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Partiti sgangherati e antipolitica Ma chi non vota non è ascoltato #intervista @GiornaleVicenza

«Molti sabati pomeriggio di quel dolce autunno del 1974 a Harvard li passammo a giocare al pallone nel campetto dietro casa. Mario Draghi era spesso con noi, ma certo, giocatore piuttosto lento e poco grintoso, non era il più dotato in quello sport». Ci sono chicche come questa e aneddoti spassosi in “Tra scienza e politica. Un’autobiografia”, il libro di Gianfranco Pasquino edito da Utet e presentato a Pordenonelegge. Un’autobiografia, per un politologo, può sembrare qualcosa di ardito. Ma chi conosce Pasquino, professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, non si stupisce: la sua storia è un crocevia di incontri e conoscenze che vale la pena trasmettere, non fosse altro che per aver avuto come maestri sia Norberto Bobbio sia Giovanni Sartori.

Professor Pasquino, il Draghi calciatore non era il migliore, ma da premier com’è stato?

Non era il miglior calciatore e non puntava nemmeno ad esserlo (sorride). Ma da premier è stato molto bravo. Altro che “tecnico”… Da giovane non sembrava così interessato alla politica, ma ha dimostrato di aver imparato molto e molto in fretta.

Ora Draghi è stato fatto cadere e si va al voto. Cosa c’è in gioco in queste elezioni?

Quello che davvero entra in gioco è come stare in Europa, è la vera posta. Sappiamo che il Pd è un partito europeista, come +Europa, e che le persone che vengono da quell’area sono affidabili sul tema. Non sappiamo quali sono le persone affidabili nello schieramento di centrodestra, con poche eccezioni. Però sappiamo che sostanzialmente Giorgia Meloni è una sovranista e Salvini forse ancora di più. È difficile che si facciano controllare dai pochi europeisti di Forza Italia: Berlusconi ha detto cose importanti, ma gli altri alleati avranno almeno il doppio del suo consenso.

Perché teme il sovranismo?

Sovranismo vuol dire cercare di riprendere delle competenze che abbiamo affidato consapevolmente all’Europa. Non abbiamo ceduto la sovranità, l’abbiamo condivisa con altri Stati, e loro con noi. Tornare indietro vuol dire avere meno possibilità di incidere sulle decisioni. Alcune cose non potremmo deciderle mai.

Ritiene che la nuova dicotomia politica sia europeismo-sovranismo, più di destra-sinistra?

Non lo dico io: è stato Altiero Spinelli, nel Manifesto di Ventotene, 1941. Spinelli vedeva le cose molto in anticipo rispetto agli altri. D’altronde i singoli Stati europei sulla scena mondiale non conterebbero nulla: la soluzione è dentro l’Europa, altrimenti non possiamo competere né con la Russia né con la Cina e nemmeno con gli Stati Uniti, anche se bisognerebbe avere un rapporto decente con gli Usa.

Come si inserisce la guerra in Ucraina in questa analisi?

Nella guerra in Ucraina c’è uno stato autoritario che ha aggredito una democrazia. E noi non possiamo non stare con la democrazia. Se quello stato autoritario riesce a ottenere ciò che vuole, è in grado di ripeterlo con altri stati vicini. Non a caso Lituania, Estonia e la stessa Polonia sono preoccupatissimi. La Polonia conosce bene i russi e sa che ha bisogno della Nato e dell’Europa.

In Ucraina è in gioco anche la nostra libertà?

Lì si combatte sia per salvare l’Ucraina sia per salvare le prospettive dell’Europa. E un’eventuale sconfitta di Putin potrebbe aprire le porte a una democratizzazione della Russia: sarebbe un passaggio epocale.

A chi sostiene che le responsabilità della guerra siano anche dell’Occidente come risponde?

Non credo che sia vero. Ma tutto è cambiato quando la Russia ha usato le armi. La Costituzione dice che le guerre difensive sono accettabili, le guerre offensive mai.

L’Italia va al voto con una legge elettorale che toglie ogni potere all’elettore. L’hanno voluta tutti i partiti…

L’ha voluta Renzi e l’ha fatta fare a Rosato. Ma l’hanno accettata tutti perché fa comodo ai dirigenti di partito: si ritagliano il loro seggio, si candidano in 5 luoghi diversi, piazzano i seguaci. Aspettare che riformino una legge che dà loro un potere mai così grande è irrealistico. A noi non resta che tracciare una crocetta su qualcosa.

Come sta la democrazia italiana?

Godiamo di libertà: i diritti civili esistono, i diritti politici anche, i diritti sociali sono variegati. Il funzionamento delle istituzioni invece dipende da una variabile: i partiti. Una democrazia buona ha partiti buoni; una democrazia che ha partiti sgangherati, che sono costruzioni personalistiche, che ci sono e non ci sono, inevitabilmente è di bassa qualità. E non possiamo salvarci dicendo “anche altrove”, perché non è vero: i partiti tedeschi e spagnoli sono meglio organizzati, quelli portoghesi e quelli scandinavi pure.

Una democrazia senza partiti non esiste, lei lo insegna.

Una via d’uscita potrebbe essere il presidenzialismo, ma io sono preoccupato di una cosa: chi e come controlla quel potere? Ciò che manca, comunque, è il fatto che i politici predichino il senso civico, che pagare le tasse magari non è bello ma bisogna farlo; che osservare le leggi e respingere la corruzione è cruciale per vivere insieme. Mancano i grandi predicatori politici, tolti Mattarella e in certa misura Draghi.

Vale la pena comunque votare?

