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Le promesse sulla legge elettorale #OscuriDesiderideiPolitici

Care (e)lettrici e (e)lettori che sulle spiagge fra un bagno e l’altro e fra una bibita e un gelato vi chiedete con quale legge si andrà a votare, prestate un po’ di attenzione anche saltuaria a quel che dicono i politici. Vogliono farvi credere che preparano una legge buona per voi e per il sistema politico che diventerà finalmente governabile. È l’oggetto di loro oscuri desideri. Per metà non sanno di cosa parlano poiché i meccanismi elettorali hanno sempre qualche elemento di complessità che sfugge loro, per l’altra metà, manipolano.

Primo punto, non credete a chi vi dice che purtroppo stiamo tornando alla proporzionale. Il ritorno è avvenuto già nel 2005 con la legge del centro-destra nota come Porcellum e sarebbe continuato con l’Italicum (non casualmente gradito anche a Berlusconi), entrambe leggi proporzionali “distorte” da un premio di maggioranza. I critici del ritorno, in realtà, desiderano non una legge elettorale maggioritaria come l’inglese o la francese, entrambe applicate in rischiosissimi collegi uninominali, ma un premio di maggioranza per trasformare un consenso elettorale del 30/40 per cento di voti in un gruppo parlamentare con 54 per cento di seggi. Meglio di no, meglio non stravolgere artificialmente la rappresentanza proporzionale, visto anche che né con Berlusconi né con Renzi al governo abbiamo avuto stabilità e efficacia decisionale.

Secondo, è’ tornato in auge, ma non sono sicuro lo sia davvero mai stato, il sistema elettorale tedesco che, con buona pace del Direttore de “Il Foglio” e di troppi altri, non è un proporzionale “puro” non foss’altro perché ha una bella clausola del 5 per cento per accedere al Parlamento. Allo stato dei consensi rilevati da tutti i sondaggisti, quella clausola escluderebbe dal Parlamento Angelino Alfano, Giorgia Meloni, il Movimento Democratico Progressista. Otterrebbero seggi il PD, il Movimento Cinque Stelle, Forza Italia e la Lega Nord (no, non sono sicuro che questa sarà la graduatoria). Sono sicuro che qualsiasi premio di maggioranza fantasiosamente inserito nel sistema tedesco lo snaturerebbe e imporrebbe di chiamarlo in un altro modo.

Terzo, sotto traccia tutti sanno, più di chiunque lo sanno i parlamentari, che quello che interessa davvero sia a Berlusconi sia a Renzi è avere il potere di nominare i propri parlamentari. Il sistema davvero tedesco elegge metà dei parlamentari in collegi uninominali, anche per questo i due leader ne vorrebbe una correzione/stravolgimento. Quanto alla reintroduzione delle preferenze per dare agli elettori un po’ di potere nell’elezione dei parlamentari, è alquanto offensivo per gli italiani sostenere che il voto di preferenza è veicolo di corruzione come se i parlamentari in carica dal 2013, nessuno eletto con voti di preferenza, non fossero incappati in molti casi di corruzione e di altri reati connessi.

Soprattutto, alza la voce Matteo Renzi, quarto punto, niente coalizioni. Lui sostiene che la coalizione la fa(rà) con i cittadini. Peraltro, il governo che Renzi ha guidato da febbraio 2014 al dicembre 2016 era un classicissimo governo di coalizione: Partito Democratico, Scelta Civica, Nuovo Centro Destra. Quel che più conta, però, è che la politica è proprio l’arte di fare coalizioni anche di governo. Non sarà mica un caso se tutte le democrazie parlamentari dell’Europa occidentale, ma anche la democrazia semipresidenziale francese, hanno governi di coalizione? Aggiungo che tutte queste democrazie, ad eccezione di Gran Bretagna e Francia, usano da molto tempo, alcune da sempre, leggi elettorali proporzionali.

Allora, concludo, il compito per le vacanze dei politici che non ne sanno abbastanza e per quelli che fanno furbesche manipolazioni è: non inventatevi nulla. Avete già dato molto e male. Studiate le leggi elettorali europee per importarne il meglio. Al momento opportuno gli elettori vi valuteranno anche con riferimento alla legge con la quale saranno costretti a votare (o no).

