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Meglio non sballottare il voto francese @formichenews

Sconsiglio gli esercizi di comparazione con la situazione italiana fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno, e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Le notizie su Emmanuel Macron “sorpassato” da Marine Le Pen si sono rivelate largamente esagerate, cioè sbagliate. Le già non elevate probabilità che il Rassemblement National, almeno apparentemente diventato meno sovranista e anti-Unione Europea, riesca a portare all’Eliseo la sua leader sono chiaramente diminuite. I numeri, direbbero i francesi, cantano. Possiamo ascoltare più di una canzone. La prima è rimasta sottovoce. Quando vanno a votare quasi il 75 per cento dei francesi, tre su quattro, intonare la ripetitiva melodia sull’aumento dell’astensionismo significa, chiaramente, “steccare”. Dopodiché, ovviamente, al ballottaggio la partecipazione elettorale diminuirà poiché un certo numero di francesi, avendo perso il loro candidato/a preferito/a si asterrà- Macron/Le Pen? ça m’est égal! La seconda canzone viene proprio dai numeri. Nel pur molto affollato campo dei concorrenti il Presidente Macron aumenta i suoi voti di quasi un milione rispetto al 2017, mentre l’aumento di Marine Le Pen è di circa 500 mila. A sua volta anche Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto mezzo milione di voti in più rispetto a cinque anni fa. Tutti gli altri candidati, a cominciare dal destro Eric Zemmour, sono chiaramente perdenti, talvolta come la repubblicana gollista Pécresse e la socialista Hidalgo, in maniera umiliante più che imbarazzante.

   Registrato il non troppo ammirevole affanno con il quale i commentatori italiani tentano di trarre qualche lezione francese, risulta opportuno segnalare che domenica 10 aprile si è svolto il primo turno dell’elezione popolare diretta in una repubblica semi-presidenziale. Gli elettori hanno votato, come sanno gli studiosi, in maniera “sincera”, senza nessun calcolo specifico scegliendo il candidato/a preferito/a. Al ballottaggio, invece, una parte tutt’altro che piccola di loro, addirittura quasi la metà, sarà costretta a votare “strategicamente”, in buona misura contro il candidato/a meno sgradito/a. Rimanendo nel campo musicale, il “là” lo ha già dato Mélenchon: “mai la destra”. Naturalmente, nient’affatto tutti i suoi 7 milioni e seicentomila elettori torneranno alle urne. Tuttavia, è molto improbabile che coloro che lo hanno votato perché “anti-sistema” ritengano gradevole che il sistema venga fatto cadere sotto i colpi della destra lepenista.

   Non c’è quasi nulla di cui le destre italiane abbiano di che rallegrarsi. Certamente, Meloni potrebbe sostenere che con il presidenzialismo, che i suoi titubanti alleandi (Salvini e Bersluconi) non le hanno sostenuto, la sua leadership apparirebbe molto visibile (ma poi improbabilmente vincente). Non so quanto Fratoianni, sicuro anti-semipresidenzialista, voglia e possa godersi il voto conquistato da Mélenchon. Sono sicuro che Letta può tirare un sospiro di sollievo, ma saggiamente sa che, guardando oltre il ballottaggio, conteranno i voti per le elezioni legislative francesi che con molta probabilità confermeranno una maggioranza operativa per un vittorioso Macron.

In conclusione, tuttavia, sconsiglio questi esercizi di comparazione fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno (che, forse, Formiche mi inviterà a commentare) e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. “Mogli e voti di casa tua” (antico detto provenzale).

Pubblicato il 11 aprile 2022 su Formiche.net

E/Lezioni francesi

1. Il ballottaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica si svolge fra due candidati. Non ha nulla, proprio nulla a che vedere con il ballottaggio previsto nell’Italicum che si sarebbe svolto fra due liste/partiti e che avrebbe dato un cospicuo premio in seggi al vincente.

