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Lo stato della polizia @La_Lettura #447 @CorriereCultura
Ogni sistema politico, per fare rispettare le regole della convivenza, ha bisogno di strutture che contrastino i trasgressori. Ma le forze dell’ordine possono agire in modo fazioso o perseguire propri interessi diversi da quelli pubblici, specie se diventano corpi separati rispetto al contesto sociale
Quell’ordine politico che deve emergere una volta posto fine alla hobbesiana “guerra di tutti contro tutti” bisogna pure che qualcuno/qualcosa lo costruisca e lo faccia rispettare. Anche se quel qualcuno fosse un leader tirannico che fa valere il suo potere, ma a maggior ragione se si affermasse una forma di governo basata su un accordo di fondo, sarebbe indispensabile disporre di una struttura capace di prevenire e impedire violazioni dell’ordine, di bloccarne i responsabili, di portarli a punizione. Mantenere l’ordine politico significa proteggere i cittadini, la loro vita e la loro libertà. È una delle modalità con le quali lo Stato rivendica e esercita il monopolio legittimo della forza (Max Weber). Quel monopolio è legittimo perché acquisito secondo regole prestabilite, ma anche se e perché è utilizzato, senza favori, senza privilegi, senza eccessi, nell’interesse di tutti cittadini.
Tuttavia, c’è un’ambiguità costitutiva nella polizia come istituzione. Da un lato, ha il compito di proteggere i cittadini dalla violenza, anche quella dei rappresentanti dello Stato; dall’altro, deve proteggere lo Stato dalla violenza dei cittadini. In aggiunta, una volta istituzionalizzata, la polizia può sviluppare propri interessi, più che un semplice “spirito di corpo”, e finire, pericolo permanente, per proteggere soprattutto se stessa.
Storicamente, la struttura preposta al compito di garantire l’ordine all’interno di un sistema politico è stata definita polizia. È quasi certo che l’origine della parola debba essere fatta risalire ai termini greci polis e politeia (buongoverno). A lungo, in molti sistemi politici quel po’ di ordine che esisteva nelle città e nelle campagne veniva imposto da squadre di persone assoldate da chi poteva permetterselo, quindi, dai proprietari terrieri, dai signori nei loro castelli, dai capitani d’industria. Naturalmente, oltre ad operare al servizio di coloro che le avevano assoldate, queste squadre perseguivano anche interessi personali taglieggiando in vari modi le popolazioni. La svolta, sicuramente per quel che riguarda l’Inghilterra, avvenne nel 1832 con la creazione di un corpo di professionisti, la Civilian Metropolitan Force, al quale fu affidato il compito di fare rispettare la legge. L’ideatore di questa soluzione fu l’allora Ministro degli Interni Sir Robert Peel (1778-1850), in seguito due volte Primo ministro, cosicché gli appartenenti a questo corpo furono in un primo tempo chiamati Peelers, in seguito, più familiarmente, Bobbies. Gli oppositori obiettarono che l’esistenza di quel corpo di professionisti che controllavano le strade e i comportamenti limitava le libertà personali. La replica di Peel fu che lasciare la possibilità di svaligiare le case non era libertà e che l’occupazione notturna delle strade di Londra ad opera di vagabondi e prostitute non era esercizio di libertà.
Per la loro professionalità (conoscenze e competenze), la loro efficienza e la loro (intraducibile, forse, equità) fairness, i Bobbies divennero presto famosi e apprezzati come persone e operatori nei quali tutti i cittadini potevano (e dovevano) avere una fiducia. Una loro grande peculiarità, durata fino a pochi anni fa e condivisa, per esempio, dalla polizia della Norvegia e della Nuova Zelanda, è che non erano dotati di armi. L’equipaggiamento dei Bobbies è a lungo consistito unicamente in uno sfollagente e un fischietto. I poliziotti inglesi non sparavano e i delinquenti non sparavano ai poliziotti inglesi.
Altrove, mantenere l’ordine politico senza ricorrere alle armi è sempre stato molto più difficile anche per un’altra ragione: la polizia era spesso un corpo estraneo. In Gran Bretagna, i Bobbies erano sostanzialmente poliziotti di quartiere, in quel quartiere conosciuti, se non addirittura nati e vissuti, dagli abitanti del quartiere apprezzati. Senza fare troppo romanticismo, a lungo questo elemento di vicinanza fisica e sociale si è tradotto in fiducia e ha reso più complicate e più rare le azioni della microcriminalità: furti, borseggi, scassi. Nella grande maggioranza degli altri paesi, le autorità hanno spesso preferito che i poliziotti non avessero legami sociali né, tantomeno, familiari con gli abitanti del quartiere. Dovevano essere e sentirsi separati da quella società, in nessun modo identificarvisi. Questo è stato regolarmente il caso delle polizie create dai paesi colonialisti in Africa e Asia, ovviamente schierati a difesa delle politiche coloniali e per la repressione di qualsiasi protesta e opposizione, anche quando composte, almeno in parte, proprio dagli abitanti delle colonie.
Una delle conseguenze inevitabili della separatezza fra cittadini e polizia è, naturalmente, che i poliziotti incontrano molte difficoltà a capire usanze e comportamenti di comunità alle quali sono estranei, come i rari poliziotti settentrionali in Sicilia oppure i poliziotti irlandesi in un quartiere italiano di Boston, i poliziotti bianchi nel South Side di Chicago, i cui abitanti sono più del 90 per cento di colore, i poliziotti inglesi in Irlanda del Nord. Nessuna familiarizzazione è possibile, ma, ovviamente, appare improponibile anche qualsiasi rapporto di fiducia. In effetti, la polizia opera con maggiore successo quando riesce a godere della fiducia dei cittadini. Secondo un rapporto Eurispes del 2019 più del 70 per cento di italiani dichiara di avere fiducia nelle Forze di Polizia.
Molto spesso, però, i poliziotti non appaiono un corpo neutrale che agisce a protezione dei cittadini, ma, per lo più, come uno strumento per la difesa della proprietà e del potere delle classi dominanti. Una clamorosa e scandalosa dimostrazione di parzialità, di faziosità, persino di fanatismo politicizzato si ebbe a Bolzaneto nel luglio 2001 con il crudele pestaggio ad opera di un consistente gruppo di poliziotti dei giovani più o meno antagonisti che avevano manifestato contro il G8 che si teneva a Genova. Negli Stati Uniti in troppi casi i comportamenti della polizia sono prodotti della discriminazione, di un razzismo sistemico e strutturale. Tagliare i fondi alle varie polizie locali, come chiesto dal movimento “Black Lives Matter”, può paradossalmente servire a ridurne la pericolosità, ma la soluzione deve essere al tempo stesso strutturale in termini di reclutamento e selezione, e culturale, in quanto ad insegnamento e apprendimento dell’eguaglianza effettiva dei diritti di tutti i cittadini.
