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Le fragilità dei tre leader alla prova del semestre bianco @DomaniGiornale

Lasciamo che i commentatori italiani si rincorrano l’un altro a prevedere disastri di un qualche tipo durante il semestre bianco e che superficialmente alcuni professori(oni) ne chiedano l’inutile abolizione. Quel che si intravede in questa fase non sono i partiti che approfittano dell’impossibilità di scioglimento del Parlamento per rendere la vita difficile (e perché poi? E con quali obiettivi?) al governo quanto piuttosto qualche scricchiolio delle leadership dei partiti di governo.

Non scricchiola la leadership di Giorgia Meloni, ma la sua solidità si accompagna alla sua limitata rilevanza anche perché il numero dei parlamentari di Fratelli d’Italia deriva dai voti del marzo 2018 poco più del 4 per cento a fronte delle intenzioni di voto oggi intorno al 18 per cento. Ė Salvini a sentire il fiato dei Fratelli d’Italia sul suo pur robusto collo, ma c’è di più. Anche a causa di ambiguità, probabilmente strutturali, la linea che esprime nelle sue numerosissime apparizioni televisive, interviste, dichiarazioni non sembra largamente condivisa. In particolare, sulle due tematiche più importanti adesso e nel futuro prossimo: Covid e, in senso lato, Europa, nella Lega vi sono posizioni non coincidenti con quelle che Salvini ha dentro. Il Presidente della Regione Veneto Zaia, non da solo, argomenta una linea rigorista sul Covid compreso il green pass e il ritorno a scuola. Sull’Europa e sul sostegno al governo Draghi, alta, forte e chiara è la linea che Giorgetti, avendola elaborata, continua a sostenere. Salvini incassa e guarda avanti, ma sembra avere perso baldanza.

Sicuramente baldanzoso Giuseppe Conte non lo è stato mai, ma non è mai stato riluttante a esibire una non piccola fiducia nelle sue qualità personali e, in qualche modo, anche politiche. Adesso il problema, che sarebbe di difficile soluzione per chiunque, è come acquisire e affermare la sua leadership sul Movimento 5 Stelle di ieri, vale a dire recuperando coloro che se ne sono andati o sono stati frettolosamente espulsi, e di domani a cominciare da quel 15 per cento di elettori scivolati via. All’interno del Movimento non ci sono sfidanti e forse neppure alternative, ma fatte salve poche eccezioni, non si sente neppure grande entusiasmo, piuttosto attendismo: “vediamo che cosa riesce a fare colui che voleva essere l’avvocato del popolo”.

Enrico Letta è il segretario di un partito nel quale i capi corrente hanno notevole potere. Guerini, Franceschini e Orlando sono comodamente sistemati nei loro uffici ministeriali che implicano non poche responsabilità, ma danno anche notevole visibilità (in questi giorni soprattutto per Franceschini che se la gode tutta, e non è finita). Con alcune proposte, voto ai sedicenni, patrimoniale (stoppata, mio modo di vedere, malamente, da Draghi) Letta ha voluto mostrare capacità di incidere sull’agenda politica, ma non può vantare successi e si trincera dietro il fatto inconfutabile dell’essere il PD il più sincero e leale sostenitore di Draghi e del suo governo. Un qualche rafforzamento della sua leadership potrebbe venire sia dalle vittorie possibili in numerose elezioni amministrative a ottobre sia da un suo chiaro e netto successo nell’elezione suppletiva a Siena. Apparentemente Letta è il meno “sfidato” dei tre leader di cui sto discutendo, ma la storia del PD, nel quale restano acquattati molti renziani/e, è anche fatta di repentine cadute e improvvise sostituzioni. La mia interpretazione è che nel semestre bianco, i partiti dovrebbero sentire il compito di rafforzare i loro profili politici al tempo stesso che si segnalano per capacità propositive. Vedo al contrario tensioni, non distruttive, ma che implicherebbero qualche ridefinizione di linee politiche. Non basterà un colpo d’ala nell’elezione rapida del successore(a) di Mattarella.

Pubblicato il 4 agosto 2021 su Domani

E adesso poveri parlamentari

Preso atto del voto, è opportuno rilevare che all’appello referendario è mancato circa il 45 degli aventi diritto e alle pur importanti elezioni regionali più 1/3 degli elettori ha deciso di non partecipare. Peccato. Hanno perso una buona occasione di fare conoscere le loro preferenze. Chi non vota non conta, ma in qualche modo rende molto più complicato il compito di coloro che debbono rappresentare i cittadini. I verdetti sono stati tutti molto chiari, limpidi. Più di 2/3 dei votanti hanno approvato la riduzione del numero dei parlamentari. Maggioranze più (De Luca in Campania e Zaia in Veneto) o meno (Emiliano in Puglia) ampie hanno confermato i Presidenti uscenti i quali partono, grazie alla loro visibilità e attività di governo, con un buon vantaggio iniziale. Laddove non c’era un Presidente uscente, il candidato di Fratelli d’Italia ha conquistato le Marche e il centro-sinistra ha sconfitto la candidata di Salvini in Toscana.

Alla fine della ballata, il sicuro vincitore è il governo guidato da Conte. Tanto il Movimento Cinque Stelle, che s’è intestato la revisione costituzionale, quanto il Partito Democratico di Zingaretti, che ha ottenuto un esito numerico e politico confortante, possono tirare un sospiro di sollievo e guardare avanti, molto avanti. Debbono assolutamente formulare i progetti necessari ad ottenere gli ingenti fondi del programma Next Generation EU stanziati per migliorare la vita e le condizioni di lavoro delle future generazioni. Molto correttamente il Presidente del Consiglio Conte ha affermato che gli italiani dovranno giudicare lui e il suo governo proprio da come utilizzeranno i fondi europei. In contemporanea, però, la maggioranza deve dare seguito alle sue promesse di ritocchi necessari dopo la riduzione drastica del numeri dei parlamentari. In ottica ancora molto populista i Cinque Stelle desiderano ridurre anche le indennità: una “casta” numericamente ridimensionata e messa a dieta con il rischio che da alcuni settori sociali, non ricchi, ma benestanti nessuno intenderà più candidarsi al Parlamento.