2. Nel ballottaggio francese a sostegno dei due candidati rimasti in lizza possono andare e sono andati alcuni dei candidati sconfitti. Fin da subito il socialista Benoît Hamon (2.268.738 voti) e in seguito il gollista François Fillon (7.126.277) hanno invitato a votare Macron. Dal canto suo, Marine Le Pen ha ottenuto l’appoggio di Dupont-Aignan (1.689.666). Invece, Mélenchon (7.011.381) ha annunciato il liberi tutti ai suoi elettori i quali, a giudicare dall’esito, gli hanno, almeno in parte, non proprio piccola, disobbedito, com’è giusto che sia.

3. Il ballottaggio è una sottospecie del doppio turno che, infatti, per le elezioni legislative (11 e 18 giugno) prevede che possano passare al secondo turno tutti i candidati che superano in ciascun collegio uninominale la soglia del 12,5 per cento degli aventi diritto a votare. Non ci sono candidature multiple né, naturalmente, candidature bloccate. Il problema per Macron, leader senza partito, ma con migliaia di collaboratori/sostenitori nella campagna elettorale, consisterà nel trovare 577 candidati per i collegi uninominali oppure di raggiungere accordi con i socialisti, che hanno molti deputati uscenti, desiderosi di rientrare, con i centristi, pochini, e, eventualmente, con i gollisti. Quasi sicuramente la stragrande maggioranza dei candidati lepenisti riusciranno ad ottenere più del 12,5 per cento dei voti e passeranno al secondo turno. Niente ballottaggio, allora, ma competizioni quantomeno triangolari.

4. Emmanuel Macron ha vinto in maniera molto netta: 20.753.704 voti (66,06) molto più che raddoppiando il numero dei voti ottenuti al primo turno. Ha vinto in 26.044 comuni contro i 9.194 comuni che hanno dato la maggioranza a Le Pen. Ho conquistato il 90 per cento dei votanti nella città di Parigi. Naturalmente, questi dati e neppure le percentuali non possono in nessun modo essere paragonati ai dati della votazione per il segretario del Partito Democratico.

5. Non è vero che Macron il “banchiere tecnocrate” ha sconfitto Le Pen la populista. Macron è molto di più di un banchiere. È un europeista con esperienza di governo. Marine non è soltanto e neppure esclusivamente una populista. È una donna di destra, nazionalista, solidamente impiantata in una tradizione politica francese autoritaria nella quale ci stanno la xenofobia e il senso di superiorità culturale che per non pochi sostenitori degenera in una non sempre modica dose di razzismo.

6. Il clivage (uso opportunamente la parola francese per frattura) più profondo fra Macron e Le Pen è stato quello relativo all’Unione Europea. Per la prima volta, un candidato ha fatto una campagna elettorale “senza se e senza ma” sulle sue posizioni, convinzioni e proposte europeiste. Il precedente del referendum del 2005 sulla Costituzione europea, quando una divisione interna ai socialisti che ne bocciò la ratifica, era assolutamente preoccupante. Macron ha sconfitto anche il passato, ma molti elettori di Mélenchon non debbono averlo votato proprio per il suo europeismo. Al proposito, nessun leader italiano si è mai espresso così positivamente sull’Unione Europea. No, Macron n’habite pas en Italie. Macron non abita qui. Stupefacente e indimenticabile la scelta di far risuonare l’Inno dell’Unione Europea dalla Nona Sinfonia di Beethoven al suo primo discorso da Presidente. In Italia, il capo del governo che ha preceduto Gentiloni fece rimuovere la bandiera dell’Unione in occasione di una sua conferenza- stampa.

7. In attesa delle elezioni legislative è fin d’ora possibile sottolineare che chi davvero vuole riformare le istituzioni italiane deve tornare a confrontarsi con la Repubblica semipresidenziale francese: regime aperto, solido, competitivo, che contiene le condizioni per cambiamenti incisivi ed efficaci rispondenti alle preferenze degli elettori. Il resto è soltanto fastidiosissimo chiacchiericcio. Rien de rien.

Pubblicato l’8 maggio 2017 su PARADOXAforum

Cosa insegna la vittoria di Macron a Renzi e Berlusconi. Parla il prof. Pasquino

Intervista raccolta da Andrea Picardi per Formiche.net

Qual è la lezione che i partiti italiani possono trarre dall’esito delle presidenziali francesi? E in che modo la netta affermazione di Emmanuel Macron e la sconfitta di Marine Le Pen potranno impattare sul nostro sistema politico? Formiche.net ha posto queste domande al politologo e scienziato politico Gianfranco Pasquino che in questa conversazione ha anche analizzato le ragioni di un risultato destinato a cambiare le sorti del Vecchio Continente.

