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Norberto Bobbio come intellettuale pubblico
da Rivista di Politica Numero 1 Gennaio-Marzo 2016 pp 87/99
Materiali per una storia del pensiero politico italiano
Norberto Bobbio – “filosofo della politica e del diritto, autori di studi fondamentali sui grandi classici del pensiero politico (da Hegel a Mosca, da Hobbes a Kant) – è stato il più importante e autorevole “intellettuale pubblico” che l’Italia abbia avuto nel corso della sua storia repubblicana. Dagli anni cinquanta ai novanta, il dibattito politico-scienti”co sui grandi temi della democrazia, del potere, della guerra e della pace, delle differenze tra la destra e la sinistra è stato dunque fortemente influenzato dalle sue riflessioni e dalle sue proposte. Particolarmente importanti e incisivi sono stati i suoi contributi sul rapporto tra intellettuali e politica, sviluppati da Bobbio in costante dialogo (e polemica) con la cultura di matrice comunista.
Per un periodo lungo all’incirca cinquant’anni Norberto Bobbio (1909-2004) è stato probabilmente la voce più autorevole nel dibattito politico culturale italiano fino a giungere a rappresentare, per molti, la coscienza civile dell’Italia, ovvero, almeno, come gli fu spesso rimproverato, di un’altra Italia(1). In larga misura (ma sicuramente nient’affatto unanimistica, cosa che lo avrebbe molto inquietato) ammirato da numerosi ambienti dell’intellettualità di sinistra e ritenuto interlocutore del più alto livello da molti politici, i quali, spesso, miravano a trarre dalle loro interazioni con lui un qualche credito-riconoscimento personale della loro statura, Bobbio fu altrettanto criticato e detestato, a partire dagli anni Novanta, dal centro-destra italiano fino a diventarne uno dei bersagli privilegiati sia per la sua intransigenza sia per il suo “moralismo” (tema meritevole di non pochi approfondimenti). Dopo la sua scomparsa nessuno degli intellettuali italiani ha raggiunto lo stesso livello di notorietà e di influenza. Non esistono eredi riconosciuti del suo magistero, neppure fra i migliori dei suoi, non molti, allievi. Per comprenderne l’importanza e, anche se Bobbio non avrebbe sicuramente gradito il termine, il successo, è indispensabile ricostruirne, sia pure a grandi tratti, il contesto, la traiettoria, i diversi momenti di svolta.
Molto difficili e, in generale, meno utili per illuminarne il volto di intellettuale pubblico, mi sembrano i tentativi di paragonare Bobbio ad alcuni dei grandi intellettuali suoi contemporanei di altri paesi. Neppure il migliore di questi tentativi, opera di Ralf Dahrendorf(2) – a sua volta importante intellettuale pubblico su scala europea – è pienamente soddisfacente. L’eccessiva diversità dei percorsi, delle sfide e dei luoghi, con le rispettive culture politiche specifiche e le problematiche dei tempi, rende impossibile paragonare fruttuosamente ruolo e opere di Bobbio con quanto fecero Hannah Arendt, Isaiah Berlin, George Orwell, Karl Popper, Raymond Aron. In una certa misura, per collocazione nella cultura politica del proprio Paese, per le tematiche trattate e per il ruolo pubblico svolto, soltanto il confronto con Aron appare di una qualche utilità per meglio comprendere, anche nelle notevoli differenze, quanto entrambi siano stati costretti a fare soprattutto nei rapporti con i comunisti dei rispettivi Paesi con l’obiettivo di affermare una visione politica liberal-socialista nel caso di Bobbio, liberale in quello di Aron, in ambienti molto sfavorevolmente predisposti(3).
Nella sua autobiografia(4) Bobbio non spiega con quali motivazioni si sia avvicinato alla politica e perché abbia tentato un dialogo soprattutto con alcuni uomini politici e intellettuali comunisti, per approdare, infine, come commentatore de «La Stampa», il quotidiano della sua città, a interprete e critico degli avvenimenti politici, delle dinamiche sociali, dei fatti culturali. Mi sembra fin troppo facile, anche se probabilmente è giusto, suggerire che fu l’ambiente torinese, di cui Bobbio era e rimase sempre particolarmente orgoglioso(5), a suscitare, alimentare e sostenere, in diverse fasi, l’interesse per la politica e il forte desiderio di operare per migliorarla. Maestri e compagni – per ricorrere al titolo di un suo bel libro(6) – del Liceo Massimo D’Azeglio di Torino, fornirono gli stimoli iniziali a una ricerca di libertà quando il fascismo, appena insediato, mirava al suo consolidamento. Nella città di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci, l’antifascismo si fondava su pensiero e azione. Nei primi gruppi di “Giustizia e Libertà”, Bobbio, per quanto non sia mai stato il più attivo e il più impegnato degli appartenenti, comprese la necessità di riflessione e di azione politica antifascista, ancorché con la grave caduta di una lettera a Mussolini per evitare provvedimenti che gli avrebbero impedito di ottenere la cattedra universitaria. Nelle interazioni con autorevoli consulenti e con prestigiosi autori della Casa editrice Einaudi (in particolare, con Leone Ginzburg), Bobbio apprese il significato profondo dell’etica politica e del coraggio personale. Nell’ambiente padovano, nei primissimi anni Quaranta, il giovane docente incontrò la realtà del Partito d’Azione con il quale avrebbe fatto un tratto di strada che lo portò, prima, per breve tempo, in una patria galera, poi alla candidatura, non coronata da successo, all’Assemblea Costituente (peraltro, non riesco proprio a immaginarmi Norberto Bobbio a pronunciare infiammati discorsi traboccanti propaganda politica in comizi tenuti probabilmente all’aperto nella primavera del 1946). La mancata elezione segnò la fine prematura di qualsiasi impegno diretto in politica per il quale Bobbio, comunque, sentiva di non essere affatto tagliato. Tuttavia, ognuno di questi passaggi esistenziali è stato scandito da scritti e pubblicazioni che rivelano l’ambizione di influenzare le scelte, di indicare percorsi, di contare negli avvenimenti.
La sconfitta elettorale impedì una carriera politica, la quale, comunque, alla luce del netto declino e della veloce scomparsa del Partito d’Azione, sarebbe stata di brevissima durata. Tuttavia, l’impegno dell’insegnamento universitario non poteva da solo assorbire le energie e soddisfare l’impegno al cambiamento del quarantenne Bobbio chiamato alla cattedra di Filosofia del Diritto dell’Università di Torino. Evidentemente già molto noto anche a livello europeo, fu invitato, unitamente a molti prestigiosi intellettuali – fra i quali, Aron, Jaspers, Silone, Bertrand Russell(7) – a partecipare alle attività del Congress for Cultural Freedom. Nel periodo in cui la Guerra fredda non era esclusivamente un confronto arcigno fra Grandi Potenze e le loro coalizioni (Nato e Patto di Varsavia), ma una contrapposizione di idee e di ideali,probabilmente confortato anche dall’interlocuzione con alcuni dei grandi intellettuali pubblici europei che si incontravano periodicamente in diverse sedi europee, Bobbio si lanciò nel compito più difficile, almeno in partenza poco promettente e, in definitiva, neppure particolarmente gratificante. Sfidare il Partito comunista italiano – che per quanto differente dallo stalinizzato e burocratizzato Partito comunista francese, era pur sempre un organismo compatto, disciplinato, in grado di imporre conformismo, non solo agli iscritti, ma anche agli intellettuali di area(8) – era un’azione rischiosa, da molti ritenuta anche priva di efficacia.
Molto, oserei dire troppo, si è scritto, sulle reazioni davvero sconfortanti dei comunisti italiani, e non vale la pena di ritornare sul tema(9). Il rimando alla fonte Politica e cultura (volume nel quale Bobbio raccolse i vari saggi apparsi tra il 1951 e il 1955 in dialogo con gli intellettuali comunisti)(10) è più che sufficiente. Aggiungo che di grande pregio è la rivisitazione del dibattito fatta da Franco Sbarberi nella sua introduzione al testo edito nel 2005. Tutti gli aspetti rilevanti –ruolo degli intellettuali, tipi di libertà, quale cultura in una società democratica– sono efficacemente illuminati e Sbarberi riesce anche nell’intento di (di)mostrare quanto Bobbio fosse moderno nelle sue concezioni e quanto le sue idee e le sue critiche siano state capaci di durare nel tempo. Riferendosi al dibattito successivamente lanciato da Bobbio, relativo all’esistenza o meno di una dottrina marxista dello Stato, Sbarberi va forse un po’ troppo in là, attribuendo ai partecipanti, immagino, soprattutto comunisti, una “maturazione delle coscienze” laddove credo si possa vedere soltanto un indebolimento delle convinzioni. Al di là delle Alpi, lo scontro fra Aron e i comunisti, più precisamente Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty, fu molto più duro. Chi (ri)legga il brillante saggio di Aron L’oppio degli intellettuali, pubblicato per combinazione nel 1955, lo stesso anno di Politica e cultura, non può non essere colpito, anche se gli oggetti del contendere sono decisamente simili, dalla differenza di stile fra il filosofo francese e quello italiano. Il primo è drastico, al limite della violenza verbale ampiamente giustificata dai toni dei suoi interlocutori; il secondo è dialogante, ancorché senza nessuna concessione sul piano dei princìpi.
