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Viva la contesa. Ma si pensi agli elettori perduti @DomaniGiornale

La contendibilità (del governo) sta, in maniera non dissimile dalla bellezza, negli occhi di chi guarda. Vedere che i voti del proprio schieramento sono cresciuti è confortante. Constatare che i concorrenti si sono trovati in un sostanziale stallo è quasi altrettanto incoraggiante. Ma il futuro non è mai la semplice prosecuzione dell’oggi poiché numerosi altri fattori sono destinati a fare la loro comparsa. Votando (o no) nelle elezioni regionali, gli elettori erano ampiamente consapevoli della posta in gioco e anche delle problematiche alle quali i candidati presidenti, i loro partiti e, ancor più, le loro coalizioni avevano formulato le loro risposte programmatiche. In Veneto, in Campania e in Puglia non c’era nessun Presidente ricandidato che potesse trarre vantaggio dalle sue prestazioni di governante mettendole in contrapposizioni con le inevitabilmente meno solide promesse degli sfidanti. Peraltro, qualche vantaggio esiste quasi sempre, in termini di visibilità e di relazioni, per le coalizioni governanti. In tutt’e tre i casi, quei governi regionali potevano vantare una lunga storia, quantomeno decennale. Non ne è venuta nessuna sorpresa, ma soltanto una lezione di cui peraltro politici e commentatori attenti non dovrebbero avere necessità: se le sparse membra del centro-sinistra riescono a (ri)comporsi la loro somma può superare il numero di voti che raggranellati dal centro-destra.
Proiettare gli esiti delle elezioni regionali sulle nient’affatto imminenti elezioni politiche del 2027 (a proposito i partiti di governo ci risparmino il brutto gioco di scegliere la data solo in base alle loro convenienze e comunque decidano con un congruo anticipo), non è operazione facile. Chi la fa come, non da sola, la giustamente soddisfatta segretaria del Partito Democratico, deve essere consapevole che il “suo” campo non potrà permettersi nessuna defezione a livello nazionale, anche la più piccola potendo risultare decisiva. Quello che a livello regionale, gli elettori giustamente trascurano, vale a dire la politica estera, non potrà essere eluso a livello nazionale. Oggi come oggi e probabilmente anche domani, le differenze fra i protagonisti del campo largo, sono notevoli e non facili da spingere sotto il tappeto. Vero che la politica estera non è una priorità per l’elettorato italiano, ma basterebbero due o tre per cento di elettori che, particolarmente preoccupati, facessero mancare i loro voti perché l’ago della bilancia pendesse a destra.
Anche se sarebbe sempre preferibile che le elezioni venissero vinte da chi ha le proposte migliori e offre garanzie credibili di saperle attuare, da tempo i dirigenti dei partiti si dedicano alla manipolazione opportunistica delle leggi elettorali. Sbagliano quasi sempre; sbagliano male, e insistono rivelando di conoscere poco la materia (non sono i giuristi gli esperti dei sistemi elettorali). Qui mi limito a sottolineare che una disposizione europea ha sancito da tempo che le leggi elettorali non debbono essere cambiate nell’anno in cui si tengono le elezioni. Aggiungerei anche che è ora di smetterla con la ricerca spasmodica di stampelle sotto forma di premi in seggi per evitare pareggi immaginari. Negli occhi di chi guarda non dovrebbe trovarsi soltanto la bellezza della contendibilità del governo, fenomeno da valutare sempre in maniera positiva. Dovrebbero trovarsi le tracce anche di quei tanti, ad un certo punto sarò costretto a scrivere troppi, elettori e elettrici che alle urne, per molteplici ragioni, comprensibili, ma da me quasi mai ritenute assolutorie, non ci vanno (più). Allora, una buona contesa per il governo del paese sarà quella che sospinge dirigenti, partiti e candidati a cercare gli astensionisti e a incentivarli a tornare con noi. L’interesse di partito e di coalizione coinciderebbe con l’interesse del sistema per una crescita dei votanti. Apprezzabile effetto della ben tornata contendibilità che sarà sotto gli occhi di tutti.
Pubblicato il 26 novembre 2025 su Domani
Legge elettorale. La sinistra pensi alle primarie @DomaniGiornale

Nonostante i classici dotti pareri di giuristi sempre molto generosi con i detentori di potere politico, la più recente neppure originale trovata dei revisori della legge elettorale vigente pone qualche problema di costituzionalità. Infatti, inserire nel simbolo del partito/lista elettorale il nominativo del/la candidato/a alla carica di Presidente del Consiglio cozza, certo indirettamente, e ridimensiona, se non addirittura elimina, più o meno informalmente, il potere costituzionale (art. 92) che viene attribuito al Presidente della Repubblica di nominare lui il capo del governo. Naturalmente, anche questo è uno degli intenti, subito conciliantemente negato dai proponenti, perseguiti da quell’inserimento che, per di più, aggravante, servirebbe ad anticipare la soluzione proposta nel disegno di legge costituzionale sul premierato de noantri.
Già scritto, detto e ripetuto che in nessuna democrazia parlamentare, dalla più antica, quella della Gran (sì, Great) Bretagna alla Germania fino ad una delle più recenti e importanti, quella del Spagna, i simboli dei partiti non contengono mai i nomi dei candidati alla carica di capo del governo, la cui (in)stabilità dipende dalla fiducia del Parlamento, quel nome accarezza e agevola la personalizzazione della politica. Viene ritenuto un modo per raggiungere e mobilitare alcuni settori dell’elettorato accontentando una preferenza mai chiaramente esplicitata che, per di più, non ha nessuna garanzia di essere tradotta in pratica e di essere mantenuta in corso d’opera. Questa osservazione critica vale anche per il cosiddetto premierato che, addirittura, regolamenta la sostituzione dell’eletto (qui proprio non riesco a usare il femminile: l’eletta non si lascerebbe mai sostituire) dal popolo con un prescelto dalla stessa o quasi maggioranza. Insomma, lo stratagemma elettorale si rivela come un trucchetto ad alto potenziale di inganno.
Comunque, poiché l’attuale maggioranza di governo dispone abbondantemente dei numeri parlamentari proverà ad andare avanti a meno che il Presidente della Repubblica non decida di fare ricorso a qualcosa di più incisivo che semplice moral (aggettivo che non troverebbe terreno fertile) suasion. Le opposizioni non possono permettersi di ricorrere a forme di persuasione, con il “moral” non utilizzabile da tutte, costantemente respinte con perdite dalla granitica maggioranza della destra. Sapendo di avere, quando si voterà, anche una volta stilati buoni impegni programmatici comuni, la necessità di segnalare chi diventerà il capo (anche al femminile) del loro governo, dovrebbero con colpo d’ala stabilire che terranno primarie di coalizione. Sarebbe un sano ritorno ad un dolce bel tempo antico: le primarie dell’Ulivo, ottobre 2005, che designarono un candidato poi andato a vincere.