Professore, dalla prospettiva italiana questo risultato come può essere visto?

Per prima prima cosa è giusto ricordare che stiamo parlando di una Repubblica semi-presidenziale e di un’elezione presidenziale che si svolge con un ballottaggio. E’ tutto distantissimo dall’Italia.

Ma che cosa ci dice quel voto?

Ci dice che se cambiamo le regole del gioco è anche possibile che ci siano dei giocatori nuovi. Ci dice che gli elettori sono donne e uomini intelligenti che guardano i candidati e che alla fine scelgono il migliore. Ci dice che il ballottaggio conduce a votare al primo turno in un certo modo e al secondo in maniera anche molto diversa in virtù della mutata offerta politica.

Dalle parti del Pd – Matteo Renzi in testa – si sta rimpiangendo il ballottaggio che era previsto dall’Italicum. Che ne pensa?

A mio avviso l’Italicum era un pessimo sistema elettorale, il cui ballottaggio non aveva nulla a che vedere con le elezioni presidenziali francesi. Era un ballottaggio solo eventuale fra due partiti e non tra due coalizioni. In più quel ballottaggio attribuiva un premio di maggioranza a un partito, ma non eleggeva nessuno.

Cosa ha pensato quando ha visto Macron sfilare accompagnato dall’inno dell’Unione europea?

E’ stato il momento più emozionante. Tra l’altro Beethoven è un tedesco: tendo a pensare che si trattasse di un sorta di anticipazione rispetto a quello che accadrà. Francia e Germania unite per ridare impulso all’Unione europea. D’altronde sono gli unici Paesi che possono farlo. Gli altri Stati un po’ si acquattano, un po’ borbottano e un po’ parlano di europeismo ma in maniera semi-populista come fa Matteo Renzi.

Con il loro voto i francesi hanno voluto dire sì all’Europa?

Per la prima volta – con una maggioranza cospicua – hanno scelto l’Europa, che infatti costituiva il cardine del programma di Macron. E’ un risultato straordinario per la storia francese, basti pensare al referendum del 2005 in cui fu bocciata la Costituzione europea. Oggi la situazione è cambiata in maniera molto significativa e ciò va tutto a onore di Macron: ora vedremo come utilizzerà questa percentuale.

Ritiene l’europeismo una carta elettorale che sia possibile giocare con successo anche in Italia?

Sì ma ad alcune condizioni specifiche: innanzitutto è necessario conoscere veramente l’Europa e farla finita con gli attacchi ingiustificati. C’è chi li chiama eurocrati o burocrati ma i commissari europei sono ex capi di governo o ex ministri dei rispettivi Paesi: qualcuno, magari, potrebbe spiegarlo a Renzi.

E le altre condizioni?

La si può giocare a patto di essere credibili a livello europeo: un’operazione difficile per l’Italia visto che costantemente non manteniamo gli impegni assunti. Ed è anche necessario essere davvero europeisti e, quindi, adottare politiche che siano coerenti con questa impostazione. Non mi sembra che tutto ciò vi sia stato nei tre anni di governo di Matteo Renzi, né ad esempio l’ho sentito ieri durante il suo discorso all’Assemblea del Pd. Per rispondere, in definitiva, le direi che, certo, questa carta può essere giocata. A condizione però che vi sia un giocatore in grado di farlo.

E chi potrebbe essere? L’Italia a suo avviso è pronta a votare una proposta politica convintamente europeista?

L’elettorato non è pronto a votare una proposta in stile Macron – molto netta e molto chiara – perché nessuno ha dissodato il terreno europeo fino in fondo. Mentre in Francia il 68% dei cittadini ritiene che l’Europa sia qualcosa di positivo, in Italia siamo intorno al 50%. Ciò significa che c’è moltissimo da fare. Non vedo nessuno che possa compiere un percorso simile: di Renzi le ho detto, ma non vedo questa proposta europeista forte neppure ad esempio da parte di Andrea Orlando o di Roberto Speranza. Il più europeista dei ministri è Carlo Calenda che è certamente competente: gli italiani, però, si sono molto disaffezionati ai tecnici.

