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Il Festival di Sanremo sposta davvero gli italiani a sinistra? @DomaniGiornale


Sembra che sul palco del Festival di Sanremo siano state dette molte cose di sinistra. Sembra che sia di sinistra anche strappare una imbarazzante foto di attuale sottosegretario di Fratelli d’Italia con camicia nazista. Ma, a parere di alcuni commentatori di destra il massimo della ritornante egemonia culturale della sinistra (sic) sarebbe stato raggiunto in quello che a me e al Direttore di questo giornale è parso lo sgangherato e un po’ ripetitivo monologo di disinvolto elogio alla Costituzione fatto da Benigni (il comico che nel 2016 annunciò di votare a favore delle stravolgenti riforme renziane alla “Costituzione più bella del mondo”). “Salvare” la Costituzione dal progetto malamente considerato eversivo di una trasformazione semi-presidenziale. E poi dicono che Macron, Presidente di una Francia semipresidenziale, è troppo suscettibile: gli danno del leader autoritario! Di sessualità fluida et similia poco so, ma credo che nessuno di quei dodici milioni di telespettatori, un quinto degli italiani, i restanti quarantotto milioni hanno preferito fare altro, si sia “buttato a sinistra” (copyright il principe de Curtis) vedendo alcune immagini conturbanti.
Nel passato, il Festival di Sanremo non incrinò e non rafforzò l’egemonia nazional-popolare della Democrazia Cristiana e non mise mai in crisi l’egemonia culturale della sinistra. Anzi, con il passare del tempo tutti (o quasi) dovrebbero porsi il duplice problema storico se nell’Italia repubblicana è davvero esistita l’egemonia culturale della sinistra, ovvero dei partiti di sinistra, dei loro dirigenti, dei loro intellettuali di riferimento, delle loro idee e quale sia stato l’impatto di quella egemonia sulla vita e sulla cultura degli italiani. So di sollevare un interrogativo enorme al quale probabilmente persino Gramsci sarebbe riluttante a formulare una risposta. Ma, se l’egemonia culturale ha bisogno quasi per definizione di intellettuali, più o, molto meglio, meno “organici”, continua a rimanere vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini (e delle influencer), quali intellettuali (di sinistra) hanno frequentato l’ultimo di Festival di Sanremo? E quali intellettuali di destra avrebbero dovuto essere invitati in alternativa, a fare da contrappeso (il dibattito nooooo)?
Mi accorgo che sto personalizzando, ma, se si è interessati a capire l’evoluzione dell’egemonia culturale, del confronto e dello scontro di idee, di progetti, di visioni di società, non solo è indispensabile personalizzare, ma bisogna chiedersi se esistono ancora grandi intellettuali o “scuole di pensiero” in grado di produrre cultura, di reclutare adepti, di influenzarli e orientarli, e di egemonizzare i dibattiti e la vita culturale del paese e di chi distribuisce cultura “per li rami”. Certo qualcuno direbbe che sono scomparse le ideologie del passato. La loro storia è davvero finita. Siamo tutti più poveri, ma anche, forse, più liberi. Allora, sarebbe forse opportuno chiedersi se siano riformulabili ideologie coinvolgenti e trascinanti e se esistano i formulatori, gli intellettuali pubblici che al pubblico, all’opinione pubblica si rivolgono e in maniera trasparente segnalano come è politicamente e eticamente consigliabile e auspicabile stare insieme/interagire nella società globalizzata.