In consapevole e deliberata non presenza di una candidatura dell’allora Partito Democratico della Sinistra, Romano Prodi vinse alla grande grazie al loro esplicito generoso impegno e sostegno. Oggi, anche, ma non solo, per convincere i potenziali alleati, in primis, il Conte stellato, sarebbe opportuno che il PD consentisse quantomeno la praticabilità di più di una candidatura scaturita dai suoi ranghi, ramoscello d’ulivo offerto ai “riformisti” insoddisfatti, ma finora solo bofonchianti. Il resto, che è molto, lo faranno gli altri candidati, di partito oppure no. Dovranno andarsi a cercare gli elettori vantando la propria biografia personale, professionale, politica. Argomenteranno le loro priorità programmatiche e le loro capacità di dare soluzioni non soltanto ai problemi più urgenti. Esalteranno la loro capacità di tenere unita la coalizione senza permissivismo, ma con vigore e rigore. Chi vincerà non soltanto ne saprà di più sullo sparso elettorato progressista di questo paese, ma potrà vantare una notevole legittimità di leadership. Questa delle primarie è ad ogni buon conto un’ottima, forse la migliore, modalità di scelta delle candidature in competizione, di coinvolgimento degli elettori e di personalizzazione della politica.
Pubblicato il 15 ottobre 2025 su Domani
Sulla legge elettorale nessun trucco all’italiana @DomaniGiornale

Le leggi elettorali servono a tradurre i voti in seggi. A livello nazionale, la traduzione dei voti produce seggi in parlamento, in tutti i parlamenti non soltanto in quelli, come l’Italia, delle democrazie parlamentari, ma anche in quelli delle democrazie presidenziali (es. USA) e semipresidenziali (es. Francia). Nessuna legge elettorale dà vita al governo. Neppure nel presidenzialismo che non è necessariamente il migliore dei casi. Lì viene eletto un capo dello Stato che poi formerà il governo. Buone leggi elettorali sono quelle che danno soddisfacente rappresentanza politica ai cittadini, abbiano o no votato. Fra le molte, alcune non convincenti, motivazioni del non-voto, non ascolteremo mai quella di coloro che si lamentano perché non si sentono governati. Sicuramente, invece, una parte non marginale degli astensionisti accuserà gli eletti di non sapere né volere rappresentarli. Hanno chiesto il loro voto disinteressandosi appena eletti delle loro preferenze, delle loro esigenze, dei loro interessi cercando solo di essere rieletti. Non otterranno il loro voto poiché gli elettori sedotti e abbandonati se ne andranno nell’astensione.
Gli astensionisti non faranno cadere la democrazia, che, per lo più, non è affatto un loro obiettivo, ma incideranno negativamente sulla qualità di una democrazia che non sarà in grado di tenere conto di quello che il 40 per cento o più dei suoi cittadini desidererebbe. Formulare e approvare una legge elettorale che tenga conto (quasi) esclusivamente degli interessi dei partiti e dei loro dirigenti non servirà in nessun modo a ridurre/risolvere la crisi di rappresentanza. Al contrario, potrebbe addirittura aggravarla, in nome di una governabilità che non può essere sintetizzata nell’indicazione sulla scheda del nome del capo del governo né gratificata con un premio in seggi per dare vita ad un governo grasso, ma, potenzialmente anche inefficace e immobilista.
Il criterio dominante con il quale valutare la bontà di una legge elettorale è quanto potere conferisce agli elettori. Se l’elettore può unicamente tracciare una crocetta sul simbolo del partito (o di una coalizione) e/o sul nome di un candidato, il suo potere risulta e rimane davvero limitato. Consentire all’elettorato di scegliere partito e candidato è un buon passo avanti. Spesso significa che i dirigenti nazionali dei partiti e delle correnti non potranno paracadutare i loro vassalli/e, ma dovranno tenere conto delle preferenze del collegio. Punto da non dimenticare, gli eletti stessi saranno effettivamente rappresentanti/rappresentativi di quel collegio, non soltanto di chi li ha votati, alcuni dei quali poi divenuti insoddisfatti, ma anche di coloro che non li hanno votati, che poi ne apprezzeranno i comportamenti. Tutto questo significa che una buona legge elettorale non è mai il prodotto dell’incrocio e della somma dei vantaggi particolaristici che potrebbero pensare/tentare di ottenere le due donne leader dei due maggiori partiti italiani. Mirare ad affrancarsi dalle pressioni, particolaristiche e spesso politicamente molto fastidiose degli alleati attuali e potenziali è comprensibile, persino, entro certi limiti, giustificabile. Tuttavia, anche nel peggiore dei casi, coalizioni composite danno maggiore e superiore rappresentanza politica all’elettorato. Lo incoraggiano a partecipare per sostenere chi meglio porta avanti le sue idee. Nella situazione italiana dopo tre brutte esperienze autoctone: legge Calderoli, legge Boschi-Renzi (Italicum), legge Rosato, la via più promettente da seguire è quella di imparare da quanto già esiste e funziona, dall’usato sicuro: proporzionale personalizzata tedesca e doppio turno con clausola di passaggio al secondo turno francese, eventualmente con pochi ritocchi non stravolgenti. Non è proprio il caso di inventarsi qualche trucco all’italiana.
Pubblicato il 2 agosto 2025 su Domani
Il ballottaggio è una ricchezza per gli elettori @DomaniGiornale

Anche quando il numero di elettori coinvolti è piuttosto piccolo, le consultazioni elettorali hanno sempre qualcosa da insegnare. Naturalmente, bisogna già possedere qualche conoscenza di base e non leggere gli esiti elettorali e politici con lenti offuscate da ideologie fatiscenti e da mire di tornaconti di beve particolaristico respiro. La prima lezione è molto facile da imparare: nelle elezioni, soprattutto in quelle comunali (e regionali) vince chi riesce a costruire la coalizione più larga e meno litigiosa e conflittuale possibile. Sappiamo anche da non poche esperienze straniere che una parte, anche ristretta, ma spesso decisiva, di elettorato si astiene dal votare persone, liste, partiti che portino nella coalizione conflitti che nuocerebbero alla capacità di governare dopo un’eventuale vittoria. La esplicita condivisione di intenti, e magri anche prove precedenti di lealtà, hanno positivi effetti di attrazione. E, viceversa.