In qualche caso, la priorità dei governi non va alla polizia che mantiene l’ordine e protegge i cittadini, ma a corpi più o meno speciali e segreti al servizio dei detentori del potere politico. Sono le famigerate polizie segrete dalla Ceka bolscevica-stalinista poi KGB alla Stasi (Staatssicherheit) della Germania Est, dalla OVRA (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo) alla Gestapo (Geheime Staatspolizei) di Hitler e alle polizie segrete di molti regimi autoritari, in Portogallo, in Spagna e in America latina. Ma questa un’altra storia che serve soprattutto a illuminare quanto le deviazioni nell’uso politico della polizia dipendano da coloro che hanno il potere di costituirle, reclutare, selezionare, promuovere il personale, destinare fondi alle loro operazioni. È probabile che un reclutamento più equilibrato in termini di appartenenza ai diversi gruppi sociali renda la polizia più prudente nei suoi comportamenti e più attenta a non violare i diritti di tutti i cittadini. Molto, ovviamente, dipende dalla cultura politica e giuridica dei rispettivi paesi, ma rimane sempre il pericolo, a prescindere dal tipo di regime nel quale è inserita, che, grazie ai mezzi a sua disposizione, la polizia finisca per ampliare i suoi poteri. Guardando ai suoi comportamenti e alle sue prestazioni è possibile sostenere che ogni paese ha la polizia che si merita.
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei. Il suo libro più recente è Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (UTET 2020).
Pubblicato il 21 giugno 2020 su la Lettura del Corriere
La fragilità dei partiti danneggia le democrazie @La_Lettura #vivalaLettura
Nelle democrazie si vota. Liberamente. Per eleggere assemblee, parlamenti, Presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicamente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresentarsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresentanti e i governanti sono consapevoli di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercheranno di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguatezza politica e personale ingaggiando una campagna elettorale permanente a colpi di slogan ad effetto. Altri mireranno a sopravvivere galleggiando fino al tempo del voto. Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresentanti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranze in grado di formare un governo. Come conseguenza, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutamente chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamentari non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desidererebbe.
Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentemente ripetute perché non risolutive costituisce un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferimento è superficiale, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazionali drasticamente differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratiche che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazioni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro, Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna hanno avuto in anni recenti legislature troncate e elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele nel quale fra l’aprile 2019 e il marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato ben cinque volte, ma in un arco temporale più lungo dal maggio 2012 al luglio 2019, per due volte nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatura dal settembre 2015 al luglio 2019.
In Austria l’instabilità è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustamente considerano la madre di tutte le democrazie parlamentari lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitata in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi. Evidentemente, non è il sistema elettorale maggioritario a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizione bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019. A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistenti difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti “ribaltoni” ovvero i legittimi cambi di maggioranze) senza ricorrere a ripetute elezioni che “logorano” le istituzioni oltre che la pazienza politica degli elettori.
Per ciascuno dei paesi che hanno sperimentato numerose e ravvicinate consultazioni elettorali è possibile individuare motivazioni specifiche non generalizzabili. La più evidente delle motivazioni specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativa nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimentato è la conseguenza di clamorosi errori del Premier Conservatore David Cameron. Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidentali. La chiave di volta delle difficoltà di formare i governi, mai automaticamente risolte da rinnovate elezioni, è costituita dalla frammentazione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenza immediata di questa frammentazione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. e quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.
In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzione dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizione alla democrazia e positivamente responsabili per la sua affermazione, sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmente ridimensionato sia i Popolari sia i Socialisti. Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su un partito molto grande per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi partitici multipartitici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmente, i partiti che organizzano il loro consenso e danno rappresentanza sono espressione delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentate per governare le quali sono largamente preferibili, spesso assolutamente necessari governi di coalizioni multipartitiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericamente decisivo che, ha scritto Sartori, ha “potere di ricatto”. Alcuni partiti piccoli, ma indispensabili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamentari, ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi, è diventata una fatica di Sisifo. Ma, chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?
Pubblicato il 12 gennaio 2020 su la Lettura – Corriere della Sera
Rileggete Huntington. Segnalò rischi reali @La_Lettura #vivalaLettura
A circa un quarto di secolo dalla sua pubblicazione qual è la validità della tesi di Samuel P. Huntington contenuta nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 1997)? Per rispondere correttamente bisogna preliminarmente chiarire qual’era effettivamente la tesi del grande politologo di Harvard scomparso ottantunenne nel 2018. Infatti, la maggior parte dei molti, spesso faziosi, critici di Huntington sembra essersi fermata alla prima parte del titolo e non avere mai letto la seconda. Per di più, molti di loro hanno fatto di Huntington una specie di sostenitore e cantore della necessità dello scontro fra le civiltà, non solo inevitabile, ma addirittura auspicabile. Al contrario, Huntington intendeva mettere in rilievo gli elementi e gli sviluppi che sembravano portare a un possibile scontro fra le civiltà proprio affinché i policy makers, con i quali aveva avuto frequenti e controversi rapporti nella sua attività accademica e di consulente, ne fossero consapevoli e approntassero opportuni rimedi. Come per l’altrettanto giustamente famoso libro del suo allievo Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1991, trad. it. 1992), ugualmente letto male e peggio interpretato, è il crollo del muro di Berlino e del comunismo a stare a fondamento dell’interrogativo/obiettivo che si pone Huntington. La ricostruzione di un ordine mondiale sarebbe stata resa più facile dalla fine dello “scontro” fra le liberal-democrazie contro i comunismi realizzati e dalla vittoria delle prime? “Il futuro non sarà più dedito ai grandi, vivificanti scontri di ideologie, ma piuttosto a risolvere concreti problemi economici e tecnici”, che è la sintesi del libro di Fukuyama proposta da Huntington (p. 29), oppure altro si affacciava all’orizzonte e le sue premesse erano già visibili a chi disponeva di adeguati strumenti conoscitivi?
Il contenuto del libro di Huntington richiede ai lettori, ai critici, agli “interpreti” la capacità di combinare elementi di cultura politica in senso lato (cultura è una traduzione migliore di “civiltà”) con conoscenze di relazioni internazionali. Non può stupire che la recensione del libro di Huntington pubblicata sulla prestigiosa “American Political Science Review” (16 mila abbonati in tutto il mondo) fu affidata a un prestigioso studioso di Relazioni Internazionali , Richard Rosecrance. Infatti, Huntington non è interessato alle “civiltà” (o culture politiche) in quanto tali, ma al loro impatto sulla (ri)costruzione di un ordine mondiale. “Finita la storia” della Guerra Fredda durante la quale l’ordine mondiale, seppure con molte anche sanguinose slabbrature, era stato mantenuto dal bipolarismo USA/URSS, in che modo e da chi e che cosa sarebbe emerso un nuovo ordine mondiale? È in atto un’intensa discussione sull’esistenza durante la Guerra Fredda, di un ordine politico internazionale liberale fatto da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale, le Nazioni Unite, con regole e procedure comunque rispettate fino a tempi recenti, ma che il presunto, reale, relativo declino degli USA non riuscirebbe più a garantire.