La rilettura, tuttora utile e raccomandabile, di Politica e cultura rivela la pochezza degli argomenti dei comunisti, ma evidenzia anche quanto il loro discorso complessivo sulle differenze fra la ‘politica della cultura’ e la ‘politica culturale’ fosse poco avanzato, costretto com’era a fare i conti con un’ideologia rigida come quella del Pci a quei tempi nient’affatto “gramsciano”. Peraltro, anche la concezione gramsciana del partito come “intellettuale collettivo” (e degli intellettuali che dovrebbero diventare “organici” al partito) era distantissima dal pensiero di Bobbio, inconciliabile. Negli interventi degli ormai giustamente dimenticati Ranuccio Bianchi Bandinellli, archeologo, e Galvano della Volpe, filosofo, si vede unicamente il tentativo di ammantare con citazioni di Marx un’ortodossia e un dogmatismo che è fin troppo facile affermare neppure Marx avrebbe apprezzato. Naturalmente Togliatti, firmandosi, nella sua versione di polemista, Roderigo di Castiglia, si mostra più duttile nel linguaggio, ma inflessibile nella difesa della linea, della sua linea. Quello che conta non è, naturalmente, il risultato per quel che riguarda l’individuazione e l’accettazione di princìpi condivisibili, in sostanza limitatissimo, quasi nullo, ma la sfida che il filosofo torinese portava ad un partito comunista che operava in una debole, forse allora la più fragile, democrazia occidentale. Quanto Togliatti tenesse ai “suoi” intellettuali e quanto il gruppo dirigente comunista, Giorgio Napolitano compreso, fosse capace di arroccamento si sarebbe visto nell’indimenticabile 1956 con il deflusso, più o meno silenzioso, che nessuno dei dirigenti tentò di arrestare, di un centinaio e più di intellettuali. Per quel che riguarda Bobbio, è immaginabile che lo abbiano particolarmente colpito le fuoruscite di coloro che lavoravano con lui alla Casa editrice Einaudi e con i quali aveva consuetudine di incontri settimanali (i famosi mercoledì pomeriggio).
Mi riferisco specialmente, da un lato, a Italo Calvino; dall’altro, ad Antonio Giolitti, ma questa è un’altra, pure interessantissima, storia.
Il dialogo o rapporto di Bobbio con i comunisti italiani gli è stato spessorimproverato, nel migliore dei casi, perché considerato uno squilibrio che limitava la sua autorevolezza super partes, mentre nel peggiore dava luogo all’accusa di essere in realtà “compagno di strada” dei comunisti. Sensibile a quanto potesse minarne l’autorevolezza, ma convinto che quel dialogo fosse non soltanto necessario, ma utile, Bobbio replicò variamente, all’insegna del detto «né con loro né contro di loro»(11); scrivendo che «contro i reazionari continuiamo pure a difendere la libertà dei moderni da quella degli antichi. Ma non dimentichiamo che occorre egualmente difenderla, contro i progressisti troppo arditi [fra i quali, sicuramente, Bobbio collocava i comunisti], da quella dei posteri»(12); sostenendo che bisogna continuare il dialogo persino, o proprio, con coloro che «la nostra democrazia, sempre fragile, sempre vulnerabile, corrompibile e spesso corrotta, vorrebbero distruggere per renderla perfetta»(13), approdando ad una dichiarazione che considero risolutiva. Mai comunista né anticomunista, Bobbio ha «sempre considerato i comunisti, per lo meno i comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un dialogo sulle ragioni della sinistra»(14). In proposito, non è difficile immaginare il dissenso verticale di Aron, spiegabile non soltanto per lo stile diverso dei due intellettuali, ma, soprattutto, per la diversità dei due partiti comunisti e dei loro rispettivi dirigenti.
La posizione dalla quale Bobbio prendeva le mosse per porre problemi ai comunisti italiani e per criticarne atteggiamenti e riflessioni fu, fin dall’inizio, di tipo liberal-socialista. Per la precisazione del liberal-socialismo come lo intendeva Bobbio: «l’affermazione della importanza dei diritti dell’uomo per ogni convivenza civile – scriveva il filosofo torinese – ha ripreso straordinario vigore. Oggi è impensabile un movimento per l’emancipazione umana, come è stato il movimento socialista in tutte le sue forme storiche, che non recuperi l’idea illuministica e liberale dei diritti dell’uomo»(15). In verità, Bobbio non è sempre stato “rigorosamente” liberal-socialista. Per almeno un decennio e più, fu, più propriamente, “azionista”. Dopodiché, il suo liberalsocialismo, come, più in generale, il liberalsocialismo “in sé”, ha dimostrato di possedere il grande pregio di essere flessibile, adattabile, in grado di aggiornarsi senza snaturarsi. La componente liberale del pensiero di Bobbio riguarda lo Stato, ovviamente quello democratico, le sue regole, le sue procedure. Anche se non è del tutto corretto identificare Bobbio con una concezione esclusivamente procedurale della democrazia(16), non c’è dubbio che, da un lato, i diritti dei cittadini (i suoi scritti in materia sono raccolti nel volumetto L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990) sono da lui considerati un elemento essenziale dello Stato liberale; dall’altro lato, in particolare, nei confronti della asserita democrazia “sostanziale” dei comunisti, la sua rivendicazione della democrazia formale è, non soltanto temporalmente, un prius rispetto alla democrazia sostanziale, ma costituisce l’elemento fondamentale e fondante in assenza del quale nessuna democrazia sostanziale è possibile.
Quanto alla componente socialista, il discorso si fa più complesso e trova conferme in alcuni comportamenti di Bobbio piuttosto che in scritti teorici o analitici. A mio modo di vedere, i tre atti più interessanti e più significativi del Bobbio socialista sono: 1) lo scambio di lettere con Giorgio Amendola su «Rinascita» in occasione della defenestrazione del leader sovietico Nikita Khruscev (ottobre 1964); 2) la sua iscrizione nel 1966 al Partito socialista unificato prodotto dalla convergenza fra il Psi di Pietro Nenni e il Psdi di Giuseppe Saragat; 3) la sua partecipazione come relatore alla riflessione sulle sorti, nient’affatto magnifiche e neppure progressive, del Partito socialista di Francesco De Martino dopo il deludentissimo risultato elettorale del 20 giugno 1976. Questi rapporti, né intensi né frequenti né influenti né, in definitiva, gratificanti, con i socialisti erano, comunque, all’insegna del tentativo di lungo periodo del liberalsocialista Bobbio di spingere i comunisti italiani sulla strada di una profonda revisione sia della strategia sia dell’ideologia.
L’intellettuale pubblico Bobbio non rinunciava a incoraggiare i comunisti a prendere atto che la loro consistenza numerica non si traduceva in quella rilevante influenza politica che soltanto un partito unico della sinistra avrebbe potuto acquisire, soprattutto se fosse stato coerentemente socialdemocratico. Le fatali tergiversazioni comuniste e le incessanti baruffe socialiste, oggi, lo vediamo con chiarezza, hanno finito per ridurre la sinistra ai suoi minimi termini, hanno cancellato qualsiasi traccia di una cultura politica vitale, hanno reso impensabile l’organizzazione e la stessa esistenza in Italia di un partito dichiaratamente ed effettivamente socialdemocratico.