Quando il sistema elettorale utilizzato è maggioritario a doppio turno, il secondo turno essendo un ballottaggio fra le due candidature più votate, gli effetti di cu tenere conto sono molti. Se il menù offre una molteplicità di candidature, gli elettori sanno che debbono votare il candidato/a della loro area che ha maggiori possibilità di vittoria. I dirigenti accorti cercheranno di evitare la dispersione di voti, Quindi, il “campo” non deve soltanto essere “largo”, ma avere una squadra che gioca compatta. Con la variante di doppio turno che si chiama ballottaggio, molti elettori si troveranno privi della candidatura preferita fra le due rimaste in lizza: un problema, ma anche un’oppotrtunità.
Di recente, il centro-destra ha aperto il fuoco proprio contro il ballottaggio sostanzialmente perché, di solito più compatto, il loro schieramene ha spesso, ma non sappiamo in realtà quanto spesso, superato il 40 per cento al primo turno per venire poi sconfitto al secondo turno. Ovvio che hanno un problema politico che vogliono risolvere con un escamotage tecnico. Così facendo, però, dimostrano di non sapere apprezzare le molte virtù del ballottaggio (che valgono anche per le diverse varianti di doppi turni). In primo luogo, nel passaggio dal primo voto al voto per il ballottaggio, tutti i candidati, non solo i primi due, e i dirigenti di partito dovranno impegnarsi a fare circolare informazioni politiche aggiuntive e importanti. Ai candidati esclusi si chiederanno opinioni e endorsement che talvolta potrebbero preludere alla formazione di alleanze per il governo di quel comune.
Quello che conta forse ancor più è che tutti gli elettori vedranno chiare le differenze e sapranno che al ballottaggio il loro voto può risultare decisivo. Insomma, il ballottaggio è un meccanismo importante per chi pensa che bisogna interessare, informare, convincere gli elettori, premiando coloro che partecipano. Lo è anche per i candidati. Se hanno fatto una buona campagna elettorale, i sindaci eletti, naturalmente chi più chi meno a seconda delle loro qualità, ma anche chi ha perso, avranno appreso molto sulle esigenze e sulle preferenze dell’elettorato. Saranno in grado di governare con maggiore cognizione di causa e di offrire risposte più soddisfacenti alla loro intera comunità. Ovvero, comunque, di venire criticati per le loro inadempienze.
Il centro-sinistra ha alcune buone ragioni per rallegrarsi fin qui dell’esito e per proseguire con pazienza, ma senza esitazioni. Altre sfide stanno per arrivare. Il centro-destra non è imbattibile, a livello locale, poi, mostra più di qualche debolezza e talvolta fragile radicamento. Sono situazioni politiche alle quali non basta una, pur talvolta utile, risposta di ingegneria elettorale. Nell’ottica della auspicabile e indispensabile riforma della vigente legge elettorale, almeno una raccomandazione va fatta soprattutto da chi ritiene che il criterio dominante per valutare la bontà di qualsiasi legge elettorale è il potere degli elettori. Non pasticciate con il doppio turno.
Pubblicato il 28 maggio 2025 su Domani
Bene il proporzionale, ma serve una soglia di sbarramento al 5% #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, spiega che sulla legge elettorale «bisogna riuscire ad avere una proposta seria e discutere su quella» perché «solo così un qualche tipo di dialogo acquista di senso» e che tuttavia «l’idea di un proporzionale con premio di maggioranza può essere una buona base di partenza ma servono paletti ferrei come una soglia di sbarramento al 5% e non più di dieci collegi».
Professor Pasquino, la convince la proposta di una legge elettorale proporzionale con un premio di maggioranza?
Bisogna essere chiarissimi: il proporzionale con soglia di sbarramento significa che ci saranno collegi elettorali nei quali verranno eletti 7-10-15 candidati ma a livello nazionale serve una soglia di sbarramento tra il 4 e il 5, come è in Germania e infatti lì funziona. Ma dipende come vengono ritagliati i collegi, se i parlamentari da eleggere (n. d. GP) sono più di dieci si frammenta troppo il sistema, al contrario se sono molti meno si concentra troppo l’esito elettorale. L’importante è che ci sia una clausola di esclusione del 5% su soglia nazionale senza eccezione alcuna. Bisogna superare il 5% e poi si va alla divisone dei seggi.
A partire da queste basi pensa sia possibile il dialogo tra maggioranza e opposizione?
Diciamo che mi pare una discussione penosa: bisogna riuscire ad avere una proposta seria e discutere su quella. Solo così un qualche tipo di dialogo acquista di senso. In ogni caso questa idea può essere una buona base per dialogare ma, come detto, servono paletti ferrei. E poi alla riforma del premierato che ha in mente Meloni sarebbe collegato anche un nuovo sistema elettorale, come si fa a fare l’uno e non l’altro?
Pensa che, a proposito dell’idea di indicare il premier, Meloni stia tirando la corda perché sa che dall’altra la leadership di Schlein è messa in difficoltà da Conte?
Credo di sì e penso sia anche un’operazione che può fare con grande facilità. Il centrosinistra da questo punto di vista è malmesso ma l’indicazione del premier non è una cosa buona perché limiterebbe i poteri del presidente della Repubblica. Mi pare anche questa una discussione molto sterile. Ripeto: bisogna scegliere un sistema esistente che sappiamo funzionare e non inventarsi qualcosa di nuovo. Andiamo a vedere cosa funziona: o il sistema tedesco o quello francese, ma Meloni non vuole il doppio turno quindi non rimane che quello tedesco così com’è.
Nel dibattito sulla legge elettorale si richiama spesso la stabilità dei governi: le due cose sono collegate?
La stabilità non dipende dal meccanismo elettorale ma dalla capacità di formare delle colazioni e di tenerle insieme. L’attuale stabilità di Meloni non dipende dalla legge elettorale con la quale si è votato ma dal fatto che il suo è il partito più grande, lei è una guida solida e decisa e gli altri non hanno un’alternativa praticabile. La stabilità dipende dalla capacità di dare vita a coalizioni sufficientemente coese, programmatiche e leali. Il meccanismo elettorale poi può aiutare ma serve leadership politica.
Il centrosinistra ne troverà mai una condivisa dall’intera coalizione?
No perché non arriveremo mai a una situazione in cui Conte accetta la leadership del Pd. Sta facendo tutto il possibile per smentire questa tesi e questo rende debolissimo l’intero centrosinistra. Ci si arriverebbe con un sistema elettorale a doppio turno ma senza di esso è praticamente impossibile. Sappiamo che anche dentro al Pd ci sono delle remore e degli scrupoli sulla leadership di Schlein ed è anche giusto che sia così visto che non può vantare tanti successi finora. Ma a meno che non emerga un’alternativa vera che passi attraverso un voto bisogna rispondere positivamente a quello che la segretaria fa.