Sì, ma non perché “se non voti la politica si occupa comunque di te”. È il contrario: se non voti la politica non si occupa di ciò che ti sta a cuore.

L’affluenza rischia di essere bassa: colpa dei partiti? Dei cittadini? O dei media?

C’è chi dice “non voto perché non voglio” e li capisco, ma chi non vota non conta; e chi dice “non voto perché nessuno me lo ha chiesto”, ed è un problema dei partiti che non hanno motivato l’elettore. E poi gli italiani continuano ad avere questa idea che la politica sia qualcosa di non particolarmente pulito…

Non è così?

Sono alcuni politici a non esserlo. La politica è quello che facciamo insieme: sono tutte cose che devono essere predicate, ma oggi ciascuno pensa al suo tornaconto.

La sinistra ha perso il rapporto con il popolo?

Non sono sicuro che ci sia il popolo, ma so che la sinistra non ha più la capacità di essere presente in alcuni luoghi: se fosse nelle fabbriche sarebbe meglio, se avesse un rapporto vero con i sindacati, se i sindacati facessero davvero una politica progressista…

E il problema della destra qual è?

Il primo è che le destre non sono coese, stanno insieme per vincere ma poi avranno difficoltà a governare. Poi hanno pulsioni populiste, punitive, e poca accettazione dell’autonomia delle donne. E non sono abbastanza europeiste.

Che cosa pensa del voto del Parlamento europeo che condanna l’Ungheria di Orbàn?

Semplicemente Orbàn sta violando le regole della democrazia. Non esistono le “democrazie elettorali”: quando lei reprime le opposizioni, quelle non hanno abbastanza spazio nella campagna elettorale; se espelle una libera università come quella di Soros, lei incide sulla possibilità che circolino le informazioni. Tecnicamente non è già più una democrazia. Non si possono controllare i giudici.

Perché secondo lei FdI e Lega hanno votato per salvare Orbàn? Cioè è possibile smarcare un legittimo sovranismo da questi aspetti che toccano democrazia e stato di diritto?

Secondo me dovevano astenersi. Invece per convenienza loro, per mantenere buoni rapporti con Orbàn, non lo hanno fatto. Per me è un errore. Ma poi mi chiedo: è un errore anche per gli elettori di Meloni? Non lo so.

Il populismo è il linguaggio di quest’epoca. Però la legislatura più populista della storia si è chiusa con Draghi premier, che è l’opposto. Bizzarro, no?

È bizzarro, sì. Ma qui c’è stata un’insorgenza populista. Fino al 2013 non c’era. Ma come è arrivata può scomparire. Resta però un tratto di questo Paese: un atteggiamento di anti-politica e anti-parlamentarismo che può essere controllato solo da partiti in grado di fare politiche decenti. L’esito del voto del 25 settembre è scontato? Non lo è mai. Molti elettori decidono per chi votare nelle ultime 48 ore. Può sempre accadere qualcosa che fa cambiare idea.

Draghi ha detto “no”. Ci crede che non farà più il premier?

Sì(lunga pausa). Aveva investito molto nel Paese, essere sbalzato così è stato pesante: è molto deluso, credo anche incazzato.

Intervista raccolta da Marco Scorzato pubblicata su Il Giornale di Vicenza 22 Settembre 2022

Per chi suona la fisarmonica del Capo dello Stato @formichenews

Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare presidente del Consiglio e ministri. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Il commento di Gianfranco Pasquino Accademico dei Lincei e autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)

La fisarmonica (del Presidente della Repubblica) non è affatto, come ha perentoriamente scritto Carlo Fusi (28 agosto), un “funambolismo tutto italiano e rappresentazione tra le più eclatanti della crisi di sistema in atto”. Al contrario, è una metafora delle modalità elastiche del funzionamento delle democrazie parlamentari che consentono di analizzare, capire, spiegare al meglio il ruolo del Presidente della Repubblica italiana ieri, oggi e, se non sarà travolto dal pasticciaccio brutto del presidenzialismo diversamente inteso dal trio Meloni-Salvini-Berlusconi, domani.

   In sintesi, definiti dalla Costituzione, dalla quale non è mai lecito prescindere, i poteri del Presidente della Repubblica italiana, l’esercizio di quei poteri dipende dai rapporti di forza fra i partiti in Parlamento e il Presidente, la sua storia, il suo prestigio, la sua competenza. Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare Presidente del Consiglio e ministro. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Se ci saranno i numeri, ovvero una maggioranza assoluta FdI, Lega e FI, dovranno essere Salvini e Berlusconi a fare il nome di Meloni a Mattarella, aggiungendo che non accetteranno nessuna alternativa.

   Certo, il Presidente chiederà qualche garanzia europeista, ma non potrà opporsi al nome. “Crisi di sistema in atto”? O, piuttosto, funzionamento da manuale di una democrazia parlamentare nella quale il governo nasce in Parlamento e viene riconosciuto e battezzato dal Presidente? Verrà anche sostenuto dalla .sua maggioranza parlamentare e sarò operativo quanto il suo programma e i suoi partiti vorranno e i suoi ministri sapranno. Quel che dovrebbe essere eclatante è la constatazione che nessun presidenzialismo di stampo (latino) americano offre flessibilità. Anzi, i rapporti Presidente/Congresso sono rigidi. Il Presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso che, a sua volta, non può sfiduciare e sostituire il Presidente. Nel passato, spesso, l’uscita dallo stallo era un golpe militare.