La visione liberale della politica intrattenuta da Bobbio lo rese inevitabilmente molto diffidente e critico della proposta di Enrico Berlinguer relativa a un “compromesso storico” fra le grandi forze politiche dell’Italia, proposta che, in buona sostanza, appariva potenzialmente produttiva di due ambiziosi, ma altresì pericolosi sviluppi(17). Il primo consisteva nell’emarginazione non deliberata, ma inevitabile, dei socialisti, considerati irrilevanti e sostanzialmente inutili. Il secondo sviluppo sarebbe stato molto più che il semplice accesso al governo del Pci in una coalizione con la Dc, ma si sarebbe, per l’appunto, tradotto in un “accordo di sistema” inteso a durare per un periodo di tempo indefinito. La compatibilità di questa prospettiva con la prassi delle democrazie europee, fondata sulla praticabilità e possibilità di alternanza al governo, e con la visione delle democrazie “procedurali” e competitive non poteva non destare le serie preoccupazioni di Bobbio. Peraltro, alcune preoccupazioni erano già state espresse in maniera preveggente in una serie di articoli pubblicati nel mensile socialista «MondOperaio» e poi raccolti in Quale socialismo(18)?. In verità, il cuore del libro di Bobbio è il quesito posto nell’articolo intitolato Esiste una dottrina marxistica dello Stato? Curiosamente, le domande formulate da Bobbio esprimono spesso, come facevano quelle di Pietro Ingrao, dubbi che l’analisi rapidamente e convincentemente trasforma in argomentate risposte negative. Non propriamente impreziosito dal solito affannato coro di interventi ad opera di intellettuali e politici comunisti, ma questa volta anche di intellettuali e politici socialisti (Roberto Guiducci, Claudio Signorile, Giorgio Ruffolo e Luciano Cafagna che se ne fece sarcastico recensore), il dibattito aperto da Bobbio ebbe una risposta quasi scontata: “no, non esiste una dottrina marxistica dello Stato” (fra le righe si coglie anche un limpido invito a darsi da fare per apprendere qualcosa, in fretta e bene, dalle teorie esistenti, a partire da quelle liberali e democratiche).
Le non convincenti risposte comuniste, tutt’altro che sorprendenti per Bobbio e per gli scienziati della politica degni della loro professione, avevano quantomeno il merito di imporre all’attenzione la imprescindibile e urgente necessità che i comunisti, che si stavano avvicinando al governo del Paese, si dedicassero a una riflessione sul tema per evitare due gravi pericoli. Il primo i socialisti lo avevano corso e malauguratamente non risolto: che cosa bisognava davvero fare, supponendo che la si fosse trovata, nella “stanza dei bottoni”?
Il secondo pericolo riguardava la difficoltà di scegliere gli atti più efficaci e meno controproducenti per riformare uno Stato nella condizione oggettiva di mancanza di una teoria dello Stato – se qualcuno preferisce aggiunga pure l’aggettivo ‘capitalistico’, ma la sostanza non cambia – nella convinzione, tutta da argomentare e mettere alla prova, di sapere “andare oltre” la solidissima teoria liberale dello Stato. Era un compito per il quale fino a quel momento il Centro per la Riforma dello Stato, fondato e diretto da Pietro Ingrao nel 1972, si era dimostrato chiaramente inadeguato. Soltanto parecchi anni dopo, le riflessioni comuniste, non solo quelle ingraiane, acquisirono maggiore spessore e rilevanza (ma è un’altra storia che comprende, se posso riferire un episodio personale, la presentazione del mio libro Restituire lo scettro al principe(19), effettuata a Torino congiuntamente da Bobbio e Ingrao).
È interessante – e rivelatore – che Bobbio stesso ricolleghi, a una ventina d’anni di distanza, i quesiti e il dibattito su Quale socialismo? ai saggi compresi in Politica e cultura, più precisamente ai temi «della libertà della cultura e della funzione degli intellettuali»(20). Sorprendente, invece, è che Bobbio affermi che «una cosa è certa: nei vent’anni decorsi i punti di vista [fra i comunisti e lui] si sono avvicinati»(21). Si direbbe, piuttosto, che in quei vent’anni i comunisti italiani avessero perso le loro certezze e rigidità. Che fossero giunti alla piena accettazione dello Stato liberale moderno, unico e migliore garante del pluralismo e della democrazia, appare molto dubbio. Ancora più dubbio dell’interrogativo che Bobbio pone a conclusione del suo volumetto: «La democrazia, si è detto, è una via. Ma verso dove?»(22). Se, talvolta, è vero che «l’ultima battuta di un dialogo apparentemente concluso sia anche la prima di un dibattito ancora da fare»(23), la risposta alla sua domanda Bobbio cercò di formularla in un libro successivo di notevole successo editoriale: Il futuro della democrazia(24). Anni dopo, Sartori, commemorando Bobbio(25), rispose che il futuro della democrazia dipende dal nostro cervello, ovvero dalla capacità di pensare e di costruire un’opinione pubblica. Fermo restando che entrambi, Bobbio e Sartori, hanno fortemente criticato, non soltanto in questo solidali con Karl Popper, gli effetti nefasti della televisione sull’homo videns (per citare il titolo di un libro di successo di Sartori, apparso per i tipi della Laterza nel 2007, il cui sottotitolo era Televisione e post-pensiero), entrambi con i loro interventi e i loro studi hanno costantemente mirato alla formazione di un’opinione pubblica in grado di mantenere e sostenere la democrazia. «Finito di stampare il 13 ottobre 1984» recita l’ultima pagina della prima edizione de Il futuro della democrazia. Ricordo che il capogruppo dei senatori socialisti, Fabio Fabbri, ne fece il regalo di Natale per i suoi colleghi. Bobbio era stato nominato Senatore a vita dal Presidente Sandro Pertini nel luglio 1984. Lo avevo prontamente invitato a entrare nel gruppo dei Senatori della Sinistra Indipendente. Conservo la sua risposta affidata a una cartolina illustrata inviatami da Cervinia con la motivazione «non me la sono sentita di fare lo strappo». Eppure, appena qualche mese prima aveva severamente criticato la rielezione di Bettino Craxi alla carica di segretario del Psi avvenuta per acclamazione al Congresso di Verona nel maggio 1984. Molto noto e altrettanto spesso citato è il suo durissimo articolo pubblicato su «La Stampa» con il titolo La democrazia dell’applauso. Contrariamente alle parole della replica di Craxi: «i filosofi che hanno perso il senno», Bobbio, semplicemente, si manteneva pubblicamente coerente e fedele alla sua concezione di una democrazia basata su regole, una delle quali è, per l’appunto, che alle cariche, soprattutto se politiche e di rilievo, si accede attraverso votazioni e non acclamazioni.
Gli intellettuali pubblici hanno il dovere di intervenire su questioni che attengono al bene e al male: di un sistema politico, di una società, delle relazioni fra persone, ma anche fra Stati. La Guerra fredda, l’equilibrio del terrore, l’uso della bomba atomica, una pace che non fosse né imposizione dall’esterno né cedimento di sovranità e di perdita d’indipendenza e dignità erano state tutte questioni affrontate nei dibattiti del Congress for Cultural Freedom e negli scritti dei partecipanti. Nel 1979 Bobbio raccolse alcuni suoi scritti nel volume Il problema della guerra e le vie della pace(26), scritti che, con modalità diverse, si rifanno a quanto aveva appreso tanto da un contemporaneo come il pacifista Aldo Capitini quanto da un classico come Immanuel Kant, uno dei suoi filosofi preferiti, in relazione all’etica e ai cardini dell’Illuminismo.
Il test più difficile delle posizioni teoriche di Bobbio giunse inaspettato con lo scoppio della cosiddetta Guerra del Golfo (16 gennaio-28 febbraio 1991). La presa di posizione, oppure, meglio, l’accettazione/approvazione da parte di Bobbio della necessità di un intervento anche armato che riportasse nei suoi confini il protervo invasore, il leader dell’Iraq Saddam Hussein, e che restituisse l’indipendenza al piccolo Kuwait, non ebbe grande risalto nell’alquanto divisa opinione pubblica di sinistra, ma fece esplodere molte tensioni nell’ambito di alcuni degli allievi di Bobbio, soprattutto di quelli torinesi.
Confusamente schierati in opposizione all’intervento in adempimento del mandato delle Nazioni Unite di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, i critici di Bobbio gli rimproverarono proprio il riconoscimento che quella guerra era, nella sua essenza, ma poi anche nel suo dispiegamento, una guerra “giusta”.
