelle che i giornalisti chiamano prove tecniche (magari preannunciando l’inciucio).

   Di tutto un po’, ma questo impasto non può essere un pezzo di programma prossimo venturo del centro-destra più Italia Viva. Sarebbe il prodromo della cattiva utilizzazione dei fondi europei oppure, peggio, dell’incapacità di spenderli in progetti accettabili dalla Commissione perché rispondenti ai criteri di innovazione, trasformazione, efficienza. L’interrogativo più lancinante comunque è, come suggeritomi da Simona Sotgiu, “riusciranno le forze politiche a trovare nuovamente la forza di mettere in atto misure redistributive?” La risposta potrebbe essere tranchante.

Da nessuna parte nelle democrazie europee i governi di centro-destra mettono in atto politiche redistributive. Quando lo fanno, poi, la loro redistribuzione va, non a favore dei settori svantaggiati, ma a favore di coloro che promettono di procedere a politiche di investimento, creazione di ricchezza, forse anche, ma è quasi l’ultima delle considerazioni, di creazione di posti di lavoro. Frettolosamente ne concludo che la prima redistribuzione ha senso per chi si impegna a risolvere le difficoltà attuali di alcuni ceti. La seconda è quella classica dei neo-liberisti friedmanniani senza nessuna garanzia che funzioni, anzi, al contrario. Entrambe sono, nell’ordine, redistribuzioni meno o più cattive.

 Ma, allora, dov’è la redistribuzione buona almeno come il debito che Draghi definisce buono? Me la ricordo. Grazie alla mia età e a buoni studi. Fu la redistribuzione socialdemocratica classica. Oggi, in uno stato di frammentazione delle organizzazioni è difficile vedere chi saprebbe farsi portatore di quelle istanze e diventare credibile implementatore di politiche produttive-redistributive tenendo la barra diritta. Però, la domanda a Draghi va fatta. È una domanda legittima, anzi, buona, persino molto buona.

Pubblicato il 5 dicembre 2021 su formiche.net

I soldi non hanno odore, ma servono al potere.

L’intensissima attività di conferenziere e consulente, sembra anche molto lautamente pagata, del Senatore Matteo Renzi è finita nel mirino della magistratura che vuole vederci chiaro. Dal punto di vista del metodo, ovvero come si stanno svolgendo le indagini, Renzi sostiene che è stata violata la sua immunità poiché i magistrati avrebbero dovuto chiedere una previa autorizzazione. Ne discuterà l’apposita Commissione del Senato la cui convocazione per il 24 novembre è stata richiesta dallo stesso Renzi per sue comunicazioni in materia. I magistrati hanno già replicato sostenendo di essersi imbattuti nel conto corrente di Renzi in maniera indiretta che non necessitava di autorizzazione. Dal punto di vista della sostanza, vi sono diverse considerazioni degne di nota e di approfondimento specifico. La prima riguarda l’eventuale violazione della normativa sul finanziamento dei partiti. I magistrati sostengono che i fondi ingenti che sono affluiti nelle casse della Fondazione Open, organizzatrice delle riunioni alla Leopolda, sono serviti a finanziare le attività di un partito: Italia Viva, di cui la Fondazione è stretta emanazione, e viceversa, vale a dire che la Fondazione è l’organismo sul quale si basa Italia Viva. Dunque, quei fondi hanno violato la legge. La replica dei renziani è stata finora che un conto è la Fondazione e un conto molto diverso è un partito e che, comunque, non spetta ai magistrati definire che cosa è un partito.

    Da parte mia, messi da parte alcuni elementi nient’affatto necessari all’esistenza di un partito, ad esempio, una ideologia, mi limiterò a sostenere, sulla scia del grande studioso di scienza politica Giovanni Sartori, che partito è (o diventa) qualsiasi associazione che presenta candidature alle elezioni non importa se locali, nazionali, europee. Questa definizioni minima, ma essenziale, si attaglia convincentemente anche a Italia Viva. Potrà, poi, essere precisata e ampliata.