    Nessuna legge elettorale, nemmeno l’apprezzatissima Legge Rosato, può rendere elastico il funzionamento del presidenzialismo che, come abbiamo visto con Trump, ha evidenziato molti degli elementi più eclatanti di una crisi di sistema. Altro sarebbe il discorso sul semipresidenzialismo, da fare appena i proponenti ne chiariranno i termini e accenneranno ad una legge elettorale appropriata. Nel frattempo, sono fiducioso che in vista del post-25 settembre il Presidente Mattarella stia diligentemente raccogliendo tutti gli spartiti disponibili e facendo con impegno e solerzia tutti i solfeggi indispensabili per suonare al meglio la sua fisarmonica. Altri saranno i cacofoni.

Pubblicato il 30 agosto 2022 su Formiche.net

Paracadutare i candidati, e le idee?

Adesso possiamo dirlo a ragion veduta, pardon, a liste rese pubbliche. Gli uomini e, in misura ovviamente inferiore, le donne già in cariche politiche si sono difese da par loro. Praticamente tutti, nonostante la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, sono riusciti a trovare posto nelle liste dei loro partiti, dei loro “poli”. Naturalmente, i leader non si sono fatti mancare niente. Troppi commentatori parlano di duelli, ma laddove nei collegi uninominali ci sono, visibili, due leader in posizione di preminenza, gli elettori non si lascino ingannare. Ciascuno e tutti si sono premuniti candidandosi anche in collegi che ne consentiranno comunque l’elezione. Ecco spiegato perché, nonostante le molte critiche, raramente da parte loro, la Legge Rosato non è stata neppure minimamente ritoccata. Consente le pluricandidature e ai dirigenti offre anche la possibilità di scegliere con buona approssimazione chi degli esponenti del loro partito/polo vogliono collocare in posizione eleggibile. Poi, grazie all’assenza di qualsiasi requisito di residenza, si manifesta il fenomeno dei paracadutati. Sono persone, spesso con lunga carriera politica, che non trovano posto nel loro territorio e vengono mandati lontano dove non sono, nel bene e nel male, abbastanza noti e dove probabilmente, fatta, forse, la campagna elettorale, non torneranno più. Prossimo giro nuovo “paracadutamento”. Naturalmente, la rappresentanza politica risentirà negativamente di tutti questi trucchetti che gli elettori non possono sventare tranne forse nei collegi definiti “contendibili” ovvero dove lo spostamento di non molti voti può effettivamente fare la differenza. Ma quello spostamento deve essere organizzato e coordinato. Al momento non se ne vedono neppure le prime avvisaglie. Certo l’interrogativo più importante riguarda chi vincerà, con il centro-destra, pur diviso su tematiche europee e sulla leadership, piazzato in testa, ma ancora in grado di commettere errori anche decisivi. Giustamente, però, gli elettori, mi permetto di interpretarli, vorrebbero sapere con quali capacità e competenze i candidati promettono di affrontare e risolvere i problemi la cui gravità è innegabile: energia e inflazione con tutto quel che ne segue in termini di bollette, di salari e di costo della vita. È lecito pensare e temere che i professionisti della politica, i soliti noti più i rientranti, come Marcello Pera e Giulio Tremonti, non abbiano idee e ricette particolarmente originali. C’è chi, consapevole delle sue carenze, si aggrappa alla “agenda Draghi”, ma per attuarla bisognerebbe ricorrere al suo ideatore con la consapevolezza che Draghi saprebbe opportunamente adattarla e aggiornarla. Il compito dei professionisti della politica si presenta arduo, ma se lo sono cercati loro. Non resta che suggerire agli elettori italiani di valutare con attenzione chi dice che cosa e quanto credibile è. Chi non vota non conta. Consente agli altri di scegliere per lui/lei e non avrà nessun diritto di lamentarsi, dopo.

Pubblicato AGL il 24 agosto 2022

Il Rosatellum. La legge elettorale e i politici inadeguati @DomaniGiornale

Il criterio dominante per valutare qualità e bontà di qualsiasi legge elettorale è quanto potere attribuisce agli elettori. Altri criteri sono accessori o sbagliati come l’elezione diretta del governo, uno dei cavallini di battaglia del centro-destra. La vigente legge Rosato consente agli elettori soltanto di tracciare una crocetta sulla candidatura nei collegi uninominali oppure sul partito prescelto, cioè, impossibilità di voto disgiunto, trascinando quel voto in entrambe le direzioni. Inoltre, la Legge Rosato consente di essere candidati sia in un collegio uninominale sia in più circoscrizioni. Sostanzialmente, nessun elettore può essere sicuro che il suo voto servirà ad eleggere il candidato nella sua circoscrizione. Ma, quel che è peggio, saranno gli eletti a decidere a quale collegio/circoscrizione desiderano generosamente prestare la loro opera di rappresentanza politica (che sia il caso di pretendere il requisito di residenza?). Quanto più alcuni candidati sono forti nel loro partito tanto più potranno permettersi di non curarsi affatto della rappresentanza specifica. Non dovranno rispondere del fatto, del non fatto, del malfatto. Tanto in quel collegio davanti a quegli elettori non torneranno affatto. Saranno tecnicamente e politicamente irresponsabili poiché si faranno candidare in un altro collegio sicuro, magari anche da un altro partito se trasformisticamente avranno cambiato casacca in Parlamento come fra il 2018 e i 2022 hanno fatto più di trecento parlamentari su 945.