Le distinzioni che contavano negli anni Novanta non erano già più quelle su basi ideologiche, ma, per l’appunto culturali. Le liberaldemocrazie potevano anche avere vinto la Guerra Fredda, ma nel frattempo avevano fatto la loro comparsa i fondamentalismi e nella visione di Huntington alcune grandi religioni stavano a fondamento delle civiltà che prendevano coscienza delle loro peculiari identità per organizzarsi. Intese come “ampie entità culturali”, secondo Huntington esistono nel mondo contemporaneo sette civiltà (l’ordine è mio): occidentale, latino-americana, giapponese, indù, islamica, cinese (confuciana), africana. Molti critici si sono esercitati a smentire l’esistenza delle “civiltà” come definite da Huntington e, comunque, a negarne l’unitarietà, preferendo sottolinearne le differenziazioni interne. Huntington non nega le possibili differenze, ma il suo punto è che, a ogni buon conto, le differenze fra le civiltà sono molto più grandi e più rilevanti delle differenze all’interno delle stesse civiltà. A proposito dei critici (ai quali la più brillante risposta è contenuta nel densissimo articolo di Francesco Tuccari, “il Mulino”, n. 3/2015, pp. 588-594), è interessante notare che sostanzialmente ciascuno di loro è uno specialista, conoscitore di una civiltà, come i francesi studiosi dell’Islam, come Amartya Sen e la sua India, come l’orientalista di origine palestinese Edward Said, come alcuni intellettuali latino-americani, e le loro obiezioni sono tutte particolaristiche. Praticamente nessuno guarda, come direbbero gli anglosassoni, alla “big picture”.
Le critiche più severe, qualche volta addirittura violente, riguardarono il trattamento, certamente tutt’altro che ossequioso, che Huntington fa dell’Islam e della sua civiltà. Due furono le obiezioni rivoltegli. Primo, l’Islam non è monolitico; secondo, lo scontro di civiltà è talvolta interno proprio ai paesi islamici. Sono entrambe obiezioni malposte poiché Huntington riconosce le differenziazioni all’interno di tutte le civiltà e la possibilità di scontri. Nel caso del mondo islamico la mancanza più preoccupante è quella di una potenza egemonica (core) in grado di imporre l’ordine e di diventare guida. I tentativi di Al Quaeda e dell’Isis sembrano falliti così come le primavere arabe. Nel mondo islamico stanno tutti i fattori di rischio per la costruzione e stabilizzazione di un ordine mondiale, in particolare, le guerre civili in Siria, Libia, Yemen. Né si vede come, nella latitanza egoistica della leadership autoritaria, compromessa e corrotta dell’Arabia Saudita, possa fare la sua comparsa una potenza egemone riconosciuta e accettata come tale.
Da qualche tempo, ha fatto la sua comparsa, inquietante, ma inevitabile, per ragioni territoriali, demografiche, di coesione intorno al confucianesimo e grazie alla possente guida del Partito Unico, la Cina Comunista. Ha potenzialità enormi e persino la pazienza di attendere che maturino le condizioni per una sua espansione comunque già in atto. In maniera premonitrice, poiché da un’analisi solida conseguono previsioni non campate in aria, Huntington scrisse che “gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica” (cinese, p. 265). Quegli scontri, surrogati da episodi violenti di vario genere, sono tuttora un’eventualità, mentre il nuovo ordine mondiale è molto di là da venire.
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L’UE poco democratica? Basta con gli stereotipi @La_Lettura #vivalaLettura
Qualche tempo fa circolava sotto forma di boutade una critica alla mancanza di democrazia nell’Unione Europea secondo la quale, applicando i suoi criteri, l’Unione Europea non avrebbe mai superato la prova. Non sarebbe stata ammessa fra gli Stati-membri. Era sicuramente un’esagerazione e, altrettanto, sicuramente, da tempo le istituzioni dell’Unione Europea garantiscono il più grande spazio di libertà e di diritti al mondo e rispettano i canoni democratici. L’hanno fatto anche nelle recenti nomine alle cariche, non le “poltrone”, parola da lasciare ai populisti, più importanti: Presidenza della Commissione e della Banca Centrale Europea, Presidenza del Consiglio e Presidenza dell’Europarlamento. Quelle nomine sono state un esempio deteriore di mercato delle vacche? La terminologia inglese, molto più fine, parla di scambio/commercio di cavalli (horse trading). Non mi esibirò nell’elogio dei mercati dove si vendono, comprano, scambiano gli animali, luoghi di grande trasparenza e caratterizzati dalla fiducia fra i contraenti. Mi limiterò ad affermare che in qualsiasi democrazia multipartitica, e l’Unione appartiene a questa fattispecie con l’aggiunta che è anche plurinazionale, si fanno scambi tenendo conto non soltanto dei voti e del peso politico dei contraenti, ma altresì della qualità e della rappresentatività delle persone. Tutte quelle nomine, meno quella del Presidente del Parlamento, spettavano ai capi di governo riuniti nel Consiglio Europeo. Tutti e ciascuno di quei capi di governo godono di effettiva legittimità democratica. Fanno parte di quel Consiglio poiché hanno vinto le elezioni, libere e competitive, nei loro paesi. Vi rimangono fin quando riescono a mantenere il sostegno della maggioranza assoluta del loro Parlamento. Sono costretti ad andarsene quando non hanno più la maggioranza venendo sostituiti da chi quella maggioranza ha conquistato. A sua volta, nel Consiglio si formano e cambiano le maggioranze a seconda delle persone e delle politiche. In quel Consiglio si vota e vincono coloro che aggregano una maggioranza assoluta di voti ponderata anche in base ad altri criteri nient’affatto in violazione delle regole democratiche con un’unica eccezione. La richiesta del voto all’unanimità su alcune materie conferisce eccessivo, oramai non più giustificato, potere anche a un solo capo di governo che può “ricattare” formalmente e informalmente tutti gli altri. Infatti, da qualche tempo, si discute di come abolirlo.
È la Commissione, sostengono molti, l’organismo assolutamente non democratico accusandola di essere composta da burocrati e tecnocrati senza legittimità alcuna. Sia il/la Presidente della Commissione sia i singoli Commissari sono, in effetti, non eletti, ma nominati da ciascuno dei capi di governo. Chi li ha nominati gode, come ho evidenziato sopra, di chiara legittimità democratica. Dunque, la Commissione avrebbe comunque una legittimità indiretta e, incidentalmente, praticamente nessuno dei Commissari è un burocrate emergendo tutti da una carriera politica ad alto livello, che li ha portati ad essere ministri e capi di governo, e sono tecnocrati solo nella misura in cui si riconoscono le loro competenze specifiche in alcuni importanti settori. I capi di governo hanno deciso di non dare la preferenza al candidato di punta dei Popolari che, pure, hanno avuto più voti e più seggi dei concorrenti, ma non hanno violato una norma e, comunque, scegliendo Ursula von der Leyen hanno premiato i Popolari. La nomina, però, non è sufficiente ad acquisire la carica. La Presidente nominata, nel lessico parlamentare diremmo “designata”, presenterà il suo programma ai parlamentari per ottenerne un voto di approvazione, sostanzialmente la fiducia. A loro volta, ciascuno dei candidati Commissari, nominati dai (capi dei loro) governi, dovrà passare attraverso severe e approfondite, pubbliche audizioni parlamentari ad opera delle Commissioni di merito che ne valuteranno le competenze e anche il tasso di europeismo in un certo senso aggiungendo quindi un importante elemento di democraticità. Toccherà al Parlamento europeo, eletto da qualche centinaio di milioni di elettori europei, dare la sua approvazione oppure no alle nomine dei capi di governo. Il Parlamento poi dovrà accettare o respingere la Commissione in blocco.