Pubblicato AGL 8 agosto 2017

Il populismo nei giochi di coalizione

Nelle elezioni amministrative succedono molte cose che non necessariamente si ripeteranno nelle elezioni politiche. Però, qualche lezione se ne può trarne in maniera piuttosto chiara. Le propongo in un ordine d’importanza diverso da quello delle prime analisi, spesso influenzate da pregiudizi e tese a definire la situazione in modo favorevole a una specifica parte politica. Prima lezione, sia il sistema elettorale per l’elezione dei sindaci sia, più in generale, la politica delle democrazie, anche locali, spingono verso la formazione di coalizioni. Smentendo affermazioni propagandistiche campate in aria, questo voto amministrativo dice che le coalizioni sono il modo preferibile di fare politica. Un buon leader, ma Berlusconi dovrebbe ricordarsi del suo esordio vincente nel 1994, quando costruì due coalizioni, smussa le differenze, raggiunge accordi, unifica posizioni. Chi sa costruire coalizioni in modo adeguato a sostegno di una candidatura decente viene giustamente premiato dall’elettorato (in Italia e altrove). Dunque, non è corretto sostenere che è “tornato” il centro-destra. Esiste un elettorato di centro-destra al quale, in molti contesti, Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno fatto una buona offerta di rappresentanza e di governo delle città, risultandone premiati. Se troveranno un accordo simile a livello nazionale, più difficile a causa delle posizioni sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia e del conflitto sulla leadership, il centro-destra sarà competitivo con qualsiasi sistema elettorale. Anche il Partito Democratico, nonostante l’idiosincrasia altalenante del suo segretario, ha variamente costruito coalizioni persino con gli scissionisti pure, spesso, definiti “traditori” dai collaboratori più stretti di Renzi. Dopo il voto e in vista del ballottaggio, quegli stessi collaboratori aggiungono buffamente che il PD si alleerà con i movimenti civici di sinistra, ma anche con quelli di centro. Insomma, alcuni piddini stanno ancora sulla prospettiva del Partito della Nazione. Anche nel loro caso, però, dovrebbe valere la lezione che le coalizioni bisogna cercarle e saperle fare non solo per motivi elettorali.

Il primo turno delle elezioni amministrative ha uno sconfitto sicuro: Beppe Grillo, forse due: Luigi Di Maio. Non è soltanto che gli elettori di Genova, come tutti sanno la città di Grillo, gli hanno risposto che no, non si fidano di lui e del cambio in corsa della candidata che aveva vinto le primarie (una violazione della democrazia sotto tutte le latitudini), ma anche che coloro che Grillo aveva spinto fuori dal Movimento, come il sindaco di Parma (ben piazzato per il ballottaggio) e il sindaco di Comacchio (che ha già rivinto la carica), hanno dimostrato di non avere bisogno di lui (né di Di Maio). Per chi guida un Movimento verticistico questa è più che una sconfitta elettorale. È una sconfessione abbastanza plateale. Tuttavia, le liste del Movimento nel loro insieme non vanno malissimo. Anzi, le elezioni amministrative sono state una buona occasione per continuare il radicamento sul territorio. Il resto l’hanno fatto, in maniera evidentemente non convincente, le candidature.

Gli elettori erano perfettamente consapevoli che stavano votando il potenziale sindaco e che centro-destra e centro-sinistra offrivano alternative talvolta sperimentate e credibili. Qui si apre il problema del reclutamento delle Cinque Stelle per risolvere il quale non potrà bastare un pugno di votanti come quelli che si sono espressi nelle apposite consultazioni. Tuttavia, fanno male i commentatori che scrivono che ha perso il populismo. Tanto per cominciare quello di Salvini, accompagnato dalla presenza sul territorio, è vivo e vegeto e, in secondo luogo, il consenso per le Cinque Stelle a livello nazionale proviene più che da toni e stile populisti, dalla critica dei politici e del loro modo di fare politica. È uno zoccolo che i non buoni risultati nelle elezioni amministrative sfiorano, ma non scalfiscono. Il resto ce lo diranno fra due settimane, con la forza del loro voto, che sanno usare in maniera efficace, gli elettori dei ballottaggi.

Pubblicato AGL 13 giugno 2017

Così il “Mattarellum” incoraggia il bipolarismo

Corriere della sera

Non è bizzarra l’aspettativa che i partiti esistenti tentino strenuamente di difendere se stessi di fronte a qualsiasi riforma elettorale e, se possibile, mirino ad avvantaggiarsene. E’ sbagliato, però, molto sbagliato, pensare che buone leggi elettorali, una volta congegnate, siano del tutto dominabili dai partiti e non abbiano effetti significativi su ciascuno di loro, sul sistema dei partiti, sulle modalità di competizione. Quando, poi, dalla teoria si scende alla pratica, allora i ragionamenti dovrebbero fare riferimento alle realtà conosciute e certificate. Ad esempio, il Mattarellum non fu elaborato per difendere e neppure per configurare il bipolarismo. Sicuramente, i referendari e i molti milioni di elettori che nel fatidico 18 aprile 1993 approvarono il quesito erano interessati al bipolarismo poiché desideravano fortemente costruire le condizioni elettorali dell’alternanza. Altrettanto sicuramente, però, non fu un fantomatico e inesistente bipolarismo, tantomeno parlamentare, a dare vita al Mattarellum.

Difficile dire esattamente quanti poli esistessero nel Parlamento eletto nel 1998, forse almeno quattro: Movimento Sociale, Lega Nord, Democristiani, Partito democratico della Sinistra (più Verdi e Rifondazione Comunista, forse la seconda anch’essa considerabile come polo). Eppure, furono quei molti poli ad approvare, sotto la costrizione del successo referendario, il Mattarellum. Ovviamente mai bipolaristi, i Democristiani neppure erano interessati a una legge elettorale in grado di favorire l’alternanza che, notoriamente, diventa più facile se il sistema dei partiti si approssima al bipolarismo. Tuttavia, se il Mattarellum non fosse (stato) un sistema elettorale tre quarti maggioritario applicato in collegi uninominali, la comparsa del bipolarismo sarebbe stata alquanto improbabile. Anzi, i Democristiani variamente diventati Popolari si comportarono come se fosse possibile mantenere/avere un sistema tripolare nel quale loro, collocati al centro, avrebbero deciso le alleanze di governo.

