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La propaganda sulla Costituzione

Leggo periodicamente le grida di (finto) dolore emesse da coloro che hanno sonoramente perso il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Sono quasi tutti accompagnati da vere indignate invettive contro i professoroni e soprattutto contro Gustavo Zagrebelsky, il Presidente del Comitato nazionale per il NO. Avremmo, non rispondo a nome suo, ma mi prendo la mia parte, non so quanto grande, di responsabilità, aperto la strada a infinite (non ancora finite) nefandezze. Per di più, di fronte alle nefandezze staremmo tutti zitti mentre il governo Lega-Cinque Stelle è affaccendato nella distruzione della Costituzione “più bella del mondo” (copyright non mio). Sull’aggettivo “bella” ho già variamente e ripetutamente eccepito affermando, senza timore di smentite, che non esiste un concorso di bellezza per le Costituzioni e che, se ci fosse, vincerebbe la Costituzione mai scritta, quella del Regno un tempo Unito. Dopodiché, contrariamente agli scrittori di stupidaggini seriali sul referendum, sulla Costituzione e sul governo, fra i quali annovero da qualche tempo il Direttore del “Foglio” Claudio Cerasa (si veda la sua risposta Antiparlamentarismo e silenzio dei costituzionalisti, alla lettera di un assegnista, sic, di ricerca in Diritto Costituzionale, pubblicata in prima pagina il 19 luglio), entro nel merito. Metto subito le carte in tavola. Ho scritto su tutte le tematiche attinenti il referendum costituzionale: Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, Università Bocconi Edizioni, 2015) . Ho anche criticato le, spesso davvero risibili, motivazioni dei sostenitori del sì in NO positivo. Per la Costituzione. Per le buone riforme. Per migliorare la vita e la politica, Novi Ligure, Edizioni Epoké, 2016 .

 

Credo di essermi abbondantemente conquistato il diritto di spazientirmi a fronte di critiche fondate sull’ignoranza e sulla ripetizione di errori monumentali, squalificanti.

Primo, davvero il governo giallo-verde è il prodotto certo e inevitabile della sconfitta di Matteo Renzi nel referendum da lui pervicacemente voluto? Dunque, molti cadono nella peraltro ben nota fallacia del post hoc ergo propter hoc: quel che viene dopo dipende sicuramente da quello che è avvenuto prima. Un evento del dicembre 2016 ha condizionato, addirittura determinato un evento del marzo 2018? In quindici mesi, il Partito Democratico e il suo segretario non sono riusciti a recuperare (qua il verbo è ballerino, forse ottenere, forse conquistare) abbastanza voti per rendere quella coalizione di governo numericamente impraticabile? Certo, se qualcuno, come il segretario Renzi, mai contraddetto da nessuno del suo cerchio non proprio magico, continua a sostenere che l’intero esercito dei 40 per cento che hanno votato Sì lo hanno fatto per lui e quindi che voti erano suoi, allora ha già deragliato. È diventato irrecuperabile, ancora di più quando paragona quella percentuale con il 24 percento dei voti ottenuti da Emmanuel Macron al primo turno delle elezioni presidenziali francesi nell’aprile 2017. Però, segnala uno, non l’unico, dei giganteschi errori di Renzi (più che dei suoi seguaci): rivelare di avere trasformato il referendum sul pacchetto di riforme costituzionali in un plebiscito sulla sua persona di ineguagliabile, inarrivabile, insuperabile riformatore. Incidentalmente, ai plebisciti su persone, tutti i “veri” democratici hanno l’obbligo politico e morale di rispondere sempre e senza esitazioni NO.