La procedura, tutt’altro che contorta o bizantina, nient’affatto manipolabile, vede, dunque, il Parlamento, l’organismo più democratico poiché eletto dai cittadini europei, svolgere il compito più importante, quello della legittimazione democratica della Commissione, il motore dell’Unione. I critici sostengono che, democratico quanto si voglia, il Parlamento europeo ha poco potere. Ratifica, per lo più, o boccia, rarissimamente, ma non ha il potere di iniziativa legislativa che è nelle mani della Commissione. I critici dimostrano, da un lato, di non avere sufficienti cognizioni istituzionali; dall’altro, di essere carenti anche in quanto alle modalità di fare politica. In tutti i parlamenti delle democrazie parlamentari, praticamente il 90 per cento delle leggi approvate sono di iniziativa governativa. Quando gli europarlamentari, in particolare, le Commissioni, ritengono che una particolare tematica meriti una regolamentazione legislativa, non hanno nessuna difficoltà a conquistare l’attenzione dell’apposito Commissario, se non, addirittura di tutta la Commissione. In via informale, ma non meno efficace, eserciteranno così l’iniziativa legislativa.
Non c’è dunque nulla di cui lamentarsi in materia di democrazia nell’Unione Europea? Quando sono i cittadini europei che ritengono che di democrazia in Europa non ce n’è abbastanza e che funziona male, allora, comunque, dobbiamo preoccuparci. Non è solo un problema di decisioni, che sono prese con troppa lentezza e dopo eccessive contrattazioni, peraltro in maniera non dissimile da quanto avviene nei governi di coalizioni multipartitiche. Non è solo un problema, peraltro reale, di cattiva o inadeguata comunicazione. È un problema di esagerata apertura dell’Unione a tutti i numerosi e potenti gruppi di pressione nazionali e transnazionali che difendono interessi particolaristici e, soprattutto di mancanza di trasparenza dei processi decisionali. L’Unione, che è democratica, deve diventare più trasparente esplicitando le posizioni dei decisori, i conflitti, le proposte di soluzioni alternative. Renderebbe possibile valutare le responsabilità del fatto, del non fatto e del malfatto per premiare e punire rappresentanti e governanti.
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, è, fra l’altro, autore di L’Europa in trenta lezioni, UTET 2017.
Pubblicato il 14 luglio 2019
Abbasso il sovranismo. Teniamoci stretta l’UE @La_Lettura #387 #vivalaLettura
Il sovranismo, come molti degli “ismi” che circolano, contiene qualcosa di esagerato e inquietante. Cerca di darsi una patina democratica richiamandosi alla sovranità che, secondo l’art. 1 della Costituzione italiana “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Anche se i sovranisti non si fanno mancare qualche scivolone populista, più che di popolo (“prima gli Italiani”, “Veri Finlandesi”, “Svedesi Democratici”) il loro sovranismo è fatto, soprattutto, di esaltazione della nazione, con frequenti e, per l’appunto, inquietanti cedimenti al nazionalismo. La nazione sovranista si definisce con riferimento al sangue e al territorio; è primitiva, fondata su tradizioni, reali o costruite ad arte, che servono per segnare differenze e per escludere, ma che, non poche volte, si traducono in gravi episodi di xenofobia e persino di razzismo. È una nazione che finisce per essere governata secondo modalità da democrazia illiberale che nega diritti agli oppositori. Infine, è una nazione da proteggere e promuovere senza nessuna commistione, alla quale spetta la sovranità integrale che non può essere mai ceduta a qualsivoglia organismo sovranazionale. Nemico sicuro dei sovranisti è l’art. 11 della Costituzione italiana laddove detta limpidamente che l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Nel loro esplicito tentativo di (ri)affermare la sovranità nazionale, i sovranisti accusano l’Unione Europea di avere espropriato quella sovranità. Dimenticano e nascondono che, invece, sono ripetutamente stati i loro governi e i rispettivi Parlamenti a cedere all’UE consapevolmente e deliberatamente parti della sovranità, italiana e degli altri Stati-membri, nell’intento, largamente conseguito, di creare pace e di produrre prosperità. Sono stati e rimangono questi gli obiettivi principali che, operando da solo, nessuno Stato nazionale è in grado di conseguire. Nessun isolamento di singoli stati europei potrebbe nel mondo contemporaneo essere splendido, ma risulterebbe del tutto sterile. Che, poi, la sovranità italiana non rifulga nei contesti internazionali, tanto meno nell’Unione Europea e non produca esiti apprezzabili non dipende da cospirazioni anti-italiane né da mai chiaramente identificati poteri forti, ma dalla mancanza di credibilità e dall’inadeguatezza di troppi dei nostri rappresentanti.
Recuperare la sovranità nazionale, sia quella volontariamente ceduta sia quella colpevolmente perduta, significa, secondo i sovranisti, riconquistare anche il potere del popolo, per il popolo, vale a dire la democrazia. Se le decisioni più rilevanti per una nazione sono effettivamente prese a Bruxelles, se i rappresentanti liberamente e democraticamente eletti in Italia e altrove non hanno il potere di decidere le politiche economiche e sociali che preferiscono e che hanno proposto ai loro elettori ottenendone il voto, allora sarebbero la stessa sovranità popolare e, di conseguenza, la democrazia a essere negate. Il popolo elegge rappresentanti costretti a sottostare a decisioni prese altrove (sulle quali, però, se fossero capaci, credibili, e competenti potrebbero incidere sostanzialmente), diventando tecnicamente e politicamente non-responsabili, irresponsabili.
I sovranisti sostengono che soltanto loro sono in grado di recuperare la sovranità, riportandola nelle mani dei politici eletti dal popolo e, al tempo stesso, riacquistando il consenso e la fiducia della cittadinanza, che, venuti meno, hanno colpito al cuore non poche fra le democrazie realmente esistenti. Il sovranismo afferma che non sarà la, comunque molto complicata e altrettanto lenta e densa di contraddizioni, unificazione federale dell’Europa a dare una risposta capace di rimediare ai problemi delle democrazie europee. Il sovranismo sostiene che nel trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali al livello sovranazionale non si è affatto affermata una nuova più elevata sovranità democratica e popolare. Al contrario, la sovranità nella sua espressione sovranazionale è diventata preda di burocrati e tecnocrati, senza volto, “senza patria” e, come disse memorabilmente, con una punta di suo personale sovranismo, il Gen. de Gaulle, (politicamente e democraticamente), “irresponsabili” .