   Sullo sfondo del conflitto Renzi/magistrati, stanno due vicende di notevole rilevanza per il sistema politico italiano. Anzitutto, si pone il problema etico e politico se un parlamentare (nel caso di un governante sarebbe ancora più grave e eclatante) possa ricevere molto denaro da enti (sono costretto a essere vago) e governanti stranieri come i reali dell’Arabia Saudita. In molte democrazie non è consentito. Il sospetto che quei pagamenti, anche sotto forma di donazioni, finiscano per influenzare comportamenti e voti del parlamentare è inevitabile. In secondo luogo, dati i tempi, il rischio è che questa vicenda, più o meno oscura, del Senatore Renzi, abbia riflessi sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica Italiana. Sono 14 i senatori di Italia Viva e 26 i deputati. Questi quaranta voti possono risultare decisivi per fare eleggere Presidente sia il candidato/a del centro-destra sia quello/a del centro-sinistra. Questa considerazione è destinata a pesare anche sulla valutazione della immunità richiesta da Renzi e sulla destinazione dei voti presidenziali.     

Pubblicato AGL il 19 novembre 2021

Divisi profondamente #leggeZan

La prima domanda è: il disegno di legge sull’omofobia che ha come primo firmatario il deputato del PD Alessandro Zan è una buona legge? La seconda domanda è: se ha qualche articolo che può essere migliorato, rispetto al testo approvato alla Camera, quelle modifiche rischiano di rinviarlo sine die? È questo l’obiettivo di chi, da ultimo il capo di Italia Viva, Matteo Renzi, si propone con le sue critiche? Vedremo poi se e in quali emendamenti si tradurranno. La terza domanda è: esistono al Senato i numeri per procedere rapidamente alla sua approvazione definitiva? Negli ultimi giorni, l’attenzione è stata tutta concentrata sulle dichiarazioni di Matteo Renzi che ha annunciato di volere tre modifiche importanti a partire dalla molto discussa e complessa “identità di genere”. I voti dei senatori di Italia Viva possono essere cruciali a partire dal 12 luglio quando il disegno di legge Zan approderà in aula.

   Ė un dato di fatto che Renzi persegue insistentemente l’obiettivo di ottenere visibilità per il suo piccolo partito inchiodato al 2 per cento circa nelle intenzioni di voto degli italiani. Inoltre, mira a dimostrare quanto conta in questo Parlamento, quanto può essere determinante in alcune situazioni. Il disegno di legge Zan è di iniziativa parlamentare. Quindi non coinvolge il governo e un esito negativo non destabilizzerà Draghi. Poiché, però, il ddl porta il nome di un deputato del Partito Democratico, il segretario del PD Enrico Letta ha l’obbligo politico di difenderlo e condurlo a conclusione positiva. Ė molto probabile che ci saranno alcuni rischiosi voti segreti. Quindi, Letta non può e non deve stare “sereno”. Renzi punta anche a indebolirlo. E Letta ha l’impegno di trovare i voti necessari.

   Qualcuno ancora rimprovera al PD di non avere portato al voto, per timore di perdere, il disegno di legge sullo ius soli che mirava a dare la cittadinanza ai figli dei migranti nati in Italia. Da allora, non se n’é fatto nulla. Se non fossero in gioco brutti elementi, da un lato, personali, visibilità e ripicche, dall’altro, ideologici, con il centro-destra che non ha neppure criticato la legge contro gli omosessuali approvata dal governo Orbán, sarebbe forse possibile tentare un accordo. PD e Cinque Stelle potrebbero accettare poche modifiche, mirate e condivise, a condizione che i proponenti, a cominciare da Italia Viva e, forse, Forza Italia e Salvini, garantissero la fulminea approvazione definitiva del testo che dovrà tornare alla Camera. Non so chi ha queste capacità di mediazione e non vedo chi voglia impegnarsi in questo tentativo. Purtroppo, nel Parlamento italiano, ma anche nella società italiana, in occasione di problemi che riguardano la sfera più intima delle persone, come per esempio, la facoltà di scegliere come e quando morire, appaiono divisioni tristissime. Lunga sembra la strada per giungere alla maturità indispensabile per garantire la diversità delle opinioni e la libertà delle scelte. 