Il compito più complesso e delicato è quello di scrivere una legge elettorale che consenta di reclutare i migliori, i più competenti. Non c’è nessuna garanzia che “la proporzionale” abbia esiti virtuosi, come sostiene Di Maio (e, da tempo, anche Zingaretti). Dal canto suo, mentre Salvini si lecca le sue oramai molte ferite, Meloni rilancia un non meglio precisato presidenzialismo accompagnato da un altrettanto imprecisato “maggioritario”. È una discussione, non nuova, destinata a durare. I risultati delle elezioni regionali hanno certificato l’ascesa di Fratelli d’Italia che, però, non hanno ancora raggiunto la Lega, e una leggera, ma significativa, ripresa del Partito Democratico con conseguente rafforzamento del segretario Zingaretti. Il non buono stato di salute elettorale dei Cinque Stelle sembra essere una garanzia che l’alleanza di governo continuerà. Conte va. Il suo cammino, che dipende in notevole misura dalle sue capacità, può continuare.

Pubblicato AGL il 23 settembre 2020

Dacci oggi, ma anche domani, il nostro Commissario

La nomina del Commissario europeo che spetta all’Italia deve essere fatta dal governo. Sarà il capo del governo italiano a comunicare il nome del prescelto/a alla Presidente della Commissione. Dunque, soltanto nei vaneggiamenti della Lega qualcuno potrà sostenere che il commissario deve essere uno, sicuramente non una poiché la Lega è un partito/movimento maschilista senza nessun cedimento, della Lega. Incidentalmente, mi sfuggono del tutto le conoscenze e i meriti europeisti di Giancarlo Giorgetti, del Presidente della Regione Veneto Luca Zaia e del Ministro della Funzione pubblica Giulia Bongiorno, i cui nomi pure sono circolati, molto meglio, invece, Letizia Moratti. Non so se vale la pena complimentarsi con Giorgetti per essersi chiamato fuori da un compito per il quale non aveva/ha nessuna preparazione manifesta. Ad ogni buon conto, si sappia che il Commissario nominato dal governo italiano non avrà come obiettivo costitutivo quello di rappresentare l’Italia nella Commissione e nell’Unione poiché tutti Commissari assumono l’impegno di dimenticarsi degli interessi nazionali e di operare per fare funzionare al meglio l’Unione Europea, al limite anche per cambiarla naturalmente nella direzione di un’Unione più stretta, più coesa, più solida. Ciascuno e tutti questi aggettivi sono, in via di principio, respinti dalla Lega. Nella misura in cui è, dovrei forse scrivere “riesce a essere”, sovranista, la Lega mira a rendere l’Unione più lasca, meno coesa, più dipendente dagli Stati-membri, esattamente il contrario di quello che, curando il fascicolo di “Paradoxa” del Luglio/settembre 2015, intitolato, Europa. Ne abbiamo abbastanza?, argomentò Roberto Castaldi.

La brutta discussione in corso fra i due alleati al governo, sia sull’avere votato o no per la Presidente Ursula von der Leyen sia sulla scelta del Commissario/a italiano/a, è rivelatrice della straordinaria ignoranza di entrambi in materia europea. Ancora non hanno capito, anche perché non è mai stata una loro priorità, che in Europa la “moneta” più forte si chiama “credibilità”. Che, per gli europei, la credibilità si misura sulle parole e sulle azioni, quindi, anche sui voti espressi, sulla coerenza fra impegni presi e adempimenti. Su questo terreno, mai il più importante nella politica italiana, anche per responsabilità degli elettori che non lo usano per premiare e punire i loro rappresentanti e governanti (né potrebbero farlo poiché non si interessano di politica, non si informano sulla politica, meno che mai quella europea, e partecipano poco alla politica, nel migliore dei casi limitandosi a votare e, infine, poiché la Legge elettorale Rosato non li favorisce), gli italiani in Europa sono considerati molto carenti. Naturalmente, esistono eccezioni individuali, come Antonio Tajani e David Sassoli, che vengono adeguatamente premiate. Stessa osservazione vale per Mario Draghi la cui prestigiosa carriera è legata alla sua personale credibilità e enorme competenza.

Come potrà la Presidente della Commissione Europea e come faranno gli europarlamentari che terranno udienze per valutare il tasso di europeismo e il livello di competenza, non solo nel settore specifico di ciascun nominato/a alla carica di Commissario, ad avere un atteggiamento conciliante e comprensivo nei confronti di chi ha ripetutamente bollato la Commissione poiché composta da “burocrati” e “tecnocrati”? Naturalmente, i tecnocrati sono fumo negli occhi dei populisti/sovranisti e i burocrati non possono essere i beniamini della democrazia diretta e della piattaforma Rousseau. Però, il punto è che, da tempo, la Commissione è il luogo dove si trovano uomini e donne che hanno una biografia politica di tutto rispetto, hanno vinto le elezioni nei loro rispettivi paesi, hanno governato, sono stati ministri, hanno acquisito e esercitato competenze. Non è prevedibile quale coniglio uscirà dal cappello del prestigiatore Conte, che qualcosa in materia dovrebbe pur dirla, ma di cui ugualmente non sono note le conoscenze in materia di Europa e di Unione. Dirò subito che condivido per filo e per segno quanto ha intelligentemente scritto Riccardo Perissich, Italia/UE: un commissario e un portafoglio, ma per chi e per che cosa fare (Newsletter dell’Istituto Affari Internazionali, 23 luglio 2019).