La sfida tra Macron e Le Pen segna l’inizio di un nuovo bipolarismo? Non più centrodestra contro centrosinistra ma europeisti contro sovranisti?

Credo di no, neppure in Francia: Marine Le Pen è prima di tutto un leader politico di destra. Non è finita. Bisognerà invece verificare come si ridefinirà il sistema dei partiti francesi: all’interno dei gollisti – anche tra gli elettori – c’è una parte che guarda a Le Pen mentre a sinistra c’è molto da fare per recuperare coloro che hanno votato Jean-Luc Mélenchon al primo turno e che poi non hanno votato Macron al ballottaggio. In questo senso la prima tappa fondamentale saranno le elezioni legislative del prossimo giugno.

Perché in Francia c’è stata questa decomposizione del sistema politico?

E’ dipesa anche molto dalla crisi delle leadership: Francois Hollande è stato un presidente molto debole, non aveva alcun risultato significativo da rivendicare e per questo ha fatto bene a lasciare spazio ad altri. Francois Fillon, invece, si è cacciato in pasticci memorabili: i gollisti avrebbero potuto sostituirlo, non l’hanno fatto e hanno sbagliato. Il problema è nato dalla testa.

Dal punto di vista italiano la lezione principale è per il centrodestra? Cosa dovrebbe insegnare il risultato francese a Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi?

Ai primi due deve insegnare che con questo tipo di proposte potranno ancora crescere a livello di voti ma che non potranno mai vincere. Silvio Berlusconi deve invece capire che non può vincere se si limita semplicemente ad appoggiare Matteo Salvini e Giorgia Meloni: deve convincerli ad avere una posizione che sia, per così dire, di destra moderata. E, quindi, non eccessivamente anti-europeista e anti-immigrati.

E il M5S? E’ stato l’unico partito a non essersi ufficialmente schierato. Ha fatto bene?

Probabilmente sì. Forse si sono resi conto di non conoscere il contesto politico francese abbastanza da potersi schierare…

Ma secondo lei, alla fine, sono più simili a Macron o Le Pen?

Abbiamo ormai imparato che il MoVimento 5 Stelle è quello che si definisce un partito pigliatutti. Al suo interno ci sono moltissime posizioni. Probabilmente la maggior parte è orientata a sinistra: molti dei suoi elettori – se non ci fossero i pentastellati – voterebbero un qualche partito di sinistra: Articolo 1, Sinistra Italiana, e ovviamente anche il Pd. C’è però un 25% di elettori di destra che su alcune tematiche potrebbero anche essere considerati più vicini a Salvini o Meloni. Se non fosse così prorompente la figura di Berlusconi, forse voterebbero persino Forza Italia. Per questo ritengo che non siano assimilabili né all’uno né all’altra.

Molti osservatori, però, tendono a identificarli con Le Pen.

Non sono simili alla Le Pen. Sostenerlo, a mio avviso, è un errore.

Anche il sistema politico italiano è in via di ridefinizione come quello francese? Oppure da noi quel processo si è già compiuto soprattutto con l’emergere del Movimento 5 Stelle?

Il nostro sistema partitico è già decomposto. Persino il Pd – l’unico partito che possa definirsi tale – non è solido: è attraversato da notevoli tensioni interne e sta rimanendo unito – non del tutto, peraltro – anche perché detiene il potere politico. Sarei però curioso di vedere cosa succederebbe in caso di sconfitta alle elezioni. Il M5S certo non è consolidato: vive sul sentimento di insoddisfazione nei confronti della politica e sull’idea che spazzeranno via tutti. Gli altri invece sono partiti personalistici: Fratelli d’Italia è Giorgia Meloni, la Lega Matteo Salvini, Forza Italia Silvio Berlusconi. Pure Alternativa popolare in fondo è Angelino Alfano e, non a caso, abbiamo parlato a lungo di verdiniani e così via.

