Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, commenta il voto in Toscana e analizza quanto accade nel Pd, con Paolo Gentiloni che negli scorsi giorni ha chiesto a Schlein «un chiarimento» con il M5S. «Penso che Schlein volte prende posizioni che non mi piacciono ma per sfidarla servono posizioni chiare e precise che al momento ha solo una piccola minoranza guidata da Pina Picierno – dice – Dopodiché un partito deve avere una linea molto chiara sulle questioni più spinose come appunto l’Europa e l’Ucraina, cosa che in questo momento non avviene».
Professor Pasquino, in Toscana Gianiha stravinto e il Pd è ampiamente primo partito: segno che Schlein può dormire sonni tranquilli alla guida dei dem?
I toscani, come i calabresi e i marchigiani, votano sulle questioni che riguardano la Regione e scelgono il loro candidato presidente in base alla persona. Tutto il resto, cioè i Pro Pal, l’idea che possa in qualche modo contare la politica internazionale sulle questioni interne e regionali, esiste solo nella bolla mediatica. Detto ciò, Schlein è la segretaria eletta attraverso le primarie e gli sfidanti se vogliono devono chiederne le dimissioni e proporre le primarie come controllo sul suo operato.
Eppure nel fine settimane Paolo Gentiloni ha detto che serve un «chiarimento» con il M5S sull’Europa, sull’Ucraina, insomma sulla politica estera: che ne pensa?
Penso che Schlein volte prende posizioni che non mi piacciono ma per sfidarla servono posizioni chiare e precise che al momento ha solo una piccola minoranza guidata da Pina Picierno. Dopodiché un partito deve avere una linea molto chiara sulle questioni più spinose come appunto l’Europa e l’Ucraina, cosa che in questo momento non avviene.
Il guru dem Goffredo Bettini dice invece che serve un chiarimento interno al partito, più che con il M5S: che ne pensa?
Bettini non voglio commentarlo. Mi chiedo perché debbano rivolgersi a un guru esterno. Un partito, come diceva il compagno Gramsci, è un intellettuale collettivo e sicuramente la linea al Pd non può darla Bettini ma neanche Cacciari o Canfora. E neanche Albanese.
Casa riformista può essere il progetto centrista che manca alla coalizione?
Il centro è un luogo geografico, per diventare un luogo politico dovrebbe avere politiche chiare e specifiche che invece vengono messe in secondo piano dagli ego di Renzi e Calenda ma anche di Lupi, dall’altra parte. Quindi i centristi possono avere qualche voto, ma non sono decisivi. Come sarebbero invece i Cinque Stelle che però perdono voti di qua e di là con Conte che ha preso posizioni estremiste che renderanno difficile un governo con il Pd.
In Campania De Luca dice che il Pd sta buttando al vento tutti i suoi voti regalando la Regione al M5S per sostenere Fico: ha ragione?
No, perché quando si fanno le alleanze bisogna cedere qualcosa. E Fico è il meno grillino possibile, ha poco a che vedere con Conte, ha imparato moltissimo facendo il presidente della Camera e sostanzialmente è un progressista. Non è un grillino imprevedibile con punte di antipolitica. Insomma, Fico ha complessivamente la consapevolezza della complessità della politica e non è un terribile semplificatore come il grillino medio.
Renzi insiste sul fatto che il campo largo può vincere solo con un centro forte, che faccia da contraltare al M5S… Ribadisco: al centro ci si va in maniera politica. Bisogna trovare tematiche attraenti anche per elettori grossomodo moderati di centro ma che devono andare bene anche al Pd. Perché attenzione: il lavoro che il Pd deve fare non è spostarsi al centro ma trovare tematiche giuste per allargare il proprio bacino elettorale. E ci sono due tematiche sulla quali mi pare che non ci siamo.
Cioè?