La spinta decisiva al bipolarismo la impresse, più di chiunque altro, Silvio Berlusconi che comprese rapidamente la necessità di costruire coalizioni in grado di presentare e sostenere un unico candidato nei collegi uninominali. Al Nord fece il suo debutto il Polo della Libertà: Forza Italia più Lega Nord. Nel Centro e nel Sud, il Polo del Buongoverno mise insieme Forza Italia e la neo-trasformata Alleanza Nazionale. I Popolari ebbero un esito disastroso. Sia il fautore dei collegi uninominali, Mariotto Segni, sia il relatore della legge che porta il suo nome, Sergio Mattarella, furono sconfitti nei loro collegi uninominali, ma rieletti grazie al recupero proporzionale (con le modalità apposite, scheda separata e candidature bloccate, disegnate per la Camera dei Deputati) e il partito nel suo insieme risultò irrilevante.

L’obiezione, troppo spesso pappagallescamente ripetuta, che il Mattarellum non è adatto ad un sistema partitico tripolare, è sostanzialmente sbagliata. Che uno o due dei poli esistenti non voglia il Mattarellum è plausibile, forse anche comprensibile, anche se discende da gravi difetti di miopia politica. Peraltro, nell’attuale Parlamento i poli sono più di due, almeno quattro: Partito Democratico, Movimento Cinque Stelle, Lega Nord (più, forse, Fratelli d’Italia) e Forza Italia, se non addirittura cinque qualora comparisse un’aggregazione di sinistra. La riproposizione del Mattarellum, con qualche correzione, ad esempio, per impedire le liste civetta, obbligherebbe a formare aggregazioni. Insomma, darebbe una forte spinta in direzione del bipolarismo, naturalmente penalizzando in maniera anche molto significativa chi non cercasse oppure non volesse alleati. Concludendo, il Mattarellum incentiva in maniera importante il bipolarismo e dovrebbe essere sostenuto da chi il bipolarismo desidera davvero. A non volere il Mattarellum sono i nemici del bipolarismo, che provengano dai ranghi dei sostenitori ipocritamente pentiti dell’Italicum oppure da quelli dei fautori di un sistema proporzionale, non tedesco, che nessun “latinorum” potrebbe legittimare e lustrare. Rimane, però, che chi voglia ristrutturare il sistema dei partiti italiani deve sapere che, se respinge il Mattarellum, non gli resterà che fare affidamento su leggi proporzionali purché dotate di alte soglie percentuali per l’accesso al Parlamento. Riuscirà ottenere qualche miglioramento rispetto alla situazione attuale, ma sarà molto improbabile che pervenga al bipolarismo.

Pubblicato il 5 gennaio 2017

Salvini può sognarsi la guida della Destra, ha più possibilità persino Maroni

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Intervista raccolta da Giorgio Velardi

Altro che “Trump italiano”. La leadership del centrodestra il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, può sognarsela. Parola del politologo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza della politica all’Università di Bologna. “A quel punto meglio Roberto Maroni – dice a La Notizia –. Peccato non spinga fino in fondo sull’acceleratore”.

Andiamo verso un centrodestra italiano a trazione leghista?
La prospettiva di un centrodestra italiano a trazione leghista credo che non esista.

Cosa la porta a dire questo?
Il fatto che in questo Paese per vincere c’è bisogno di un leader che non sia troppo distante dal centro. I voti delle ali estreme convergono in quella direzione, mentre non avviene il contrario. Salvini non può diventare il capo di quell’area, ma al tempo stesso può impedirle di riunificarsi. Dall’altra parte, Berlusconi continua a non trovare un successore. E probabilmente non lo troverà mai, perché è unico nel suo genere.

Il Cavaliere ha “scaricato” l’ennesimo delfino sul quale aveva investito, Stefano Parisi. Era quello più sacrificabile se messo a confronto con Salvini?
Non penso che Berlusconi abbia investito su Parisi. È vero il contrario: l’ex candidato sindaco di Milano ha puntato su di sé probabilmente esagerando, vista la sconfitta rimediata contro Sala. Del resto, il leader di Forza Italia ha sempre avuto dei tratti che lo accomunavano a Umberto Bossi: populista elegante il primo, rampante il secondo. E sa che il rapporto con il Carroccio è fondamentale, altrimenti le chance di un’eventuale vittoria sarebbero ridotte al lumicino.

Ma quindi un Trump italiano non esiste proprio?
Trump è il Berlusconi americano, che grazie a quel sistema elettorale ha vinto contro la Clinton. Nel bene e nel male, se non ci fosse l’ex presidente del Consiglio non avremmo nessun “nostro” Trump.

E la Meloni? Lei continua a chiedere le primarie, da sempre annunciate a destra e mai diventate realtà.
Ha le caratteristiche per poter guidare uno schieramento di centrodestra, ma il problema in questo caso è un altro.

A cosa si riferisce?
Prima che il centrodestra affidi a una donna la leadership passerà ancora molto tempo. Anche perché se la Meloni scendesse in campo dovrebbe confrontarsi con Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, le candidate di Berlusconi. Bene fa la leader di Fratelli d’Italia a chiedere le primarie: sono un elemento di mobilitazione ma vanno organizzate bene, altrimenti rischiano di disaggregare. Anche perché il Cavaliere spingerà una sua figura che poi potrà controllare.