Molte destre e qualche sinistro rispondono con il sovranismo che ideologia è, ma a contatto con le dire lezioni della storia (Hegel) scricchiola, traballa e cerca di adeguarsi. Qualcuno, anche tramite l’ultranovantenne Jürgen Habermas si aggrappa al “patriottismo costituzionale” non privo di ambiguità e inconvenienti. La mia risposta è che l’europeismo, come storia, comecomplesso di valori, come pluralismo e pluralità di obiettivi, può essere. non una nuova ideologia, totalizzante e costrittiva, ma la cultura politica di riferimento. A Sanremo non s’è vista neanche l’ombra dell’europeismo. Fuori, in molte località, centri di ricerca e università, persino nelle sedi radiotelevisive e giornalistiche si trovano studiosi e operatori spesso anche dotati di capacità, in grado di cantare le lodi dell’Unione Europea e dell’idea d’Europa. Però, mancano i predicatori dell’europeismo possibile e futuro: Jean Monnet, Altiero Spinelli, Jacques Delors. Oggi e domani non dovrebbe preoccuparci nessuna inesistente egemonia, ma dovremmo dolorosamente sentire la diffusa mancanza della materia prima sulla quale può nascere l’egemonia e l’assenza dei suoi facitori
Pubblicato il 14 febbraio 2023 su Domani
Sì a una vera Sinistra per una società più giusta e non sovranista #Europa
Internazionalista, attenta al lavoro e all’istruzione, abbattere le diseguaglianze: un articolo del politologo Gianfranco Pasquino per Globalist su come vorrebbe le sinistre d’Europa
“La sinistra non può essere sovranista, non può che essere internazionalista”. E deve ” concentrare sforzi e investimenti nel settore del lavoro collegandolo strettamente all’istruzione “. Lo scrive in questo articolo per globalist.it Gianfranco Pasquino: politologo, docente alla sede bolognese della Johns Hopkins University, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, accademico dei Lincei, è una delle voci critiche più sensibili e attente della scena politica italiana.
La sinistra e la società giusta in Europa
Le sinistre hanno un rapporto tormentato con l’Unione Europea. Come spesso nella loro politica nazionale, le sinistre variamente configurate cercano di combinare posizioni internazionalistiche con posizioni nazionaliste, difensive, se non addirittura, non scriverò affatto “loro malgrado”, sovraniste. La sinistra, però, non può che essere internazionalista. Ha l’obbligo politico ed etico di operare per il superamento dello Stato nazionale, causa prima delle due guerre civili europee e tuttora ostacolo principale ad una convergenza politica sovranazionale. Eppure, la convergenza, questo è già un tema da enfatizzare nella campagna elettorale, si trova fin dall’inizio dell’unificazione europea, quando alcuni grandi statisti, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, pungolati da Jean Monnet e Altiero Spinelli, seppero guardare molto avanti, ed è posta a fondamento di tutte le istituzioni europee.
Sottolineare l’importanza della libera circolazione di persone, capitale, merci e servizi è giusto. Tuttavia, molto di più l’accento va messo sul fatto inconfutabile che l’Unione Europea è il più ampio ed esteso spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo, ancora in espansione (poiché molte sono le domande di adesione). È anche il luogo nel quale uomini e donne godono delle maggiori opportunità di partecipazione politica incisiva– e coloro che non sfruttano quelle opportunità sono essi stessi parte del problema e non della soluzione. La sinistra dovrebbe, dunque, rivendicare con convinzione tutto quello che è già stato ottenuto, il cosiddetto acquis communautaire, prima di criticare l’esistente e di proporne, non il superamento, ma il perfezionamento.
Concentrarsi sul lavoro e l’istruzione
Due sono gli ambiti nei quali le politiche di sinistra sono argomentabili e fattibili. Sono ambiti nei quali in molte esperienze nazionali, la sinistra ha conseguito grandi successi e meriti. La rimodulazione del welfare state, per giovani e anziani, per disoccupati e sottooccupati, per donne e bambini, può essere proposta e ottenuta soltanto in una prospettiva europea che impedisca le rendite di posizioni e i vantaggi derivanti dagli squilibri fra gli stati che proteggendo meglio i loro cittadini sono esposti alle sfide di chi li protegge poco. Più specificamente è indispensabile concentrare sforzi e investimenti nel settore del lavoro collegandolo strettamente all’istruzione. Il secondo ambito è parte della sua storia, ma riguarda il futuro che la sinistra deve volere costruire, non tanto per la sua sopravvivenza, quanto per la sua visione: contenere e ridurre le enormi e crescenti diseguaglianze.