Poiché ciascuno dei sovranisti si dedica al perseguimento degli interessi nazionali e ha una visione che raramente va oltre i confini della sua nazione è destinato a entrare in conflitto con tutti gli altri sovranisti. Il sovranismo in un solo paese si rivelerebbe altrettanto inadeguato e controproducente quanto fu il socialismo in un solo paese. È sorprendente come, in alcuni paesi, fra i quali l’Italia, si trovino spezzoni di sovranismo, in particolare in versione anti-europeista, nei ranghi della sinistra che si distingue dal sovranismo di destra solo per qualche critica più puntuale alle politiche neo-liberiste e al capitalismo finanziario che l’UE non sarebbe in grado di contrastare. Se è stato, e continua ad essere, il più o meno impetuoso vento della globalizzazione a investire in maniera tracotante le strutture e le pratiche nazionali e democratiche di ciascun paese, se ai problemi più gravi –rilancio dell’economia, accoglienza dei migranti, contenimento delle diseguaglianze sociali, non riesce a rispondere in maniera apprezzabile un’organizzazione sovranazionale, ricca e sostanzialmente solida, come l’Unione Europea, chi può illudersi che avranno successo politiche nazionali elaborate e attuate da Stati “sovrani” inevitabilmente in concorrenza fra di loro? Quasi sicuramente il sovranismo sarà inefficace e probabilmente diventerà pericoloso. In un mondo dove si confrontano grandi potenze, USA, Russia, Cina, forse India, in competizione fra loro, il sovranismo è un’illusione fondata su un’erronea analisi dei processi economico-sociali e degli imperativi politici, destinato a sfociare in una delusione che gronda rischi di guerre commerciali e, addirittura, di rivendicazioni territoriali.
Pubblicato su La Lettura n 387 – 28 aprile 2019
Oltre l’illusoria democrazia diretta. La via deliberativa aiuta a scegliere
Troppi degli aggettivi che accompagnano la democrazia sono fuori luogo, spesso la contraddicono, talvolta ne manipolano, più o meno consapevolmente, i suoi caratteri costitutivi. Più di sessant’anni fa, in un libro ancora oggi essenziale (Democrazia e definizioni, il Mulino 1957), Giovanni Sartori criticò aspramente le aggettivazioni improprie e fuorvianti delle quali, allora, la peggiore era “popolare”. Le democrazie popolari non erano né democrazie né popolari. Allo stesso modo, non è possibile sostenere né oggi né ieri che le democrazie illiberali sono democrazie. Laddove i diritti civili e politici dei cittadini non sono rispettati, dove la stampa non è libera, dove l’opposizione ha limitati spazi di azione, dove il sistema giudiziario viene controllato dall’esecutivo, mancano le condizioni minime della democrazia, quelle condizioni che il liberalismo ha messo a fondamento delle nascenti democrazie, della loro natura, del loro funzionamento e persistenza.
La contrapposizione classica contemporanea è fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta poiché molti ritengono che le nuove tecnologie, i nuovi strumenti di comunicazione hanno finalmente reso possibile ai cittadini di esercitare direttamente il loro potere senza bisogno di rappresentanti, rendendoli non soltanto obsoleti e inutili, ma addirittura controproducenti, un ostacolo alla traduzione delle loro preferenze, all’espressione dei loro interessi. I “direttisti” (terminologia di Sartori) identificano e confondono la democrazia esclusivamente con i procedimenti decisionali. Per loro, la democrazia diretta è quella nella quale tutte le decisioni vengono prese dai cittadini.
Naturalmente, democrazia è molto altro. È soprattutto una “conversazione”, frequente e costante, nella quale i cittadini sono coinvolti cercando di persuadersi vicendevolmente per giungere ad un accordo poi seguito da decisioni che sono sempre rivedibili alla luce dei loro effetti, più o meno positivi, e di altre informazioni sulla tematica decisa. Peraltro, tutte le democrazie rappresentative attualmente esistenti contemplano la presenza e l’uso di strumenti di democrazia diretta: l’iniziativa legislativa popolare, varie forme di referendum, persino la revoca, a determinate condizioni, degli eletti. Dal referendum (strumento di rarissimo uso in Gran Bretagna) “Remain” o “Leave” dovremmo avere tutti (britannici compresi) imparato che la democrazia diretta necessita di fondarsi su una effettiva e ampia base di informazioni disponibili a tutti gli elettori. Non è mai una semplice crocetta né un rapido click, ma è l’esito di un procedimento nel quale le posizioni sono state argomentate in pubblico e l’opinione, per l’appunto, pubblica si è (in)formata a favore o contro una specifica scelta.
Grandi scelte possono essere sottoposte all’elettorato, con le cautele del caso, ma la maggior parte dei processi decisionali richiedono ancora che siano i rappresentanti a dare il loro apporto alla definizione dell’esito. Se la democrazia diretta non è tuttora in grado di sostituire la democrazia rappresentativa, tranne che nelle esternazioni di alcuni irriducibili semplificatori, è tuttavia possibile arricchire la democrazia rappresentativa migliorando la rappresentanza e integrandola con alcune modalità specifiche. Qualche volta i “direttisti” lamentano l’alto tasso di astensionismo in alcuni contesti e in alcune elezioni. Si trovano in compagnia con i “partecipazionisti” coloro che affermano che “democrazia” è partecipazione, non esclusivamente elettorale. Peraltro, esistono già e sono utilizzate modalità che rendono più semplice l’esercizio del diritto di voto: per esempio, il voto per posta, la possibilità di votare in anticipo rispetto al giorno ufficiale delle elezioni, la delega. Vi si potrebbe aggiungere il consentire a chiunque di votare dove lui/lei si trovano (gli strumenti telematici consentono di riconoscere la qualifica di elettore e di evitare brogli). Chi ritiene che quanto più elevata è la partecipazione elettorale tanto migliore sarebbe la democrazia può proporre non pochi perfezionamenti all’esercizio del diritto di voto per quel che attiene la scelta dei rappresentanti e, in qualche caso, dei governanti nelle cariche monocratiche: presidenti nelle repubbliche semi e presidenziali, governatori di Stati, sindaci, e così via.
Chi, invece, pensa che il vero problema delle democrazie contemporanee è il mancato coinvolgimento dei cittadini in una pluralità di decisioni che, spesso, se importanti, hanno un alto tasso di “tecnicità”, può rifarsi alla oramai abbondante letteratura e a molte pratiche di “democrazia deliberativa” (in italiano il testo più rilevante lo ha scritto Antonio Floridia, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, il Mulino, 2012. L’antesignano di questo filone di studi, James S. Fishkin, ha sintetizzato lo stato attuale delle ricerche e riferito su diversi esiti concreti in Democracy: When the People Are Thinking. Revitalizing Our Politics Through Public Deliberation, Oxford University Press 2018).
La democrazia deliberativa non è affatto la stessa cosa di democrazia decidente, inventata da qualcuno durante il referendum del 2016 sulle riforme costituzionali.
Deliberare non significa decidere, ma preparare il processo decisionale attraverso il ricorso ad assemblee di cittadini ai quali sono fornite tutte le informazioni necessarie ad una migliore comprensione del problema, delle modalità con le quali può essere compreso e affrontato, dei costi e dei benefici, delle conseguenze. Ad esempio, il “se” e il “come” costruire la TAV avrebbero potuto fare oggetto di modalità di discussione, di valutazione e di eventuale approvazione seguendo lo schema della democrazia deliberativa. La democrazia, scrisse Bobbio (Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi 1984), ha promesso di “educare la cittadinanza”. È utile e doveroso partecipare anche per imparare. A loro volta, i partecipanti più e meglio informati contribuiscono all’affermazione e al perfezionamento della democrazia, del potere del popolo. A determinate condizioni, soprattutto l’accuratezza nella costruzione dell’esperimento, la democrazia deliberativa indica che, sì, i cittadini diventeranno meglio informati e il conseguente processo decisionale sarà più “rappresentativo” delle loro opinioni, più condiviso, più efficace. Al momento, questa è la strada per migliorare la democrazia rappresentativa.