So che un governo che vuole contare in Europa avrebbe qualche chance in più se sapesse scegliere come commissario/a non un guastatore a digiuno dell’Unione Europea, della sua storia, dei trattati, degli obiettivi, ma una persona competente, conosciuta, europeista, che sappia indicare soluzioni ai problemi europei tali da avere riflessi positivi anche sulle politiche italiane. È tempo di vacanze per gli europei e per molti italiani, ma l’Unione Europea continuerà a funzionare e, forse, anche a migliorare il suo rendimento, spesso già superiore a quello di alcuni governi nazionali, se i Commissari saranno all’altezza. Auguri.

Pubblicato il 25 luglio 2019 su PARADOXAforum

Quel venticello che sospinge il Carroccio

Zaia 3-Maroni 2. I suoi gol Maroni li ha segnati nel tempo di recupero quando oramai la squadra dei Veneti guidati da Zaia aveva dilagato. Proprio perché era un referendum consultivo, il dato sull’affluenza ha segnalato sia l’interesse effettivo degli elettori sia la presa dei due governatori sull’opinione pubblica della loro regione. Certo, la prospettiva, molto ingannevole, di tenersi nei confini della propria regione i nove decimi degli schei pagati in tasse è stata mobilitante per gli elettori/contribuenti veneti. In Lombardia, invece, il tasso di europeismo e di cosmopolitismo di alcune città, in particolare di Milano, ha giocato contro le aspettative di Maroni, che pure le aveva tenute basse mirando, chi sa perché, al 34 per cento di affluenza. Con il referendum consultivo che mira a ottenere più competenze dal governo centrale e a versare meno imposte, le due ricche regioni del Nord aprono un contenzioso nazionale e non troppo indirettamente sfidano anche le altre regioni italiane, la maggior parte delle quali, a cominciare, lo sanno tutti e lo confermano tutte le statistiche, da quelle del Sud, sono poco virtuose. Probabilmente, Veneto e Lombardia potevano fare a meno delle nient’affatto piccole spese per un referendum consultivo e seguire la strada della dichiarazione d’intenti approvata dal Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna che persegue obiettivi simili, con un pizzico in meno di autoreferenzialità fiscale.

Adesso, tratto il dado, una qualche risposta dal governo dovrà arrivare. Certamente, sarebbe utile ascoltare le reazioni del Ministro per la Riforme Istituzionali, la piddina siciliana Anna Finocchiaro, ma tutti devono essere consapevoli che nessun percorso di ridefinizione di compiti e di competenze, di redistribuzione delle risorse e di un migliore loro impiego può cominciare adesso. L’agenda legislativa di un Parlamento in prossima scadenza è già fin troppo piena di materie importanti, alcune, come la impegnativa Legge di bilancio, assolutamente ineludibili. Il governo Gentiloni, che ha molte gatte da pelare, alcune recapitategli dal segretario del PD, non può assumersi l’onere di dare adesso risposte che il prossimo governo, fatto chi sa come, guidato da chi sa chi, dovrebbe mettere in atto oppure respingere cominciando da capo. Comunque, è bene che il tema del riordino complessivo del regionalismo italiano sia stato posto. In contemporanea, è successo qualcosa di importante anche per la politica intesa come rapporto fra partiti e coalizioni.

Seppure indirettamente e, in parte, inconsapevolmente, Zaia e Maroni hanno lasciato/fatto cadere il sovranismo di Salvini. Chi vuole potenziare nell’ambito dello Stato italiano le regioni virtuose del Nord non può al tempo stesso aderire alla prospettiva di uscire dall’Unione Europea e di riconquista della (ceduta, non perduta) sovranità nazionale. È un conflitto non da poco quello che potrebbe aprirsi nella Lega del Nord. C’è dell’altro poiché la leadership interna di Salvini esce un pochino appannata dal successo dei due governatori, incidentalmente, né l’uno né l’altro abituati ai toni roboanti del capo della “loro” Lega. Tuttavia, ed è sicuramente questo che per Salvini conta molto di più, il profilo politico della Lega di lotta e di governo si staglia alto. Insomma, Zaia e Maroni hanno dimostrato di sapere intercettare e interpretare le pulsioni profonde, ma anche gli interessi degli elettori veneti e lombardi che costituiscono un patrimonio cospicuo di voti per la Lega. Con molti sondaggi credibili che danno il centro-destra competitivo a livello nazionale, non c’è dubbio che Salvini saprà spendere l’esito referendario sul tavolo dell’assegnazione dei collegi del Nord. Insomma, il venticello del Nord soffia nelle vele della Lega, ma moltissimo rimane da prospettare e da fare per chi vorrà rimettere mano all’ordinamento regionale italiano in un’ottica non provinciale, ma europea.

Pubblicato AGL il 24 ottobre 2017

Referendum anticipo delle urne

“iPerché” di Impaginato, risponde Pasquino:
referendum anticipo delle urne, Renzi ha perso la testa.

Il referendum nel lombardo veneto? Utile senza’altro ad alzare i toni contro il governo, una sorta di anticipo della prossima campagna elettorale, ma Matteo Renzi e il Pd hanno perso la testa. Così il prof. Gianfranco Pasquino, uno dei massimi politologi italiani, docente di scienza politica all’università di Bologna, nonché adjunct professor al Bologna Center della Johns Hopkins University.

Antonio Polito sul Corriere della Sera scrive che la voce del nord va ascoltata: il referendum è stato lo strumento giusto?
Non era certo lo strumento per ascoltare, ma solo per alzare i toni contro il governo nazionale e spia di una certa visione di regionalismo straccione che sta imperando in Italia. Era anche il momento giusto perché la Sicilia sta andando verso le sue elezioni in una condizione economica e gestionale disastrata. Quindi si apre una sfida, anche se non ho ben capito cosa hanno voluto dire gli elettori. Ma di un’altra cosa sono sicuro: i veneti vogliono che la maggior parte delle loro tasse resti lì. Il classico egoismo di taluni settori del nord, spiegabile perché sono esasperati dal modo in cui i loro soldi sono poi utilizzati a livello nazionale.