Le diseguaglianze incrinano la democrazia
Non è vero che la democrazia nasce promettendo l’eguaglianza, tranne l’eguaglianza di fronte alla legge. Piuttosto, è assolutamente certo che le diseguaglianze di ogni tipo incidono negativamente sulla democraticità di un sistema politico e sulla qualità della sua democrazia. La sinistra deve affrontare il compito di costruire eguaglianze di opportunità (al plurale), di intervenire non una sola volta, all’inizio, ma ripetutamente, per ricreare ad ogni stadio le opportunità necessarie. Qualsiasi operazione di questo genere richiede, non soltanto la volontà politica, che discende dalla capacità di “predicare” il valore delle eguaglianze di opportunità, ma soprattutto la consapevolezza che la sinistra deve mirare a dare vita e mantenere una società giusta, compito da svolgere e obiettivo conseguibile esclusivamente ad un livello più elevato, quello europeo.
La sinistra dei nostri desideri
In questa concezione, la sinistra non si arrovella sulle tematiche economiche salvo su quelle relative alla tassazione e alla redistribuzione, sottolineandone non la, talvolta troppo vantata, razionalità delle cifre, quanto, piuttosto, la loro utilizzazione al perseguimento di valori condivisi. Certo, le “parole d’ordine” efficaci, che dovranno essere accuratamente definite, riguarderanno la chiarezza degli obiettivi e il coinvolgimento incisivo dei cittadini europei che consentiranno di fare grandi passi avanti. La sinistra che sta nei miei desideri, sicuramente diffusi e condivisi in larga parte d’Europa, ha la possibilità di elaborare coerentemente il messaggio della società giusta.
Pubblicato il 17 febbraio 2019 su globalist.it
Una traccia di storia da bocciatura #maturità2018
Per fortuna, gli esami non finiscono mai. A settembre potrò ripetere la prima prova alla quale sono stato giustamente bocciato. Infatti, ho negato qualsiasi rilevanza al contributo di Aldo Moro alla costruzione dell’Europa. Ho scritto che, primo, citare un suo discorso del 1975, quando il Mercato Comune era già in esistenza da 18 anni, mi pareva anacronistico e, uh uh, ho ceduto all’esagerazione/esasperazione, aggiungendo addirittura: sbagliato. A quale fine poi? Costruire il santino di Aldo Moro? Ho sostenuto, secondo, che non è minimamente possibile mettere sullo stesso piano, per quel che riguarda l’Europa, De Gasperi e Moro. Lo statista trentino ha quasi tutti i meriti iniziali, ma, anche per questo, cruciali, mentre il politico pugliese arriva dopo, tardi e poco. Ad esempio, non è neppure citato nell’imponente indice dell’autorevole Oxford Handbook of the European Union (Oxford University Press 2012) dove De Gasperi ha quattro citazioni e Spinelli (appena menzionato nella Traccia) ne ha sei. Però, confesso subito, ma non faccio nessuna autocritica, anch’io neppure lo cito, Aldo Moro, nel mio volumetto L’Europa in trenta lezioni (UTET 2017). Terzo, in nessuno dei passaggi importanti dell’Europa: CECA, CEE (Messina, 25 marzo 1957) quando il ruolo centrale fu quello del Ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino, Euratom, si ricordano contributi specifici di Moro. Capisco i sensi di colpa, anche, evidentemente, degli estensori della Traccia, a meno che abbiano semplicemente, forse opportunisticamente, ceduto alla commozione per il 40esimo anniversario del suo assassinio ad opera delle Brigate Rosse, ma stravolgere la storia non è mai il modo migliore di ricordarla, insegnarla, farla imparare. Non vorrei che, di questo passo, qualcuno prossimamente chieda di scrivere sul contributo, certo anticipatore, di Moro alla caduta del Muro di Berlino.