Pubblicato AGL il 8 luglio 2021

Sondaggi: al PD lo zero virgola più non basta @fattoquotidiano

Appena visto un “clamoroso” 20,8 per cento di intenzioni di voto degli italiani per il Partito Democratico, inopinatamente diventato, in seguito allo scivolamento all’indietro della Lega, il primo partito in Italia, il segretario Enrico Letta solennemente dichiara: “Il Pd è primo. Stare in questo governo ci fa bene” (titolo dell’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 13 giugno). Molto sobriamente, senza festeggiamenti, anche i leader delle tre correnti del PD, tutti e tre ministri, concordano. Guerini, Franceschini e Orlando al governo si trovano davvero a loro agio. C’è qualcuno, che si chiama Giorgia Meloni, che sostiene che anche all’opposizione si può stare molto bene. Infatti, Fratelli d’Italia è il partito che fa registrare la crescita maggiore in termini di intenzioni di voto lanciata verso il sorpasso della Lega malamente di lotta non convintamente di governo. Gli zero virgola di crescita del PD non sono entusiasmanti, soprattutto se messi a confronto con le percentuali di aumento dell’approvazione del governo in quanto tale e personale di Draghi. Quasi nessuno, neanche il loquace stratega di qualche tempo fa, ha osato dire alto e forte che, comunque, con il 20,8 il PD non va da nessuna parte. Per fortuna che il segretario ha lanciato la proposta non proprio innovativa di una Federazione dei partiti/liste di sinistra che, oltre al Movimento 5 Stelle, dovrebbe dare un’occhiatina anche al centro. Purtroppo, lì c’è un’occupazione manu militari da parte di Italia Viva del Renzi e di Azione di Calenda. “Sfondare” non sarà facile, ma anche “assembrarli”, date le caratteristiche dei due, sembra un’operazione alquanto costosa!

Adesso, sostiene Letta, bisogna “aprire [con il cacciavite?] un cantiere per le Politiche”. Nel frattempo, nelle Amministrative è già successo un po’ di tutto, non governato da nessuno, da Torino a Roma, con i pentastellati, che sono, necessariamente, il referente senza il quale il PD riuscirebbe a vincere in pochi comuni, ancora incerti anche su un minimo di convergenza. Dal canto suo, Conte, che, senza la convergenza sarebbe inevitabilmente destinato ad un’opposizione nella quale emergerebbero i suoi avversari interni, ha fatto un bel regalo a Letta. Ha dichiarato che nelle primarie bolognesi auspica la vittoria del candidato ufficiale del PD contro la sfidante, l’(ex-)renziana Isabella Conti, la quale proprio sola non è avendo sostegno anche dentro il PD.

Non mi risulta che a Sciences Po insegnino ad aprire cantieri e immagino che Letta sappia guardare alle esperienze edilizie italiane, magari dimenticandole quasi tutte, soprattutto l’Unione del 2006, esempio massimo di come non si costruisce una coalizione. Eppure, la Francia almeno una lezione la può insegnare a tutti: quella dell’importanza del tipo di competizione politica e elettorale per incentivare forme di aggregazione fra forze non troppo distanti fra loro che sappiano convergere su un progetto. Quel che so è, senza nessuna mia ostilità preconcetta, che una legge elettorale proporzionale è lo strumento meno adatto a incoraggiare alleanze prima del voto e a premiare aggregazioni. Al contrario, ciascuno andrà a caccia dei suoi voti, poi, dopo la conta, si faranno i governi. Non sembra che Letta abbia un interesse particolare per le technicalities della legge elettorale. Meglio che faccia una riflessione approfondita. La materia è di tale importanza, per l’oggi e per il domani, per ristrutturare il sistema dei partiti italiani, che bisogna che il segretario s’impegni per ottenere un esito positivo e duraturo.

Stare al governo con Draghi, non m’impelagherò nella discussione se Draghi fra sei mesi andrà al Quirinale, per il PD è positivo anche nella misura in cui serve, compito nobile, a controbilanciare e contrastare la Lega. Tuttavia, il segretario Letta deve quantomeno interrogarsi se alla fin della ballata tutti i meriti andranno al capo del governo che, per fortuna, non cederà alla tentazione di farsi un suo partito anche se già sento stuoli di politici interessati ad imbarcarvisi. Quel cantiere che Letta vuole aprire e fare funzionare è il luogo nel quale le proposte da lui formulate finora senza nessun successo e con pochissima audience debbono essere riprese e rilanciate anche come parte della pallidissima identità del PD. La tassa di successione mi pare del tutto opportuna. La legge sullo jus soli (oppure sullo jus culturae) è uno strumento importante di integrazione non soltanto perché l’Italia ha bisogno di immigrati, meglio se giovani, ma perché suggerisce che tipo di paese vogliamo essere. Avrei delle perplessità sul voto ai sedicenni, ma qualche modalità per coinvolgere i giovani nel mondo della politica e del lavoro mi sembra assolutamente indispensabile. Concludo drasticamente: al PD fa bene stare al governo se riuscirà a ottenere qualche riforma sua. Il resto sono solo buone intenzioni (di voto).