È vero che da oggi in poi ci sarà questo big bang di riforme istituzionali di stampo federalista?
Semplicemente la Lega sta per tornare al governo. Questo è un segnale politico: sia Zaia sia Maroni, ma il primo più del secondo, sono in grado di mobilitare una parte cospicua dell’elettorato, portarla alle urne per votare sì e per molte buone ragioni. Sperano (Salvini in primis) che ciò sia un trampolino di lancio per le prossime politiche. Se dovessero vincerle allora dovranno, in qualche modo, fornire una risposta a questo tipo di domande.

Perché dice in qualche modo?
Perché siamo in presenza di una situazione dall’enorme complessità: non può essere certamente solo una questione di soldi, ma di competenze. Bisognerà che, chi sarà preposto a negoziare con loro, accetti che alcune competenze in più vadano a Lombardia e Veneto, purché ci siano garanzie in grado di essere esercitate.

Questo potere di negoziato per le singole regioni potrà minare l’unità nazionale?
La nostra è un’unità nazionale abbastanza debole, fluida e gelatinosa. Non è rigida per cui si dà un colpo e un pezzo se ne va. Ma si continuerà a trattare credo senza grandi idee, anche perché non ci troviamo di fronte a degli straordinari pensatori federalisti. Mi riferisco a persone che siano in grado di indicare come ristrutturare lo Stato Italiano in maniera federale: e purtroppo non ne esistono in Italia

Per cui la questione settentrionale e quella meridionale come si affrontano?
Dobbiamo renderci conto che la vera battaglia italiana non è relativa alla ridistribuzione di risorse all’interno del Paese, quanto piuttosto a come stare in Europa, quindi come utilizzare al meglio tutte le opportunità che l’Ue offre ai membri virtuosi.

Dal momento che, come confermano le ultime posizioni nelle classifiche europee, l’Italia di virtuoso al momento fa poco, pensa che il rischio troika determinerà le alleanze post elettorali?
La Grecia è stata un caso straordinario e un caso limite, perché nel frattempo la troika ha governato il Portogallo che, nonostante grandi proteste di piazza, è rientrato nei binari giusti e sta crescendo poco più dell’Italia, da un paio d’anni a questa parte. Il Portogallo ha imparato la lezione greca, anche se Atene partiva da un punto ancora più basso. Ciò che ci importa sapere è che, se utilizzassimo al meglio i fondi Ue specialmente nel Mezzogiorno d’Italia dove nemmeno sono spesi in tempo, si riuscirebbe a far fronte, con risorse continentali, ai nostri atavici problemi creati da una contingenza di vizio italiano.

Il Pd avrebbe potuto fare una riforma diversa per non arrivare a questo referendum?
Sì. Ma il dato è che in Veneto e Lombardia il Pd è debole, e alcuni esponenti nazionali di quelle due regioni potevano essere più attenti. Penso al vicesegretario Guerini che avrebbe potuto avere qualche altra risposta, o al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina,lombardo, che cerca di minimizzare, o al capogruppo Rosato: sarebbero dovuti in quella campagna elettorale tentando di dare una curvatura diversa.

Il punto di non ritorno del Pd è nel referendum dello scorso dicembre? Compreso lo scivolone su Bankitalia, la diaspora a sinistra e, da ultimo, il ping pong Renzi-Boldrini?
Renzi ha perso la testa due volte: del governo e di se stesso. Per cui oggi si dimena in modo scomposto. Purtroppo per noi i suoi collaboratori non gli dicono nulla perché, grazie alla nuova legge elettorale, Renzi avrà la possibilità di nominare e fare eleggere un centinaio di parlamentari. Detto questo il Pd ha perso qualsiasi strategia di rilevanza, anche se non del tutto: in molti elettori serpeggia la tesi che i democrat siano comunque un argine contro la destra o contro i populismi. Ma proprio la propaganda renziana presenta traccia evidenti di quel populismo, come la proposta di voler difendere i risparmiatori contro le banche: una classica affermazione populista. Riprovevole che nessuno glielo abbia ricordato.

Pubblicato il 23 ottobre 2017

Cosa manca al centrodestra di Salvini. Parla il prof. Pasquino

logo formiche

 

Intervista raccolta da Giovanni Bucchi per Formiche.net

Salvini e Meloni pimpanti. Berlusconi spompato. Al centrodestra manca la terza gamba centrista, ossia un esponente di Forza Italia, più o meno quarantenne, che abbia la stessa capacità di trascinamento e sia un buon oratore. L’analisi del politologo che era presente in piazza Maggiore a Bologna per la kermesse voluta dalla Lega

Avanza un nuovo centrodestra. Avanza una nuova generazione di leader incarnata dal leghista Matteo Salvini della Lega e da Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Peccato però che in questo nuovo centrodestra ci sia un “terzo assente”, dato che ancora non si trova un leader giovane ed emergente di Forza Italia in grado di guidare la coalizione e gettare l’amo nell’area centrista. Questo “40enne forzaitaliota” continua a latitare perché Silvio Berlusconi non vuole cedere il passo. Nonostante l’inevitabile declino della sua forza propulsiva e aggregatrice, come si è visto oggi a Bologna.

E’ questa in sintesi l’analisi fatta da Gianfranco Pasquino dopo una mattinata trascorsa in piazza Maggiore a seguire la manifestazione “Liberiamoci e Ripartiamo” organizzata dal Carroccio. Il politologo dell’Università di Bologna, ex senatore indipendente di sinistra, in questa intervista con Formiche.net offre una lettura di quanto accaduto sotto le Due Torri, tratteggiando gli scenari futuri del centrodestra italiano.

Professor Pasquino, lei oggi era in piazza Maggiore nella sua Bologna alla manifestazione della Lega Nord. Qual è stata la sua impressione?