 

Secondo, i sostenitori della tesi che il NO ha reso inevitabile, anzi, praticamente fabbricato il governo giallo-verde, stanno dicendo anche un’altra cosa molto grave. La campagna elettorale del PD, maldestramente guidata dal suo segretario, che non voleva che crescesse il prestigio e l’apprezzamento per il capo del governo Paolo Gentiloni, non ha saputo recuperare neanche un voto. Anzi, se la comparazione viene fatta con Bersani 2013, ha perso il 7 per cento degli elettori, quantità sostanzialmente superiore a coloro che hanno votato per LeU. Inoltre, i renziani dimenticano, non sono neppure sicuro che ne abbiano acquisito piena consapevolezza, che la coalizione Cinque Stelle-Lega non era l’unica numericamente e politicamente possibile. Infatti, Cinque Stelle e Partito Democratico avevano (probabilmente, non si possono mai prevedere tutti gli spostamenti, ancora hanno) la maggioranza assoluta di seggi sia alla Camera sia al Senato. La prematura e dissennata decisione di Renzi di buttare il suo partito all’opposizione ha reso possibile, sostanzialmente inevitabile, la formazione del governo Di Maio-Salvini. Il quesito continua a rimanere questo: il governo Cinque Stelle-Lega è preferibile ad un governo Cinque Stelle-PD? Un partito che dichiara di avere una missione nazionale (remember il Partito della Nazione?) accetta senza neppure un dibattito interno, senza andare a vedere le carte e senza verificare se esistano alternative esperibili di andare all’opposizione? Per starci, poi, alquanto male, senza sapere fare l’opposizione, rivelandosi totalmente irrilevante, paralizzato dal suo due volte ex-segretario e dai parlamentari da lui nominati grazie alla Legge Rosato e maggioritari nei gruppi PD sia alla Camera sia, ancor più, al Senato. Noto tristemente come nessuno che abbia fatto notare quanti governi nelle democrazie parlamentari europee sono fatti da coalizioni fra partiti nient’affatto omogenei.

Terzo, adesso, Cinque Stelle e Lega stanno, sempre secondo i sostenitori del Sì, manomettendo la Costituzione e né Zagrebelsky né i professoroni entrano in campo per difenderla, quella democrazia rappresentativa che, secondo Cerasa, rischia di essere travolta “dalla deriva antiparlamentarista che hanno contributo a generare votando NO al referendum del 2016. Quei “professoroni “, il Chiarissimo, Altissimo, Prestigiosissimo” (sono tutti aggettivi del Dottor Cerasa) Gustavo Zagrebelsky incluso, erano stati opportunamente e immediatamente schedati da due politologi renziani della prima ora: Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo in un indimenticabile articolo: Cari Professori del NO…, pubblicato ne “l’Unità”, 27 aprile 2016, inteso a screditarli non sul merito delle riforme e delle obiezioni, ma facendo riferimento alla loro età, spesso “avanzata” e alle cariche ed onori, perfetta esemplificazione di character assassination , che è la men che positiva definizione inglese di questo modo di procedere. Vale la pena di documentarsi leggendo il commento devastante di Marco Damilano, Cari professori uscite dalla curva, tempestivamente pubblicato sul blog dell’Espresso. Non discuto delle autonomie regionali differenziate, peraltro, richieste anche dal Presidente Pd della Regione Emilia-Romagna, ma ricordo che la sinistra non ha mai capito in quale direzione stava andando rincorrendo il cosiddetto federalismo della Lega. Era un pasticcio allora, lo rimane adesso. Chi è causa del suo mal pianga se stesso (et voilà: la rima). Vado, piuttosto, sulle due riforme costituzionali già iniziate: referendum propositivo e riduzione del numero dei parlamentari. Sul primo, argomento di sicura importanza, ricordo che la riforma costituzionale renziana andava nella direzione di dare maggiore potere ai referendari. Certo, esistono notevoli differenze, ma il punto riguarda le modalità di legiferare. Le Cinque Stelle vogliono trasferire grande potere ai cittadini a scapito del Parlamento. Noto che manca la riflessione più appropriata, quella riguardante i rapporti Governo/Parlamento. In realtà, potrebbe benissimo risultare che il referendum propositivo toglie potere al governo piuttosto che al Parlamento e che parlamentari capaci e competenti saprebbero come ridefinire i compiti delle loro rispettive Camere e riconquistare il ruolo che i Parlamenti sanno essere il loro, quello che non soltanto possono, ma debbono svolgere: controllo sull’operato del governo, conciliazione di interessi, comunicazione con la cittadinanza e, non da ultimo, last but tutt’altro che least, rappresentanza politica.