Quanto alle motivazioni della spinta all’unificazione europea, la Guerra Fredda mi pare essere il classico cavolo a merenda e le due superpotenze non erano state invitate a quella merenda. Si trattava, invece, di evitare per sempre la guerra calda, ovvero la Terza Guerra Mondiale, togliendo come oggetto del conflitto il carbone e l’acciaio contesi da Francia e Germania. Nella prospettiva, non nella speranza, poiché Altiero Spinelli e Jean Monnet erano uomini d’azione, seppur con differenti stili e temperamenti, oltre che nella convinzione politica e etica che gli Stati nazionali avrebbero continuati a farse guerre sempre più sanguinose e devastanti, si trattava di superare quegli stati obsoleti e ostinati con una costruzione democratica di diritti e doveri, opportunità, prosperità e pace per i cittadini. Qui, probabilmente, avrei scritto qualcosa sui sovranisti che sono tecnicamente dei reazionari: vogliono tornare indietro, come se i loro piccoli stati avessero qualche chance di risolvere problemi difficili anche per l’Unione dei Ventisette. Almeno agli inizi, gli USA videro con piacere il tentativo europeo e non solo poiché l’Europa unificata avrebbe costituito un baluardo contro l’eventuale espansionismo sovietico, ma anche perché un’Europa pacificata e consolidata non avrebbe avuto bisogno di nessun intervento militare USA. Quei governanti USA conoscevano molto dell’Europa a differenza dei loro successori a partire da George W. Bush e dal palazzinaro Donald Trump.
Ad ogni buon conto, meglio essere rimandato a settembre, quando arriverò ancora meglio preparato, avendo studiato anche il ponderoso pensiero di Salvini, già Eurodeputato, perché desidero superare l’esame alla grande, non per il rotto della cuffia con qualche frase di circostanza. Chi sa poi potrebbe pure essere che queste mie risposte scarne e irritate abbiano suscitato qualche curiosità in alcuni commissari. Qualcuno di loro potrebbe avere deciso di leggere qualcosa di Spinelli e persino di Moro (ad esempio, quella che è forse, ancorché enormemente simpatetica, la biografia migliore: Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino 2016, dove la presenza dell’Europa è del tutto marginale) nella speranza dei commissari e, naturalmente, mia che la prossima volta quando si chiederà agli studenti di scrivere sull’Europa ne sapranno di più perché i loro docenti ne avranno insegnato di più e meglio. L’Europa politica, sarebbe d’accordo persino Immanuel Kant, non è un sogno e neppure un destino al quale non riusciremo a sottrarci. È un progetto politico al quale molti italiani a partire da De Gasperi e Spinelli hanno dato un importante contributo. Per Moro cercheremo un’altra traccia in un altro di quegli esami che finiscono solo quando finisce la vita e con lei la possibilità di studiare e imparare.
Pubblicato il 28 giugno 2018 su PARADOXAforum
Trattato di Roma. Dal passato la lezione per andare avanti
Guardare indietro per meglio andare avanti? Celebrare il 60esimo anniversario del Trattato di Roma (25 marzo 1957) che lanciò il mercato comune dal quale si dipanò tutto il percorso che ha portato all’attuale Unione Europea è doveroso. E’ giusto farlo senza dimenticare le difficoltà degli ultimi sette-otto anni prodotte da fattori esogeni, che vengono da fuori: per l’economia, da quanto successo con il fallimento della Lehman Brothers negli USA; per la società, da ondate di migranti che lasciano i loro paesi poveri, ma anche molto oppressivi, talvolta lacerati da guerre civili. Quei migranti rendono uno straordinario omaggio all’Europa. Lo ritengono il continente che consentirà a loro e ai loro figli di vivere una vita migliore. Lo ha anche già consentito a tutti gli europei i quali, purtroppo, hanno la memoria corta e una inadeguata conoscenza della storia. Gli europei “occidentali” hanno dimenticato le condizioni dei loro paesi quando si accordarono per l’Europa dei sei; gli europei “orientali” hanno subito spinto sotto il tappeto i decenni nei quali furono oppressi dal comunismo.
Anche se non è sbagliato, ricordare i successi sembra servire a poco. I grandi europeisti, dal tedesco Adenauer all’italiano De Gasperi , dal francese Schuman al belga Spaak, da Jean Monnet a Altiero Spinelli riuscirono a proiettarsi con la riflessione e con l’azione nel futuro, non con sogni da realizzare, ma con impegni di tradurre in realtà. Hanno visto molto lontano. Le alternative attuali sono state descritte con grande chiarezza nel documento sui cinque scenari di fronte all’Unione Europea preparato dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker: 1. Avanti così; 2. Limitarsi al mercato comune; 3. Chi vuole faccia di più; 4. Fare meno in modo più efficace; 5. Fare molto di più insieme. Il quinto è lo scenario federalista, assolutamente improbabile a questo stadio, ma che Juncker fa molto bene a delineare poiché gli Stati Uniti d’Europa sono stati una motivazione potente e tuttora esistono Movimenti Federalisti Europei un po’ dappertutto, Italia compresa. Lo scenario che si sta lentamente affermando è il terzo, spesso definito come Europa a due velocità. In effetti, variazioni nella velocità dell’integrazione fra gli Stati-membri dell’Unione già esistono: sono 19 su 28 gli Stati che usano l’Euro. Sono 22 su 28 gli Stati che hanno firmato il Trattato di Schengen, ma alcuni hanno già sollevato obiezioni e imposto eccezioni.