Uno Stato che invade senza giustificazione alcuna (torto subito, attacco da prevenire, minaccia da sventare) un altro Stato e pretende di annetterselo viola palesemente il diritto internazionale. Il rifiuto dell’invasore a ritirarsi aprì la strada all’intervento della comunità internazionale. L’intervento fu rapido, incisivo, condotto senza nessun eccesso militaristico, limitato. Infatti, ottenuta la liberazione del Kuwait, le truppe guidate dagli americani non procedettero alla pure possibile conquista della capitale irakena e neppure alla, pure auspicabile, punizione di Saddam Hussein, magari imponendogli di lasciare il potere. Fu una situazione esemplare di combinazione dello jus ad bellum con lo jus in bello, perfettamente coerente con quanto Bobbio aveva insegnato e scritto. Di fronte allo strepito di quegli allievi, Bobbio procedette a qualche, non necessaria, precisazione, a un ripensamento, o meglio a una (a mio avviso) non convincente ridefinizione delle sue argomentazioni. Stabilito che «una guerra è giusta perché è basata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa», Bobbio affermò che una guerra, oltre ad essere giusta,deve/dovrebbe essere anche «efficace»(27). Le condizioni dell’efficacia sono tre: 1) anzitutto, se la guerra sarà «vincente»; 2) se è «rapida rispetto al tempo»; 3) se è «limitata rispetto allo spazio», nel senso che fosse ristretta al teatro di guerra dell’Iraq. Per completezza di informazione, la cosiddetta Guerra del Golfo ha soddisfatto tutte le condizioni di efficacia poste da Bobbio. Fu sicuramente vittoriosa. Ebbe una durata inusualmente limitata: soltanto un mese e mezzo. Non tracimò fuori dai confini dell’Iraq. Infine, punto non menzionato da Bobbio, portò al ristabilimento dello status quo ante l’invasione irachena del Kuwait, al ritiro delle truppe di Saddam Hussein e al ritorno all’indipendenza del Kuwait. Quello che non seguì alla fiammata dello scontro fra Bobbio e alcuni, non tutti, dei suoi (cattivi?) allievi, fu una migliore comprensione delle guerre locali e, soprattutto, che non può essere chiamata pace la situazione nella quale l’ordine politico è imposto dalla repressione e mantenuto con l’oppressione, dove c’è fortissima ingiustizia sociale. D’altronde, meglio di chiunque altro Bobbio conosceva la condizione sine qua non della pace perpetua kantiana: l’esistenza di democrazie (o, per usare la terminologia kantiana, di sistemi repubblicani).
Che i regimi comunisti potessero riformarsi dall’interno Bobbio non lo aveva mai creduto. Dal momento in cui era ‘calata’ la cortina di ferro sull’Europa centro-orientale di democrazia e democrazie in quei paesi non se n’era più vista neppure l’ombra. S’erano, però, visti non pochi tentativi (1953, Berlino Est; 1956, Ungheria e Polonia; 1968, Cecoslovacchia: 1980, Polonia: ma non è un elenco esaustivo) di ribellione a quei regimi sostanzialmente totalitari. Il più totalitario dei comunismi si trovava, però, in Cina e sembrava inattaccabile. Grande fu, quindi, la sorpresa quando all’inizio del giugno 1989 il movimento degli studenti portò la sua sfida nella piazza principale della capitale: Tienanmen. La repressione brutale con lo spargimento di sangue di centinaia di studenti pose la pietra tombale su qualsiasi previsione di cambiamento, di apertura, di liberalizzazione dei regimi comunisti. Non avendo mai creduto all’ideologia comunista né ai regimi di comunismo realizzato, Bobbio avrebbe potuto limitarsi a prendere atto che «le dure lezioni della Storia», alle quali amava riferirsi, confermavano le sue ripetute diagnosi. Invece, andò, sapendo di essere provocatorio, piuttosto oltre: «Il comunismo storico – scrisse in un articolo apparso su «La Stampa» nel giugno del 1989 – è fallito, non discuto. Ma i problemi restano, proprio quegli stessi problemi, se mai ora e nel prossimo futuro su scala mondiale, che l’utopia comunista aveva additato e ritenuto fossero risolvibili. … La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?»(28). La caduta del Muro di Berlino nella notte fra l’8 e il 9 novembre non produsse soltanto la liberazione dei popoli dell’Europa centro-orientale. Costituì l’apertura di complicati processi di democratizzazione che, a un quarto di secolo di distanza, continuano a mostrare contraddizioni, deficienze, incertezze e inadeguatezze che, forse, Bobbio catalogherebbe sotto l’etichetta di “promesse non mantenute”. C’è sicuramente anche molto altro, non rassicurante, non promettente. Quello che, invece, non c’è in quelle “nuove” democrazie, è l’esistenza di intellettuali pubblici, con la notevole eccezione del polacco Adam Michnik, in grado di alzare la voce e coraggiosamente (continuare a) criticare i potenti.
Da qualsiasi parte la si guardi e la si rigiri, l’ideologia comunista aveva promesso la società senza classi nella quale le differenze e, in special modo, le diseguaglianze, a partire da quelle economiche, ma non solo, sarebbero venute meno, sarebbero scomparse definitivamente. Come, più e prima di altri, il comunista jugoslavo Milovan Gilas (1911-1995), un autore molto noto a Bobbio, mise in bella evidenza nella sua dirompente analisi La nuova classe. Una analisi del sistema comunista(29), la fine delle diseguaglianze era una delle più fulgide promesse non mantenute del comunismo. Finiva con il crollo del comunismo anche qualsiasi differenza fra sinistra e destra? Tutto il libro di Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica(30) è dedicato alla identificazione e alla spiegazione della batteria di differenze fra destra e sinistra. L’origine del libro non era affatto contingente, ma l’irruzione di Berlusconi nella politica italiana e la sconfitta dei Progressisti nelle elezioni del marzo 1994 certamente giovarono al successo di vendite, unitamente alla spinta verso un sistema bipolarizzante. La sconfitta elettorale della sinistra non era soltanto una faccenda di numeri, l’inconveniente principale di una democrazia competitiva. Era una sconfitta culturale. Quando si obliterano le linee distintive fra destra e sinistra, cadono spinte e motivazioni al cambiamento e si allarga lo spazio della conservazione. L’incessante sottolineatura del venire meno della distinzione ottocentesca fra le due categorie non soltanto non era stata contrastata da un pensiero di sinistra, ma era addirittura stata agevolata da esponenti di quella cultura, che non meriterebbero di essere citati. Però, la completezza d’informazione impone che siano fatti almeno i nomi del filosofo Massimo Cacciari e dell’economista Michele Salvati, che hanno riscosso notevole successo nei loro riposizionamenti mediatici.
L’analisi di Bobbio perviene a una precisa conclusione. L’elemento caratterizzante i movimenti e le dottrine che si sono definiti, e sono stati riconosciuti, «di sinistra» è l’egualitarismo, «non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza, da un lato, a esaltare più ciò che rende gli uomini eguali che ciò che li rende diseguali, dall’altro, in sede pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali»(31). Che l’eguaglianza sia effettivamente la stella polare della sinistra politica (e culturale) appare probabile tanto che nessuno dei pur numerosi critici di Bobbio l’ha messo in dubbio. Semmai, qualcuno, ad esempio, Marco Tarchi, ha sostenuto che la tesi della netta distinzione fra destra e sinistra, dell’affermazione di una competizione politica dicotomica è molto discutibile. Quello che credo sia più rilevante nel valutare quanto sostenuto da Bobbio è la sua sfida allo spirito, sicuramente non egualitario, dei tempi e, se si vuole, qui sta l’elemento ‘di parte’, la sua sottile critica alla sinistra che ha perduto la sua ragione d‘essere, vale a dire, l’azione a favore dei settori più deboli di una società, di un sistema politico. Chi non chiude gli occhi vedrà che questa ricerca di eguaglianza o di riduzione delle diseguaglianze, a partire da quelle economiche, ma anche dalle diseguaglianze di opportunità, continua a fare parte del dibattito dentro la sinistra e, quando la sinistra è abbastanza forte da imporlo sulla scena pubblica, fra partiti, schieramenti, coalizioni. Esattamente come avrebbe desiderato l’intellettuale pubblico Bobbio.
Destra e sinistra intercettava la profonda e diffusa preoccupazione di una parte molto ampia di opinione pubblica di sinistra. Probabilmente, intendeva ricordare a quell’opinione e ai dirigenti della sinistra il valore (del perseguimento) dell’eguaglianza. È stato il libro di Bobbio che ha avuto il maggior successo di vendite. Anche le ristampe perché se, come, quanto la sinistra debba mantenere le sue peculiarità e differenziarsi dalla destra continua a essere un problema molto sentito, tranne dagli intellettuali post-comunisti,
post-moderni, post-tutto, ma non post-televisivi.