Quarto, questo sembra essere diventato il vero (o presunto) punctum dolens. Le Cinque Stelle mirano a ridurre il numero dei parlamentari con le più classiche delle motivazioni populiste: tagliare le “poltrone” per ridurre i costi (incidentalmente, espressione molto simile allo slogan della campagna renziana: “Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”). Dunque, scendere da 630 deputati a 400 e da 315 senatori eletti a 200. In tutto si passerebbe e da 945 eletti a 600. Ricordo che la trasformazione del Senato secondo la riforma costituzionale fatta approvare da Renzi totalmente eliminava i Senatori eletti dai cittadini (ci sarebbe qualche technicality aggiuntiva qui, ma il ragionamento tiene lo stesso), recuperandone 95 provenienti dai Consigli regionali più i cinque senatori a vita, davvero “cavoli a merenda”. In tutto da 945 parlamentari eletti si sarebbe scesi a 630 più 100, con la classica motivazione populista (e un di più di decisionismo accattone): meno poltrone, meno costi, i senatori di provenienza regionale non avrebbero avuto nessuna indennità, ma solo il rimborso delle spese. Quanto alla rappresentanza è subito opportuno ricordare che non è mai solo faccenda di numeri. La più potente assemblea legislativa e rappresentativa al mondo è senza dubbio alcuno il Senato degli USA. La rappresentanza dipende in misura sostanziale dalla legge elettorale, dalle modalità con le quali i rappresentanti sono eletti e possono essere rieletti. Da questo punto di vista, il vero vulnus, anzi, il colpo mortale alla rappresentanza politica viene, da un lato, dall’eventuale, ancorché fondamentalmente impossibile da praticare, vincolo di mandato, dall’altro, dai limiti ai mandati elettivi.

Ciò detto, dovrebbe essere evidente a tutti che la Legge Rosato con le sue liste bloccate è fatta apposta per rendere impossibile la buona rappresentanza politica. Altre erano le sue priorità. Gli eletti sapranno di dovere la loro carica (chiedo scusa, poltrona) a chi li ha candidati/e e messi in lista nelle posizioni più eleggibili, certamente, non agli elettori di fronte ai quali non avranno nessun interesse e nessun incentivo a tornare per parlare di politica (della vita reale), spiegando quel che hanno fatto, non fatto, fatto male. Eravamo addirittura arrivati al punto di ascoltare dalla voce del Ministro Boschi che i capilista bloccati (più spesso che no paracadutati, come lei stessa sarebbe stata a Bolzano nel 2018), nominati dal segretario del partito, acquisivano il ruolo di “rappresentanti del collegio”. Fin da subito sostenni che erano, invece, i commissari del (segretario del) partito. Insomma, il combinato disposto della profonda trasformazione del Senato, con i nuovi senatori che avrebbero rappresentato non i cittadini delle rispettive regioni, ma i partiti di quelle regioni, vale a dire del suo sostanziale depotenziamento in termini di rappresentanza e di capacità di controllo sull’operato del governo e sulle leggi dal governo proposte/imposte, con la legge elettorale, fosse l’Italicum sia la Legge Rosato, incideva gravemente sulla rappresentanza politica. Con qualche sospiro e un’alzata di spalle i renziani, ma anche un numero impressionante di commentatori politici, giornalisti e professori anche di scienza politica, raccontavano la favola del trade-off: bisogna rinunciare a un po’ di rappresentanza per avere un tot di governabilità (garantita anche da un cospicuo premio di seggi). Alla faccia di coloro che pensano, con notevoli pezze d’appoggio, che la buona, ampia, diversificata rappresentanza politica è la premessa, il fondamento irrinunciabile della governabilità, di qualsiasi governabilità.