Pubblicato il 16 giugno 2021 su Il Fatto Quotidiano

Il matrimonio tra il Pd e i 5Stelle s’ha da fare (ma conta il come…) @fattoquotidiano

Da molti mesi, inesorabili e concordi, tutti i sondaggi danno il centro-destra, per la precisione Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, in chiaro e sicuro vantaggio nelle intenzioni di voto degli italiani. Altrettanto sicuramente danno per dimezzato il Movimento 5 Stelle rispetto all’esito del 2018 mentre il Partito Democratico rimane mestamente attestato appena sopra-appena sotto il 20 per cento. L’effetto Enrico Letta non c’è stato, ma in verità nel partito praticamente nessuno se l’aspettava. Una volta tornati ad essere ministri i capi correnti del PD sono lieti che la patata lessa (non bollente) del partito sia nelle mani caute di Letta, e ça suffit. Molti italiani, cerco di interpretare il pensiero di almeno quelli del centro-sinistra, si aspetterebbero che, invece di combattere fra loro, i pentastellati guardassero avanti. Vero è che, se si andrà votare con una legge proporzionale, meglio il tipo che abbia una sana soglia del 5 per cento per l’accesso al Parlamento, vi entrerebbero tanto la variante Conte-Di Maio quanto la variante Casaleggio-Di Battista: un grande fatto per loro, una certificata vittoria per il centro-destra. Giusto, quindi, che si moltiplichino gli sforzi per rimettere insieme le troppo sparse membra di quello che fu, remember?, un arrembante schieramento del 33 per cento. Il Movimento avrebbe moltissimo da recuperare fra espulsioni affrettate e emorragie poco motivate se non dalla mancanza di una cultura politica condivisa. In qualche modo, anche il Partito Democratico potrebbe porsi l’obiettivo di ricomporsi con coloro che se ne sono andati: LeU e, persino, ItaliaViva. Con i primi gli spazi di condivisione sono molto ampli; con i secondi è in corso una assurda lotta nelle primarie prossime venture che dovrebbero essere meglio utilizzate non per una sterile resa dei conti, ma per scegliere quella candidatura a sindaco di Bologna che allarghi il consenso per il centro-sinistra. Certo, per Letta discutere in maniera serena con Renzi non potrà essere né una passeggiata né un pic-nic. Quei voti, però, anche se non sono molti, servirebbero/serviranno. Comunque, non basterà ricomporre il Movimento 5 Stelle e mettere in sesto il PD. Sono essenziali grandi cambiamenti che conducano ad un accordo di fondo fra loro e che si traducano in capacità attrattiva.

Ho sempre avuto riserve sulle alleanze organiche e strutturali. La politica delle coalizioni europee ha sostanzialmente mandato un insegnamento chiaro: le alleanze elettorali, politiche, governative si costruiscono e si ripropongono di volta in volta a seconda della posta in gioco e delle preferenze dei leader, degli iscritti e degli elettori. La ri-costruzione di ciascuna alleanza è resa più o meno difficile dalle precedenti esperienze. Gli inglesi sostengono, giustamente, che success breeds success. Per dare vita a una coalizione elettorale di successo, dunque, mi parrebbe opportuno cominciare subito da qualche esperimento locale reso più agevole dalle preferenze dei dirigenti e degli attivisti, mirando ad alcuni punti programmatici particolarmente significativi. Le elezioni nei comuni al disopra dei 15 mila abitanti offrono la grande opportunità del ballottaggio per l’elezione del sindaco. Consentono, quindi, di valutare come e quanto i due elettorati, pentastellato e democratico, reagiscono rispetto alla necessità/imperativo della confluenza sulla candidatura arrivata al ballottaggio. Ma c’è di più. Consentono di vedere e di misurare sia la capacità di attrarre nuovi elettori sia di motivare parte degli astensionisti, quelli che definisco “di opinione”, cioè che per andare alle urne valutano effettivamente le proposte di nomi e di idee che vengono (loro) fatte.