Pubblicato l’8 maggio 2017 su formiche.net

Sistemi partitici che cambiano, talvolta in meglio

No, in Francia non è già avvenuto tutto. È probabile che Macron vinca al ballottaggio, ma è anche probabile che, pur perdendo, Marine Le Pen sfondi il tetto di voti finora ottenuti da quello che è un partito tradizionale. Il Front National ha un’organizzazione, una presenza sul territorio, iscritti, militanti e eletti a livello locale. Quindi, no, almeno questo partito “tradizionale” non scomparirà; anzi, forse, si rafforzerà. No, non sono scomparsi neppure i gollisti e i socialisti. Certamente, sono andati molto male, soprattutto i socialisti, ma non dimentichiamo che la competizione nelle elezioni presidenziali francesi è fra candidati non fra partiti. Il candidato gollista François Fillon, appesantito da un molto riprovevole uso del denaro pubblico per ricompensare moglie e figli di collaborazioni mai avvenute, ha comunque ottenuto quasi il 20 per cento dei voti. Il bacino elettorale del socialista Benoît Hamon, già ridimensionato dalla pessima presidenza del suo compagno di partito Hollande, che, del partito non si era proprio curato, è stato largamente prosciugato sia verso il centro, da Macron, sia a sinistra, da Mélenchon. È vero che Gollisti e Socialisti hanno dominato la politica francese per sessant’anni, ma i gollisti non sono mai stati un partito davvero tradizionale e i Socialisti esistono nella loro forma, quella di un partito plurale, variegato e con differenze significative al loro interno (che hanno impedito a Lionel Jospin di giungere al ballottaggio nel 2002) dal non lontano 1971. Tutto il resto lo vedremo.

Per intenderci, il sistema partitico francese si sfalderà come sembra essere successo nelle elezioni del 2016 al sistema partitico spagnolo dove sia i Popolari sia, un po’ di più, i Socialisti hanno subito perdite gravi e hanno visto emergere concorrenti a sinistra e al centro? Qualcuno può fare finta di niente e credere che il sistema partitico italiano attuale sia solido e consolidato? Abbiamo dimenticato che democristiani e comunisti scesero a livelli elettorali molto bassi già nel 1994 e che il loro maldestro tentativo di costruzione del Partito Democratico ha prodotto, nelle spesso citate e molto appropriate parole di Massimo D’Alema, ”un amalgama mal riuscito” che, pochi mesi fa ha anche subito una scissione? Però, nelle democrazie europee esistono anche sistemi partitici piuttosto stabili: da, ovviamente, quello del Regno (ancora per quanto?) Unito alla Germania e, per fare solo un altro esempio da non snobbare, nel Portogallo, repubblica semipresidenziale come la Francia. Comunque, è chiaro che, dopo molti decenni di democrazia, gli elettorati sono cambiati e le sfide degli ultimi dieci anni hanno lasciato un segno che va nel senso della richiesta di qualcosa di nuovo che può anche non funzionare creando ulteriore delusione e insoddisfazione.

Nel caso francese, l’insoddisfazione ha la possibilità di esprimersi in maniera molto efficace già da giugno nelle elezioni legislative. Grazie ai collegi uninominali e al sistema elettorale maggioritario a doppio turno, nel quale i candidati possono passare al secondo turno qualora superino la soglia del 12,5 per cento degli aventi diritto (dunque, non si tratta di un ballottaggio che è tale quando riservato ai primi due), i partiti tradizionali potranno recuperare grazie ai loro candidati che, in molti casi, sono parlamentari uscenti, quindi noti agli elettori dei rispettivi collegi. Toccherà a Macron costruire alleanze per i suoi candidati e convergenze su altri candidati, probabilmente configurando in questo modo la maggioranza parlamentare di cui ha bisogno per governare nei prossimi cinque anni. Insomma, Macron “formez vos battalions” et on verra. Le buone istituzioni francesi e l’ottimo sistema elettorale promettono, non disastri, ma cambiamento positivo.