Berlusconi rimane un brand. La prospettiva resta la candidatura di uno dei suoi figli?
Era una prospettiva esistente ma credo che sia passata. Marina ha dimostrato in questi anni di avere delle capacità per raccogliere il testimone del padre, ma ha perso l’attimo. Stesso discorso per Piersilvio: è troppo tardi.

Secondo lei in che direzione si va?
È difficile da dire, anche perché non ci sono figure vincenti. Forse fra quelli che oggi popolano quell’area il migliore è Raffaele Fitto. Ma…

Quali problemi vede in questo caso?
Per il centrodestra è fondamentale l’elettorato del Nord, e Fitto non ha quella caratura per poterlo raggiungere.

E un outsider non esiste proprio?
Una figura che potrebbe aggregare bene le anime sparse c’è e si chiama Roberto Maroni, leghista moderato e governante. Certo, non è una novità. E non lo vedo spingere sull’acceleratore fino in fondo.

Alfano sta cercando di rientrare nelle grazie di Berlusconi. Ci riuscirà?
La dico brutalmente: Alfano, che non è un leader, vale il 3/3,5%, Salvini il 12. Credo che questo Berlusconi lo sappia bene.

Tw: @GiorgioVelardi

Pubblicato il 16 novembre 2016 su lanotiziagiornale.it

Cosa manca al centrodestra di Salvini. Parla il prof. Pasquino

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Intervista raccolta da Giovanni Bucchi per Formiche.net

Salvini e Meloni pimpanti. Berlusconi spompato. Al centrodestra manca la terza gamba centrista, ossia un esponente di Forza Italia, più o meno quarantenne, che abbia la stessa capacità di trascinamento e sia un buon oratore. L’analisi del politologo che era presente in piazza Maggiore a Bologna per la kermesse voluta dalla Lega

Avanza un nuovo centrodestra. Avanza una nuova generazione di leader incarnata dal leghista Matteo Salvini della Lega e da Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Peccato però che in questo nuovo centrodestra ci sia un “terzo assente”, dato che ancora non si trova un leader giovane ed emergente di Forza Italia in grado di guidare la coalizione e gettare l’amo nell’area centrista. Questo “40enne forzaitaliota” continua a latitare perché Silvio Berlusconi non vuole cedere il passo. Nonostante l’inevitabile declino della sua forza propulsiva e aggregatrice, come si è visto oggi a Bologna.

E’ questa in sintesi l’analisi fatta da Gianfranco Pasquino dopo una mattinata trascorsa in piazza Maggiore a seguire la manifestazione “Liberiamoci e Ripartiamo” organizzata dal Carroccio. Il politologo dell’Università di Bologna, ex senatore indipendente di sinistra, in questa intervista con Formiche.net offre una lettura di quanto accaduto sotto le Due Torri, tratteggiando gli scenari futuri del centrodestra italiano.

Professor Pasquino, lei oggi era in piazza Maggiore nella sua Bologna alla manifestazione della Lega Nord. Qual è stata la sua impressione?

Piazza Maggiore era certamente piena; al di là dei numeri che daranno gli organizzatori, credo che 40mila persone ci fossero per davvero, e per Bologna non è poco. Ho visto molte bandiere della Lega, molte anche di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, assenti invece quelle di Forza Italia. Ho girato abbastanza tra la gente, riscontrando un pubblico molto variegato, fatto di persone anziane, donne di mezza età, giovani e molti uomini. Ho avuto l’impressione di trovarmi in una piazza di popolo, antagonista rispetto al governo ma senza intemperanze.

E’ stato un successo per gli organizzatori?

E’ stato un grande successo organizzativo di Salvini, che ha fatto gli onori di casa. Era una piazza leghista con due invitati di rilievo: una giovane donna romana, la Meloni, buona oratrice di piazza anche un po’ teatrale, e un uomo anziano, un po’ ripetitivo, chiaramente spompato, che dava i numeri ma che non ha più nessuna forza propulsiva e non riesce a prenderne atto. Ha parlato quasi nel disinteresse della gente.

Immagino stia parlando di Berlusconi. Il quale però ha detto che con Salvini e la Meloni può superare il 40%, si è preso pure qualche fischio ed è arrivato a paragonare Grillo a Hitler e Renzi al Duce. Che idea s’è fatto?

La narrazione berlusconiana è finita, non riesce più a dare nulla di convincente a questo Paese. La sua parabola si è conclusa, continua a ripetere le stesse cose dette negli ultimi tre o quattro anni ma prive di accenti di novità. Berlusconi non è più convincente per nessuno, oggi lo si percepiva a pelle. I suoi eccessi al microfono hanno destato qualche ilarità tra la folla, c’era intorno a me chi diceva che stava esagerando, poi ha iniziato a dare i numeri come quella storia del 40%… è stata accolta da alcune risate. Sa cosa ho fatto io?

No, me lo dica.

Ho avvertito mio figlio: se divento così ripetitivo, devi intervenire per farmi smettere!

Dopo la manifestazione di Bologna, nel centrodestra cambierà qualcosa?