   Anche se, certamente, il trasformismo è una malattia italiana che viene da lontano, la Legge Rosato ha offerto/offre condizioni molto favorevoli al suo manifestarsi. La crisi di rappresentanza comincia nei partiti e nei partiti dovrebbe essere cercata la soluzione, ma senza riformare la legge elettorale vigente continueranno a essere moltissimi, la maggioranza, i cittadini che dichiarano e lamentano di non sentirsi rappresentati. Hanno ragione, il che non esime dal rimproverarli per la loro mancanza di interesse per la politica, per le scarse informazioni che acquisiscono, per la loro partecipazione politica e elettorale limitata e intermittente, anche se scoraggiata dalle regole che la disciplinano.

Non sarà, dunque, soltanto per la diminuzione del numero dei parlamentari che gli italiani avranno un Parlamento inadeguato a rappresentarli e a controllare e stimolare l’azione del governo. Grande responsabilità per questo esito negativo va a chi a suo tempo approvò la legge Rosato, ma non è possibile esimere dalle responsabilità neppure i parlamentari uscenti e soprattutto i dirigenti dei partiti che non hanno brillato per la loro ansia di riformatori e che, anzi, è legittimo pensare, hanno preferito tenersi una legge che garantisce loro di essere rieletti e di nominare i parlamentari fedeli. Niente male.

Pubblicato il 20 agosto 2022 su Domani

La disfida delle agende di fronte agli elettori @DomaniGiornale

Le coalizioni (elettorali, politiche, di governo) si fanno fra contraenti che si fidano, su programmi concordati, per obiettivi condivisibili e condivisi. La pessima legge elettorale Rosato (stretto compagno d’armi del Presidente Renzi) obbliga a fare tutte le coalizioni immaginabili sotto forma di accozzaglie e ammucchiate e le premia. Certo, l’omogeneità iniziale è auspicabile, ma non necessariamente utile quando il problema consiste nell’attrarre il maggior numero di elettori. Ripetutamente Calenda ha affermato che l’Agenda Draghi, ovvero quanto impostato e lasciato in eredità dal Presidente del Consiglio uscente, è il suo programma, la sua agenda. Molto generosamente, se Draghi non potrà essere richiamato, Calenda si è messo a disposizione per guidare il prossimo governo. Poi, però, ha dimostrato di non avere quel coraggio che costituisce una virtù politica per eccellenza rifiutandosi di fare parte di una coalizione che includa Fratoianni (e Bonelli) poiché il leader di Sinistra Italiana ha votato 56 volte contro la fiducia a Draghi, poi anche pervicacemente contro l’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato. Calenda ha, dunque, avuto paura che nel campo largo di Letta le sue idee, la sua interpretazione dell’Agenda Draghi sarebbero state sconfitte dalle idee di Fratoianni e Bonelli. Di conseguenza, è logico dedurne che ritiene, o semplicemente spera, che la sua agenda troverà maggiore spazio se corre da solo o, a giudicare da ipotesi che circolano, in coalizione con Matteo Renzi (più affidabile di Letta?).

Un’agenda elettorale, politica, di governo è destinata a camminare sulle gambe dei suoi portatori. Farà molta più strada se i portatori sono numerosi e autorevoli. Un embrione di “terzo polo” non soddisfa questa esigenza che, al contrario di quel che sembra avere in mente Letta, può essere conseguita candidando nei collegi uninominali tutte le personalità più autorevoli del Partito Democratico, di +Europa, di Sinistra Italiana e dei Verdi. In quei collegi i candidati dispiegheranno la loro forza propulsiva con l’obiettivo di attrarre e convincere quei molti elettori indecisi persino se votare. In coalizione Calenda avrebbe potuto dimostrare di stare selezionando o di avere già un pacchetto di classe dirigente nuova, all’altezza della sfida.

Infine, già di per se un’agenda di governo contiene una presa di distanza e una critica a tutte le proposte diverse e alternative, più o meno coerentemente impacchettate. Non vedo grande coerenza in molte proposte e posizioni della destra. Sarà importante per Letta e, se lo vorrà, per Calenda ricorrere puntualmente e puntigliosamente a quanto hanno messo nelle rispettive agende per marcare le distanze dalla destra e l’originalità concreta di quanto promettono di fare. A mio parere questo è il modo migliore per sanare lo strappo di Calenda e per consentire agli elettori di pronunciarsi a ragion, pardon, a agenda veduta.

Pubblicato il 10 agosto 2022 su Domani

Dizionario per capire il confuso dibattito politico di questi giorni @DomaniGiornale

Caro Direttore,

mi accingo, ancora una volta senza esitazione di sorta, ad assolvere al missionario compito – di questi tempi assi arduo e scomodo – di sgomberare il dibattito pubblico dai detriti dell’ignoranza, dalle macerie delle culture politiche degenerate e estinte, e dalle trappole della manipolazione per riportalo sui binari solidi e rigorosi della Scienza Politica.