Pubblicato il 24 aprile 2017 su                Italianinelmondo.com 

Immagine dal sito wide-wallpapers.net

Avanza chi capisce la lezione #Francia

C’è qualcosa di patetico nei commenti, di politici e giornalisti, al primo turno (sottolineo primo), delle elezioni presidenziali francesi. No, non ha vinto Marine Le Pen, come sembra sostenere Salvini. No, non è andato bene neppure Jean-Luc Mélenchon, come pensa Stefano Fassina, che suggerisce l’astensione al ballottaggio come se fra Le Pen e Macron la (sua) sinistra potesse/dovesse dichiararsi equidistante. No, Emmanuel Macron non è Renzi (meno che mai un giovane Berlusconi). Non è né il nuovo che avanza né un politico senza esperienza. Ha soltanto capito, ma questa è una lezione importantissima, per tutti, che era cosa buona e giusta sfidare chi non si mostrava sufficientemente europeista e che, in Francia, esiste un elettorato che vuole una guida di centro-sinistra, rassicurante e non aggressiva, competente e non improvvisata. Poiché in un’elezione presidenziale conta anche e molto la personalità del candidato, Macron ha goduto di tre elementi positivi. Primo, la sfida più credibile alla sua persona era/è rappresentata da Marine Le Pen, destra estrema, nazionalista, sovranista, xenofoba prima ancora e più che semplicemente populista. Secondo, i socialisti hanno pagato il prezzo, alto, delle troppe inadeguatezze della Presidenza di François Hollande e della non brillante candidatura di Benoît Hamon, piombato a una percentuale simile a quella che, nel 1969, con l’allora sindaco di Marsiglia Gaston Defferre, segnò la fine di quella che si chiamava Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (SFIO). Su quelle ceneri, due anni dopo, François Mitterrand costruì il Parti Socialiste. Dunque, non è affatto detto che il socialismo sparirà dalla faccia della Francia. Terzo, la mancata rinuncia alla candidatura del gollista François Fillon, troppo disinvolto nel suo nepotismo (soldi alla moglie e ai figli per collaborazioni parlamentari mai effettuate), ha spinto non pochi elettori a preferirgli proprio Macron.

Sembra abbastanza scontata la vittoria di Macron al ballottaggio, che si svolge fra due candidati alla Presidenza della Repubblica e non ha quindi nulla da vedere con l’ex-ballottaggio dell’Italicum, sperabilmente defunto per sempre, che si sarebbe svolto fra due partiti per ottenere più seggi in Parlamento. Tuttavia, poiché i voti contano, anche se bisogna saperli contare, l’esito numerico avrà grande importanza. Il ballottaggio 2017 è significativamente diverso da quello che ebbe luogo nel 2002 quando la sinistra, esclusa per suoi enormi errori di calcolo e politici, fu obbligata a convergere sul gollista Chirac contro Jean-Marie Le Pen, più estremo e più sgradevole di sua figlia Marine. Non è affatto detto che tutti gli elettori del gollista Fillon andranno a votare Macron. Potrebbero semplicemente astenersi, in questo modo, però, indirettamente favorendo Marine che gode di quello che è un consenso consistente, fortemente motivato e stabile. Sono possibili, anche prevedibili, ma non calcolabili, astensioni di sinistra, di alcuni/molti elettori di Mélenchon. Insomma, Macron ha ancora molto da lavorare. Lo deve fare anche in prospettiva delle elezioni legislative, di cui si dovrà parlare a suo tempo, poiché, essendo praticamente privo di un partito organizzato, avrà qualche difficoltà, a meno che non stringa molti accordi con i socialisti, nel presentare suoi candidati (o candidati concordati) in tutti i 577 collegi uninominali della Francia e dei territori d’oltremare.

È vero che il sistema partitico francese sembra essersi sostanzialmente sfaldato, ad eccezione del Front National, ma la ricomposizione potrebbe essere incentivata proprio dall’imperativo, che il centro-sinistra francese non potrà eludere, di candidature comuni in molti/ssimi collegi uninominali. Questa, probabilmente, è la lezione più importante che i tuttora incerti e maldestri riformatori elettorali italiani dovrebbero imparare. A meno che vogliano tenersi un sistema partitico malamente destrutturato senza nessuna leadership legittimata, come sarà il prossimo Presidente francese, dal voto dei cittadini.