Bisogna prendere atto che c’è una nuova generazione incarnata da Salvini e dalla Meloni. Però manca la terzo gamba, io parlo di un “terzo assente”, ossia un esponente di Forza Italia, più o meno quarantenne, che abbia la stessa capacità di trascinamento e sia un buon oratore di piazza. Ci manca questo forzaitaliota giovane, anche perché è evidente che né Salvini né la Meloni possono guidare il centrodestra nel suo insieme; sono di parte, anche di parti distanti tra loro, non riescono a fare una sintesi adeguata. La Meloni ha fatto un discorso nazionalista, senza eccessi e senza nessun cenno di populismo, anche quando ha parlato di islamofobia ha chiaramente fornito una visione italiana, di destra nazionale, ma non è una Le Pen perché non eccede a quel livello. Salvini invece ha aspirazioni populiste, ha mandato sul palco alcune persone a raccontare delle loro difficoltà di vita per farle attaccare il governo, ma erano poco considerate dalla piazza.

La piazza di Bologna ha incoronato Salvini come nuovo leader del centrodestra?

Se il centrodestra facesse le primarie, le vincerebbe subito Salvini, a meno che decida di non partecipare. Ma non credo proprio che le faranno. Salvini è consapevole di essere tecnicamente il capo dello schieramento, ma la coalizione con lui in testa non vince, non conquista abbastanza voti; e lui lo sa. Per questo sono convinto che cercheranno di trovare personalità differenti, come i governatori leghisti Zaia e Maroni. Anche se io continuo a pensare che il miglior candidato premier del centrodestra debba essere un esponente di Forza Italia, preferibilmente legato al mondo cattolico, che in regioni chiave come il lombardo-veneto è molto forte. Sul palco di oggi mancava proprio una figura di questo tipo. Gli serve un politico di statura medio-alta, non devono andare a cercare un giornalista o chissà cos’altro.

Si apre quindi il tema del rapporto con il centro. C’è Area Popolare, un soggetto politico magmatico e con contorni non ancora ben definiti.

La definizione di ambiente magmatico è corretta. Si tratta di un’area confusa, alla quale non si può dare un’organizzazione, ma dove si può tentare di reclutare quelli che sono leader naturali dentro al mondo cattolico. Anche il centrodestra salviniano ha bisogno di una componente di centro. Quando c’era Berlusconi, era lui che riusciva ad agganciarla e a prenderne i voti. Adesso non c’è un esponente forte di Forza Italia su cui fare leva; non a caso la Meloni oggi ha insistito molto sulla difesa della famiglia tradizionale perché sa di dover trovare voti nel mondo cattolico.

Con Salvini leader del centrodestra e Berlusconi e Meloni al traino, Renzi può dormire sonni tranquilli?

Spero proprio che Renzi non dorma sonni tranquilli e si preoccupi del fatto che se non cambia la legge elettorale, al ballottaggio si trova con uno sfidante scelto da Grillo, il che potrebbe diventare per lui parecchio problematico. Non ho alcun dubbio sul fatto che al ballottaggio con Renzi ci andrà un esponente dei 5 Stelle, così come non ho dubbi sul fatto che una parte della piazza di oggi preferirà in quel caso votare un grillino rispetto a Renzi.

Pubblicato 8 novembre 2015

Il fantasma che scuote l’Italicum

Le riforme elettorali non debbono mai essere tagliate su misura del sistema partitico esistente, meno che mai per avvantaggiare uno o più partiti in campo. E’ una lezione che, dalla legge truffa del 1953 al Porcellum del 2005, avrebbero dovuto imparare tutti, compresi i non troppo autorevoli consiglieri di Renzi. Invece, no: i renziani e i berlusconiani si misero d’accordo su un testo che sembrava offrire ricchi doni e cotillons (liste bloccate, candidature multiple, premio di maggioranza alla lista) sia al Partito Democratico sia a Forza Italia. Poi, come spesso capita, ci si sono messi di mezzo gli elettori. Adesso sulla testa dell’Italicum e dei suoi fautori si aggira un fantasma: la possibilità che all’eventuale (solo se uno dei partiti, da solo, non raggiunge il 40 per cento dei voti) ballottaggio ci arrivi il Movimento Cinque Stelle. Inesorabili i sondaggi segnalano che, sì, il Movimento Cinque Stelle sopravanza, inesorabilmente, sia la tuttora declinante Forza Italia sia la ancora arrembante Lega  (Nord?). Nessuna delle due, da sola, riuscirebbe a superare in voti le Cinque Stelle. Al ballottaggio fra PD e il Movimento di Grillo che sarà, presumibilmente, capitanato da un ottimo candidato a Palazzo Chigi, se ne vedrebbero, e altrove, da Parma a Livorno, se ne sono già viste, delle belle. Di qui un sotterraneo affannarsi a trovare la riforma della riforma.