E’ possibile, ma soprattutto auspicabile, che gli Stati più veloci procedano più rapidamente sul terreno sia della difesa e della sicurezza comune sia delle politiche fiscali e sociali, del welfare. L’Italia ha la possibilità di stare nel gruppo degli Stati più veloci. Anzi, cercare di rimanervi significherà spiegare agli italiani, al fine di ottenerne il necessario consenso, il significato delle politiche da attuare e dei sacrifici da fare. Nessuna politica europea è bizzarra, cervellotica, emanata soltanto perché fa comodo ad uno Stato, per quanto forte, come, per esempio, la Germania, ma perché è condivisa, dagli olandesi e dagli austriaci, dai danesi e dagli svedesi. Se, poi, gli Stati più veloci conseguiranno, com’è probabile, risultati molto positivi, ne seguirà un effetto di imitazione/emulazione. Dopo Brexit molti hanno pensato che l’imitazione si sarebbe scatenata per lasciare l’Unione Europea. Al contrario, adesso sono molti proprio in Gran Bretagna a pensare di avere sbagliato alla grande, mentre i paesi dell’Est Europeo, fatti i conti sui vantaggi che traggono dalla loro adesione all’UE, non manifestano nessuna propensione all’uscita. Debbono essere sfidati a impegnarsi a fare di più, a procedere più rapidamente. Hic Roma hic salta.
Pubblicato AGL 24 marzo 2017
A lezione su 60 anni di storia #DomenicaSole24Ore #Europa30Lezioni
All’indomani della fine dell’immane tragedia della guerra mondiale, con le macerie materiali delle città devastate e quelle morali quasi comprendiate nel male assoluto dei campi di sterminio che si andavano scoprendo, fu sogno e progetto di pochi, ma speranza e aspirazioni di molti la costruzione di un’Europa capace di far convivere in pace i propri popoli, individuando per questo le radici culturali comuni per condividerne i valori e tradurli in obiettivi politici e in conseguenti ordinamenti istituzionali.
Fu allora l’impulso di statisti come Schumann, De Gasperi, Adenauer, Spaak, che seppe cogliere una simile ansia di intrecciare in un’unica casa europea stati in azioni dilaniatisi fino a quel momento, di farla finita con gli egoismi di reciproca supremazia, di individuare la strada di uno sviluppo condiviso, di sottolineare l’assurdità delle contrapposizioni in un continente che trovava i suoi punti di riferimento, tra i tanti, nelle elaborazioni intellettuali degli illuministi, nelle musiche eterne di Beethoven, nei messaggi di pace di Kant, dell’insuperabile galleria di correnti artistiche succedutesi nei secoli ben oltre i confini geografici, nei ritratti della nostra comune umanità lasciatici da William Shakespeare.
E fu, allora, la CECA, per la quale molto si prodigò Jean Monnet, e poi l’Euratom, insieme alla Comunità Economica Europea, di cui ricorrono il 25 marzo i 60 anni dalla firma, a Roma, dei trattati istitutivi. Parve possibile, dunque, intraprendere un cammino che potesse coincidere con il programma federalista del Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli e da Ernesto Rossi nelle ristrettezze del confino e che fissò le fondamenta dei principi di libertà, di coesistenza fra diversi, di democrazia partecipata, di rispetto della persona.