Pubblicato il 14 aprile 2019
Elogio del rimpasto. Dà flessibilità ai governi #vivalaLettura
Nella letteratura politologica sulle coalizioni di governo non si parla di “tagliandi”, come quello ritenuto plausibile dal Presidente del Consiglio Conte nella sua conferenza stampa di fine anno, all’attività di governo Forse, il giurista Conte ha voluto evitare il più noto termine “verifica” che è quanto si è fatto regolarmente nei governi di coalizione italiani del secondo dopoguerra. Peraltro, le verifiche spesso portavano ai rimpasti, vale a dire al cambiamento concordato di alcuni ministri, fuoruscite e nuovi ingressi. Il tutto serviva, da un lato, a registrare i nuovi rapporti di forza fra i partiti della coalizione al governo (e spesso delle vivaci correnti della DC), e, dall’altro, a rilanciare l’azione del governo. Avendo solennemente annunciato l’ingresso dell’Italia nella Terza Repubblica, il noto storico delle istituzioni e costituzionalista Luigi Di Maio non vuole tornare a pratiche della Prima Repubblica (che conosce poco e che, incidentalmente, è l’unica Repubblica che abbiamo): “nessuna ipotesi di rimpasto e, se dovessi fare il governo domani, ripresenterei gli stessi nomi come ministri, ripresenterei la stessa squadra” (dichiarazione del 30 dicembre 2018).
Nelle democrazie parlamentari, quale più quale meno, il rimpasto è fin dall’inizio sempre all’ordine del giorno. Soprattutto quando alcuni ministri sono neofiti, privi di esperienze di governo e persino, capita spesso, ma non dappertutto con la stessa frequenza, di conoscenze specifiche per il Ministero al quale approdano, è possibile/probabile che le loro prove siano non solo inferiori alle aspettative, ma anche al di sotto di quanto è indispensabile per attuare in maniera soddisfacente le politiche del governo. Questo avviene, in particolare, quando il governo è un “Governo per il Cambiamento” che mira a innovare. Poiché in tutte le democrazie parlamentari al governo ci vanno i capi dei partiti che si coalizzano (è appena successo in Svezia dove ha visto la luce un governo socialdemocratico di minoranza con l’appoggio esterno di più partiti, non una novità nella storia politica del paese), sono spesso proprio i capi dei partiti a incoraggiare alcuni ministri “deboli” a lasciare il posto a chi, in Parlamento, ha mostrato di avere maggiori qualità. Talvolta, questa modalità di rimpasto implica un qualche scambio che vede anche ministri degli altri partiti cedere il passo nell’intento duplice di ridare slancio all’azione di governo e di soddisfare le ambizioni di parlamentari dimostratisi capaci, ad esempio, nell’attività delle commissioni.
Esistono poi fattispecie più politiche. Nel caso della Gran Bretagna, alla quale è sempre utile fare riferimento, in quanto madre di tutte le democrazie parlamentari, praticamente tutti i governi conservatori e laburisti hanno proceduto a rimpasti nel corso del loro mandato. Il Primo ministro gode del vantaggio di essere anche il capo del suo partito (rimanendo Primo ministro soltanto se non perde la carica di capopartito) e, dunque, di avere la facoltà di “licenziare” (i termini inglesi sono abitualmente più drastici: sack, fire) i suoi ministri in caso, ad esempio, di dissenso sulle politiche. Talvolta, sono gli stessi ministri dissenzienti ad andarsene nobilmente aprendo la strada al rimpasto. Molto di recente, non condividendo il tipo di accordo (deal) raggiunto dal Primo Ministro May, quattro ministri sono usciti dal governo subito rimpiazzati (rimpastati!). Qualche volta sono dichiarazioni fuori luogo (sessiste e xenofobe) e comportamenti inappropriati (ad esempio, in Germania, il plagio di una tesi di dottorato) che impongono le dimissioni di un ministro. Talvolta ancora l’elemento scatenante è dato dalla scoperta di una qualche forma di conflitto d’interessi, fattispecie non rara neppure nei governi delle democrazie parlamentari europee e no, ma che vengono immediate sanzionate.
Ovviamente, la motivazione più frequente, anche se non sempre resa pubblica, per non indebolire né il governo né il partito del ministro dimissionato, attiene alla capacità, alla competenza, all’operato del ministro stesso. La difesa ad oltranza di un ministro responsabile di errori e di violazioni (anche “a sua insaputa”) non è un segnale di forza del suo partito né del governo del quale fa parte, ma di debolezza. La sorte di nessun governo parlamentare può mai dipendere da quella di un uomo o di una donna che ne faccia parte. La pratica del rimpasto correttamente interpretata e posta in essere è molto concretamente una delle modalità che danno sostanza alla flessibilità e all’adattabilità dei governi parlamentari. Nuove e inusitate sfide, problemi improvvisi e emergenze, inadeguatezza delle personalità che esercitano cariche di governo possono essere affrontati e risolte attraverso un rimpasto rapido e mirato. Lungi dall’essere criticabile, la possibilità di ricorrere al rimpasto della compagine governativa è uno dei maggiori pregi delle democrazie parlamentari. Da custodire, applicare, elogiare.
Pubblicato il 27 gennaio 2019
La democrazia è viva #vivalaLettura
“Crisi della democrazia?” Non la pensa così il candidato Chamisa che ha appena perso le elezioni presidenziali in Zimbabwe. Anzi, sostiene che il vincitore ha manipolato le regole democratico-elettorali e che in un quadro effettivamente democratico non sarebbe riuscito a vincere. L’opposizione venezuelana combatte contro il Presidente Maduro proprio per (re-)instaurare uno Stato di diritto e la democrazia politica con la rigorosa osservanza della separazione dei poteri e il ritorno dei militari nelle caserme. Un po’ dovunque nel mondo, dalla Russia alla Turchia, dall’Africa all’Asia, persino in Italia, ci sono uomini e donne che combattono ostinatamente per e in nome della democrazia, sì, proprio quella definita “occidentale”. Sono spesso arrestati e condannati, ma non cessano la loro battaglia. No, per loro non c’è “crisi della democrazia”. Al contrario. Ci sono leader e movimenti autoritari, teocratici, sultanisti, populisti che comprimono e soffocano la democrazia. Tutti i dati disponibili segnalano che mai nel passato sono esistiti tanti sistemi politici che possono essere legittimamente e rigorosamente definiti democratici, nei quali la competizione politico-elettorale è libera e periodicamente conduce all’alternanza al governo, nei quali i diritti dei cittadini sono protetti e promossi, nei quali l’aspettativa di vita è superiore a quella di qualsivoglia regime autoritario.