Mi sento obbligato a cominciare esponendo le mie credenziali, forse un’aggravante. Per 43 anni ho insegnato Scienza politica nell’Università di Bologna. Ho tenuto anche corsi in università straniere da Washington, D.C. a Los Angeles, da Harvard a Madrid, da Oxford a Natollin (Polonia). Ho maturato esperienza e competenza nell’ambito dei Sistemi politici comparati. Ho scritto almeno cinque volumi specificamente in materia più un prezioso (sic) libretto sui Sistemi elettorali. Sono particolarmente orgoglioso di Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985) dove, a scanso di equivoci che persistono, il principe non è il capo del governo, ma il cittadino sovrano già identificato da Lelio Basso. Nel dicembre 1985 il libro fu presentato a Torino da Norberto Bobbio e Pietro Ingrao (nel pubblico ricordo mia mamma molto emozionata). Ho scritto articoli accademici usciti in diverse lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, da ultimo, cinese. Ho pubblicato più di un centinaio di articoli di divulgazione su quotidiani e settimanali (ricordo con piacere “Rinascita”). Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985 ho fatto parte della Commissione Bozzi per le Riforme Istituzionali. Fra i molti colleghi parlamentari ricordo Roberto Ruffilli, capogruppo della DC, Pietro Scoppola, Beniamino Andreatta, Sergio Mattarella, Mario Segni, Gino Giugni, Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Eliseo Milani (con il quale scrivemmo la Relazione di Minoranza della Sinistra Indipendente del Senato), provenienze e competenze diverse, ma nessuno tanto sprovveduto quanto i contemporanei. Nell’estate-autunno 2016 sono stato presente, spesso protagonista, in circa ottanta iniziative per sostenere il NO al plebiscito costituzionale indetto e cavalcato da Matteo Renzi. Da ultimo sono frequentemente presente nel dibattito con tweet, spero puntuti e chiarificatori, nel complesso, temo, inefficaci, ma non ho ancora avuto il coraggio di chiedere chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.

Già durante l’esperienza referendaria mi resi tristemente conto di quanto diffusa e grande fosse/sia la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni. Da allora si è estesa e fatta persino più spessa. Su un solo punto, posso, credo, cantare vittoria. Sembra che quasi tutti i politici e i giornalisti abbiano imparato che in nessuna democrazia parlamentare, mai il governo è eletto dal popolo. In verità neanche nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali il popolo elegge il governo, ma soltanto il Presidente che poi con modalità varie formerà e trasformerà quasi a piacimento libitum il suo governo, cambiando i suoi ministri, mai previamente presentati agli elettori.

Con il taglio, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari è tornato in auge il bicameralismo perfetto che tale non è. Perfetto è aggettivo che si riferisce al funzionamento, mentre i bicameralismi esistenti, quello italiano compreso, possono essere paritari o differenziati secondo criteri appositi. Non parlerò delle leggi elettorali, quelle che portano i rappresentanti in parlamento, se non per menzionare due notissime firme del Corriere della Sera, la prima che concluse un suo denso articolo con lo scoop che sarebbe tornato un sistema proporzionale a turno unico, la seconda che, riflettendo sulle elezioni parlamentari francesi del giugno 2022 annunciò la probabilità di non pochi ballottaggi con tre o addirittura quattro candidati/e. Mi limiterò a sottolineare che il ballottaggio non prevede desistenze e non consente alleanze preventive. Invece, praticamente tutte le varianti di doppio turno offrono ampie gamme di opportunità a candidati, partiti, elettori.

L’instabilità governativa essendo notoriamente il più grave problema politico-costituzionale italiano di tanto in tanto qualcuno formula la proposta del presidenzialismo, anatema per la sinistra, ma oggetto largamente non identificato neppure dai suoi proponenti. Sembra che intorno a Giorgia Meloni abbiano deciso, riportato dal Corriere, che si potrebbe avere il semipresidenzialismo alla francese insieme al voto di sfiducia costruttivo previsto nella Costituzione della Repubblica parlamentare tedesca: una combinazione assolutamente e fecondamente europea. Esultano le cancellerie degli Stati-membri dell’Unione Europea che si interrogavano preoccupati sul tasso di europeismo di Fratelli d’Italia. Via tweet è arrivata la benedizione “mi auguro ci sia il presidenzialismo. Il mio modello è la Germania”, di Giovanni Toti (forse un omonimo, Professore di Diritto Costituzionale Comparato nell’Università della Liguria, non certamente il Presidente della Regione, ma non ho visto smentite).

Quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Bisogna garantire a molti la possibilità di intervenire nel dibattito sulle regole e sulla loro eventuale riforma offrendo rappresentanza parlamentare. Irrompe così nel deprimente discorso sulle implicazioni e conseguenze della Legge Rosato il cosiddetto diritto di tribuna ovvero la più o meno graziosa e generosa concessione da parte dello schieramento guidato da Enrico Letta di qualche seggio a Sinistra Italiana e ai Verdi in cambio dei loro pochi, ma, chi sa, talvolta decisivi, voti nei collegi uninominali. I francesi ne hanno discusso, inconcludentemente per anni. Nei collegi uninominali a causa del sistema elettorale maggioritario candidati di aggregazioni che, complessivamente, potevano raccogliere 6-8 e più per cento di voti su scala nazionale finivano per non vincere mai. Si pensò di riservare un 10 per cento di seggi per garantire l’ingresso in parlamento di rappresentanti di quelle liste chiamandolo diritto di tribuna. Non se ne fece, giustamente (poiché candidature eccellenti trova-va-no accoglienza da leader intelligenti), niente. La logica italiana, offerta di seggi in cambio di voti, è sostanzialmente diversa da quella francese: ampliare la rappresentanza politico-parlamentare, da suggerire di non ricorrere all’espressione “diritto di tribuna”.

Concludo, almeno temporaneamente, criticando l’uso del termine front runner. Negli USA, front runner è colui/colei che in un affollato campo di partecipanti alle elezioni primarie per designare il candidato/a alla Presidenza della Repubblica si trova in testa dopo tre o quattro primarie negli Stati. Il front runner non è il capo di un partito, non il capo del partito più grande, non il leader o il tessitore di una coalizione. Sostanzialmente, è una terminologia che nel contesto italiano non ha senso e, comunque, se del caso, oggi la front runner è Giorgia Meloni.