Di tutto ciò ci parla, seguendone l’evoluzione fino al buio della Brexit e dei muri contro gli immigrati, Gianfranco Pasquino in un volume suddiviso in trenta limpide ” lezioni”, dove scorrono e si chiariscono tutti gli elementi che hanno modellato l’attuale Unione. Le ideologie, le politiche interne e internazionali, i Trattati e gli uomini che gli hanno interpretati, le istituzioni e i rapporti coi cittadini, le scelte economiche e i processi decisionali: in un susseguirsi di analisi che in nessun momento -nonostante le disillusioni dell’oggi-abbandonano le certezze dell’autore che ” l’Europa che c’è” sia comunque meglio di ogni altra soluzione intravista in antitesi, che sia uno spazio ineguagliato di libertà di circolazione di persone, di cose, di capitali, non meno che di sogni e di ideali. Certo che questa sua Europa ” durerà nel tempo”, “riuscirà a progredire in meglio per sé, per gli europei, per il mondo”.
Pubblicato il 19 marzo 2017 su DOMENICA ilSole24ORE
El proyecto político europeo #OPINIÓN #ElMundo
El proyecto político europeo tiene una larga y dificíl historia, pero también un futuro prometedor. La historia de la idea de Europa nace hace más de dos mil años con los griegos y sigue, más o menos visible, en la voluntad de poder de los emperadores romanos y de los Jefes de Estados europeos, y en las inspiraciones de grandes intelectuales y escritores. Nadie puede infravalorar la importancia y la fuerza de las ideas al recordar el pasado, interpretar el presente, y hacer un proyecto de futuro. El momento crucial para Europa tuvo lugar sobre los escombros de la Segunda Guerra Mundial, cuando algunos hombres de Estado, algunos grandes burócratas (entre ellos Jean Monnet) y ciertos políticos (Altiero Spinelli) iniciaron, al mismo tiempo, un proceso funcionalista (juntar los recursos y hacer crecer las ocasiones de cooperación económica) y otro federalista (empujar a los gobiernos hacia la cesión de poderes y partes de la soberanía en favor de algunas instituciones supranacionales). El camino federalista se paró en 1954 por una inédita alianza entre los comunistas y los gaullistas franceses que vetaron la Comunidad Europea de Defensa (una decisión que Europa todavía está pagando), mientras que el camino del funcionalismo avanzó con notable éxito: del Mercado Común y la Comunidad Económica Europea al nacimiento de la moneda única, el Euro.
En octubre 2012 se concedió a la Unión Europea el premio Nobel de la Paz por «sus progresos en la paz y en la reconciliación» y por haber garantizado «la democracia y los derechos humanos» en el Viejo Continente. En el comunicado oficial del premio se destacaba que la UE «ha contribuido a lograr la paz y la reconciliación, la democracia y los derechos humanos en Europa. Hoy una guerra entre Alemania y Francia sería impensable, y eso demuestra que a través de la mutua confianza, históricos enemigos ahora puedan ser amigos. Asimismo, la caída del Muro hizo posible la entrada en la Unión de los países de la Europa central y oriental, así como la reconciliación en los Balcanes y la perspectiva del ingreso de Turquía, todo lo cual representa un gran paso hacia la democracia». En suma, concluía la nota, «el papel de estabilidad jugado por la UE ha ayudado a que gran parte de Europa se transforme de un continente de guerra a uno de paz».
Estoy convencido que es posible sostener que el proyecto político europeo ha alcanzado, como señalan los observadores independientes, un primer gran objetivo: la paz. Además, mirando la historia económica de los seis países fundadores y de todos los Estados que poco a poco han pedido el acceso y han entrado en Europa, es posible afirmar que Europa ha conseguido otro objetivo también muy importante: la prosperidad. Con el paso del tiempo, todos los Estados miembros han crecido económicamente gracias a la intregración de muchos sectores de actividad. Las dificultades de la crisis del 2008, a causa de la política económica y bancaria de EE.UU, han producido graves consecuencias negativas que, sin embargo, probablemente hubieran sido peores sin la Unión Europea.