Nel 2018 è stato conseguito un risultato storico, quello del più alto numero di sempre di persone che vivono in paesi liberi. Con il suo regime chiaramente e totalmente dominato da un partito e da una nomenklatura, è la Cina che fa da massimo contrappeso alle democrazie realmente esistenti. Nessuno dei paesi divenuti democratici dopo quella che Samuel Huntington definì la terza ondata di democratizzazione, dalla metà degli anni settanta dello scorso secolo al post-1989, ha perso le caratteristiche democratiche iniziali fondanti. Certo, dobbiamo preoccuparci dell’involuzione dell’Ungheria e della Polonia. Dobbiamo ritenere l’avanzata e la sfida dei variegati populismi pericolose per la vita democratica di un sistema politico, ma finora di regressi e crolli dovuti a populismi vittoriosi non se ne sono visti (in Venezuela è stata l’implosione del bipartitismo inaridito a aprire la strada a Chavez). Le democrazie “illiberali” sono una ferita all’ideale di democrazia, ma conservano potenzialità di trasformazione positiva. Ciononostante, la cosiddetta crisi della democrazia, non solo disagio e disincanto, è oggetto di seriose conversazioni fra intellettuali, meglio se in qualche ridente località sede di convegni accademici, e di allarmate discussioni nelle redazioni dei giornali.
In generale, la maggioranza dei cittadini sembra pensarla alquanto diversamente, soprattutto nelle democrazie europee, in particolare quelle di più lunga durata. In Italia, la percentuale di insoddisfatti è superiore a quella dei soddisfatti, ma il punto da sottolineare è che le critiche riguardano il “funzionamento”, non la “natura”, della democrazia. Già trent’anni fa Giovanni Sartori tracciò una linea distintiva chiara e netta fra la democrazia ideale e le democrazie reali, quelle realmente esistenti. Ciascuno di noi ha una visione di come vorrebbe che fosse la sua democrazia ideale e ciascuno di noi (e dei nostri concittadini) valuta il rendimento, le prestazioni della democrazia italiana anche alla luce della sua democrazia ideale. Le valutazioni negative non coinvolgono affatto automaticamente la democrazia in quanto insieme di regole, di istituzioni, di comportamenti. Anzi, proprio perché siamo esigenti nei confronti della democrazia diventiamo molto critici delle sue carenze, delle sue inadeguatezze, dei suoi deficit. Allora, meglio sarebbe se, seguendo le indicazioni di Sartori, da un lato, prendessimo atto che la democrazia ideale non è conseguibile, ma merita di continuare a essere l’insieme di criteri con i quali valutare le democrazie realmente esistenti, e, dall’altro, non negassimo che, sì, in effetti, non c’è “crisi della democrazia”, ma nelle democrazie esistono molti problemi di funzionamento che devono essere affrontati e risolti, mentre nuove sfide sorgono proprio perché le democrazie sono società vivaci e aperte.
Chi sceglie questa strada che, a mio parere, non soltanto è quella giusta, ma è anche quella più produttiva, vedrà probabilmente che i problemi di funzionamento, da un lato, affondano le loro radici nelle istituzioni e nelle regole e, per quel che riguarda il caso italiano, clamorosamente nelle leggi elettorali e nei rapporti Parlamento/ governo, ma, dall’altro, dipendono moltissimo dai cittadini stessi. Norberto Bobbio ha scritto che questa è la promessa che la democrazia non ha mantenuto: non è riuscita a educare politicamente i cittadini. I problemi della democrazia, se si preferisce le “crisi nelle democrazie”, sono la conseguenza dell’esistenza di cittadini che non s’interessano di politica, non sono informati sulla politica, partecipano poco alla politica (per i quali il voto è spesso l’unica modalità di partecipazione in tutta la vita) e, magari, se ne vantano, pur godendo di tutte le cose buone, a cominciare dal cambiare idee e preferenze, che solo la democrazia garantisce. Questi cittadini, disinformati e apatici, non sono in grado di innescare e fare funzionare il circolo virtuoso della responsabilizzazione di coloro che ottengono il potere di rappresentarli e di governarli. Non sapranno valutarne qualità e operato. Non manderanno a casa i peggiori. Non riusciranno a imporre la selezione dei migliori fra loro – meno che mai, naturalmente, se esistesse quello tremendamente semplificatrice mannaia burocratica che si chiama “limite ai mandati”. Fuori dalle carenze istituzionali e elettorali , che pure esistono, ma sono riformabili, i problemi delle democrazie contemporanee derivano dall’incompetenza, dalla disinformazione, dal mancato impegno, dal conformismo e dalla bassa qualità dei cittadini. Crisi dei cittadini “democratici”?
Pubblicato il 19 agosto 2018
Grosse Koalition a Londra #vivalaLettura #Corriere
Un gioco istruttivo: immaginare gli effetti di leggi elettorali diverse nei maggiori Paesi europei. In Germania il maggioritario esalterebbe la centralità della Cdu. Con il proporzionale in Francia Macron sarebbe più debole e Le Pen più forte, mentre in Gran Bretagna i liberali diventerebbero decisivi a meno di un’intesa tra conservatori e laburisti.
Le leggi elettorali sono fatte di regole, meccanismi, clausole e procedure che non soltanto stabiliscono come i voti vengono tradotti in seggi, ma che influenzano gli stessi comportamenti degli elettori. Troppo spesso, sondaggisti e commentatori sottovalutano, quando non, addirittura, dimenticano, che gli elettori valutano le opzioni e scelgono anche sulla base delle conseguenze che sono in grado di prevedere. Da tempo sappiamo che se la legge elettorale è proporzionale l’elettore si trova nelle condizioni migliori per esprimere un voto “sincero”, vale a dire, scegliere il partito che preferisce. Invece, laddove esistono collegi uninominali nei quali la vittoria arride al candidato/a che ottiene più voti, l’elettore potrà rinunciare a sostenere il suo candidato preferito che non abbia possibilità di vittoria scegliendo il voto “strategico”, vale a dire votando chi abbia maggiori probabilità di sconfiggere il candidato a lui/lei più sgradito. Questo tipo di voto è alquanto frequente, come abbiamo visto e imparato in molte tornate elettorali, qualora la legge elettorale contempli due turni, ad esempio, nell’elezione dell’Assemblea nazionale in Francia, poiché il votante gode anche della possibilità di valutare tutto quello che succede, “scomparsa” del candidato da lui/lei votato al primo turno, desistenze di candidati e accordi fra dirigenti di partiti, fra il primo e il secondo turno.
Sulla base di queste semplici, ma essenziali, considerazioni, possiamo chiederci, non soltanto a scopo di divertissement, ma di apprendimento, che cosa succederebbe se nelle tre grandi democrazie europee: Germania, Francia e Gran Bretagna cambiassero le leggi elettorali finora utilizzate. Di quanto e come sarebbero influenzati i comportamenti degli elettorati e quali effetti avrebbero sulla composizione dei Parlamenti e sulla formazione dei governi? Fortunatamente, è possibile muoversi su un terreno politico almeno in parte già dissodato, per quanto in maniera diversa, in tutt’e tre i paesi. Per esempio, l’avvento in Germania di una legge tutta maggioritaria di tipo inglese, incidentalmente, proprio come avrebbero voluto alcuni grandi politologi tedeschi costretti all’esilio in USA, fra i quali il più combattivo fu Ferdinand Hermens, sarebbe soltanto parzialmente una novità poiché già la metà (dopo le elezioni del 24 settembre, con i molti “mandati aggiuntivi”, persino, un po’ di più) dei parlamentari tedeschi sono eletti in collegi uninominali. Quasi sicuramente, una legge elettorale di tipo inglese ridurrebbe considerevolmente il numero di seggi conquistabili dai partiti, Liberali, Verdi e Die Linke, che si situano intorno al 10 per cento dei voti, ad esclusione, forse di Alternative für Deutschland che ha una forte presenza concentrata nei Länder della Germania orientale e, sembra, anche in Baviera, dove, quindi, i suoi candidati potrebbero vincere in diversi collegi uninominali. Da una legge elettorale maggioritaria la CDU di Angela Merkel (e del suo successore) trarrebbe qualche vantaggio, ma probabilmente non conquisterebbe la maggioranza assoluta di seggi nel Bundestag cosicché sarebbe ancora costretta a scegliersi, pur in condizioni di maggiore forza, almeno un alleato di governo. I socialdemocratici uscirebbero appena rafforzati da una legge maggioritaria con i collegi uninominali che metterebbero loro e la loro costola, Die Linke, di fronte alla necessità di una convergenza con il voto “strategico” sulle candidature reciprocamente più gradite e potenzialmente vincenti. In definitiva, la CDU, grande partito di centro, risulterebbe ancora di più il perno e il motore della democrazia tedesca.