No, la riduzione del numero dei parlamentari, magari giustificata con la necessità di maggiore e migliore efficienza, da un lato, non è di per sé un attentato alla democrazia, dall’altro, però, esige una apposita legge elettorale di cui non v’è traccia nel disegno (esagero complimentosamente) riformatore delle Cinque Stelle, del governo giallo-verde. Certo è che le critiche dei renziani e di tutti coloro che hanno sostenuto le riforme del loro capo sono semplicemente opportunistiche e inaccettabili. Le riforme delle Cinque Stelle si muovono sullo stesso terreno. Possono essere contrastate, e lo saranno, con le argomentazioni usate dai sostenitori del NO. Questo è esattamente quanto, se diventerà necessario, cercherò di fare, insieme ai moltissimi “partigiani buoni”, nello spazio che riuscirò a conquistarmi. Nel frattempo, mi auguro, senza farmi illusioni, che i produttori seriali di stupidaggini costituzionali imparino qualcosa e cerchino di essere un po’ più originali e attenti alla realtà effettuale (Machiavelli).

Pubblicato il 25 luglio 2019

Il sistema corrotto che ci infetta

Poco importa se a Roma Carminati, Buzzi e altri abbiano dato o no vita a un’associazione a delinquere di stampa mafioso. Quello che conta è che le loro attività sono state scoperte e che organizzatori e protagonisti sono stati condannati. Certo, non sarà facile per Roma togliersi di dosso l’etichetta “Mafia Capitale”, ma non è un problema di parole. Purtroppo, è qualcosa che affonda le sue radici nel contesto romano e che deriva da quello che è, e forse è sempre stata, la politica in Italia. Non si può e non si deve dimenticare il famoso titolo dell’inchiesta di Manlio Cancogni pubblicata nel 1955 sul settimanale l’Espresso “Capitale corrotta nazione infetta”. La condanna di coloro che si definivano il “mondo di mezzo”, veri procacciatori di affari, operanti fra gli amministratori del comune, la burocrazia romana e imprenditori e cooperative dei più vari generi non può oscurare che quasi negli stessi giorni, ieri e, quasi sicuramente, anche domani altri casi di rapporti che mi limiterò a chiamare impropri sbucavano un po’ dappertutto sul territorio dello stivale. Per quanto ci sia da rallegrarsi per l’operato dei magistrati, anche se, talvolta, manifestano difformità di giudizi non del tutto spiegabili, c’è molto più da dolersi dello stato della politica, locale e nazionale. Se tutte le classifiche internazionali da qualche decennio pongono l’Italia in posizioni elevate quanto alla corruzione politica, cioè dicono che la politica è corrotta, che chi vuole entrare in contatto con i politici sa che cosa deve aspettarsi, che cambiano i politici, persino le generazioni, ma non si vedono miglioramenti, allora il tempo è venuto per la richiesta di soluzioni che vadano al cuore del problema.

Quando i partiti erano forti, i politici giustificavano il loro appropriarsi di risorse per finanziare il partito, l’organizzazione, lo spesso ipertrofico apparato. Il finanziamento statale avrebbe dovuto porre fine al fenomeno. Invece, partiti indeboliti e in molti luoghi sostanzialmente inesistenti, da un lato, non sono in grado di controllare i comportamenti dei loro esponenti e di eliminare rapidamente le cosiddette mele marce; dall’altro, diventano facile preda di persone e gruppi che li usano non soltanto come ascensore per il potere politico, ma come strumento per l’arricchimento personale. Il fenomeno non si limita al livello locale, naturalmente. Anzi, dal livello municipale e regionale, politici di successo si affacciano al Parlamento arrivando, fra favori, scambi, uso di risorse di neanche tanto dubbia origine, persino al governo. Diventano, in questo modo, troppo forti perché un debole raggruppamento possa privarsi di loro, dei soldi che portano, dei rapporti che hanno intessuto, delle reti elettorali che hanno costruito e alimentato. Il fenomeno potrebbe essere contenuto se i burocrati fossero in grado di resistere alle pressioni e, spesso, alle minacce. Se si sentissero protetti e non a rischio di perdere il posto e di terminare la carriera. Sarebbe anche possibile ipotizzare un mondo virtuoso nel quale le associazioni di imprenditori e operatori economici escludessero dai loro ranghi e bandissero tutti coloro che competono non usando qualità e efficienza, ma “entrature”, favoritismi, corruzione. Qui sì la moneta cattiva scaccia quella buona, ma perché chi opera secondo le regole non sente il bisogno di denunciare chi quelle regole platealmente viola?