Si parla anche dell’ipotesi di primarie per tutti i partiti: cosa ne pensa?
L’obbligatorietà non deve esistere. Le primarie sono uno strumento che ciascun partito decide se utilizzare oppure no. Se c’è un candidato straordinariamente capace, perché sottoporlo a primarie? Servirebbe solo a indebolirlo. Ma se un partito lo scrive in statuto poi le deve fare. Il Pd ce l’ha e quindi le fa, FdI no e dunque può “permettersi” di non farle.
Data quindi per scontata la leadership di FdI, a Fi e Lega conviene una legge elettorale proporzionale con un premio di maggioranza?
Che cosa può essere migliore di una legge proporzionale per partiti che hanno al massimo il 10% di voti? Ne hanno bisogno, quindi ne scrivano una buona e salveranno il loro 10%. Quello che partiti del genere devono fare è imparare a negoziare con persone di alta qualità e ottenere cariche nel futuro governo sulla base dei voti elettorali ottenuti.
Pubblicato il 6 maggio 2025 su Il Dubbio
Con la riforma Meloni il capo dello Stato diventa una specie di orpello #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Il professore emerito Gianfranco Pasquino al Dubbio: «La maggioranza fa un grave errore nel non volere la sfiducia costruttiva. Ed è quasi sorprendente che il centrodestra non la voglia. Basti pensare che tra i governi più longevi in Europa ci sono quelli tedeschi di Khol e Merkel e quello spagnolo di Felipe Gonzales»
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, sulla riforma costituzionale della maggioranza spiega che «la logica vorrebbe che se chi viene eletto direttamente dal popolo poi perde la carica, allora si torna al voto, senza passare dal Parlamento» e che «la figura del presidente della Repubblica rimane una specie di orpello e di certo non sarà più una figura di garanzia come è ora».
Professor Pasquino, la convince la riforma per cui il presidente della Repubblica non nominerà più il presidente del Consiglio ma gli conferirà l’incarico, sulla base del voto dei cittadini?
Il presidente della Repubblica sarà obbligato a dare l’incarico al primo ministro eletto dai cittadini e non avrà spazio di discrezionalità. Se poi quel primo ministro viene meno per dimissioni, sfiducia o altro, a quel punto il capo dello Stato può indicare un altro capo del governo purché sia un parlamentare appartenente alla stessa maggioranza. Ma questo implica che la seconda volta non siamo più di fronte a un’elezione popolare diretta.
Secondo la maggioranza andrà comunque bene agli elettori che hanno votato una certa coalizione: non crede sarà così?
Che vada bene politicamente è un conto, ma nei fatti non è più un’elezione popolare diretta. Deciderebbe la maggioranza attraverso un accordo al suo interno ma a quel punto diventerebbe capo del governo qualcuno o qualcuna che non ha vinto le elezioni. La logica vorrebbe che se chi viene eletto direttamente dal popolo poi perde la carica, allora si torna al voto, senza passare dal Parlamento. E infatti il modello da cui tutto questo parte è il sindaco d’Italia. Se un sindaco perde la fiducia del suo consiglio comunale si torna a elezioni. In questo modo invece non dico che la logica istituzionale è stravolta ma certamente non lineare.
L’obiettivo è evitare i cosiddetti “ribaltoni”…
Si scrive che deve essere un parlamentare della maggioranza perché non si vogliono più tecnici o non parlamentari, come i vari Ciampi, Monti, Draghi, Renzi. Tecnicamente è un presidenzialismo, e la figura del presidente della Repubblica rimane una specie di orpello. Lo si lascia soltanto per non dare fiato alla critica di averlo eliminato, ma di certo non sarà più una figura di garanzia come è ora.
La riforma parla di un premio di maggioranza del 55% ma non si è ancora parlato di legge elettorale. Cosa implica questo?
Tanto per cominciare l’elemento cruciale è che vince chi ha un voto più dell’altro. Ma questo significa che chi vince potrebbe benissimo non avere la maggioranza assoluta dei votanti. Questo è un punto delicato e che ritengo importante. A questa “non maggioranza” viene dato un premio in seggi, anche se resta da vedere se poi la Corte costituzionale riterrà che questo premio sia accettabile. Non sapendo quale percentuale ha avuto la maggioranza, il premio potrebbe essere enorme. Supponiamo che ci siano due schieramenti attorno al 40 per cento e gli altri voti: in questo caso un premio del 15% sarebbe molto consistente. E quindi molto criticabile. Di certo ci deve essere un’indicazione di legge elettorale e di quale legge serve per eleggere il primo ministro. Non si può rimanere silenziosi su questo.
Quale impatto avrà il disegno proposto rispetto all’attuale sistema dei partiti?
Questa è una domanda difficile. Di fronte al pericolo di perdere le elezioni contro un centrodestra attorno al 42- 44 per cento, il centrosinistra dovrebbe unirsi. L’ammucchiata, come la chiamano a destra, in questo caso è chiaramente necessaria. Insomma bisogna che si faccia una coalizione a sostegno di qualcuno che non deve essere né del Pd né del M5S e che tenga unita la coalizione mostrandosi al tempo stesso convincente per gli elettori.
Insomma questa riforma potrebbe favorire il bipolarismo?
Non userei il verbo favorire, preferisco incoraggiare, suggerire, spingere verso quella direzione. Di certo è un incentivo alla sinistra a mettersi insieme.
Questa riforma “mette in guardia” le coalizioni rispetto alla necessità di compattarsi, mentre i piccoli partiti dovrebbero rendersi conto che a loro conviene entrare in una coalizione, così da risultare decisivi. Entrerebbero in Parlamento grazie al premio di maggioranza e potrebbero chiedere ruoli di ministro. Insomma tutto quello che il centrodestra dice di rifuggere, cioè inciuci, accordicchi e via dicendo, è favorito da questo disegno.
A proposito di piccoli partiti: Renzi sostena la riforma, differenziandosi dal resto delle opposizioni.
Renzi ha detto che questa riforma gli piace e quindi si candida a far parte della coalizione di destra. Lui voleva il sindaco d’Italia, ma pur essendo stato molto critico su questo punto riconosco che almeno in quel caso il presidente del Consiglio veniva eletto dalla maggioranza assoluta dei votanti tramite ballottaggio, mentre in questo caso non c’è nemmeno quello. Il ballottaggio è un sicuro dispensatore di opportunità politiche perché consente agli elettori di dare un voto decisivo e acquisire ulteriore informazioni tra primo e secondo turno, obbligando i candidati a trovare alleati e affinare la propria proposta.