Neppure per la Francia il passaggio da una legge elettorale maggioritaria a una legge proporzionale costituirebbe una sorpresa. Dal 1946 al 1958 i francesi andarono al voto proprio con una legge proporzionale che incoraggiava e premiava gli apparentamenti, ma che non impediva affatto la sopravvivenza e la rappresentanza di piccoli gruppi. Fu per volontà del Generale de Gaulle che si passò al sistema maggioritario a doppio turno, simile, peraltro, a quello che era stato utilizzato nella seconda fase della Terza Repubblica (1871-1940). Con un’operazione del tutto pro domo sua il Presidente socialista François Mitterrand, politico quant’altri mai della Quarta Repubblica, resuscitò una legge proporzionale con l’obiettivo esplicito di impedire un’annunciata vittoria dei gollisti nel 1986 oppure, quantomeno, per contenerne le proporzioni. I gollisti guidati da Chirac, alleati con i repubblicani dell’ex-Presidente Valéry Giscard d’Estaing, vinsero comunque e procedettero subito al ripristino della legge maggioritaria. Da allora, però, la Francia “soffre” le conseguenze di lungo periodo di quella decisione di Mitterrand. Infatti, nel 1986, proprio l’utilizzo della legge proporzionale consentì al Front National guidato da Jean-Marie Le Pen di ottenere con il 9, 86 per cento dei voti 35 seggi in parlamento, subito spariti con il rapido ritorno nel 1988 alla legge maggioritaria a doppio turno e mai più riconquistati. Nel 2017 con il 13,20 per cento dei voti, Marine Le Pen ha vinto appena 8 seggi. Dunque, non potrebbe che essere felice se tornasse la proporzionale poiché il numero dei seggi del Front National balzerebbe fino all’incirca a 60. Ça va sans dire che la re-introduzione della proporzionale non soltanto renderebbe quasi impossibile a La France en marche di Emmanuel Macron di conquistare la maggioranza assoluta di cui, frutto anche di numerosissimi voti strategici, gode attualmente all’Assemblea Nazionale, avendo conseguito meno del 33 per cento dei voti, ma non porrebbe nessun ostacolo alla gioiosa frammentazione delle liste di sinistra (sì, i dirigenti francesi della gauche hanno già dimostrato nel 2002 di sapere fare anche peggio, quanto alle divisioni particolaristiche, delle sinistre italiane). Peraltro, il semipresidenzialismo funziona anche se il governo sarà/fosse di coalizione.
Qualche esperienza con una legge elettorale proporzionale i britannici l’hanno già avuta, e non l’hanno gradita. Sono stati costretti a votare per eleggere i loro eurodeputati con un sistema proporzionale. Molti di loro hanno preferito starsene a casa. Nel 2014 per il Parlamento europeo ha votato soltanto il 35.6 per cento (Italia 57,22 per cento) agevolando il successo in termini di seggi per chi si opponeva all’Unione Europea nel cui Parlamento voleva, però, entrare, e vi riuscì a vele spiegate: lo United Kingdom Independence Party, antesignano della Brexit, che con il 27,6 per cento di voti ottenne 24 seggi. Già sono otto i partiti rappresentati a Westminster e, comunque, sono sempre stati più di tre (attualmente, oltre ai tre maggiori, si trovano, nell’ordine: Nazionalisti scozzesi; Unionisti dell’Ulster; Gallesi; Sinn Fein, Verdi), ma due soli si sono alternati al governo del Regno Unito nel secondo dopoguerra fino alla coalizione Conservatori-Liberali dal 2010 al 2015. Quindi, la proporzionale non farebbe crescere il numero dei partiti rappresentati alla Camera dei Comuni, ma aumenterebbe i seggi, per esempio, dei Liberaldemocratici, il partito nazionale molto svantaggiato dalla legge maggioritaria, e dei Verdi, svantaggiatissimi. Sicuramente, diminuirebbero i seggi dei due principali partiti: i Conservatori e i Laburisti. Nelle condizioni date non è neppure da escludere che una parte di Conservatori facciano una miniscissione motivata da una Brexit che ritengano troppo svantaggiosa per il reame. Con tutta probabilità, qualsiasi governo finirebbe per nascere intorno ad un’alleanza a due con i Liberali che potrebbero diventare il partito pivot per evitare una Grande Coalizione (s’è visto mai che i britannici imitino i tedeschi?).
Nessuno di questi esiti, in termini di numero dei partiti che ottengono, o no, rappresentanza parlamentare, e di assegnazione dei seggi fra i partiti, con la sicura sovrappresentanza dei partiti grandi qualora si utilizzi una legge maggioritaria, stupirebbe gli studiosi dei sistemi elettorali. Tutti richiamerebbero l’attenzione sulle clausole relative alle leggi proporzionali, quali, soprattutto, la soglia di accesso al Parlamento e la dimensione delle circoscrizioni misurata con riferimento al numero di parlamentari da eleggere in ciascuna di loro. Però, con circoscrizioni piccole nelle quali siano da eleggere meno di dieci parlamentari la potenziale frammentazione del sistema dei partiti sarebbe notevolmente contenuta. Infine, nessuno degli analisti sosterrebbe che le leggi maggioritarie danno governabilità e che le leggi proporzionali garantiscono rappresentanza. Le leggi maggioritarie premiano i partiti già grandi, ma la capacità di governare dovrà essere dimostrata dai loro dirigenti. Per il solo fatto che consentono l’ingresso in Parlamento a molti partiti, non è affatto detto che le leggi proporzionali diano migliore e maggiore rappresentanza. Al contrario, potrebbero essere responsabili della frammentazione partitica e parlamentare. Qualora, poi, analisti elettorali e cittadini s’interroghino sulla qualità della rappresentanza parlamentare, è probabile che convergerebbero su almeno un’importante conclusione: buone e preferibili sono quelle leggi elettorali che, poiché sono imperniate su collegi uninominali o prevedono le preferenze, danno a chi vota il potere di influire in maniera significativa sull’elezione dei rappresentanti. Saranno poi quei parlamentari a offrire rappresentanza e garantire governabilità, non i premi altrove inesistenti. De Italia fabula narratur.
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