So che questo mio ennesimo tentativo di pulizia e precisione terminologica difficilmente risulterà vittorioso. Pazienza: tornerò su questi e altri termini ogniqualvolta l’uso fattone sarà scandaloso. Nel frattempo, dixi et salvavi animam meam.

GIANFRANCO PASQUINO

Accademico dei Lincei

Pubblicato 7 agosto 2022 su Domani

I candidati devono essere il volto della coalizione @DomaniGiornale

Se sia meglio procedere ad alleanze forzate da una pessima legge elettorale o correre liberi e leggeri in un campo largo verso una sicura sconfitta? This is the question alla quale Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, invece di sognare ha dato una risposta realistica e costosa. Ai saccenti commentatori che per mesi si sono affannati a comunicare la loro preoccupazione, addirittra indignazione per il “ritorno alla proporzionale” è imperativo fare notare che la fin troppo vigente legge Rosato, un terzo maggioritari, due terzi proporzionale con la possibilità di candidature multiple salvaseggio (poltrona?), fra i suoi molti guasti, impone alleanze preventive inevitabilmente tendenti a ammucchiate. Una legge proporzionale avrebbe consentito a tutti di contarsi e agli elettori di valutare con maggiore chiarezza partiti e candidati, poi a ciascuno il suo.

   Nei collegi uninominali, le candidature sono il volto della coalizione che le esprime e le sostiene. Sono il veicolo dell’accordo programmatico. Agli elettori debbono offrire la garanzia che l’azione della coalizione, se vincente, si tradurrà nell’attuazione di quel programma. Il resto, emergenze e nuove tematiche, dovrà continuare a essere oggetto di discussione fra tutti coloro che compongono la coalizione. Se questa è l’interpretazione plausibile dell’accordo raggiuto fra PD, +Europa e Azione, i contraenti hanno di che rallegrarsi e i loro potenziali elettori sono messi in grado di esprimere una valutazione fondata su elementi chiari, il più evidente essendo quello dell’impegno a proseguire, con opportuni adattamenti, aggiunte e correzioni, l’agenda del governo Draghi. Forse dal punto di vista numerico il Partito Democratico è stato fin troppo generoso nei confronti dei suoi due comunque indispensabili alleati. Tuttavia, se l’alleanza avrà lo sperato effetto moltiplicatore i conti dovranno e potranno essere fatti meglio ad elezioni avvenute.

   Adesso l’attenzione deve necessariamente spostarsi e focalizzarsi sulle candidature, sulla loro qualità, sulla loro capacità di combinare esperienza e competenza, sul tasso di entusiasmo (“occhi di tigre”) che sapranno portare nella campagna elettorale. Dalle notizie estraibili da alcune, importanti, situazioni locali del PD sembra che il criterio dominante sia rappresentato dalla continuità della carriera, non dalle new entries che sembrano praticamente inesistenti. La mannaia del limite a due mandati quasi azzererebbe non solo i dirigenti del PD, ma i tre quarti e più degli attuali parlamentari e dei ricandidabili. A mio avviso sarebbe una scelta sbagliata, ma altrettanto sbagliata è la strada del ritorno di parlamentari, anche donne, di lungo e non proprio brillantissimo corso. Agli uomini e alle donne del PD non sarà sufficiente offrire la rassicurante rappresentanza in quanto usato sicuro. Le elezioni del 25 settembre 2022 non saranno in nessun modo simili a elezioni che abbiamo conosciuto nel passato. Si sprecheranno i paragoni (e non voglio suggerirne nessuno). Un punto deve essere sottolineato con forza: il 25 settembre si decidono collocazione e ruolo dell’Italia nell’Unione Europea e nella politica internazionale. Le candidature, non soltanto quelle del Partito Democratico, meritano di essere proposte e valutate con l’osservanza di questo criterio dominante, cruciale anche in caso di una sconfitta che rischia di segnare tristemente l’autunno del nostro scontento.

Pubblicato il 3 agosto 2022 su Domani

Venghino, venghino alla sagra delle proporzionali @formichenews

Chi conosce le proporzionali sa che ce ne sono almeno due che funzionano ottimamente: la proporzionale “personalizzata” tedesca e il Voto Singolo Trasferibile irlandese. Il professore emerito di Scienza Politica e accademico dei Lincei risponde a un articolo del prof. Celotto sulla legge proporzionale

Formiche mi consente di entrare in dialogo con i suoi collaboratori, e ne sono lieto. Questa volta il mio interlocutore è il Prof Alfonso Celotto. Il tema è, in estrema sintesi, la legge elettorale, più precisamente come vanno definite le leggi proporzionali. Dal mio plurale già si capisce, che è esattamente un punto importante, che esistono numerose varianti di leggi proporzionali. Non mi è chiaro, però, che cosa Celotto abbia in mente quando scrive proporzionale “semplice”. Altri, molto peggio, si sono variamente e ripetutamente esibiti con aggettivi come secca (dry, come il Martini), pura (come l’acqua Levissima). Sul Corriere della Sera di parecchio tempo fa, Francesco Verderami giunse alla vetta delle precisazioni scrivendo “proporzionale a turno unico”: una specie di animale fantastico.