È vero, ho descritto non “il mondo di mezzo”, ma un altro mondo. Non è, però, un mondo utopistico, irrealizzabile, che non esiste da nessuna parte. Anzi, statistiche più che decennali rivelano che sono proprio le democrazie meno corrotte, senza nessuna sorpresa tutte quelle dei paesi nordici e degli Stati anglosassoni, con gli USA in coda, a presentare gli indici più elevati di qualità della politica e della vita. Per entrare in quel mondo e rimanerci serve uno sforzo collettivo, a cominciare proprio dalla classe politica e a continuare con i cittadini esigenti, vigili, intransigenti. Non è solo la capitale ad essere corrotta, ma il paese che può essere migliorato/salvato esclusivamente con uno sforzo collettivo, intenso, coordinato. Ne siamo molto lontani.

Pubblicato AGL 22 luglio 2017

Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro

Registrazione audio, a cura di Radio Radicale, dell’intervento pronunciato il 15 ottobre 2014 al convegno “Paolo VI, Il Concilio Vaticano II e la terza ondata democratica”. Roma, Università la Sapienza.

Ascolta IL FATTORE RELIGIOSO NELLA TERZA ONDATA DI HUNTINGTON RILETTO 25 ANNI DOPO LA CADUTA DEL MURO qui
http://www.radioradicale.it/swf/fp/flowplayer-3.2.7.swf?30207f&config=http://www.radioradicale.it/scheda/embedcfg/423529/2925293

Si ringrazia Radio radicale. Qui la registrazione integrale del convegno

Paolo VI, Il Concilio Vaticano II e la terza ondata democratica

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Convegno
mercoledì 15 ottobre ore 15
Dipartimento di Scienze Politiche, Sala delle Lauree – Università la Sapienza
Piazzale Aldo Moro, 5 Roma

Introduce e presiede Fulco Lanchester, Direttore Dipartimento di Scienze Politiche

Relazione di Gianfranco Pasquino, Università di Bologna
Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro

Discussant: Oreste Massari, Università “La Sapienza”

Relazione di Marco Damilano, L’Espresso
Giovanni Battista Montini-Paolo VI e la Dc nella ricostruzione di Pietro Scoppola

Discussant: Umberto Gentiloni, Università “La Sapienza”

Relazione di Pamela Harris, John Cabot University
Gli influssi giuridici americani sulla libertà religiosa al Concilio Vaticano II e il discorso di Paolo VI all’Onu

Discussant Luca Diotallevi, Università di Roma 3

Relazione di Carlos Garcia de Andoin, Diocesi di Bilbao, Istituto di teologia e pastorale
Le conseguenze dell’opzione preferenziale per la democrazia del Concilio sulla transizione spagnola

Discussant Gianluca Passarelli, Università “La Sapienza”

Con Francesco si ritorna a Montini?
Confronto tra Gianfranco Brunelli, Il Regno, e Luigi Accattoli, Corriere della Sera

Conclusioni Stefano Ceccanti, Università “La Sapienza”.

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Traccia tematica della relazione Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro

Il libro di Samuel Huntington del 1993 su “La terza ondata democratica” (in particolare alle pagg. 951/08) segnala che essa è iniziata in Paesi cattolici (Spagna e Portogallo, poi Polonia e Ungheria, per non parlare di Cile, Brasile, Corea del Sud e Filippine) anche per influsso delle acquisizioni del Concilio Vaticano II (opzione preferenziale per la democrazia nella “Gaudium et Spes” e per la libertà religiosa nella “Dignitatis Humanae”). Gianfranco Pasquino, nell’Introduzione all’edizione italiana di due anni dopo, pur condividendo il giudizio, si chiede però se col nuovo pontificato e lo sviluppo concreto delle transizioni non ci sia stata una parziale regressione, una minore fiducia nella democrazie. Cosa dire a quasi vent’anni di distanza?