La prima è quella dell’ordine pubblico, sulla quale sinceramente non mi ritrovo con il Pd di oggi. Spaccare vetrine per sostenere la Palestina è una stronzata, tecnicamente parlando. L’altra è che questo paese ha bisogno di crescere in maniera significativa e quel che conta è l’istruzione. In questo Paese non ci sono investimenti in istruzione ma bisognerebbe sapere come sfruttare tutte le nuove potenzialità a cominciare dall’IA. Non serve assumere insegnanti e basta, ma serve assumere insegnanti specifici e formati. Se non ci sono bisogna prepararli in maniera molto urgente e se ci sono bisogna assumerli, pagarli meglio e farli circolare.
Che siano alquanto meno o poco più del 10 per cento i voti degli elettori del “nuovo” partito, si può dire?, delle 5 Stelle saranno indispensabili a qualsiasi aggregazione elettorale e politica che voglia essere competitiva e davvero alternativa al centro-destra. Chiamato direttamente in causa, ma la domanda non c’era nella deliberazione fra gli iscritti conclusa domenica, Giuseppe Conte si è dichiarato “progressista indipendente”. Via all’esegesi. Che progressista si contrapponga a conservatore non ci piove. Che, chiaramente, l’attuale governo oscilli tra dure politiche conservatrici e irrefrenabili pulsioni reazionarie è difficile metterlo in dubbio (anche se non mancheranno i buoni samaritani “di sinistra” che si affretteranno a puntualizzare diversamente, qualunquemente). Che, infine, il significato specifico e i contenuti concreti sia del progressismo sia dell’indipendenza meritino precisazioni non solo professorali (tutte nelle mie corde!), ma in special modo politiche è il problema da risolvere. Bisogna farlo, primo, non lasciandolo soltanto a Conte; secondo, sapendo a quali interlocutori ci si vuole rivolgere.
Gli interlocutori sono almeno due: primo, dirigenti, attivisti e elettori che si collocano nel, lo debbo proprio dire, “campo” progressista, e, secondo, quei molti elettori che si collocano nel campo, da qualche tempo molto affollato, astensionista. Può ben darsi che gli elettori astensionisti, un bell’ossimoro, siano già stati nel recentissimo passato elettori del Movimento 5 Stelle più per l’opportunità della protesta che per l’attrattività della proposta. Invece di andare a caccia degli elettori che da qualche tempo convergono sul Partito Democratico, Conte dovrebbe tentare il recupero di molti di quegli astensionisti.
La posta in gioco è il prossimo governo, la proposta è il rilancio di alcune politiche dei 5 Stelle sia economiche, la povertà è tutt’altro che abolita, sia politiche, è molto utile ripetere “onestà onestà onestà”, meglio se con una declinazione non populista (popolo immacolato contro elite corrotte) sia istituzionali. Aperta la scatoletta parlamentare del tonno, come rivederne poteri e compiti in sé e nei confronti del governo che, consenziente la sua maggioranza, svilisce le attività di controllo e di rappresentanza che caratterizzano i parlamenti migliori, può diventare un contributo in grado di acquisire visibilità e consenso.
Qualcuno suppone e teme che l’obiettivo dell’indipendenza del Conte progressista sia quello di tornare a fare il Presidente del Consiglio. Competition is competition: l’obiettivo è legittimo, ma in discussione sono le modalità con le quali perseguirlo e, ancor di più, conseguirlo. Con qualche mugugno nel centro-destra si è addivenuti al criterio del “chi ottiene più voti”. In democrazia, in tutte le democrazie parlamentari è il criterio meno controverso, sostanzialmente applicato quasi senza eccezioni e, quel che più conta, maggiormente apprezzato dagli elettori. Comunque, Conte può perseverare nella sua ambizione nutrendola non soltanto con proposte programmatiche originali, indipendenti, ma con la strutturazione del nuovo partito sul territorio. L’abolizione del limite dei due soli mandati elettivi è forse stata sottovalutata nei suoi effetti, ma non da Grillo. Il “creatore” del Movimento vi si è frontalmente opposto perché in assenza di limiti alla rielezione in tempi relativamente brevi si andrebbe formando un gruppo dirigente esperto e competente sul quale lui non avrebbe avuto più nessun controllo. Comunque, ci sarà molto da studiare, imparare, fare. Conteranno le capacità di reclutamento a livello locale prima che nazionale e i criteri di selezione, ma la strada è aperta. Non importa quanto indipendente, il progressista deve cercare di percorrerla con il maggior numero di amici e alleati leali.