Alla fine di questa rapida ricostruzione è facile tirare qualche somma. Bobbio ha saputo individuare, di volta in volta, ogni decennio, un tema molto importante: negli anni cinquanta, «politica e cultura»; negli anni sessanta, il partito unificato dei (liberal-)socialisti; negli anni settanta, la necessità di una teoria dello Stato [l’assenza di una teoria dello Stato nella cultura marxista]; negli anni ottanta, il futuro della democrazia; negli anni novanta, destra/sinistra, quale eguaglianza. E ha saputo imporre questi temi nell’agenda del dibattito pubblico. È riuscito a svolgere un’efficace opera di chiarificazione, diffusione, educazione concettuale, politica e civica. Però, è giocoforza notare che, mentre il dibattito sulla Costituzione e le sue eventuali modifiche viene tenuto molto in subordine da Bobbio, l’Europa, il suo significato storico, i suoi problemi e le sue promesse sono sostanzialmente e gravemente assenti. Per primo Kant, ma, con molta probabilità, anche Cattaneo, se ne sarebbero
fortemente lamentati.
I discorsi e le riflessioni che gli intellettuali fanno su se stessi (curiosamente l’introspezione sembra più frequente fra gli intellettuali di “media” importanza, piuttosto che fra quelli davvero grandi, oggetto di ricerche da stuoli di giornalisti, biografi, commentatori) provocano spesso qualche fastidio e parecchia irritazione quando spiegano perché sono differenti; qualche volta anche, surrettiziamente, ci fanno sapere perché sono “superiori” in quanto si attribuiscono (ma talvolta pure hanno) qualità che altri non hanno e perché danno contributi importanti, insostituibili alla vita della comunità (e del mondo). Tuttavia, conoscere quale concezione del loro lavoro gli intellettuali hanno e quale interpretazione del loro lavoro danno, che cosa hanno voluto fare e perché e a quale valutazione della loro influenza sono pervenuti, mi pare importante. Nel caso di Bobbio, disponiamo delle sue ampie e generali riflessioni sugli intellettuali, in senso lato, come categoria (Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, che raccoglie i suoi saggi in materia)(32), ma di un unico approfondimento specifico dedicato a Julien Benda, il cui nome e il cui saggio Il tradimento dei chierici sono regolarmente citati in altri libri in materia, ma che certamente non è stato il più importante intellettuale europeo in politica.
Da par suo, Bobbio procede ad accurate definizioni e distinzioni fra i diversi tipi di intellettuali, soffermandosi in particolare su quella fra intellettuali ideologi e intellettuali esperti che, rispettivamente, forniscono «principi-guida» e «conoscenze-mezzo»(33). «I primi sono soprattutto umanisti, manipolatori di idee; i secondi sono soprattutto scienziati, manipolatori di dati»(34). In maniera netta e inequivocabile Bobbio afferma di considerare «un punto fermo» la responsabilità personale: «l’intellettuale deve rispondere in prima persona delle proprie idee, s’intende quando decide di farle conoscere al pubblico»(35). Su questa base, rifacendosi a Max Weber, attribuisce senza nessuna sfumatura all’intellettuale l’etica della convinzione e all’uomo politico l’etica della responsabilità. Critica in maniera definitiva l’intellettuale organico, colui che, «anziché chiudersi nel proprio isolamento [riferimento, forse, alla classica ‘torre d’avorio’], si chiude nella prigione non meno isolante di una ideologia dogmaticamente assunta e pedissequamente servita»(36). A conclusione, quasi suggello dell’intero discorso sugli intellettuali, Bobbio attribuisce loro l’impegnativo compito, a cavallo fra l’utopico e il marxistico, di «dare il proprio contributo all’avvento di una società in cui la distinzione fra intellettuali o non intellettuali non abbia più ragione di essere. Questo è il problema»(37). Se capisco correttamente, ma questa volta non è chiaro il problema che Bobbio pone, gli intellettuali dovrebbero impegnarsi per produrre la loro scomparsa. È lecito sollevare un duplice interrogativo: 1) se una società senza intellettuali sia possibile; 2) se sarebbe una società migliore. Naturalmente, una simile società presuppone che sia scomparso il potere politico. Infatti, in una situazione di questo tipo, non esisterebbe nessuna necessità come quella indicata da Machiavelli: «Solo agli uomini savi [il principe] deve dare libero arbitrio a parlargli la verità […] e deve domandargli di ogni cosa e udire le opinioni loro, dipoi deliberare da sé a suo modo». Non ci sarebbe neppure bisogno dell’intellettuale Bobbio che di sé ha dato due versioni, quella di «filosofo militante»(38), con riferimento e omaggio a uno degli autori da lui più ammirati (Carlo Cattaneo, di cui ha raccolto e commentato i contributi conoscitivi)(39) e quella di «intellettuale mediatore», «il cui metodo di azione è il dialogo razionale, in cui i due interlocutori discutono presentando, l’uno all’altro, argomenti ragionati, e la cui virtù essenziale è la tolleranza»(40). La riflessione sulla filosofia militante viene da lontano, dal 1951, ed è formulata con inusitata nettezza: «filosofia militante contro la filosofia degli ‘addottrinati’. […] non si confonda la filosofia militante con una filosofia al servizio di un partito che ha le sue direttive, o di una chiesa che ha i suoi dogmi, o di uno stato che ha la sua politica. La filosofia militante che ho in mente è una filosofia in lotta contro gli attacchi da qualsiasi parte provengano – tanto da quella dei tradizionalisti come da quella degli innovatori — alla libertà della ragione rischiaratrice»(41).
Non desidero diventare ecumenico, ma credo che sia possibile tenere insieme sia il filosofo militante sia l’intellettuale mediatore sia la figura di intellettuale pubblico, che analizzerò con qualche dettaglio più sotto. Tutti e tre sono spesso chiamati a ‘dire parole di verità’ e a interpretare accadimenti, dichiarazioni, comportamenti in modo da dare senso e coerenza, rigore e vigore, non a una parte, politica o sociale, ma all’opinione pubblica. Fare un bilancio, non di Bobbio studioso, ma di Bobbio intellettuale pubblico(42) – vale a dire di colui che chiarifica le tematiche, mette in evidenza gli errori di altri intellettuali pubblici, orienta l’attenzione su tematiche trascurate, vivacizza il dibattito pubblico – è operazione molto difficile che, inevitabilmente, chiama in causa le preferenze politiche e le sensibilità personali. Eppure, è un’operazione indispensabile anche per capire che tipo di confronto d’idee avvenga, sia avvenuto, caratterizzi e rimanga possibile in Italia.
Lo studioso Bobbio ha lasciato – come filosofo del diritto, come filosofo della politica, come analista della cultura politica italiana (il rimando va all’insuperato Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, Torino 1968), di maestri e compagni – contributi indimenticabili che continuano a meritare attenzione e riflessione. Anche se riduttivo, il profilo tratteggiato dai commissari del suo concorso a cattedra negli anni Trenta che lo descriveva come dotato di «singolari attitudini critiche, ottimo metodo di lavoro, efficacia di scrittore»(43), coglie elementi importanti, comunque essenziali per ricostruire la figura e la personalità di intellettuale pubblico. Ovviamente, quegli elementi debbono essere completati con la capacità di individuare le tematiche più rilevanti, di interpretare lo spirito del tempo (lo Zeitgeist) e di farlo nella più originale, nella più efficace e nella più severa maniera possibile. Talvolta, in verità, almeno a mio parere, Bobbio non è stato sufficientemente severo. Per esempio, nei confronti del Movimento del Sessantotto: con suo figlio Luigi, fra i dirigenti di Lotta Continua, Bobbio fu pubblicamente alquanto indulgente(44). Il paragone con le durissime e intransigenti prese di posizione di Aron -espresse ne La révolution introuvable(45)- segnala non soltanto forti differenze di temperamento, ma anche una rimarchevole distanza nella concezione del ruolo e del compito di un intellettuale pubblico.
Per il grande sociologo tedesco, poi naturalizzato inglese, Ralf Dahrendorf (1929-2009), il tratto cruciale degli intellettuali pubblici (sia Aron sia Bobbio sono da lui inclusi nella categoria) è che sono «persone che vedono come un imperativo della loro professione il prendere parte ai discorsi pubblici dominanti nel tempo in cui vivono, anzi, il determinarne le tematiche e indirizzarne gli sviluppi»(46). Michael Walzer(47) – che non include né Bobbio nel suo ricco elenco di «critici sociali» (fra i quali include Benda, Gramsci, Orwell, Silone, Camus, Marcuse, Simone de Beauvoir, Foucault), né Aron e Sartre – sottolinea la necessità del «senso morale come guida alla conoscenza e l’utilità di una teoria sociale»(48), senza escludere «l’apporto dell’utopia alla critica sociale»(49). «Il critico è idealmente un uomo o una donna senza padrone, che rifiuta di rendere omaggio ai poteri esistenti»; è indipendente, «libero da responsabilità di governo, dall’autorità religiosa, dal potere corporativo, dalla disciplina di partito»(50).