Piazza Maggiore era certamente piena; al di là dei numeri che daranno gli organizzatori, credo che 40mila persone ci fossero per davvero, e per Bologna non è poco. Ho visto molte bandiere della Lega, molte anche di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, assenti invece quelle di Forza Italia. Ho girato abbastanza tra la gente, riscontrando un pubblico molto variegato, fatto di persone anziane, donne di mezza età, giovani e molti uomini. Ho avuto l’impressione di trovarmi in una piazza di popolo, antagonista rispetto al governo ma senza intemperanze.

E’ stato un successo per gli organizzatori?

E’ stato un grande successo organizzativo di Salvini, che ha fatto gli onori di casa. Era una piazza leghista con due invitati di rilievo: una giovane donna romana, la Meloni, buona oratrice di piazza anche un po’ teatrale, e un uomo anziano, un po’ ripetitivo, chiaramente spompato, che dava i numeri ma che non ha più nessuna forza propulsiva e non riesce a prenderne atto. Ha parlato quasi nel disinteresse della gente.

Immagino stia parlando di Berlusconi. Il quale però ha detto che con Salvini e la Meloni può superare il 40%, si è preso pure qualche fischio ed è arrivato a paragonare Grillo a Hitler e Renzi al Duce. Che idea s’è fatto?

La narrazione berlusconiana è finita, non riesce più a dare nulla di convincente a questo Paese. La sua parabola si è conclusa, continua a ripetere le stesse cose dette negli ultimi tre o quattro anni ma prive di accenti di novità. Berlusconi non è più convincente per nessuno, oggi lo si percepiva a pelle. I suoi eccessi al microfono hanno destato qualche ilarità tra la folla, c’era intorno a me chi diceva che stava esagerando, poi ha iniziato a dare i numeri come quella storia del 40%… è stata accolta da alcune risate. Sa cosa ho fatto io?

No, me lo dica.

Ho avvertito mio figlio: se divento così ripetitivo, devi intervenire per farmi smettere!

Dopo la manifestazione di Bologna, nel centrodestra cambierà qualcosa?

Bisogna prendere atto che c’è una nuova generazione incarnata da Salvini e dalla Meloni. Però manca la terzo gamba, io parlo di un “terzo assente”, ossia un esponente di Forza Italia, più o meno quarantenne, che abbia la stessa capacità di trascinamento e sia un buon oratore di piazza. Ci manca questo forzaitaliota giovane, anche perché è evidente che né Salvini né la Meloni possono guidare il centrodestra nel suo insieme; sono di parte, anche di parti distanti tra loro, non riescono a fare una sintesi adeguata. La Meloni ha fatto un discorso nazionalista, senza eccessi e senza nessun cenno di populismo, anche quando ha parlato di islamofobia ha chiaramente fornito una visione italiana, di destra nazionale, ma non è una Le Pen perché non eccede a quel livello. Salvini invece ha aspirazioni populiste, ha mandato sul palco alcune persone a raccontare delle loro difficoltà di vita per farle attaccare il governo, ma erano poco considerate dalla piazza.

La piazza di Bologna ha incoronato Salvini come nuovo leader del centrodestra?

Se il centrodestra facesse le primarie, le vincerebbe subito Salvini, a meno che decida di non partecipare. Ma non credo proprio che le faranno. Salvini è consapevole di essere tecnicamente il capo dello schieramento, ma la coalizione con lui in testa non vince, non conquista abbastanza voti; e lui lo sa. Per questo sono convinto che cercheranno di trovare personalità differenti, come i governatori leghisti Zaia e Maroni. Anche se io continuo a pensare che il miglior candidato premier del centrodestra debba essere un esponente di Forza Italia, preferibilmente legato al mondo cattolico, che in regioni chiave come il lombardo-veneto è molto forte. Sul palco di oggi mancava proprio una figura di questo tipo. Gli serve un politico di statura medio-alta, non devono andare a cercare un giornalista o chissà cos’altro.

Si apre quindi il tema del rapporto con il centro. C’è Area Popolare, un soggetto politico magmatico e con contorni non ancora ben definiti.

La definizione di ambiente magmatico è corretta. Si tratta di un’area confusa, alla quale non si può dare un’organizzazione, ma dove si può tentare di reclutare quelli che sono leader naturali dentro al mondo cattolico. Anche il centrodestra salviniano ha bisogno di una componente di centro. Quando c’era Berlusconi, era lui che riusciva ad agganciarla e a prenderne i voti. Adesso non c’è un esponente forte di Forza Italia su cui fare leva; non a caso la Meloni oggi ha insistito molto sulla difesa della famiglia tradizionale perché sa di dover trovare voti nel mondo cattolico.

Con Salvini leader del centrodestra e Berlusconi e Meloni al traino, Renzi può dormire sonni tranquilli?

Spero proprio che Renzi non dorma sonni tranquilli e si preoccupi del fatto che se non cambia la legge elettorale, al ballottaggio si trova con uno sfidante scelto da Grillo, il che potrebbe diventare per lui parecchio problematico. Non ho alcun dubbio sul fatto che al ballottaggio con Renzi ci andrà un esponente dei 5 Stelle, così come non ho dubbi sul fatto che una parte della piazza di oggi preferirà in quel caso votare un grillino rispetto a Renzi.