Professor Pasquino, ieri la segretaria dem Schlein da Pomigliano si è espressa su Stellantis chiedendo a Elkann di essere audito in Parlamento, Conte e Calenda lo avevano già fatto. La sinistra sta tornando tra gli operai?
Già il fatto che si parli di ritorno è preoccupante perché vuol dire che si erano dimenticati degli operai da molto tempo. Davanti alle fabbriche dovrebbero starci in primis i sindacati, altroché che chiamare alla rivolta sociale. Per quanto riguarda Conte, lui va tra gli operai per cercare di ottenere un minimo di consenso soffiando sulle proteste, mentre Schlein dovrebbe avere contatti più frequenti e organizzati. Dovrebbero esistere figure nel partito che curano questi rapporti, perché farsi vedere davanti ai cancelli ogni tanto non serve a granché.
Pensa che i recenti attacchi di Conte al Pd derivino dal fatto che, vista la faida interna con Grillo, l’ex presidente del Consiglio si senta un po’ un leone ferito?
Chiamare Conte leone mi pare eccessivo … Il leader M5S rilascia dichiarazioni, ma non c’è alcuna sostanza nelle sue frasi. Dice che è progressista ma non di sinistra ma non c’è progresso se non si sta a sinistra, visto che la destra è solitamente conservazione. Conservazione anche di cose buone, per carità, ma il progresso sta a sinistra, nel tentativo di cambiare le cose. Se dice che non è a sinistra allora non è neanche progressista. Dopodiché Conte interpreta un elettorato che in parte è progressista ma non tutto, perché una parte è qualunquista e anzi il M5S nasce proprio con questa chiave del no a tutto. Tanto che oggi la guerra con Grillo è proprio sull’anima del Movimento, su quel che il M5S deve essere. Se si abolisce il limite dei due mandati si apre a una nuova classe politica rispetto a quella del primo M5S. Ma ricordiamoci che il 5-6 per cento dei voti è necessario a qualsiasi coalizione di centrosinistra se vuole vincere.
Un’eventuale scissione di Grillo creerebbe danni a Conte?
Diciamo che porterebbe all’indebolimento di entrambi. Anche perché non è che se Grillo fa la scissione allora riporta il M5S al 20-25 per cento. Anzi. Ma il partito di Conte perderebbe molti attivisti. Sarebbe la fine dell’illusione che si potesse tenere sulla corda quel 30% di elettori portandoli su alleanze varie, prima con la Lega e poi con il Pd, sempre al traino di Conte che non essendo né carne né pesce va bene per tutto. Ma è appunto un’illusione che dura un mandato, perché poi rivela tutti i suoi limiti.
Dunque Conte non dovrebbe temere il voto di questi giorni?
Stiamo dando a Grillo, Conte e il M5S un’importanza che non ha. Si tratta di un partito del 10% che forse perderà ancora voti. Grillo forse cercherà di ostacolare Conte ma non sappiamo nemmeno se ce la farà. Lo stesso Conte sta perdendo visibilità e non tornerà mai al governo, perché non può fare il presidente del Consiglio se è a capo di un partito con meno del 10%. Insomma, lasciamoli lacerare al loro interno, poi con quel che resterà torneremo al dialogo.
Chi sta invece incrementando i propri consensi è Avs: i voti di Fratoianni e Bonelli arrivano da quelli in uscita dai Cinque Stelle?