Gli intellettuali pubblici scelti da Dahrendorf e da Walzer furono ai loro tempi tanto stimati quanto controversi, ma anche la loro capacità di reggere al passare del tempo significa che dissero e scrissero qualcosa di profondo in grado di informare il discorso pubblico e di durare nel tempo. Non furono intellettuali che miravano all’iconoclastia e a épater les bourgeois, come spesso accade a scrittori digiuni di politica che pretendono di dire la loro per protagonismo o perché non hanno resistito alle lusinghe dei mass media. Nella risposta alla lettera di un lettore, Paolo Mieli (sul «Corriere della Sera» del 2 novembre 2002, p. 37) ha sostanzialmente dato la sua approvazione ad un lungo (e talvolta ingeneroso, ad esempio, nei confronti di Calvino, Pasolini e di Sciascia) elenco di più che autorevoli scrittori italiani – elenco stilato da Pietro Citati su «Repubblica» – che avrebbero messo nero su bianco «sciocchezze» politiche. Ecco, il compito dell’intellettuale pubblico in Italia e la ricezione delle sue dichiarazioni e argomentazioni sono resi ancora più difficoltosi dai pregiudizi nutriti nei loro confronti e forse amplificati da giornalisti e critici letterari che non disdegnano affatto di prendere a loro volta posizioni fortemente politicizzate.
L’intellettuale pubblico Bobbio ha ingaggiato conversazioni importanti con interlocutori, talvolta faziosi e compiaciuti, talvolta verbosi e inconcludenti, come furono in tre diverse fasi, negli anni cinquanta, sessanta e settanta, i comunisti. Non ne è seguito, certamente non per responsabilità e per demerito di Bobbio, nessun rinnovamento della tetragona cultura comunista che, da un decennio e più, è sostanzialmente e meritatamente sparita in Italia.
L’intellettuale pubblico Bobbio ha anche impostato un discorso importante sulle «promesse non mantenute» della democrazia. Purtroppo, nessuno dei
possibili interlocutori fra gli intellettuali italiani, ad eccezione di Giovanni Sartori (nel già citato intervento Democrazia. Ha un futuro(51)?), ha dimostrato di avere la preparazione, le conoscenze, l’interesse a offrire le proprie considerazioni e riflessioni. Non arriverò fino a dire che questa assenza spiega la modesta qualità della democrazia italiana, ma è innegabile che un Paese che non s’interroga sullo stato della sua politica e della sua democrazia non può migliorarla. A partire dal 1976, Bobbio è, come si conviene ad un intellettuale pubblico, regolarmente intervenuto a commentare la politica italiana con i suoi editoriali su «La Stampa», poi variamente raccolti in agili libri(52). Bobbio non credeva affatto che la qualità della democrazia italiana fosse migliorabile prevalentemente attraverso modifiche alla Costituzione. Talvolta sollecitato a prendere parte al dibattito sulle riforme costituzionali, Bobbio rimase sempre molto cauto. In definitiva, fu per coerenza e per prudenza, forse anche per mancanza di fiducia nei sedicenti riformatori, molto, forse troppo, scettico riguardo all’utilità di interventi sulla Costituzione(Bobbio scrisse, insieme a Franco Pierandrei, una fortunata Introduzione alla Costituzione(53), a lungo ristampata), Bobbio rimase, anche perché diffidente verso una comprensione meramente giuridico-formale della politica, sostanzialmente estraneo ad un dibattito nel quale si sono cimentati molti intellettuali pubblici e aspiranti tali in Italia. Meno prudente fu l’intellettuale pubblico Bobbio quando, sollecitato dallo stato di confusione della sinistra italiana, premessa della sconfitta elettorale a opera di Berlusconi nel marzo 1994, si occupò delle «ragioni e significati di una distinzione politica» (è il sottotitolo, già richiamato, del fortunato volumetto Destra e Sinistra).
Tutti i temi sollevati da Bobbio erano importanti, tutti i dibattiti da lui iniziati sono stati significativi ancorché non sempre, per l’inadeguatezza degli interlocutori, arricchenti. Se ricorriamo al criterio che Bobbio applicò alla Guerra nel Golfo, possiamo interrogarci su quanto quei dibattiti siano effettivamente stati ‘efficaci’, ovvero abbiamo conseguito i desiderati obiettivi conoscitivi. Mai attribuendosi eccessiva importanza, lo stesso Bobbio ha, in non pochi casi, dichiarato nelle sue repliche una certa insoddisfazione per gli esiti conseguiti. Si affaccia qui il dilemma degli intellettuali pubblici: debbono, sempre e comunque, fare opera di testimonianza oppure debbono occuparsi della loro effettiva influenza? È sufficiente «parlare di verità al potere»? Oppure è indispensabile tentare di influenzare le scelte dei potenti? Bobbio non scelse una posizione intermedia. Sollecitò, ricorrendo a ‘parole di verità’, soprattutto i dirigenti dei partiti a riflettere sulle loro idee, sulle loro proposte, sulle loro manchevolezze. Ne criticò i comportamenti per la loro inadeguatezza e per la loro incoerenza. Non si rivolse mai ai governanti, con lettere aperte, appelli, manifesti, per chiedere cambiamenti nelle politiche. Piuttosto, in particolare nei suoi editoriali per «La Stampa», criticò e stigmatizzò i comportamenti sia della classe politica sia della società italiana. Quanto di questa incessante opera pedagogica abbia avuto successo e sia rimasto è difficilissimo dirlo. Forse, facendo tesoro del pessimismo di Bobbio, dovremmo dire molto poco. Società e politica in Italia non hanno certamente recepito una quantità adeguata del pensiero e degli scritti di Bobbio. Né Bobbio si era mai fatto illusioni sulla possibilità di cambiare la politica e la società italiana di tanto quanto era e continua ad essere necessario. L’intellettuale pubblico è consapevole che le sue critiche vanno e vengono per lo più inascoltate. Forse, la testimonianza intellettuale ha in se stessa la sua ricompensa.
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note
1. Ne ho scritto in questi termini nel marzo 1994 ne «La Rivista dei Libri», ora in G.Pasquino, Politica è, CasadeiLibri, Bologna 2012, pp.58-64.
2. R. Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2006.
3. Sul punto si veda l’ottima analisi comparata di G. De Ligio, La tristezza del pensatore politico, Bononia University Press, Bologna 2007. Su Aron, si vedano le mie riflessioni: Aron, l’intellettuale critico in Politica è, cit., pp. 397-401, e Giornalista e professore: Raymond Aron, in «451 Via della letteratura, della scienza, dell’arte» gennaio 2013, n. 24, pp. 9-11, nel quale recensivo il fascicolo a lui dedicato della «Rivista di Politica», 3, 2012.
4. N. Bobbio, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Laterza, Roma-Bari 1997.
5. N. Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino(1920-1950), Einaudi, Torino 1977.
6. N. Bobbio, Maestri e compagni, Passigli Editori, Firenze 1984.
7. In proposito, si veda l’esauriente studio di P. Coleman, The Liberal Conspiracy: The Congress for Cultural Freedom and the Struggle for the Mind of Postwar Europe, The Free Press, New York 1989.
8. Cfr. l’ottimo e documentatissimo libro di N. Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991, Laterza, Roma-Bari, Laterza, 1997.
9. Una eccellente interpretazione sintetica è offerta da R. Bellamy, Bobbio, della Volpe and the “Italian road to socialism”, in id., Modern Italian Social Theory, Polity Press, Cambridge 1987, pp. 141-156.
10. N. Bobbio, Politica e cultura [1955], Einaudi, Torino 2005
11. È questo il titolo dell’ultimo capitolo di N. Bobbio, Il dubbio e la scelta, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1993, pp. 213-223.
12. N. Bobbio, Politica e cultura, cit., p. 194.
13. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. XIII.
14. N. Bobbio, Il dubbio e la scelta, cit., p. 213.
15. Intervento nel fascicolo speciale della rivista «Il Ponte», gennaio-febbraio 1986, in ricordo di Tristano Codignolae intitolato Liberalsocialismo(p. 147, i corsivi sono miei). Per i prodromi e l’evoluzione del liberalsocialismo utilissima è la ricostruzione di P. Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, Liberi libri, Macerata 2014 (le pagine dedicate a Bobbio sono 157-177).