   Nessuna proporzionale è “semplice”. Il criterio di attribuzione dei seggi può essere semplice, tot voti tot seggi, ma, primo, molto dipende dalla formula adottata, quella del matematico belga d’Hondt elaborata nelle seconda metà dell’Ottocento, è molto diffusa. In secondo luogo, la proporzionalità può essere “complicata” dalla dimensione delle circoscrizioni e dall’esistenza o meno di soglie d’accesso al Parlamento: almeno il 3, il 4, il 5 per cento dei voti su scala nazionale. “La” proporzionale italiana (1946-1992) richiedeva almeno 300 mila voti più l’elezione di un deputato in una delle circoscrizioni, vale a dire 50-60 mila elettori concentrati. Ai radicali è andata spesso bene. Allo Psiup nel 1972, 645 mila voti, ma nessun deputato eletto direttamente, andò malissimo: scomparve.

   Comunque e dunque, la proporzionale italiana non fu né secca né pura, ma sicuramente e felicemente a turno unico. Consentiva addirittura, per contrastare il potere dei capi corrente, di esprimere tre/quattro voti di preferenza che, no, non erano controllati da mafia e camorra, ma espressi e indirizzati da una pluralità di associazioni, cattoliche e laiche, e persino, in parte, dai sindacati. Sia chiaro: sempre meglio della designazione ad opera dei capicorrente come è avvenuto con la legge Calderoli (Porcellum) e con la legge Rosato e come era insito nell’Italicum renziano.

   Non con la legge Mattarella (1994, 1996, 2001) che era tre quarti maggioritaria in collegi uninominali con un recupero proporzionale su lista apposita per la Camera dei deputati (Celotto ha erroneamente scritto due terzi maggioritari e un terzo proporzionale). La legge Calderoli era proporzionale con ingente premio di maggioranza. L’Italicum era quasi peggio, ma a base comunque proporzionale. La legge Rosato è anch’essa a ampia, due terzi, base proporzionale cosicché è molto sbagliato affermare ad ogni piè sospinto, quasi con orrore, che opportunamente abbandonandola stiamo “tornando” dal maggioritario alla proporzionale. Chi conosce le proporzionali sa che ce ne sono almeno due che funzionano ottimamente: la proporzionale “personalizzata” tedesca e il Voto Singolo Trasferibile irlandese. Studiare e importare senza furbastrerie si può. Nel frattempo si evitino gli aggettivi che sono solo sintomo di ignoranza e superficialità e confondono le già torbide acque elettorali.      

Pubblicato il 12 luglio 2022 su Formiche.net

Fatta la legge elettorale, trovato il disaccordo. Scrive Pasquino @formichenews

Tra gli elementi non considerati nella scelta di una legge elettorale c’è la premessa scientificamente e eticamente doverosa: quanto potere conferisce agli elettori. L’analisi di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei prossimamente in libreria con “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet)

La premessa scientificamente e eticamente doverosa è che il criterio dominante per valutare la bontà di una legge elettorale è quanto potere conferisce agli elettori. Naturalmente, abbiamo imparato che nessun dirigente di partito e nessuno dei loro politologi, o presunti tali, di riferimento utilizza quel criterio come essenziale. Sappiamo che due criteri prevalgono su qualsiasi altra considerazione. Primo, non perdere ovvero limitare le dimensioni della eventuale sconfitta. Secondo, riuscire comunque a portare in Parlamento rappresentanti consapevoli di essere debitori della loro elezione e carica al capo partito o al capocorrente e, dunque, orientati alla disciplina interessata (alla ricandidatura). Nessuna variante di legge proporzionale rende impossibile conseguire entrambi gli obiettivi, anche se, garantendo un voto di preferenza (ricordo che gli italiani si espressero in questo senso in un fatidico referendum giugno 1991) si darebbe persino un po’ di potere agli elettori. Mi sono tappato le orecchie per non sentire le strilla di coloro che contro ogni obiezione vedono nelle preferenze solo corruzione.

   Se Letta mi chiedesse che cosa serve meglio a chi vuole costruire un campo largo, gli risponderei che una legge maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali è la soluzione migliore. Quel campo sarebbero/saranno gli elettori a costruirlo secondo il gradimento che daranno all’offerta delle candidature, ovviamente con occhi di tigre, e delle indicazioni di alleanze con i pentastellati incentivati a stare nella coalizione in fieri. Dal canto loro, un po’ tutti i centristi vorrebbero contarsi grazie ad una legge proporzionale che non contenga nessuna soglia d’accesso al Parlamento, rischiosissima per la sopravvivenza di non pochi di loro. Meloni continua a propendere per e difendere “il” maggioritario, credo sostanzialmente la legge Rosato, due terzi proporzionale, un terzo maggioritaria. Sa che, a bocce ferme, questa legge le consentirebbe di essere numericamente decisiva se il centro-destra vuole ricompattarsi e governare. Ma non è vero, come sembra temere, che “la” proporzionale la metterebbe fuori gioco. Anzi, contati i voti proporzionali è possibile, persino probabile che quel che resto del centro-destra sarebbe costretto a constatare l’indispensabilità dei seggi di Fratelli d’Italia per giungere alla maggioranza assoluta in Parlamento. Non tanto paradossalmente, anche una legge di tipo francese renderebbe comunque i suoi voti decisivi per tutti candidati uninominali del centro-destra. FdI sarebbe sottorappresentata, ma determinante.    Come si capisce da questo sintetico scenario, risulta chiarissimo perché un accordo sulla legge elettorale sia molto difficile da trovare. Formiche mi ha chiesto di non esprimere le mie preferenze. Allora concludo con due notazioni comparate che è sempre il modo migliore di procedere. Il doppio turno francese dà più potere agli elettori e ai candidati e agevola la formazione di coalizioni per il governo. Le leggi proporzionali sono spesso raccomandate quando esiste frammentazione sociale e politica. Una buona soglia di accesso riduce la frammentazione, la proporzionalità rappresenta adeguatamente la società. Il resto, nel bene e nel male, non può non restare nelle mani dei dirigenti di partito.