Questo non è in nessun modo un ragionamento ingegneristico. Tutte le ricerche elettorali dell’ultimo decennio hanno concordemente rilevato che: 1. All’incirca un terzo o poco più degli elettori italiani, molti di quelli che vengono indicati come “indecisi” nei sondaggi, sono disponibili a cambiare opzione di voto da un’elezione all’altra, e lo hanno davvero fatto; 2. All’incirca o poco più di quel 30 per cento sono abbastanza o molto insoddisfatti di come funziona il governo/la democrazia italiana. Certo, spesso i cambiamenti di voto avvengono non da un’area all’altra, ma all’interno di ciascuna area, come potrebbe essere fra Lega e Fratelli d’Italia. Rimane, però, un 10-15 per cento di elettorato che è, userò una parola evocata dai Democratici, contendibile. Per raggiungerlo, però, sarebbe necessaria una coalizione che, partendo da PD più Cinque Stelle, vada alla ricerca dei “contendibili” con l’offerta di qualcosa di più mobilitante che l’esclusione di Salvini dal governo. Ripiegati sui loro più o meno gravi problemi, pentastellati e democratici sembrano affidare il loro destino al successo di Draghi. Non basterà.

Pubblicato il 18 maggio 2021 su il Fatto Quotidiano

Il caso Bologna: solo Renzi costringe il Pd a fare vere primarie per il sindaco @DomaniGiornale

La notizia è che, dopo circa sei mesi di acrimoniose discussioni, l’audacissimo Partito Democratico di Bologna organizzerà le primarie per la scelta della candidatura a sindaco di Bologna. L’altra importante notizia è che saranno primarie competitive con un esito non predeterminato. Le precedenti primarie bolognesi, 1999, 2009 e 2011, erano state ampiamente controllate (la tentazione di scrivere “manipolate” mi rimane) dal gruppo dirigente. Anche questa volta, ha cominciato il sindaco Merola, non rieleggibile dopo due mandati senza troppa gloria, a battezzare come successore il suo assessore alla Cultura Matteo Lepore. Poi, candidatosi anche l’assessore alla Sicurezza, Alberto Aitini, invece di prenderne atto e prepararsi alle primarie, il gruppo dirigente del PD ha traccheggiato all’insegna della ricerca di una candidatura unitaria, un modo per fare sapere a Aitini che doveva ritirarsi. La situazione si è sbloccata rumorosamente quando, incoraggiata da Matteo Renzi, ha fatto irruzione la candidatura di Isabella Conti, esponente di Italia Viva (ma, prima, PD), rieletta sindaco di San Lazzaro con quella che chi non conosce la Bulgaria post-1989, continua a chiamare “maggioranza bulgara”: 80 per cento dei voti. Inevitabilmente, molto contrariati, gli esponenti del vertice (mi veniva la parola “cupola”) del PD hanno preso atto e annunciato che si terranno primarie di coalizione il 13 oppure il 20 giugno.

Fin dall’inizio lo svolgimento di elezioni primarie doveva essere considerato l’esito naturale, previsto nello Statuto del partito (art. 24 Elezioni primarie per la cariche monocratiche istituzionali). Con buona pace di Beppe Provenzano, vicesegretario del PD nazionale, non sbaglia affatto “chi dice che le primarie sono l’identità del Pd”. Al contrario sono un elemento costitutivo della, pur pallida, identità del partito. Bologna ci dice, però, che questa pratica, a determinate condizioni, sicuramente democratica, cozza frontalmente con le preferenze di chi continua a preferire le cooptazioni e altre oscure attività.

