Home » Posts tagged 'legge Renzi-Boschi'

Tag Archives: legge Renzi-Boschi

Sulla legge elettorale nessun trucco all’italiana @DomaniGiornale

Le leggi elettorali servono a tradurre i voti in seggi. A livello nazionale, la traduzione dei voti produce seggi in parlamento, in tutti i parlamenti non soltanto in quelli, come l’Italia, delle democrazie parlamentari, ma anche in quelli delle democrazie presidenziali (es. USA) e semipresidenziali (es. Francia). Nessuna legge elettorale dà vita al governo. Neppure nel presidenzialismo che non è necessariamente il migliore dei casi. Lì viene eletto un capo dello Stato che poi formerà il governo. Buone leggi elettorali sono quelle che danno soddisfacente rappresentanza politica ai cittadini, abbiano o no votato. Fra le molte, alcune non convincenti, motivazioni del non-voto, non ascolteremo mai quella di coloro che si lamentano perché non si sentono governati. Sicuramente, invece, una parte non marginale degli astensionisti accuserà gli eletti di non sapere né volere rappresentarli. Hanno chiesto il loro voto disinteressandosi appena eletti delle loro preferenze, delle loro esigenze, dei loro interessi cercando solo di essere rieletti. Non otterranno il loro voto poiché gli elettori sedotti e abbandonati se ne andranno nell’astensione.

   Gli astensionisti non faranno cadere la democrazia, che, per lo più, non è affatto un loro obiettivo, ma incideranno negativamente sulla qualità di una democrazia che non sarà in grado di tenere conto di quello che il 40 per cento o più dei suoi cittadini desidererebbe. Formulare e approvare una legge elettorale che tenga conto (quasi) esclusivamente degli interessi dei partiti e dei loro dirigenti non servirà in nessun modo a ridurre/risolvere la crisi di rappresentanza. Al contrario, potrebbe addirittura aggravarla, in nome di una governabilità che non può essere sintetizzata nell’indicazione sulla scheda del nome del capo del governo né gratificata con un premio in seggi per dare vita ad un governo grasso, ma, potenzialmente anche inefficace e immobilista.

   Il criterio dominante con il quale valutare la bontà di una legge elettorale è quanto potere conferisce agli elettori. Se l’elettore può unicamente tracciare una crocetta sul simbolo del partito (o di una coalizione) e/o sul nome di un candidato, il suo potere risulta e rimane davvero limitato. Consentire all’elettorato di scegliere partito e candidato è un buon passo avanti. Spesso significa che i dirigenti nazionali dei partiti e delle correnti non potranno paracadutare i loro vassalli/e, ma dovranno tenere conto delle preferenze del collegio. Punto da non dimenticare, gli eletti stessi saranno effettivamente rappresentanti/rappresentativi di quel collegio, non soltanto di chi li ha votati, alcuni dei quali poi divenuti insoddisfatti, ma anche di coloro che non li hanno votati, che poi ne apprezzeranno i comportamenti. Tutto questo significa che una buona legge elettorale non è mai il prodotto dell’incrocio e della somma dei vantaggi particolaristici che potrebbero pensare/tentare di ottenere le due donne leader dei due maggiori partiti italiani. Mirare ad affrancarsi dalle pressioni, particolaristiche e spesso politicamente molto fastidiose degli alleati attuali e potenziali è comprensibile, persino, entro certi limiti, giustificabile. Tuttavia, anche nel peggiore dei casi, coalizioni composite danno maggiore e superiore rappresentanza politica all’elettorato. Lo incoraggiano a partecipare per sostenere chi meglio porta avanti le sue idee. Nella situazione italiana dopo tre brutte esperienze autoctone: legge Calderoli, legge Boschi-Renzi (Italicum), legge Rosato, la via più promettente da seguire è quella di imparare da quanto già esiste e funziona, dall’usato sicuro: proporzionale personalizzata tedesca e doppio turno con clausola di passaggio al secondo turno francese, eventualmente con pochi ritocchi non stravolgenti. Non è proprio il caso di inventarsi qualche trucco all’italiana.  