16. Sul punto si veda l’ottima analisi di P. Meaglia, Bobbio e la democrazia. Le regole del gioco, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole(FI) 1994.
17. Una buona ricognizione di quei problemi, che contiene sia una riflessione di Bobbio sia una soffice difesa d’ufficio di Napolitano si trova nel volume di S. Belligni (a cura di), La giraffa e il liocorno: il Pci dagli anni ’70 al nuovo decennio, Franco Angeli, Milano 1983.
18. N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Einaudi, Torino 1976. Si veda anche id., Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano. Saggi su “MondOperaio” 1975-1989, Donzelli, Roma 2006.
19. G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza, Roma-Bari 1985.
20. N. Bobbio, Quale socialismo?, cit., p. XVI.
21. Ibidem.
22. Ivi, p. 109.
23. Ivi, p. XVIII.
24. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi 1984 (più volte ristampato).
25. G. Sartori, Democrazia. Ha un futuro?, in aa.vv., Lezioni Bobbio. Sette interventi su etica e politica, Einaudi, Torino 2006, pp. 40-54.
26. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna 1979.
27. N. Bobbio, Autobiografia, cit., p. 240.
28. N. Bobbio, L’utopia capovolta, in «La Stampa», 9 giugno 1989 (ora nel libretto dallo stesso titolo pubblicato a Torino da Editrice La Stampa, 1990).
29. il Mulino, Bologna 1957.
30. Donzelli, Roma 1994 (poi riedito più volte).
31. Ivi, p. 134.
32. N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.
33. Ivi, p. 118.
34. Ivi, p. 120.
35. Ivi, p. 144.
36. Ivi, p. 131
37. Ivi, p. 150. Il corsivo è di Bobbio.
38. N. Bobbio, Autobiografia, cit., p. 255.
39. N. Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971.
40. N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., p. 17.
41. N. Bobbio, Politica e cultura, cit., p. 10.
42. Utilizzo questa terminologia nell’accezione che gli dà R. Posner, Public Intellectuals. A Study of Decline, Cambridge, Harvard University Press, MA-London 2004. Il testo, purtroppo, è riferito esclusivamente agli intellettuali statunitensi e a pochi europei colà emigrati e per qualche tempo attivi.
43. N. Bobbio, Autobiografia, cit p.40
44. Ivi, pp. 153-157.
45. Fayard, Paris 1968. Se ne veda la traduzione italiana a cura di A. Campi e G. De Ligio: La rivoluzione introvabile. Riflessioni sul Maggio francese, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.
46. R. Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo, cit., p. 14.
47. M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, il Mulino, Bologna 2004.
48. Ivi, p. 291.
49. Ivi, p. 294.
50. Ivi, p. 300.
51. Mi permetto altresì di rimandare al mio Bobbio e le inadempienze della democrazia, in «Teoria Politica», Annali II, 2012, pp. 257-268, nel quale, osservavo, fra l’altro, che la concezione della democrazia di Bobbio non fu mai puramente procedurale, ma conteneva numerosi elementi “sostanziali”.
52. Ne ho analizzato metodo e contenuti nel mio Crisi permanente e sistema politico: una ricostruzione del pensiero politologico di Norberto Bobbio, in L. Bonanate, M. Bovero(a cura di), Per una teoria generale della politica. Saggi dedicati a Norberto Bobbio, Passigli Editori, Firenze 1986,
pp. 197-226.
53. Laterza, Roma-Bari 1963.
Primum vivere, deinde scribere l’autobiografia
Recensione del libro di Claudio Martelli, Ricordati di vivere, Bompiani, Milano, 2013, pp. 594
Il titolo dell’autobiografia politica di Claudio Martelli mi ha molto incuriosito. Però, giunto alla fine di una lettura sempre molto interessante confesso di non averlo capito. Deve essere un monito per altri, non identificati personaggi, forse per quei troppi dirigenti socialisti dei suoi anni ruggentissimi che, oltre che alla politica, si dedicavano alla ricerca di mezzi per stare in politica, per crescere nelle cariche e per arricchimento personale (“convento povero, frati ricchissimi” nella valutazione del socialista Rino Formica)? Certamente, a giudicare da quello che scrive lo stesso Martelli, lui non ha avuto bisogno di nessuno che gli ricordasse di vivere. Tralasciando per il momento il suo arrembante percorso politico, durato poco meno di trent’anni, quindici dei quali in ruoli importanti (quattro legislature alla Camera dei deputati, a lungo vice-segretario del PSI, Ministro della Giustizia e vice-Presidente del Consiglio, infine, dal 1999 al 2004 Europarlamentare), ha “goduto di generosi benefit del partito, spese di segreteria, affitto di appartamenti, macchine, viaggi, alberghi, ristoranti”. Tutto questo gli è servito per “fare politica onestamente e anche godere di agi e vantaggi” grazie “a Craxi e al Partito socialista, che [lo] hanno messo al riparo dai rischi di dover[s]i procurare le risorse necessarie per [lui], per i [suoi] collaboratori, per le campagne elettorali, per i continui trasferimenti di un piccolo apparato” (p. 578). Anche nel privato Martelli non si è affatto dimenticato di vivere: belle e avventurose vacanze dalla California al Kenya e una pluralità di rapporti sentimentali più che soddisfacenti e, se posso permettermi, molto variegati: due mogli, quattro figli da tre diverse compagne. Ce n’è abbastanza per riempire la vita anche di un uomo irrequieto, alla ricerca di qualcosa di non specificato, forse non soltanto di potere politico, ma di riconoscimento, che plachi la sua irrequietezza.
Dev’essere davvero difficile (vedo in giro molti esempi, di gran lunga meno interessanti di Martelli) per gli uomini che hanno avuto potere e che lo hanno per le più diverse ragioni, spesso soprattutto per loro demerito, perduto, rassegnarvisi graziosamente e intraprendere una second life. Se non hanno avuto altro interesse e altro scopo nella vita che quel potere politico, ahi ahi, la privazione diventa insopportabile poiché non sanno come occupare il loro tempo. Continuano a strusciare, finché possono, i piedi nel Transatlantico di Montecitorio, cercano di farsi citare dai giornalisti, vanno alla ricerca di qualche comparsata televisiva da ex. I più fortunati si fanno ficcare in qualche Commissione per la revisione di qualsiasi cosa non funzioni nello Stato italiano (e spesso vi riescono): patetici. Martelli, no. Questa autobiografia può essere letta non soltanto come il tentativo di riscrivere un pezzetto, importante, di storia italiana, socialista, personale, ma come una catarsi.
Ho cercato di capire le motivazioni del fatidico ingresso di Martelli in politica. Potrei dire che ho intravisto molta, legittima, ambizione, forse anche gli incentivi del tempo, inizi anni sessanta, non so se fin da subito, ma sicuramente in seguito, anche il tentativo di cambiare la politica, più che a livello locale, dove pure ebbe qualche responsabilità pratica, soprattutto a livello nazionale. E’ l’incontro con Craxi che segna la svolta decisiva e, per Martelli, molto positiva. Sono le differenze d’opinione con Craxi che, ad avviso di Martelli, impedirono cambiamenti cruciali, ad esempio, quello della (auto)riforma del partito, proposta da Martelli quando Craxi era già arrivato a Palazzo Chigi, quindi dopo il 1983 (pp. 311-321). Sono, infine, le divergenze con Craxi sui tempi e sui modi di proseguire la politica socialista poco prima del crollo del muro di Berlino. “Ancora alla vigilia del crollo dei muri, l’apparenza sembrava giustificare la tattica attendista di Bettino, che saldo su se stesso e sul suo partito si limitava a regolare il gioco politico dividendo gli alleati, logorando gli avversari, aspettando che un nuovo ciclo gli restituisse lo scettro [sic] con il ritorno a Palazzo Chigi o magari, chissà ( anche di questo abbiamo ragionato e vagheggiato in certi momenti), gli aprisse la strada al Quirinale” (p.439), che segnano una profonda e dolorosa incomprensione. Molto diversa erano la diagnosi preveggente e la strategia suggerite a Craxi da Martelli: “Una stagione politica è finita e pensare di ripeterla è molto rischioso. Che cosa può dare di più di quello che ha già dato nei quattro anni in cui sei stato presidente del consiglio? L’alleanza con la DC è esaurita, la DC è esausta, rischiamo di farci trascinare nella sua decadenza. Prepariamo qualcosa di nuovo, prepariamo un nuovo ciclo, dedichiamoci a riunire e guidare una sinistra divisa, confusa. Bettino, non basta parlare di unità socialista, formularla come un diktat, come un prendere o lasciare. Dobbiamo essere pronti anche noi a rinunciare a qualcosa, persino al governo se è necessario per costruire qualcosa di grande. … Dobbiamo puntare alla presidenza della repubblica, perché è da lì che si guiderà la nuova fase politica” (pp. 511-512).