Pubblicato 8 novembre 2015

Il sale delle regionali

Gli sconfitti nelle urne si celebrano vincenti con le parole. Perdendo anche la razionalità

La terza RepubblicaAlle regionali non hanno vinto tutti, ma soprattutto non tutti hanno capito che hanno perso e perché. In effetti, oltre ai sette governatori e governatrici (Catiuscia Marini in Umbria, ingiustamente lasciata in ombra), l’unico che ha davvero vinto è Matteo Salvini. Mettendo da parte i suoi temi qualificanti e i suoi toni spesso squalificanti, è anche l’unico che, con la sua incessante attività sul territorio e sull’etere televisivo e con la micidiale semplificazione comunicativa, se l’è davvero meritato. Anche se in Veneto Luca Zaia che, però, è un leghista vero, e la sua lista vanno alla grande, in Liguria Giovanni Toti (chi?) è totalmente debitore a Salvini della sua  vittoria. Le Cinque Stelle tornano a splendere sulle miserie di una politica “impresentabile” e di protagonisti mediocri e lividi e pongono le premesse per continuare nella loro corsa al secondo posto (che darà accesso al ballottaggio dell’Italicum che quelli del senno di poi cominciano a capire quanto sarebbe rischioso). Qualche piccolo risultato positivo, ma casuale, in qua e in là, consente a Berlusconi di non addentrarsi nella penosa analisi di una inarrestabile emorragia di voti. L’autunno del patriarca è triste, solitario y final. Pochi hanno avuto voglia di dirglielo, neppure con il necessario affetto filiale.

Quando si parla di Renzi e dei suoi subalterni collaboratori, la parola affetto appare del tutto fuori luogo. Neanche la parola coraggio ha cittadinanza, il coraggio di dirgli che, una volta che voglia smettere di affidarsi ad un conteggio inadeguato (cinque a due prima delle elezioni e cinque a due dopo le elezioni significano un pareggio), il conto è salato. Le due donne candidate, renziane assolute, per le quali si è speso di più, hanno perso. Inconsolabili (?) si struggono in lacrime da sindrome di abbandono. Dove i candidati del PD hanno vinto non erano (e non diventeranno) renziani. Loro sono loro. Sarà, comunque, dura per Renzi staccarsi dall’immagine, dalla personalità e dalle relazioni pericolose di De Luca. Nel frattempo, quello che si è davvero staccato, anzi, si è spaccato, è il Partito della Nazione rigettato dagli elettori alle percentuali di un partito medio-grande che non ha gli strumenti per capire il dissenso interno e per trasformarlo in appello aggiuntivo all’elettorato, scriviamola la parola deplorevole, “di sinistra”.

Qualcuno metterà nel suo archivio le parole tracotanti di Guerini, Orfini, Serracchiani. Qualcuno ricorderà anche gli insulti a Rosy Bindi. Qualcuno, invece, (personalmente sono con costoro), senza perdere nessuna memoria, porrà il doppio tema del partito e del governo. Entrambi interessano un po’ tutti gli italiani. Un partito sbrigativo, sgangherato, con, da un lato, la persistenza di baroni locali, e, dall’altro, di cacicchi imposti dall’alto, non può stabilizzare il suo consenso elettorale e usarlo al meglio. Un governo il cui capo pensa di sapere tutto, di non avere bisogno di alleati, di garantire rappresentanza alla nazione senza dovere confrontarsi con i gruppi intermedi, anzi, “disintermediandosi, né con le associazioni (destando irritazione in Locke e Tocqueville, no, non due autori di cartoni animati, ma i maggiori teorici del pluralismo e dell’associazionismo), rischia di non fare riforme decenti e di non riuscire ad attuarle. La lettura che i renziani danno della loro battuta d’arresto, imputata alle minoranze, fa cadere le braccia e costringe a pensare che fra gli sconfitti di queste elezioni non si trovi neppure un briciolo di razionalità. Che è l’indispensabile sale della tanto sbandierata governabilità. Ahi loro.

Pubblicato su terzarepubblica.it il 2 giugno 2015

Perché Renzi dopo le Regionali è (forse) più debole.

formiche

Intervista raccolta da Edoardo Petti per Formiche.net

Parla Gianfranco Pasquino.
Il politologo ravvisa nell’esito del voto regionale la sconfitta della “campagna faziosa” del premier. Parla di Cinque Stelle con il “vento in poppa” e ridimensiona le ambizioni di Salvini.

Riconferme, sorprese, vittorie sul filo di lana. I risultati delle elezioni regionali tratteggiano un panorama politico in fermento.

Per capirne le linee di sviluppo Formiche.net ha interpellato Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica all’Università di Bologna.

Dopo il voto, il governo è più forte o più debole?

Il governo tira avanti. Non è particolarmente forte, ma non è fragile poiché può contare su una maggioranza parlamentare. Chi si è indebolito – e giustamente – è Matteo Renzi. Protagonista di una brutta campagna elettorale, è stato molto aggressivo verso le minoranze interne rivelandosi incapace di allargare le adesioni al Partito democratico.

La “rottamazione” promossa dal premier si è fermata a livello nazionale senza sfondare in periferia?

Sì. La candidata governatrice più vicina al leader del Pd – Alessandra Moretti – ha perso nettamente in Veneto. Le figure che hanno vinto alla grande – Michele Emiliano in Puglia ed Enrico Rossi in Toscana – sono tutto fuorché renziani. L’aspirante presidente della Liguria Raffaella Paita è una renziana della terza e quarta ora. La neo-governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini non è legata al Presidente del Consiglio, e ha prevalso pur rischiando moltissimo. Vi è stato pertanto un effetto Renzi. Ma al contrario, nel senso di togliere consensi al Nazareno.

Il “partito pigliatutto” o della Nazione non si è materializzato. Il Pd è tornato ai voti della segreteria di Pier Luigi Bersani?

Il “Partito della Nazione” è un’invenzione di cui l’entourage del premier si è appropriata. Tuttavia, per renderla convincente non si deve rottamare tutto il vecchio che esiste nel Partito democratico. Perché molte volte “vecchio” è eguale a “capace e esperto”. E poi è necessario lanciare un messaggio con respiro nazionale, non fazioso e respingente come ha fatto Renzi.

La “sentenza” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi può aver giovato a Vincenzo De Luca in Campania?