Pubblicato il 23 febbraio 2022 su formiche.net

Pasquino: “Elezioni lontane: la Lega proverà a destabilizzerà il governo” #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, entra nel dibattito sulla nuova legge elettorale e spiega che «una buona legge elettorale è quella che dà potere agli elettori e non ai capi partito» e per questo «non ne avremo mai una buona». Sul richiamo di Mattarella alla Magistratura nel discorso di rielezione ammonisce: «Il presidente non è un arbitro ma il protagonista della vita politica» e quindi «deve usare gli strumenti della Costituzione per imporsi».

Professor Pasquino, nel dibattito post elezione presidenziale si parla molto di legge elettorale e del ritorno al proporzionale, che molti vorrebbero “puro”. Che ne pensa?

Penso che non esista il proporzionale puro. Non inventiamoci cose. Il proporzionale ha sempre elementi di disproporzionalità. La legge Rosato, ad esempio, è due terzi proporzionale e un terzo maggioritario. Non diciamo neanche che un premio di maggioranza inserto in un proporzionale lo fa diventare un maggioritario. Italicum e Porcellum erano due leggi proporzionali con premio di maggioranza.

A quale legge elettorale si dovrebbe pensare per mettere d’accordo tutti?

La migliore finora è la legge Mattarella, ma non perché chi l’ha scritta era bravissimo ma perché viene fuori da un quesito referendario approvato dall’ 85 per cento degli elettori. L’unica legge accettabile, non buona, è dunque il Mattarellum. Dopodiché a me pare che alla Camera abbiano già proceduto a ridisegnare i collegi per la legge Rosato. Quindi avremo un’altra legge brutta che consente ai dirigenti di scegliersi i propri parlamentari.

Evidentemente l’argomento la stimola… L’argomento mi indigna. Se nessuno fa una campagna per il punto più rilevante, cioè che una buona legge elettorale è quella che dà potere agli elettori e non ai capi partito, non avremo mai una buona legge elettorale. La legge Rosato non dà nessun potere agli elettori. Bisogna anche che si smetta di dire che staremmo tutti meglio se fosse stato approvato il referendum del 2016. Staremmo ancora peggio.

A prescindere dalla legge elettorale, pensa che la Lega finirà per far cadere il governo Draghi?

La Lega ha un problema, e cioè che il suo leader è quello che ha perso di più nella corsa al Colle. Ha osato molto ma ha sbagliato diverse mosse cercando di fare il king maker. Ha perso consensi rispetto a Giorgia Meloni e per questo la Lega cercherà di destabilizzare il governo ma non fino a farlo cadere. Sarebbe rischiosissimo. Non è detto che far cadere il governo porterebbe a elezioni anticipate, ma se così fosse si aprirebbe un’autostrada per Meloni.

In ogni caso crede che la rielezione di Mattarella porterà a fibrillazioni nella maggioranza?

La rielezione di Mattarella non è portatrice di instabilità, ma è una spinta verso la stabilità. Anche perché Draghi, a chi cercherà di destabilizzarlo, dirà che hanno rieletto Mattarella proprio per consentire la prosecuzione dell’attività di governo. Se hanno deciso di rieleggere Mattarella è perché non volevano che le carte cambiassero.

Si aspettava nel discorso del presidente della Repubblica il richiamo al governo affinché sia concesso il giusto tempo al Parlamento per analizzare le leggi?

Non me l’aspettavo. È un richiamo molto importante perché Mattarella ha parlato a Draghi in pubblico. Tuttavia per quanto riguarda i decreti legge dovrebbe parlare anche a se stesso, perché lui può sia scoraggiare il governo nel ricorrere a questi provvedimenti ma può anche respingerli dicendo che non c’è necessità e urgenza. Poi c’è stato anche il richiamo al Parlamento nella eccessiva dilatazione dei tempi della discussione in Aula. Le Camere devono darsi dei tempi decenti e devono saperli rispettare, altrimenti si creano le condizioni perché il governo proceda per decreto.

Come giudica il passaggio sulla Magistratura?

È stato molto giusto. C’è stato un richiamo durissimo sulla politicizzazione della Magistratura e sulle correnti. Anche qui è da sottolineare che va bene che il presidente lo dica al Parlamento ma parla anche a se stesso in quanto presidente del Csm. Non basta che inauguri e parli, deve imporre qualcosa e farsi valere. Il presidente non è un arbitro ma il protagonista della vita politica. Deve usare gli strumenti della Costituzione per imporsi.

Pensa che Mattarella userà i prossimi sette anni per intervenire?

Nel caso del Csm, in questi sette anni il presidente non è nemmeno stato un arbitro. Non ha fischiato nemmeno un fallo. Quindi la dicitura dell’arbitro è proprio sbagliata. Forse non sarà eletto nel 2029 ( sorride…) ma servirà una persona come lui. Ritengo però che non sia stata una buona idea la rielezione. Anche perché lui ha accettato sì controvoglia, ma doveva spiegare qualcosa di più sul punto.

Perché non è d’accordo con l’idea della rielezione?

Credo che lo spirito dell’articolo 88 sul semestre bianco e in generale sulla Presidenza sia della non rielezione. Non è vero che quello che non è vietato è consentito. Non è così. Ci sono cose appositamente non vietate che però non sono necessariamente consentite. Capisco lo stato d’emergenza ma credo che si dovesse trovare un’altra soluzione.

Pubblicato il 6 febbraio 2022 su Il Dubbio