Scartata l’idea, alquanto truffaldina, di stabilire che una lista venga considerata unica anche se nel suo simbolo ci staranno tre-quattro logo di partiti differenziati, l’ipotesi è consentire la presentazione di coalizioni. Sarebbe opportuno distinguere fra coalizioni pre-elettorali, che gli elettori possono già valutare al momento del primo voto, e apparentamenti fra il primo voto e il voto di ballottaggio. Brutta è la motivazione di questa modifica in base ad uno stato di necessità. Meglio sarebbe ricordare a tutti che i governi, nelle democrazie parlamentari, sono, nella quasi totalità dei casi, fatti da coalizioni. Che le coalizioni sono sempre più rappresentative di singoli partiti, anche quando questi siano molto grandi (ma il 30 per cento non è mai da considerare molto grande) e sono anche costrette a scrivere un programma che escluda gli elementi estremisti e propagandisti. Che siano state, nella tradizione italiana, coalizioni litigiose è un fatto, ma la litigiosità sarà sicuramente rottamata da leadership autorevoli.

Quello che non bisogna assolutamente rottamare è il ballottaggio. Anzi, bisognerebbe prevederlo sempre e comunque stabilendo, però, una soglia percentuale minima per accedervi, almeno, il 20 per cento dei voti. Il ballottaggio dà più potere agli elettori  che potranno anche cambiare il loro orientamento di voto dal primo turno al ballottaggio (in Francia sono costantemente molti gli elettori mobili, e decisivi) . Inoltre, se saranno consentiti gli apparentamenti, il ballottaggio obbliga alla costruzione di coalizioni ampie e, come detto, più rappresentative, coalizioni che, dopo il voto vittorioso, risulteranno più legittimate a governare. Certo, accettare queste due modifiche, magari anche eliminando quell’obbrobrio che si chiama candidature multiple, costituirebbe per i riformatori l’ammissione che la loro non era velocità né, tantomeno, competenza, quanto ingiustificabile frettolosità, e che i critici erano, a seconda delle loro controproposte, gufi saggi. Quei gufi non chiedono dolorose ammissioni di errori madornali. Si accontenterebbero di modifiche migliorative ad una legge che, purtroppo, rimarrà bruttina.

Pubblicato AGL il 26 giugno 2015

Con una mediocre riforma Renzi ha messo nell’angolo Berlusconi. Parla GP

formiche

Il politologo valuta gli scenari aperti dalla revisione costituzionale. Boccia la linea di Forza Italia. E auspica l’introduzione delle preferenze nell’Italicum.

Intervista raccolta da Edoardo Petti per Formiche.net il 10 marzo 2015

Un passo decisivo verso le nuove istituzioni disegnate da Matteo Renzi è stato compiuto. L’Aula di Montecitorio ha terminato la prima lettura del progetto di revisione costituzionale governativo con 357 voti favorevoli e 125 contrari. Formiche.net ha interpellato lo scienziato politico dell’Università di Bologna Gianfranco Pasquino per comprenderne i risvolti nel panorama partitico.

Come giudica il contenuto della riforma?

Il testo mi pare brutto. Perché se si crea una Camera di rappresentanza delle autonomie è necessario essere precisi su come gli enti locali vengono rappresentati. Anziché mescolare i sindaci con figure nominate dalle regioni, era meglio imitare il Bundesrat tedesco – costituito esclusivamente da esponenti dei Lander – tipico di un assetto parlamentare che funziona benissimo.

Vi sono ulteriori punti critici?

Non capisco il ruolo dei i 5 senatori nominati per 7 anni dal Presidente della Repubblica. Poi, se il problema è ridurre il numero dei parlamentari, bisognava tagliare anche quello dei deputati. E va bene fare una Camera di 100 rappresentanti delle autonomie territoriali, ma si dovrebbe trovare un diverso metodo di scelta. Resta aperto, inoltre, il tema dei compiti del prossimo Senato. Consentire a senatori non eletti il potere di contribuire alla riforma della Costituzione mi sembra eccessivo.

Il combinato disposto della revisione istituzionale e della nuova legge elettorale prefigura un modello coerente?

Parlerei di “scombinato indisposto”. Matteo Renzi voleva approvare un meccanismo di voto calibrato sulla Camera politica. Ma non si è preoccupato del nuovo Senato, che squilibra l’assetto istituzionale. Fondato su un governo che può contare su un altissimo numero di parlamentari nominati ed eletti con il premio di maggioranza. Uno sbilanciamento che incide pesantemente sulla scelta del Capo dello Stato.

La minoranza del Partito democratico ha vincolato il proprio Sì alla riforma alle modifiche del meccanismo di voto. A partire dal superamento dei capilista bloccati.

Che in effetti non dovrebbero essere previsti. Sarebbe utile che fosse adottato il voto di preferenza unico voluto dalla grande maggioranza dei cittadini italiani nel referendum del giugno 1991. Certo, le preferenze costituiscono una causa di corruzione. Ma è stata varata una legge contro il fenomeno. Il problema dei capilista bloccati in ogni caso non è l’unico.

Quali sono gli altri aspetti controversi?

Le candidature multiple, che dovrebbero essere buttate a mare subito. E l’attribuzione al singolo partito del premio di governabilità. Nelle democrazie politiche europee gli esecutivi sono tutti di coalizione ad eccezione della Spagna. Il premier preferisce invece puntare su una compagine mono-partitica, meno rappresentativa dell’elettorato.

Matteo Renzi sembra prospettare una dinamica tendenzialmente bipartitica.