Pubblicato AGL il 25 aprile 2017

Cosa si può imparare dalla Francia

Le elezioni presidenziali francesi possono offrire molte lezioni importanti anche per l’Italia. Prima lezione: non bisogna identificare il populismo con Marine Le Pen. Certamente, la candidata del Front National usa argomenti che sono anche populisti, ma il suo consenso elettorale dipende da due elementi. Da un lato, Marine Le Pen rappresenta l’estrema destra francese che ha una lunga, qualche volta brutta, storia di nazionalismo, di sovranismo, anche se non si chiamava così, di anti-semitismo. Dall’altro, sfrutta, proprio grazie all’esaltazione dello sciovinismo (Chauvin era francese) sovranista, tutte le pulsioni contro l’Unione Europea. Più che fare appello al popolo, chiama a riscossa la nazione. Seconda lezione: dopo la deludente esperienza presidenziale di François Hollande, i socialisti si sono nuovamente divisi andando a sinistra con Benoît Hamon e occupando una parte del centro con Emmanuel Macron, già ministro in un governo socialista. Nel 2002, la divisione dei socialisti impedì addirittura a Lionel Jospin che, pure, era stato un buon Primo ministro, di andare al ballottaggio. Anche questa volta, i sondaggi dicono che il candidato socialista ufficiale non andrà al ballottaggio superato da Emmanuel Macron, mentre parte della sinistra, quella “non sottomessa”, farà convergere i suoi voti sul 65enne Jean-Luc Mélenchon che, per l’appunto, usa quello slogan elettorale. In buona sostanza, terza lezione, dal centro-sinistra alla sinistra finirebbero per esserci circa il 60 per cento di voti divisi fra tre candidati. Peggio di tutti sembra stare il candidato gollista, Françosi Fillon, appesantito dalla sua personale e familiare (prebende a moglie e figlio) modica, ma non per questo scusabile, corruzione e, forse, dal peso della storia di un partito gollista che, quarta lezione, non si è rinnovato in programmi e in facce. Il gollismo senza de Gaulle sembra davvero giunto al capolinea.

La competizione fra cinque candidati andrà sbrogliata dagli elettori che grazie a un ottimo sistema elettorale, quinta importante lezione, hanno un doppio voto molto pesante. Al primo turno avranno la possibilità di votare per la candidatura che davvero preferiscono. Si comporteranno in questo modo certamente e compattamente tutti gli elettori del Front National cosicché è possibile che Marine Le Pen risulti la più votata. Lo faranno anche i gollisti sperando in qualche molto improbabile imprevisto che consenta a Jacques Fillon di piazzarsi secondo. Saranno gli elettori socialisti quelli obbligati a riflettere se correre il rischio, votando Hamon, non solo di non riuscire a farlo andare al ballottaggio, ma di fare mancare a Macron quel pugno di voti che renda lui secondo. Dopodiché, tutti i sondaggi dicono che se il ballottaggio sarà fra Le Pen e Macron, al candidato di centro-sinistra la maggioranza degli elettori offrirà la chance di (ri)mettere “in marcia” (questo è il suo slogan elettorale) la Francia. Qui sta il grande pregio, ultima lezione, del sistema elettorale francese usato per le elezioni presidenziali: quello di consentire agli elettori di votare “sinceramente”, per la candidatura preferita, al primo turno, e “strategicamente”, vale a dire, eventualmente per la candidatura meno sgradita, al ballottaggio. Per di più, fra il primo e il secondo turno, gli elettori ottengono dai candidati, dai loro partiti, dai mass media una grande quantità di informazioni aggiuntive che consentirà loro di formarsi un’opinione più rispondente alla competizione e alle conseguenze della vittoria dell’uno o dell’altra. Questa crescita delle informazioni grazie alle clausole del sistema elettorale è qualcosa che un po’ tutti vorremmo e apprezzeremmo. Sarebbe consigliabile che i dirigenti di quel che rimane dei partiti italiani e i parlamentari guardassero alla Francia invece di affannarsi a cercare una legge elettorale che dia loro vantaggi, magari anche a scapito del potere degli elettori. Non la troveranno. Dunque: Vive la France républicaine!

Pubblicato AGL il 19 aprile 2017