L’opposizione resta ferma sull’idea di sfiducia costruttiva, presente in Germania e Spagna, che però non piace alla maggioranza: che ne pensa?
La maggioranza fa un grave errore nel non volere la sfiducia costruttiva. Ed è quasi sorprendente che il centrodestra non la voglia. Basti pensare che tra i governi più longevi in Europa ci sono quelli tedeschi di Khol e Merkel e quello spagnolo di Felipe Gonzales. Cioè i due paesi dove c’è la sfiducia costruttiva. Di per sé quindi la misura stabilizzerebbe il capo del governo nella sua carica.
Un altro punto è l’abolizione dei senatori a vita: che idea si è fatto?
È un istituto anziano di cui si può fare certamente a meno ma bisogna capire come onorare al massimo alcune figure di spicco della società. Ad esempio negli Usa c’è la medaglia alla libertà, ma di certo dei senatori a vita è stato fatto un cattivo uso perché alcuni capi dello Stato hanno nominato dei politici e questo non si doveva fare.
Pubblicato il 2 novembre 2023 su Il Dubbio
Bellezza Radicale: dialogo politico con il prof. Pasquino

Si sottovaluta spesso il dialogo come se fosse astratto, come se la parola non avesse peso, come se fosse niente, come se non avesse anima, come se non agisse. Poi, ci lamentiamo delle conseguenze. La parola va ascoltata, va sentita dentro di noi. La parola va data e, allo stesso tempo, va mantenuta. Sembra un paradosso, ma non lo è. La parola è viva, è concreta. Altrimenti, è soltanto chiacchiera. Se ci pensiamo bene, la parola espressa è già un’azione. L’ascolto attento delle parole è già un’azione. Ecco perché abbiamo parlato di democrazia, libertà, riforme istituzionali, diritti, cittadinanza, legge elettorale, Europa e Partiti politici. Insomma, la Bellezza Radicale presente nell’intervista al prof. Gianfranco Pasquino non sembri soltanto un susseguirsi di parole. Perché le parole non sono soltanto parole. Perché, alla fine, quelle che restano, nella vita come nei pensieri, nelle azioni come nei gesti, sono proprio le parole. Ascoltiamole…
Critica delle riforme impure #DemocraziaFutura @Key4biz

Perché raddrizzare una discussione appena incominciata, abbastanza male indirizzata. Il punto di Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica e Socio dell’Accademia dei Lincei.

A meno di una settimana dall’avvio delle consultazioni del governo con i rappresentanti delle opposizioni, Gianfranco Pasquino, in un articolo per Democrazia futura ” Critica delle riforme impure”, spiega – come recita l’occhiello – “Perché [occorra raddrizzare una discussione appena incominciata, abbastanza male indirizzata”. Il noto scienziato politico, dopo aver denunciato “la confusione fra premierato e sindaco d’Italia”, descrivendo i principali casi di premierato ovvero “Il modello Westminster di cabinet government del Regno Unito”, nonché “Il caso del Cancellierato tedesco e della Presidenza del governo spagnola”, chiarisce “Perché va[da] respinta drasticamente la proposta del Sindaco d’Italia, di un (quasi) presidenzialismo”, prima di soffermarsi su “Le differenze importanti fra presidenzialismo USA e semi presidenzialismo alla francese” e di motivare la sua predilezione verso “l semipresidenzialismo alla francese dotato – a suo parere – di elasticità istituzionale e politica”, sottolineando in conclusione la necessità, qualunque sia il modello prescelto, di “Associare al modello costituzionale una legge elettorale decente”.
L’obiettivo dichiarato delle riforme costituzionali di Giorgia Meloni è garantire la stabilità del capo del governo per tutta la durata del mandato. Strumento, ma al tempo stesso anche obiettivo di rivendicazione radicata nella storia della destra italiana, è il presidenzialismo (questo sta scritto nel programma elettorale di Fratelli d’Italia), oggi variamente definito come elezione popolare diretta della più alta carica dello Stato e di governo.
Una immediata nota di cautela, quasi un impossibile veto, è stata introdotta, in special modo, ma non solo, da Giuseppe Conte, dalla sinistra, dal PD: la Presidenza italiana dovrebbe comunque mantenere il suo ruolo e i suoi poteri di garanzia.
Prima di qualsiasi discussione e approfondimento, due precisazioni generali (quelle particolari seguiranno) sono assolutamente necessarie.
Prima precisazione: la stabilità nella carica ha valore positivo se intesa come premessa per la produzione di decisioni, ovvero se accompagnata dall’efficienza e efficacia decisionale.
Seconda precisazione: è imperativo chiarire quale modello di elezione popolare diretta viene prescelto per essere in grado di valutare quanta stabilità offra, a quale prezzo e con quali conseguenze.
Aggiungo subito che una valutazione più convincente discenderebbe dalla comparazione fra una pluralità di modelli, includendovi anche alcuni modelli parlamentari nei quali non è contemplata nessuna elezione popolare diretta del capo del governo.
La confusione fra premierato e “sindaco d’Italia”
Nella ridda di dichiarazioni, molti esponenti della maggioranza governativa hanno variamente – giulivamente affermato che è possibile eleggere direttamente il capo dell’esecutivo mettendo sullo stesso piano presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato. Il modello del premierato non è mai stato specificato: dove, quando, come, e la situazione si è ulteriormente complicata quando alcuni esponenti di governo hanno dichiarato che anche il modello del Sindaco d’Italia, proposto da Matteo Renzi di Italia Viva, può essere preso in considerazione.
Tecnicamente, premierato dovrebbe significare governo del Premier, del capo di governo in una democrazia parlamentare. Però, in nessuna democrazia parlamentare il capo del governo viene eletto dai cittadini. Dappertutto, il capo del governo viene scelto dal partito di maggioranza o dai partiti che danno vita ad una coalizione in grado di governare. Ha fatto eccezione a questa regola, quasi, come vuole il proverbio, a sua conferma, Israele eleggendo per tre volte, 1996, 1999, 2001, il Primo ministro, poi non avendone tratto benefici né politici né istituzionali, tornando alle negoziazioni parlamentari.