Non è vero. Lungi dal favorire percorsi di aggregazione, le regole elettorali scelte frammentano e svantaggiano le forze di opposizione, relegandole in un ruolo marginale rispetto al governo. Vi è una cosa che sarebbe divertente per i politologi.

Cosa?

Visto lo stato di lacerazione del centro-destra, diviso dalle rivalità tra formazioni non molto forti secondo tutte le rilevazioni demoscopiche, nelle future elezioni politiche sarebbe probabile un ballottaggio tra Pd e Movimento Cinque Stelle. Le tornate amministrative di Parma e Livorno rivelano che a quel punto i giochi potrebbero riaprirsi.

I parlamentari penta-stellati hanno scelto la linea dell’Aventino denunciando “metodi fascisti” nello stravolgimento della Costituzione.

Si tratta di toni esagerati. Non ci troviamo di fronte a una deriva autoritaria, bensì in presenza di una scarsa cultura costituzionale e di un notevole tasso di improvvisazione nei governanti. Il rischio autoritario dovrebbe coinvolgere tutte le istituzioni repubblicane. Per fortuna vi sono una Corte Costituzionale e un Capo dello Stato con un forte senso dell’equilibrio fra poteri. E un’opinione pubblica restia ad avventure anti-democratiche.

Forza Italia invece ha votato No alla riforma, rovesciando la strategia fin qui adottata.

Silvio Berlusconi lo ha fatto per non lasciare la bandiera dell’opposizione alla Lega Nord e ad avversari interni come Raffaele Fitto. La scelta rivela che l’ex Cavaliere ha negoziato male con Renzi, e ora cerca di recuperare.

Nella partita delle riforme il premier ha messo alle corde il “partito azzurro”?

Fi sta seguendo una deriva verso posizioni minoritarie. Il suo leader, giunto al tramonto della propria parabola politica, non è in grado di tenere insieme le anime del partito. E non sa proporre un’alternativa, privo di qualunque concezione istituzionale nuova e dirompente.

Sbagliato far finta di niente

Chi cade dall’alto fa molto più rumore. Ecco perché il crollo dell’affluenza elettorale in Emilia-Romagna (dal 68 % del 2010 al 37 % del 2014, se ne sono andati a spasso più di un milione di elettori) fa più rumore del declino, pure significativo in Calabria (dal 58,5 % del 2010 al 44 % del 2014). Inaspettato nelle sue dimensioni, l’astensionismo emiliano-romagnolo è ancora più preoccupante per quello che esprime. In una regione da sempre caratterizzata da alti livelli d’impegno e di partecipazione politica, viene un segnale, non casuale, ma voluto dagli astensionisti, di rifiuto dei candidati, dei partiti, dei loro mediocri programmi, della politica espressa negli ultimi quattro anni. C’è anche del disgusto per i rimborsi spese gonfiati e ingiustificabili e per la condanna in primo grado del Presidente uscente. Anche in Calabria le elezioni anticipate sono state prodotte dalla condanna definitiva del Presidente. Però, in Calabria il comprensibile disgusto per la politica è la conseguenza del cattivo governo locale. Potrebbe, persino, esserci qualcosa di più nell’astensionismo: una dichiarazione di irrilevanza del livello regionale di governo. Insomma, hanno sicuramente pensato centinaia di migliaia di elettori, queste regioni e i loro governanti non migliorano la qualità della nostra vita. Non sanno svolgere compiti essenziali: dalla sanità, inquinatissima in Calabria, al lavoro, alle infrastrutture.

Nel suo approfondito commento affidato, come al solito, a un tweet mattutino, Renzi spinge sotto il tappeto della vittoria in entrambe le regioni tutti i problemi che il non-voto segnala. Chi si contenta gode, buon per lui, ma male per gli italiani, per il suo governo e per lo stesso Partito Democratico. In Calabria, vince un esponente della più vecchia guardia, mentre il candidato Bonaccini, renziano di strettissima osservanza, vince la Presidenza dell’Emilia-Romagna lasciando per strada 300 mila voti. La Lega Nord di Salvini gongola perché la sua OPA ostile (offerta pubblico d’acquisto) sulla deterioratissima Forza Italia ha avuto successo. Tuttavia, la Lega non guadagna voti, ma ne perde 50 mila rispetto al 2010 (Forza Italia in piena rottura ne perde 400 mila). Per quanto Grillo ne abbia fatte (espulsioni varie di coloro che avevano contribuito al notevole successo iniziale delle Cinque Stelle) e non fatte (nessuna presenza in campagna elettorale né in Calabria, dove sostanzialmente viene cancellato, né in Emilia-Romagna), nella regione “rossa”il Movimento guadagna addirittura più di 30 mila voti, ma la sua percentuale, tra il 12 e il 13, rimane molto al disotto delle politiche del 2013.