Pure essendo molto consapevole del ruolo molto influente svolto dai Presidenti: da Scalfaro (poi criticatissimo da Martelli), in misura inferiore, da Ciampi, in misura enormemente superiore da Napolitano (regolarmente descritto da Martelli come molto attento alle preferenze e alle esigenze del PSI), non intendo discutere della validità dell’asserzione di Martelli (guidare la nuova fase politica dal Quirinale), ma trovo curioso come nella sua autobiografia i rapporti Craxi-Berlusconi siano appena accennati e il potere successivo di Berlusconi non sia neppure preso in considerazione. Maliziosamente aggiungerò che parecchio spazio viene concesso, invece, a Gelli e agli incontri da Martelli avuti con il capo della P2. Ancora più curioso è che Martelli scriva della necessità di “riunire e guidare” la sinistra, divisa e confusa, praticamente cancellando quello che mi era sembrato l’impegno predominante del suo agire politico, oserei aggiungere, intellettuale e culturale: costruire una grande forza politica liberalsocialista. Affronterò questo importantissimo aspetto facendo riferimento a due nomi, diversamente molto significativi, e a un evento straordinariamente importante. La premessa, di cui Martelli potrebbe dolersi, sta in una sua frase: “La coerenza è una virtù che parla di noi ma ha poco a che fare con la realtà” (p. 499). Quindi, essere incoerenti non è soltanto giustificabile; diventa assolutamente indispensabile. Qui, entra in campo, preceduto da critiche durissime (che sono spesso molto condivisibili) al Sessantotto e alle sue manifestazioni, il capo di “Lotta Continua” (e il direttore dell’omonimo giornale) di uno dei movimenti di maggiore successo, allora e oggi: Adriano Sofri. Mi limito a registrare un siparietto svoltosi nel 1985 in occasione del loro primo incontro nelle sale della rivista socialista “Mondoperaio”. “A riunione conclusa, Sofri mi abbordò: ‘Mi avevano detto che ci assomigliamo, ma tu sei più bello’. Scherzo per scherzo, risposi: ‘Tu sei più intelligente’ ” (p. 329). Resisto, ma davvero con molta fatica, dal commentare quanto di questo scambio riveli delle personalità di entrambi. Registro, invece, le molte parole che Martelli spende per sottolineare un’ampia concordanza di vedute con Sofri, del quale non riesco a ricordare espressioni lontanamente avvicinabili al “liberalsocialismo”.
Il secondo nome è Norberto Bobbio, il relatore della mia tesi di laurea all’Università di Torino, ovviamente, non il più noto e il più rilevante dei suoi meriti intellettuali e dei suoi contributi alla cultura politica di un paese refrattario, per di più schiacciato fra il cattolicesimo e il comunismo. Bobbio, uno dei grandi maestri del liberalsocialismo, viene citato tre volte. Nella prima citazione incidentale viene collocato insieme con Federico Mancini (con il quale non aveva praticamente nulla in comune) fra i “maestri tradizionali” (p. 212). La seconda volta, ricorda Martelli, di essere incorso “nella censura, amichevole, ma severa, di Norberto Bobbio: ‘equità e eguaglianza sono sinonimi’ [ho i miei dubbi sulla veridicità dell’attribuzione di questa frase a Bobbio] e mi rimandò a una bibliografia, –piuttosto datata, a dire il vero–… Replicai che tutto ciò che chiamiamo e amiamo con il nome di liberalsocialismo ruota intorno al tentativo di conciliare libertà ed eguaglianza in una sintesi superiore, più comprensiva e più mobile” (p. 333-334, corsivo mio). Avrei sperato che, per quanto “maestro tradizionale” e antico, Bobbio avesse imparato la lezioncina. Invece, qualche tempo dopo, a Bobbio toccò di ricevere un’altra severa e sprezzante critica: “a definire destra e sinistra non basta” –scrive Martelli dall’alto della sua filosofia politica– “il rapporto che, rispettivamente, hanno l’una con la libertà e l’altra con l’eguaglianza, secondo la discutibile distinzione resa celebre da Norberto Bobbio in un libricino di successo” (p. 379, corsivi miei). Peccato che Martelli dimentichi di citare il titolo La democrazia dell’applauso, di un famoso (e “discutibile”?) articolo di Bobbio con il quale su “La Stampa” del maggio 1984 il filosofo torinese stigmatizzava l’acclamazione senza votazione con la quale Craxi fu riconfermato segretario del PSI nel Congresso di Verona. A quell’articolo vale la pena di citare anche l’immediata e sprezzante replica di Craxi: “i filosofi che hanno perso il senno”. Tutto l’episodio è omesso da Martelli. Il quesito, però, è come fare il liberalsocialismo in Italia relegando ai margini il più influente filosofo del liberalsocialismo stesso.
La risposta Martelli l’aveva già data. Questo è l’evento che ho preannunciato: il suo giustamente famoso discorso “sui meriti e sui bisogni” pronunciato alla conferenza programmatica “Governare il cambiamento” che il PSI tenne a Rimini (31 marzo-4 aprile 1982). Martelli ricorda ai lettori che quel discorso fu giudicato “da molti osservatori, dagli stessi comunisti e da un interlocutore ostico come De Mita – come “il momento più alto del nuovo corso socialista” (p. 291). Sottolinea che voleva “scrivere un manifesto del socialismo moderno”, “uscire dal discorso ideologico, dal confronto di dottrine e di esperienze politiche” … attingendo dagli esempi, dal metodo, dai percorsi e dai risultati del secolo socialdemocratico [questa è la caratterizzazione data al XX secolo da Ralf Dahrendorf], a cominciare dalla sua espressione più compiuta, quella svedese” (p. 291). Fu senza nessuna riserva un discorso efficacissimo, persino entusiasmante, che riuscì, almeno con le parole, a coniugare in maniera ispirata il liberalismo, premiare i meriti, con il socialismo, liberare dai bisogni. Proprio il liberalsocialismo che Bobbio aveva provveduto a teorizzare da almeno trent’anni. “Il discorso di Rimini fu interrotto da applausi ripetuti, intensi e da un’ovazione finale lunga cinque minuti, con tutti i delegati in piedi e non pochi con le lacrime agli occhi, come mostrano i video d’epoca. Solo Craxi rimase seduto” (p. 298, corsivo di commento mio). Il resto è storia. Il PSI non seppe, non volle, non cercò di applicare quei due principi. Martelli continuò a fare il delfino di Craxi e Craxi continuò a dedicarsi alle manovre per (ot)tenere il potere, alla fine rifiutandosi di cederlo per tempo a Martelli.
Tralascio qui due elementi che, invece, Martelli sottolinea: il suo intenso e meritorio rapporto con Giovanni Falcone e le sue alquanto logore e banali, a mio parere, spesso esagerate e non inoppugnabili, critiche alla magistratura. Un ex-Ministro della Giustizia dovrebbe saperne di più e avrebbe dovuto agire rapidamente e più a fondo nei confronti dei magistrati corporativi, politicizzati, carrieristi, inefficienti. Tutto questo vale per un bilancio della sua personale traiettoria politica. Quanto all’operato complessivo, “quel che Craxi ha fatto, quel che abbiamo fatto insieme e con tanti altri compagni merita ancora di essere studiato, discusso, compreso” (p. 591). Gli errori Martelli li attribuisce all’insistenza di Craxi su un anticomunismo obsoleto che, in verità, fu la cifra, 0quasi totalmente condivisa da Martelli, del suo agire politico. “Nettamente prevalenti sulle ombre”, le luci furono “la rinascita del PSI e di un riformismo moderno [peccato che di questo non vi sia più traccia con almeno due terzi dei socialisti confluiti in Forza Italia], la contestazione energica, democratica, vincente del comunismo italiano [che, però, ha infiacchito i rimanenti comunisti, ma non ne ha fatto dei ‘liberalsocialisti’], la prova di governo e di orgoglio nazionale, le battaglie per i diritti umani e l’indipendenza dei popoli” (p. 591). Ricordati di vivere è una storia politica di grandi successi personali la cui morale è che, alla fine, in politica, non si vince mai. Questo, forse, spiega perché nelle memorie di Martelli, la sua innegabile arroganza si combina con l’inconfessabile dolore per l’irreparabile incompiutezza della sua parabola politica.