Il modello Westminster di cabinet government del Regno Unito
L’espressione premierato è ovviamente di origine inglese anche se il cosiddetto “modello Westminster” è meglio definito cabinet government dove il/la Primo Ministro è un primus talvolta primissimus fra i ministri più autorevoli che compongono il governo. Nessuno di loro, né nel Regno Unito né in Australia, Canada, Nuova Zelanda, è mai stato eletto direttamente. Risibile e deplorevole è sostenere, come hanno fatto alcuni cattivi maestri del Diritto Costituzionale, che nel Regno Unito esiste l’elezione “quasi” diretta del Primo ministro.
Non solo la condizione essenziale per diventare Primo ministro è quella di essere il capo della maggioranza parlamentare, ma sono ormai molto numerosi (troppi per citarli) i casi di Primi ministri subentrati a legislatura in corso senza nessun passaggio elettorale.
Potremmo dedurne che alla stabilità nella carica viene preferita l’elasticità che consenta il rilancio dell’azione di governo senza “logorare” l’elettorato con frequenti ritorni alle urne e, ovviamente, senza rischiare la sconfitta elettorale.
Il caso del Cancellierato tedesco e della Presidenza del governo spagnola
Le due democrazie parlamentari europee i cui capi di governo sono rimasti solidamente in carica e per lungo tempo sono Germania e Spagna. In nessuna delle due il Cancelliere e il Presidente del governo, come sono rispettivamente chiamati, sono eletti direttamente dal “popolo”.
Il meccanismo nient’affatto segreto che li stabilizza e consente loro di essere, se ne hanno la capacità personale e politica, efficaci, si chiama rispettivamente voto di sfiducia costruttivo e mozione di sfiducia costruttiva.
Sono le rispettive camere basse a votare in carica il capo del governo e, se lo sfiduciano, ad avere la possibilità di cambiarlo eleggendone un altro, il tutto a maggioranza assoluta.
Darei credito al Costituente repubblicano Tommaso Perassi di avere immaginato con il suo giustamente famoso ordine del giorno la formulazione di un meccanismo dello stesso tipo per stabilizzare il governo italiano. Se Elly Schlein propone qualcosa di simile ha scelto la strada giusta, nettamente alternativa ai presidenzialismi finora neppure abbozzati dal destra-centro.
Perché va respinta drasticamente la proposta del Sindaco d’Italia, di un (quasi) presidenzialismo
Dalla spazzatura della cavalcata costituzionale di Renzi sconfitto nel referendum 2016 è riemerso il fantomatico Sindaco d’Italia, il (quasi)presidenzialismo de noantri. Tralascio qualsiasi considerazione sulla necessità di tenere conto che quello che ha funzionato (fui tra gli sponsor di quel tipo di legge) per i comuni non è affatto detto che riesca a funzionare a livello nazionale. Anzi, probabilmente, no. Basterebbero alcune obiezioni per neanche soffermarsi su una proposta che è sbagliata e strumentale, ma anche strumentalmente intrattenuta da alcuni malintenzionati del destra-centro. Il Sindaco d’Italia farebbe strame del ruolo di salvaguardia/garanzia del Presidente della Repubblica.
Un sindaco eletto dai cittadini toglie al Presidente qualsiasi potere di nomina né, ovviamente, del candidato risultato vittorioso alle urne né degli assessori(/ministri) che il Sindaco avrà negoziato con gli alleati che lo hanno fatto vincere i quali, pertanto, hanno diritto a ricompense adeguate.
Il Presidente non potrà sciogliere il Consiglio/Parlamento (ovviamente monocamerale) neppure se paralizzato da veti incrociati e incapace di governare.
Quel Consiglio con il suo sindaco potrà durare anche per tutto il mandato al fine di evitare di confessare le proprie inadeguatezze e di essere costretto dal fallimento a un salto nel vuoto elettorale.
Oppure sarà automaticamente sciolto, e Il Presidente non potrebbe opporvisi, se il sindaco preferirà andarsene per più elevate cariche oppure sarà costretto a dimettersi per malefatte. Alla faccia della stabilità.
Le differenze importanti fra presidenzialismo USA e semi presidenzialismo alla francese
Tornando a presidenzialismo e semipresidenzialismo, le loro logiche di funzionamento e i loro problemi istituzionali presentano differenze tanto chiare quanto importanti.
Per il presidenzialismo negli Stati Uniti d’America (immagino che Giorgia Meloni non abbia come riferimento i presidenzialismi latino-americani, peraltro, non tutti da mettere nello stesso sacco), comincerò con il notare che si accompagna ad un federalismo radicato e vigoroso che, fra l’altro, si esprime nell’elezione popolare diretta di due Senatori per ciascuno Stato dando vita a quella che è unanimemente considerata l’assemblea elettiva più forte al mondo.
Sottolineo che il Presidente non ha il potere di iniziativa legislativa (supplendovi in una varietà, non sempre apprezzabile e commendevole, di modi), che appartiene al Congresso.
Chiudo per ragioni di tempo e di spazio soffermandomi sull’inconveniente più grave, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo diventato molto frequente: il governo diviso.
La formula del presidenzialismo USA fu definita nel 1960 da Richard Neustadt: separate institutions sharing powers. Vent’anni dopo la formula fu precisata: separate institutions competing for power, vale a dire che, comunque, il Presidente non è mai dominante. Deve sempre fare i conti con la Corte Suprema e con il Congresso.
Quando, per 34 anni sui recenti 48 (12 presidenze, ovvero 7 Presidenti), in uno o in entrambi i rami del Congresso, il partito del Presidente non ha la maggioranza, ne consegue la situazione di governo diviso (apparentemente non noto oppure gravemente sottovalutato dai presidenzialisti italiani). Il Presidente vedrà non gradite, non accettate, non votate le proposte di legge introdotte dai suoi parlamentari e il Congresso vedrà il Presidente porre il veto sui suoi disegni di legge.
In un Congresso polarizzato la maggioranza dei due terzi indispensabile a superare il veto presidenziale si manifesterà rarissimamente. Il Congresso accuserà il Presidente di bloccare le riforme, accusa che il Presidente con la potenza di fuoco della Casa Bianca ritorcerà contro i suoi avversari nel Congresso a tutto scapito della possibilità per gli elettori di attribuire limpide responsabilità politiche. L’uomo al comando non tradurrà il suo mandato in politiche promesse e coerenti e si troverà triste, solitario y final (la sua rielezione inevitabilmente in dubbio).
Perché prediligo il semipresidenzialismo alla francese dotato di elasticità istituzionale e politica
Tutt’altra è la storia del semipresidenzialismo alla francese il cui finale non è mai scritto in anticipo poiché è un modello dotato di elasticità istituzionale e politica.