Al principio, el proyecto político europeo no tenía la ambición de liberar a los países de la Europa centro-oriental del comunismo, sino más bien de hacer más sólida y próspera la democracia dentro de la Unión. Pero, en seguida, por un lado el ejemplo de países que protegen y promueven los derechos de sus ciudadanos y garantizan su participación política, y por otro, su visible prosperidad económica, jugaron ciertamente un papel importante al hacer entrar en crisis a los regímenes comunistas. La Unión Europea es una gran sociedad abierta, para utilizar las palabras de Karl Popper; es el más grande espacio de civilización en el mundo, donde, por ejemplo, no existe y no se aplica la pena de muerte. Su ampliación a los países del Este y, en parte, también a los países Bálticos es otro jalón importante para el proyecto político europeo. Paz, prosperidad y democracia son éxitos extraordinarios, pero que no pueden considerarse alcanzados para siempre ni completamente.
Desde hace varios años, se han manifestado tensiones con respecto a la economía y a la democracia. Algunos europeos creen que las tensiones puedan desaparecer con una vuelta a las políticas nacionales. Se equivocan. Otros europeos piensan que la Unión ha ido demasiado deprisa. Por eso, en su opinión, habría que pararse y consolidar lo que tenemos, tranquilizando a los ciudadanos. También se equivocan. Desafortunadamente, ésta parece ser la política dominante: ganar/perder tiempo a la espera de que lleguen tiempos mejores. Un liderazgo verdaderamente europeo se debería comprometer en la construcción de esos tiempos mejores, pero parece que ningún gobierno u oposición europea ejerce un liderazgo que esté a la altura de ese desafío. Esta opción es la minoritaria entre los líderes, los intelectuales y los ciudadanos europeos. Otros sostienen que habría que seguir adelante, aceptando velocidades diferentes entre los países miembros, hacía una unificación política de Europa: hacia los Estados Unidos de Europa. En cualquier caso, hasta que se configure un pueblo europeo es necesario aumentar los intercambios culturales de todo tipo, incrementando programas como Erasmus y Sócrates. Hace falta que los partidos de las tres grandes familias europeas -cristiano-demócratas, social-demócratas y liberal-demócratas- hagan un política activa e incisiva de educación política entre los electores europeos, y no sólo con ocasión de las elecciones al Parlamento Europeo. Hace falta que las políticas económicas y las políticas sociales pasen a manos de la Comisión Europea, de forma que estén más controladas por el Parlamento Europeo y menos por los distintos parlamentos nacionales. En fin, hace falta que las instituciones europeas se reformen en el sentido de mostrar mayor transparencia y sensibilidad hacia los ciudadanos.
El proyecto político europeo contempla también la democratización de los procedimientos y de las decisiones. La burocracia europea tiene que ser como una casa de vidrio. Actualmente hay dos organismos europeos que han realizado y siguen realizando una gran contribución al proceso de la unificación económica y política: el Banco Central Europeo y la Corte Europea de Justicia. Es el círculo Consejo-Comisión-Parlamento el que tiene que mejorar y ser reestructurado. Su modo de funcionamiento tiene que mejorar para fortalecer las relaciones con los ciudadanos europeos. Todo esto es difícil que se alcance en un momento en el que, por un lado, hay que afrontar el desafío de milliones de inmigrantes que huyen de las guerras civiles y de la pobreza de sus países y, por otro, es urgente e indispensable demostrar que el proyecto político europeo tiene todavía mucha fuerza propulsiva. Nadie puede creer que sea fácil la operación de construir una Europa politicamente unida en un contexto donde existe una Babel lingüística, de culturas y tradiciones diferentes. Sin embargo, tampoco nadie puede negar que la operación está en marcha y ya ha dado muchos pasos hacia adelante. Pero hay que seguir. Frente a los populismos nacionalistas, las relaciones intergubernamentales, hoy tan frecuentes, pueden ofrecer resistencia, interponer obstáculos, pero no derrotarlos definitivamente. La política federalista sería la solución más eficaz. Es posible sostener que los Estados Unidos de Europa son nuestro destino, pero es un destino que sólo se podrá alcanzar mediante el trabajo y las transformaciones tanto institucionales como económicas, políticas como sociales, combinando los derechos y los deberes del ciudadano europeo. Europa será lo que sus ciudadanos quieran que sea.
Gianfranco Pasquino es profesor Emérito de Ciencia Política en la Universidad de Bolonia.
Publicado 13 de noviembre 2015 en la página 6 di El Mundo y en elmundo.es