No. Il primo cittadino di Salerno ha vinto perché è molto radicato nel territorio, anche grazie a reti di consenso clientelare. Verso di lui si è registrata la convergenza di Ciriaco De Mita. Lo scarto di voti rispetto al candidato del centro-destra Stefano Caldoro è prodotto esattamente dalle migliaia di consensi che l’ex leader della Democrazia cristiana riesce a muovere, grazie a una storia politica lunga, profonda e di successo.

Il Movimento Cinque Stelle si conferma seconda forza politica italiana. Può gongolare in vista di un ballottaggio per il governo con le nuove regole elettorali?

La formazione penta-stellata ha scelto candidati radicati nelle diverse regioni. Ha condotto una campagna efficace raccogliendo il malessere e l’insoddisfazione popolare verso il sistema politico. E lo ha fatto senza la visibilità mediatica di Beppe Grillo. È chiamata però a risolvere un problema.

Quale?

Trovare un buon candidato premier nell’eventualità di una sfida per Palazzo Chigi. Ruolo che non potrà essere ricoperto da Grillo né da Gianroberto Casaleggio. Non so se i giovani parlamentari che guidano il M5S nelle Camere potranno esprimere tale leadership.

Altro risultato lusinghiero è quello della Lega. Ma il governatore del Veneto Luca Zaia non ha il profilo protestatario di Matteo Salvini.

Zaia presenta il vantaggio di essere una persona nota e capace senza coltivare posizioni estremiste. Per questa ragione ha saputo costruire una robusta base di consenso nel centro-destra, compreso l’elettorato di Forza Italia. Ma l’immagine di Salvini conta, come rivela la sua efficacia nelle molteplici apparizioni televisive. Certo, la capacità di governo è altra cosa. Se fosse lui il candidato premier dell’area conservatrice i cittadini penserebbero quattro-cinque volte prima di votarlo.

Sommando le adesioni di M5S e Carroccio emerge una massiccia tendenza ostile all’Ue e all’euro?

È vero. Ma non sono così convinto che tutti gli elettori di Cinque Stelle e Lega vogliano uscire dall’Unione Europea o dall’area della valuta comune. I piccoli e medi imprenditori del Nord – parte rilevante del bacino di consensi delle due formazioni – sanno bene che la loro ricchezza e capacità espansiva sono legati all’appartenenza all’Ue e all’Euro-zona. Fuori delle quali incontrerebbero serie difficoltà. Pensiamo al costo che dovrebbero affrontare per cambiare un’eventuale lira italiana nel trasferimento di attività produttive in Romania o negli scambi commerciali con le aziende tedesche.

La vittoria di Giovanni Toti in Liguria segna la rinascita di Forza Italia, o è merito dell’affermazione del Carroccio?

L’elemento Lega si è rivelato decisivo nel caso Liguria. Regione dalla composizione demografica e sociale eterogenea, simile per molti versi a quella della Florida. Non a caso Stato chiave e storicamente incerto nelle campagne elettorali Usa. Ricordiamo che il Pd ligure ha vissuto una spaccatura, e con il 10 per cento conquistato dalla sinistra di Luca Pastorino avrebbe vinto. Evidentemente una componente dell’elettorato progressista tradizionale era stufo del sistema di potere creato dal precedente governatore Claudio Burlando, mentore politico di Paita.

 Pubblicato il 1 giugno 2015

I corrotti e la moglie di Cesare

“Dare i numeri” è, per lo più, un’attività molto utile. Consente di essere precisi nelle valutazioni e nelle previsioni. Obbliga tutti, anche i critici, a rimanere sul terreno della concretezza. Permette agli elettori di essere meglio informati. I numeri delle elezioni regionali sono irrefutabili. Il centro-destra si presenta con due governatori in carica. Il centro-sinistra ha una maggioranza uscente in cinque regioni. Se finisce cinque a due nessuno potrà cantare vittoria. Il resto è facilmente misurabile: sei a uno (la molto prevedibile vittoria di Zaia in Veneto) significa una leggera espansione del centro-sinistra, cioè, più precisamente, del Partito Democratico. Tutti gli altri risultati segnerebbero una battuta d’arresto del PD, più o meno brutta e pesante a seconda delle percentuali di voti ottenute dal partito regione per regione. Da molti punti di vista, i voti contano molto di più per gli altri contendenti. Nel centro-destra, il problema vero per Forza Italia è di non finire sopravanzata dalla Lega e dalla molto aggressiva leadership di Matteo Salvini e per il Nuovo Centro Destra di dimostrare una qualche presenza sul territorio che consenta di ottenere voti e guadagnare cariche. Tenuto un po’ in disparte dai mass media, il Movimento Cinque Stelle cerca di risalire la china bruscamente interrotta dalle elezioni europee. Ci sono molte condizioni favorevoli a un suo ritorno prepotente sulla scena politica. Gli scandali legati alla corruzione e l’individuazione di “impresentabili” in alcune liste elettorali costituiscono ottime ragioni affinché un elettorato giustamente insoddisfatto faccia convergere il suo voto su un movimento che si chiama fuori, che non è stato sfiorato da nessuno scandalo, che si presenta come chiaramente contro il sistema.

Anche la Presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi ha dato i numeri. Sembrano essere soltanto sedici i candidati definiti “impresentabili”, ovvero gravati da qualche condanna pregressa per fatti criminosi, non soltanto corruzione in senso lato, che avrebbe dovuto impedire loro di essere messi in lista. Se il lettore è disposto a comprendere e scusare il mio cinismo, direi che sedici sono davvero pochini poiché i candidati nelle sette regioni dovrebbero essere complessivamente più di mille. Però, fra gli impresentabili Bindi ha incluso anche Vincenzo De Luca, candidato del Partito Democratico alla carica di governatore della Campania, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. Soprattutto, De Luca è un candidato per il quale Renzi, personalmente recatosi in Campania, si è speso in un sostegno visibile. Sembra che, una volta eletto, De Luca decadrebbe subito e si aprirebbero scenari inediti fra i quali la richiesta dello stesso De Luca al Partito Democratico di Renzi di cambiare la legge Severino. In linea con la mia argomentazione, anche De Luca sembra dare i numeri. Invece di una legge ad personam, De Luca chiede una modifica ad suam personam. Anche questa è una brutta situazione: sacrificare la legge Severino, che è una legge buona e importante, per consentire a De Luca di fare, se eletto, il governatore della Campania.