Anzitutto, il Presidente è eletto direttamente dal popolo con un sistema che, se al primo turno nessun candidato ha ottenuto la maggioranza assoluta, obbliga al ballottaggio. Dunque, agli elettori si offre l’opportunità di valutare con cura le alternative in campo e le loro conseguenze. Dopo la riforma costituzionale del 2002, l’elezione dell’Assemblea Nazionale segue quelle presidenziali che vi esercitano un effetto di trascinamento, cioè, gli elettori sono inclini a consegnare al Presidente appena eletto una maggioranza parlamentare operativa.
Qualora non avvenisse così, la coabitazione fra Presidente, capo di una maggioranza, e maggioranza opposta, che esprime il Primo ministro, da un lato, non porrebbe in stallo il sistema poiché il Primo ministro avrebbe i numeri per governare, dall’altro, passato un anno, il Presidente ha il potere di scioglimento dell’Assemblea nel tentativo di ottenere dall’elettorato, che ha seguito gli avvenimenti, una maggioranza a lui favorevole.
Infatti, sarà sufficientemente chiaro chi, Presidente o Primo ministro, è responsabile del fatto, non fatto, fatto male.
Come abbiamo visto di recente, grazie all’articolo 49 comma tre, in casi eccezionali il Presidente può anche imporre l’attuazione di una legge se la sua maggioranza è restia, fermo restando che su richiesta di un decimo dei parlamentari viene attivato il voto di sfiducia nei confronti del/la Primo ministro. Inoltre, sessanta parlamentari hanno la possibilità di fare direttamente ricorso al Conseil Constitutionnel per bloccare leggi ritenute incostituzionali.
Conclusioni. Una discussione male indirizzata assolutamente da raddrizzare
Per rientrare nelle preoccupazioni italiane, è inevitabile che i due Presidenti, espressione delle preferenze politiche dei loro cittadini, a quelle preferenze cerchino di rispondere e non siano classificabili come organismi di garanzia. Entrambi, però, sicuramente intendono e, per lo più, lo dicono alto e forte, rappresentare la loro nazione, il popolo. Che vi riescano o no, lo diranno i risultati elettorali e lo scriveranno gli studiosi.
D’altronde, quando mai i partiti italiani del centro-destra hanno riconosciuto imparzialità, terzietà, equilibrio, garanzia ai Presidenti Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), Giorgio Napolitano (2006-2013; 2013-2015)? Solo di recente hanno scoperto queste doti in Sergio Mattarella, non certo nei primi anni del suo primo mandato (2015-2022).
Nella democrazia parlamentare spagnola, la garanzia sta, come per tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale che sono monarchie, nelle mani del Re.
In Germania, il Presidente della Repubblica è il garante anche grazie al fatto che la sua elezione è stata sostanzialmente sempre concordata fra i partiti.
Associare al modello costituzionale una legge elettorale decente
Nessuna discussione dei modelli di governo può dirsi esaurita e meno che mai esauriente se non è accompagnata da una descrizione e valutazione delle leggi elettorali con le quali vengono formati i rispettivi parlamenti.
Questo non è un altro discorso, poiché le relazioni Presidente/Parlamento sono di cruciale importanza per il funzionamento di qualsiasi (semi)presidenzialismo.
Lampante che la legge Rosato, già pessima per qualsiasi democrazia parlamentare, non potrà essere preservata nel suo impianto neppure ritoccandola con l’eliminazione delle scandalose pluricandidature e con l’inserimento del voto di preferenza.
Al momento, il silenzio sulla legge elettorale non consente di procedere a riflessioni più approfondite, ma fin d’ora va affermato che qualsiasi modello sarà prescelto, dovranno essere formulate leggi elettorali apposite e che nei presidenzialismi non esistono leggi elettorali con premi di maggioranza.
Complessivamente, la discussione appena cominciata appare già abbastanza male indirizzata, chi la raddrizzerà?
Riferimenti bibliografici essenziali
Gianfranco Pasquino, Sistemi politici comparati. Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti, Bologna, Bononia University Press, 2007, 173 p.
Gianfranco Pasquino (a cura di), Capi di governo, Bologna, il Mulino, 2005, 373 p.
Pubblicato il 15 maggio 2023 su Key4biz
Partiti sgangherati e antipolitica Ma chi non vota non è ascoltato #intervista @GiornaleVicenza
«Molti sabati pomeriggio di quel dolce autunno del 1974 a Harvard li passammo a giocare al pallone nel campetto dietro casa. Mario Draghi era spesso con noi, ma certo, giocatore piuttosto lento e poco grintoso, non era il più dotato in quello sport». Ci sono chicche come questa e aneddoti spassosi in “Tra scienza e politica. Un’autobiografia”, il libro di Gianfranco Pasquino edito da Utet e presentato a Pordenonelegge. Un’autobiografia, per un politologo, può sembrare qualcosa di ardito. Ma chi conosce Pasquino, professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, non si stupisce: la sua storia è un crocevia di incontri e conoscenze che vale la pena trasmettere, non fosse altro che per aver avuto come maestri sia Norberto Bobbio sia Giovanni Sartori.
Professor Pasquino, il Draghi calciatore non era il migliore, ma da premier com’è stato?
Non era il miglior calciatore e non puntava nemmeno ad esserlo (sorride). Ma da premier è stato molto bravo. Altro che “tecnico”… Da giovane non sembrava così interessato alla politica, ma ha dimostrato di aver imparato molto e molto in fretta.
Ora Draghi è stato fatto cadere e si va al voto. Cosa c’è in gioco in queste elezioni?
Quello che davvero entra in gioco è come stare in Europa, è la vera posta. Sappiamo che il Pd è un partito europeista, come +Europa, e che le persone che vengono da quell’area sono affidabili sul tema. Non sappiamo quali sono le persone affidabili nello schieramento di centrodestra, con poche eccezioni. Però sappiamo che sostanzialmente Giorgia Meloni è una sovranista e Salvini forse ancora di più. È difficile che si facciano controllare dai pochi europeisti di Forza Italia: Berlusconi ha detto cose importanti, ma gli altri alleati avranno almeno il doppio del suo consenso.
Perché teme il sovranismo?
Sovranismo vuol dire cercare di riprendere delle competenze che abbiamo affidato consapevolmente all’Europa. Non abbiamo ceduto la sovranità, l’abbiamo condivisa con altri Stati, e loro con noi. Tornare indietro vuol dire avere meno possibilità di incidere sulle decisioni. Alcune cose non potremmo deciderle mai.
Ritiene che la nuova dicotomia politica sia europeismo-sovranismo, più di destra-sinistra?