Pubblicato il 2 agosto 2025 su Domani

Perseverando negli sbagli non s’impara. Breve promemoria in quattro punti a pochi giorni dalle #elezioniPolitiche2018

La campagna elettorale ha fatto ricomparire vecchi e gravi errori che non bisogna stancarsi di correggere.

1. Nessun governo nelle democrazie parlamentari è mai eletto dal popolo. Non esiste neppure nessun Primo ministro eletto dal popolo. I governi nascono in Parlamento, lì possono fisiologicamente morire e essere sostituiti secondo la Costituzione, i precedenti, le tradizioni. Scrivere, come ha fatto Antonio Polito “Il Corriere della Sera” (17 febbraio 2018, p.1): “dobbiamo infatti prepararci al quinto governo di fila non scelto dagli elettori nelle urne, ma costruito in Parlamento”, non solo induce a fare erroneamente credere che i governi siano per l’appunto scelti dagli elettori, ma delegittima previamente il prossimo governo che sarà proprio “costruito in Parlamento”.

2. Non siamo affatto “tornati” alla proporzionale (quale proporzionale visto che ne esistono molte varianti?). La legge Rosato non ha quasi nulla in comune con la legge elettorale proporzionale usata in Italia dal 1948 al 1992. Sia la legge Calderoli (Porcellum) sia la legge Renzi-Boschi (Italicum) erano leggi proporzionali con premio di maggioranza, nient’affatto leggi maggioritarie come quella inglese e come il doppio turno francese in collegi uninominali. Con il suo 33 percento di seggi assegnati in collegi uninominali sia alla Camera sia al Senato ai candidati che ottengono almeno un voto in più dei concorrenti, la legge Rosato è di gran lunga meno proporzionale delle leggi che l’hanno preceduta. Per molte ragioni rimane pessima, ma non configura nessun ritorno a nessuna imprecisata “proporzionale”.

Foto Fabio Cimaglia

3. Non esiste nessun trade-off, nessuno scambio fra rappresentanza e governabilità. Meno che mai si può credere che la mai chiaramente definita governabilità si acquisisca comprimendo e riducendo la rappresentanza. Al contrario, da una migliore rappresentanza scaturisce la governabilità. Naturalmente, governabilità non significa, non è, non discende dal governo di un solo partito dotato di una maggioranza parlamentare gonfiata da un premio elettorale. Quanto alla rappresentanza politica, essa non è mai “lo specchio del paese”. Non è rappresentanza sociologica, comunque impossibile da conseguire e neppure da perseguire, ma è rappresentanza elettiva con gli eletti che hanno piena consapevolezza di doversi fare portatori delle preferenze politiche e sociali degli elettori. Non sono uomini e donne scelti/ e nominati/e per essere obbedienti esecutori/trici delle decisioni dei capi partito e capi corrente (uno dei punti cardine della legge Rosato, non adeguatamente criticato) con la conseguenza probabile che quei parlamentari si sposteranno in corso d’opera verso quei capi partito in grado di garantire la loro rielezione. Déjà vu, déjà fait: trasformismo, il preminente e persistente contributo italiano alla storia dei vizi del parlamentarismo.

4. No, nelle riforme costituzionali bocciate da quasi il 60 per cento degli elettori il 4 dicembre 2016 non c’era nessun meccanismo di potenziamento del governo (che, incidentalmente, avrebbe comunque anche richiesto una ridefinizione dei checks and balances, dei freni e contrappesi che sono l’essenza delle democrazie liberali) , nulla che assomigliasse al voto di sfiducia costruttivo che, per l’appunto, dà potere al capo del governo al tempo stesso che ne dà al Parlamento. Piangere sul referendum perduto asserendo che avrebbe dato slancio ad una nuova fase della politica italiana non solo non serve a niente, ma non consente di capire quanto sbagliate fossero quelle riforme e quanto necessario sia riflettere sulla possibilità/praticabilità di riforme migliori.

Pubblicato il 26 febbraio 2018 su la rivista ilMulino