Gli antichi romani, che se ne intendevano, sostennero che persino la moglie di Cesare doveva essere al disopra di qualsiasi sospetto. A maggior ragione, il curriculum, ovvero il cursus honorum, la carriera di Cesare doveva essere impeccabile. Insomma, anche coloro che non vogliono adottare i rigorosi criteri delle democrazie scandinave, di lingua tedesca e anglosassoni, per paura di essere accusati di esterofilia, dovrebbero ricordarsi dell’esempio romano e metterlo in pratica senza paura di essere accusati di “giustizialismo”. Sarebbe meglio per quasi tutti, certamente, per i molti cittadini italiani che ritengono che la corruzione non solo corrompe, ma impone costi pesantissimi alla società, all’economia e al sistema politico. Poi, i risultati delle elezioni in mano, vedremo anche quanto gli elettori sono stati sensibili al tema dell’integrità dei candidati e dei loro partiti.

Pubblicato AGL 31 maggio 2015

Le alleanze delle sparse membra

Non è un semplice e ininfluente “gioco” dei politici sapere chi si allea con chi, come e quando. Dalle alleanze elettorali si può imparare molto sulle preferenze dei partiti e sugli interessi che intendono rappresentare e difendere. Dal tipo di alleanze discende anche la possibilità che quei partiti sappiano governare insieme in maniera duratura ed efficace. E’ un vero peccato, forse un errore, sicuramente una forzatura che la proposta di riforma elettorale del governo Renzi e del suo ministro Boschi si sia assestata su un cospicuo premio in seggi da attribuire alla lista o al partito che abbia ottenuto il 40 per cento dei voti, da solo, oppure abbia ottenuto più voti nel ballottaggio. Questo meccanismo impedisce la formazione di coalizioni e di apparentamenti per il ballottaggio, mentre gli apparentamenti, dovrebbero saperlo tutti, sono la norma positiva nelle elezioni per i sindaci dei comuni con più di 15 mila abitanti. Guardando fuori dei “sacri confini della patria”, tutte le democrazie parlamentari europee, con l’unica eccezione della Spagna, hanno governi di coalizione. Qualche volta questi governi sono fatti da alleati non proprio “naturali” come quello guidato da Tsipras grazie anche al sostegno della destra anti-europea dei Greci indipendenti. Le coalizioni servono, da un lato, a dare maggiore rappresentatività al governo, dall’altro, a moderarne (che non vuole dire rallentarne) l’azione obbligandolo a tenere conto di un arco più ampio di aspettative, preferenze, esigenze.

Nel 1994 il miracolo politico di Berlusconi, che lo portò alla vittoria elettorale e al governo, consistette nella costruzione di due coalizioni: al Nord, il Polo della Libertà con la Lega; al Centro-Sud, il Polo del Buongoverno con Alleanza Nazionale. L’elemento di forza della leadership berlusconiana stava proprio nella sua capacità di mettere insieme partiti nient’affatto vicini su molte tematiche e, così facendo, di vincere e rivincere le elezioni. Da qualche anno a questa parte, Berlusconi sembra avere perduto questa sua importantissima capacità. Ha perso un pezzo di Forza Italia che, con Angelino Alfano, ha dato vita al Nuovo Centro Destra. Vede che quel che rimane di Forza Italia si divide sulla sua leadership, sfidata platealmente da Raffaele Fitto, anche perché è lui, Berlusconi, a non sapere dare la linea e a costruire alleanze potenzialmente vincenti. In due regioni, Campania e Veneto, Berlusconi deve fare i conti con la necessità e l’urgenza di coalizzare in maniera convincente gli alleati di un tempo. Una politica di vaste alleanze potrebbe rendere competitivo tutto il ricompattato schieramento di centro-destra anche in Liguria.

Confermare il centro-destra alla presidenza della Campania sarà quasi impossibile se Berlusconi non riesce a convincere colui che sembrò essere, per un tempo alquanto breve, il suo delfino, Angelino Alfano. Produrre la rielezione del leghista Luca Zaia alla Presidenza del Veneto richiede non soltanto che Forza Italia accetti di allearsi con la Lega aggressiva e lepenista di Matteo Salvini, ma che sia evitata la presenza di una Lista guidata dal popolare sindaco, lui pure leghista, di Verona, Flavio Tosi. Il Berlusconi di una decina d’anni fa avrebbe già trovato il modo di blandire, persuadere, coordinare e, alla fine, ricompensare generosamente tutti i suoi potenziali alleati nell’ambito del centro-destra. Le sue esitazioni attuali e le sue incertezze hanno creato molte delusioni persino fra i collaboratori più stretti e più fedeli. Le sue speranze che i potenziali alleati rinsaviscano e tornino a casa riconoscendo che è ancora lui l’unico che può federare il centro-destra non trovano conferma né fra gli esponenti del Nuovo centro-destra né in Matteo Salvini che, anzi, vorrebbe contare i suoi voti per conquistare la leadership di tutto lo schieramento. Però, un Salvini che antagonizza e non coalizza non è in grado di supplire alle declinanti forze di Berlusconi. Purtroppo, un sistema politico nel quale sia per ragioni politiche sia per scelte istituzionali, le sparse membra dell’opposizione non si ricompongono in un’alternativa credibile, perde un potente stimolo al buongoverno.

Pubblicato AGL 17 marzo 2015