Ovviamente, le primarie, tutte le primarie in tutti i luoghi nei quali si svolgono (il PD ne ha fatte più di mille) sono anche un confronto/scontro fra persone le quali, nel caso di Bologna e in quasi tutti gli altri, hanno una biografia politica e professionale che le rende più o meno qualificate per aspirare ad una carica importante. I due assessori vantano per l’appunto la loro esperienza di governo della città, ma Isabella Conti può molto facilmente replicare con il buongoverno che ha garantito come sindaca di San Lazzaro, comune con più di 30 mila abitanti. L’ostacolo che le hanno subito frapposto è quello di essere “una renziana”, ma se le primarie di Bologna hanno da essere primarie di coalizione quest’ostacolo non ha da essere. Anzi, il PD dovrebbe rallegrarsi che fondamentalmente Italia Viva abbia deciso di fare parte della coalizione di centro-sinistra. Nel regolamento, il più garantista possibile per tutt’e tre i concorrenti, dovrà essere limpidamente statuito che i perdenti si impegnano a sostenere la vincente.    Proprio il regolamento potrebbe essere il prossimo punctum dolens: quante iniziative, quanti confronti, in quali spazio, con quali impegni di risorse sono tutti elementi che debbono essere sanciti per non dare vantaggi e non procurare svantaggi a nessuno. Le esperienze passate non sono del tutto rassicuranti con pezzi di partito che non solo si adoperarono palesemente a favore di uno specifico candidato, ma premettero sulla CGIL, sulle cooperative, su altre associazioni vicine per conseguire l’esito voluto. Divenuta famosa anche per avere resistito con successo alle mire poco ecologiche (sic) delle cooperative costruzioni, Isabella Conti sa di partire in salita nel mondo (che qualche commentatore bolognese ha infelicemente definito “di mezzo”) del PD. Proprio per questo la campagna elettorale bolognese si annuncia molto interessante. Le primarie servono anche a mobilitare gli elettori e i simpatizzanti, a comunicare politica e politiche, ad allargare la sfera del consenso. A Bologna, forse, potranno fare circolare un po’ d’aria nuova in un partito che troppo spesso risulta essere una struttura cementata e appesantita dal troppo potere che ha (talvolta neppure sapendolo esercitare).

Pubblicato il 23 aprile 2021 su Domani

Il vuoto di idee dei partiti non sarà riempito da Draghi @DomaniGiornale

Coinvolti in un esperimento di nome “governo Draghi” che hanno largamente subito, ma che ha, comunque, lasciato/concesso loro cariche ministeriali importanti, i partiti italiani, con l’eccezione ai suoi inizi del PD, non sembrano sapere andare alle radici dei loro problemi. Se questa era una crisi di sistema nessuno sta cercandone una soluzione. Se, invece, è una crisi della politica i partiti non hanno neppure cominciato ad affrontarla. Qualcuno, più fuori che dentro i partiti, sembra attendersi il rinnovamento della politica da quello che farà il governo Draghi. Come il capo del governo ha dimostrato nella sua finora unica conferenza stampa, esistono modalità di comunicazione efficace che, propongo questa chiave di lettura, prescindono totalmente dalle pratiche partitiche e che segnalano la necessità e possibilità di un loro superamento. In questo modo, però, il rischio è che la politica italiana non sarà trasformata e migliorata, ma verrà, anche molto al di là delle intenzioni del Presidente Draghi, sostanzialmente accantonata. Si entrerebbe in un ambito di esperienze inusitate dovendo peraltro costruire canali di comunicazione, di partecipazione e di influenza per i cittadini. Non è in nessun modo quello che gli attori partitici italiani stanno facendo al momento.

    Il Movimento 5 Stelle non è finora riuscito a darsi nuove modalità di leadership e non potrà risolvere i suoi problemi allontanandosi dai teleschermi. Giocare su due tavoli, quello di Salvini della “piazza” euroscettica e quello di Giorgetti, delle categorie produttive che dell’Unione Europea riconoscono necessità e utilità, non toglie la Lega dalla sua condizione di ambiguità. Giorgia Meloni può abilmente criticare queste ambiguità dall’alto della sua coerenza, ma la sua opposizione non si staglia in maniera speciale e si scontra con l’obiettivo di ricompattare il centro-destra. Il leader di Italia Viva vanta il suo ruolo di costruttore del governo Draghi, ma tutti ricordano come davvero incisivo quello di distruttore del governo Conte. Ad ogni modo per quanto ripetuto e ripetitivo quel vanto non contiene nessuna elaborazione strategica.

    “Tornare a vincere” è l’ambizioso proposito del neo-segretario del Partito Democratico Enrico Letta che, però, non ha ancora effettivamente ridimensionato il peso delle correnti delle quali è possibile dare un giudizio positivo soltanto di fronte alla comprovata capacità di elaborare idee. Invece, ad esempio, nelle città che andranno ad elezioni autunnali, come Roma, Bologna e persino Milano, non sembra esserci nessuna elaborazione di idee, ma esclusivamente scontri fra persone, con il sindaco di Milano che ha addirittura deciso di fare riferimento primario non al PD, ma ai Verdi Europei. Certo, con Letta ci si potrebbe limitare ad affermare “ce n’est qu’un début”, ma forse è più opportuno criticare la mancanza di visione strategica un po’ in tutti i partiti. La crisi della politica partitica continua. Il suo superamento non è dietro l’angolo.

Pubblicato il 21 marzo 2021 su Domani