Non lo dico io: è stato Altiero Spinelli, nel Manifesto di Ventotene, 1941. Spinelli vedeva le cose molto in anticipo rispetto agli altri. D’altronde i singoli Stati europei sulla scena mondiale non conterebbero nulla: la soluzione è dentro l’Europa, altrimenti non possiamo competere né con la Russia né con la Cina e nemmeno con gli Stati Uniti, anche se bisognerebbe avere un rapporto decente con gli Usa.
Come si inserisce la guerra in Ucraina in questa analisi?
Nella guerra in Ucraina c’è uno stato autoritario che ha aggredito una democrazia. E noi non possiamo non stare con la democrazia. Se quello stato autoritario riesce a ottenere ciò che vuole, è in grado di ripeterlo con altri stati vicini. Non a caso Lituania, Estonia e la stessa Polonia sono preoccupatissimi. La Polonia conosce bene i russi e sa che ha bisogno della Nato e dell’Europa.
In Ucraina è in gioco anche la nostra libertà?
Lì si combatte sia per salvare l’Ucraina sia per salvare le prospettive dell’Europa. E un’eventuale sconfitta di Putin potrebbe aprire le porte a una democratizzazione della Russia: sarebbe un passaggio epocale.
A chi sostiene che le responsabilità della guerra siano anche dell’Occidente come risponde?
Non credo che sia vero. Ma tutto è cambiato quando la Russia ha usato le armi. La Costituzione dice che le guerre difensive sono accettabili, le guerre offensive mai.
L’Italia va al voto con una legge elettorale che toglie ogni potere all’elettore. L’hanno voluta tutti i partiti…
L’ha voluta Renzi e l’ha fatta fare a Rosato. Ma l’hanno accettata tutti perché fa comodo ai dirigenti di partito: si ritagliano il loro seggio, si candidano in 5 luoghi diversi, piazzano i seguaci. Aspettare che riformino una legge che dà loro un potere mai così grande è irrealistico. A noi non resta che tracciare una crocetta su qualcosa.
Come sta la democrazia italiana?
Godiamo di libertà: i diritti civili esistono, i diritti politici anche, i diritti sociali sono variegati. Il funzionamento delle istituzioni invece dipende da una variabile: i partiti. Una democrazia buona ha partiti buoni; una democrazia che ha partiti sgangherati, che sono costruzioni personalistiche, che ci sono e non ci sono, inevitabilmente è di bassa qualità. E non possiamo salvarci dicendo “anche altrove”, perché non è vero: i partiti tedeschi e spagnoli sono meglio organizzati, quelli portoghesi e quelli scandinavi pure.
Una democrazia senza partiti non esiste, lei lo insegna.
Una via d’uscita potrebbe essere il presidenzialismo, ma io sono preoccupato di una cosa: chi e come controlla quel potere? Ciò che manca, comunque, è il fatto che i politici predichino il senso civico, che pagare le tasse magari non è bello ma bisogna farlo; che osservare le leggi e respingere la corruzione è cruciale per vivere insieme. Mancano i grandi predicatori politici, tolti Mattarella e in certa misura Draghi.
Vale la pena comunque votare?
Sì, ma non perché “se non voti la politica si occupa comunque di te”. È il contrario: se non voti la politica non si occupa di ciò che ti sta a cuore.
L’affluenza rischia di essere bassa: colpa dei partiti? Dei cittadini? O dei media?
C’è chi dice “non voto perché non voglio” e li capisco, ma chi non vota non conta; e chi dice “non voto perché nessuno me lo ha chiesto”, ed è un problema dei partiti che non hanno motivato l’elettore. E poi gli italiani continuano ad avere questa idea che la politica sia qualcosa di non particolarmente pulito…
Non è così?
Sono alcuni politici a non esserlo. La politica è quello che facciamo insieme: sono tutte cose che devono essere predicate, ma oggi ciascuno pensa al suo tornaconto.
La sinistra ha perso il rapporto con il popolo?
Non sono sicuro che ci sia il popolo, ma so che la sinistra non ha più la capacità di essere presente in alcuni luoghi: se fosse nelle fabbriche sarebbe meglio, se avesse un rapporto vero con i sindacati, se i sindacati facessero davvero una politica progressista…
E il problema della destra qual è?
Il primo è che le destre non sono coese, stanno insieme per vincere ma poi avranno difficoltà a governare. Poi hanno pulsioni populiste, punitive, e poca accettazione dell’autonomia delle donne. E non sono abbastanza europeiste.
Che cosa pensa del voto del Parlamento europeo che condanna l’Ungheria di Orbàn?
Semplicemente Orbàn sta violando le regole della democrazia. Non esistono le “democrazie elettorali”: quando lei reprime le opposizioni, quelle non hanno abbastanza spazio nella campagna elettorale; se espelle una libera università come quella di Soros, lei incide sulla possibilità che circolino le informazioni. Tecnicamente non è già più una democrazia. Non si possono controllare i giudici.
Perché secondo lei FdI e Lega hanno votato per salvare Orbàn? Cioè è possibile smarcare un legittimo sovranismo da questi aspetti che toccano democrazia e stato di diritto?
Secondo me dovevano astenersi. Invece per convenienza loro, per mantenere buoni rapporti con Orbàn, non lo hanno fatto. Per me è un errore. Ma poi mi chiedo: è un errore anche per gli elettori di Meloni? Non lo so.
Il populismo è il linguaggio di quest’epoca. Però la legislatura più populista della storia si è chiusa con Draghi premier, che è l’opposto. Bizzarro, no?
È bizzarro, sì. Ma qui c’è stata un’insorgenza populista. Fino al 2013 non c’era. Ma come è arrivata può scomparire. Resta però un tratto di questo Paese: un atteggiamento di anti-politica e anti-parlamentarismo che può essere controllato solo da partiti in grado di fare politiche decenti. L’esito del voto del 25 settembre è scontato? Non lo è mai. Molti elettori decidono per chi votare nelle ultime 48 ore. Può sempre accadere qualcosa che fa cambiare idea.
Draghi ha detto “no”. Ci crede che non farà più il premier?
Sì(lunga pausa). Aveva investito molto nel Paese, essere sbalzato così è stato pesante: è molto deluso, credo anche incazzato.
Intervista raccolta da Marco Scorzato pubblicata su Il Giornale di Vicenza 22 Settembre 2022
A cosa servono le leggi elettorali. Rappresentanza e responsabilità #Forlì #18settembre #Elezioni2022
In presenza al Teatro di Vecchiazzano e in diretta YouTube
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Gianfranco Pasquino
A cosa servono le leggi elettorali. Rappresentanza e responsabilità
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Confronto tra candidati sul territorio
moderatore Enrico Samorì