Per qualche giorno, i politici s’interrogheranno sull’astensionismo. Poi passeranno ad altro, alle tematiche che appassionano (sic) gli italiani: una o più soglie di accesso al parlamento, quale percentuale per ottenere il premio di maggioranza, da darsi alla lista o alla coalizione…. Incurante del fatto che i molti voti perduti dal suo partito segnalano inevitabilmente anche grande insoddisfazione per lo scarso operato del suo governo e per i toni delle sue critiche alle organizzazioni intermedie, come la CGIL, Renzi dirà che bisogna andare avanti in fretta. Invece, gli astensionisti hanno detto che di riforme non ne hanno finora viste, che di annunci ne hanno sentiti abbastanza, che, soprattutto in Emilia-Romagna, credono che la democrazia è anche fatta di pluralismo associativo. Non bastano gli uomini soli al comando, come Renzi, o all’opposizione, come Berlusconi. I partiti personalisti possono anche vincere qualche elezione, ma non hanno cambiato e non cambiano la politica. Il ciclo di Berlusconi è finito, ma la sua ostinazione impedisce il rinnovamento di quel che resta di Forza Italia. In attesa del ciclo di Salvini, quello di Grillo continua anche se ad andamento lento poiché il leader delle Cinque Stelle non sembra più avere un progetto strategico. Il ciclo di Renzi ha subito una seria battuta d’arresto. Per coloro che ritengono che l’Emilia-Romagna sia stata un laboratorio democratico, dovrebbe crescere la preoccupazione proprio per lo stato della democrazia in Italia. E dove la democrazia funziona male la crescita economica risulta molto difficile.

Pubblicato AGL 26 novembre 2014

Oltre il bicameralismo imperfetto

l'Unità

Il bicameralismo italiano, non essendo affatto “perfetto”, come troppi, persino fra gli addetti ai lavori, si ostinano a dire, deve , comunque, essere riformato. Meglio definito paritario o simmetrico, il bicameralismo può anche essere abolito del tutto. Esiste il monocameralismo in paesi non scivolati sotto il tallone dell’autoritarismo né di altri “ismi”  come la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Svezia. Altrimenti può essere differenziato in maniera risolutiva ed efficace, vale a dire, affinché se ne giustifichi la persistenza. Fermo restando che in nessun sistema politico bicamerale sono entrambe le Camere a dare (e a togliere) la fiducia, questa non può essere l’unica nota differenziante e la giustificazione di una presunta migliore governabilità sarebbe davvero meschina e insufficiente. La differenziazione che conta è quella che riguarda la competenza, congiunta o esclusiva, per materia. Se il prossimo Senato dovrà essere una camera di “riflessione”, allora bisogna che siano chiare le materie sulle quali darà il suo apporto.

La grandissima maggioranza dei parlamenti bicamerali basa la sua differenziazione sulla rappresentanza territoriale. Le due eccezioni sono costituite dal prototipo della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord, composta da Lord ereditari o di nomina reale, ha un collegamento minimo con il territorio, e dal prototipo della democrazia presidenziale, gli Stati Uniti d’America, dove il Senato, probabilmente, il più forte ramo parlamentare esistente al mondo, ha certamente un collegamento fortissimo con il territorio, gli Stati, ma sarebbe alquanto improprio definirlo camera di rappresentanza territoriale. In Europa, la migliore e più forte rappresentanza territoriale è offerta dal Bundesrat tedesco. I suoi solo 69 componenti sono nominati dalle maggioranze di governo di ciascun Land. Vittoriosi in Baviera i democristiani nominano i loro rappresentanti al Bundesrat senza nessuna concessione ai socialdemocratici e ai verdi. Nei Länder dove vincono, i Socialdemocratici e i Verdi fanno altrettanto nominando soltanto loro rappresentanti.  Lo stesso vale per tutti gli altri Länder.

Mutatis mutandis, purché i mutamenti siano limitatissimi, questa modalità di composizione del prossimo, numericamente ridottissimo, Senato italiano, sono facilmente imitabili. Come stanno le cose, in Lombardia, saranno la Lega Nord e Forza Italia a nominare i loro rappresentanti (che potrebbero anche essere senatori uscenti, o giù usciti), mentre in Emilia-Romagna sarà il Partito Democratico a farlo, tenendo conto degli eventuali alleati al governo della Regione. Esiste, però, anche una modalità più innovativa, che garantirebbe rappresentanza territoriale, dando grande potere agli elettori e agli eletti. Una volta stabilito il numero complessivo dei prossimi Senatori, suggerirei non più dei componenti del Bundesrat, e distribuiti fra le Regioni di modo che quelle piccole ne abbiano uno soltanto e quelle grande non più di quattro/cinque, la loro elezione avverrebbe in una competizione su scala regionale, in inglese si dice at large. Vale a dire che ciascun elettore avrebbe un solo voto con il quale scegliere il suo candidato in liste regionali presentate dai partiti, ma anche da associazioni dei più vari tipi. Coloro che otterranno il più alto numero di voti individuale saranno eletti e andranno a rappresentare la loro Regione, proteggendone e promuovendone gli interessi in Italia, e anche in Europa, se a questo nuovo Senato saranno affidate le politiche europee e se l’UE riuscirà mai a diventare effettivamente l’Europa delle Regioni.

Stabilita con criteri chiari e univoci la composizione del nuovo Senato, dovrebbe risultare più semplice la differenziazione delle materie di competenza delle due camere. Comunque, se l’attuale Senato mira a giustificarsi come camera di riflessione, ne ha l’opportunità immediata. Respinga la blindatura imposta dal governo e proponga una riforma all’altezza della sfida. Hic Rhodus hic salta.

L’Unità 31 marzo 2014