Credo che quelli che hanno votato 5S e che non lo votano più siano elettori fondamentale astensionisti. E che sarebbero stati astensionisti già nel 2013 senza i Cinque Stelle. La crescita dell’astensionismo è data da quel tipo di elettori, che sono prevalentemente giovani. Una parte di loro forse sono interessati all’ambiente o in cerca di lavoro e quindi Fratoianni e Bonelli li raggiungono, ma anche in questo caso non esagererei troppo visto che hanno comunque il 6-7%. Ma qualcosa di utile si sta vedendo.
C’è poi l’incognita della gamba moderata della coalizione: crede che anch’essa sia necessaria per la vittoria, a prescindere da Renzi e Calenda?
Anche quella serve, ma non so come si riesca a prescindere da Calenda e Renzi. In qualche modo bisogna convincerli a fare un tipo di campagna elettore e di politica che permetta di raggiungere un elettorato centrista. Ma se il loro scopo fosse quello di strappare voti al Pd, allora la sconfitta sarebbe di tutti. Devono trovare elettori moderati che però pensano che il paese debba cambiare e portarli nell’ambito del centrosinistra.
Dunque con l’obiettivo di togliere voti a Forza Italia e non al Pd …
Non solo non devono togliere voti al Pd ma non devono nemmeno criticare in maniera ossessiva le scelte del Pd. Devono delineare un’alternativa dicendo cosa farebbero loro, che tipo di visione hanno e soprattutto devono dichiararsi sostanzialmente europeisti, compreso Renzi che ultimamente ha criticato e non poco l’Europa e Ursula von der Leyen, e convincere quella parte di elettori che oggi votano Fi.
Venendo al Pd, crede che l’exploit del partito alle Regionali sia il segnale di un ritorno a un centrosinistra pigliatutto dei tempi di Renzi e Prodi?
Né l’uno né l’altro. Con Prodi l’elemento trainante era il leader stesso. I Comitati per l’Italia erano stati la grande innovazione che gli permisero di raggiungere settori della società civile importanti numericamente e per quello che rappresentavano. Nel 2014 l’elettorato aveva colto in Renzi, giustamente, la novità ma erano Europee e il Pd è da sempre considerato il partito italiano più europeista. Schlein deve tornare all’idea che il partito deve esser davvero presente nel territorio e quindi dire basta alle candidature paracadute e invece dirsi favorevole alle primarie, verso le quali resta diffidente. Insomma, non vedo ancora quel tentativo di strutturazione vera del partito.
Cosa manca perché si arrivi a quella fase?
Manca una cultura politica, se le chiedessi qual è la cultura politica del Pd non saprebbe rispondermi. E neanche gli italiani. Il Pd oggi è una cosa che sta lì grosso modo nel centrosinistra con qualche visione progressista ad esempio sul salario minimo e sulla sanità che condivido ma non saprei aggiungere altro se non l’europeismo. Quest’ultimo tuttavia con importanti cadute di stile come Strada e Tarquinio, impresentabili.
Pensa che proprio la politica estera potrebbe essere lo scoglio più alto per un futuro centrosinistra di governo?
Sul tema non capisco l’opportunismo di Schlein. Due punti a me sono chiari e sono quelli che mi distanziano profondamente dal Pd. Il primo è che si tratta di un’aggressione russa all’Ucraina, il secondo è che si tratta di un’aggressione di un regime a uno stato democratico. Poi si può discutere di come sostenere Kiev ma se il Pd non capisce i due punti fondanti c’è un problema per il partito, per i suoi elettori e per i suoi rappresentanti. Prima ancora che con gli alleati internazionali.
La trasformazione del Movimento 5 Stelle da, per l’appunto, movimento a partito, giunge forse in ritardo e suscita più interrogativi. Nato con un misto all’italiana di qualunquismo e antiparlamentarismo, non, dunque, né soltanto né specialmente, populismo, il Movimento suscitò la mobilitazione di molti attivisti e, soprattutto, elettori che, altrimenti, si sarebbero confinati per scelta e volontà nell’astensione. Sull’onda dell’antisistema, già contravvenendo al suo principio “no alleanze”, andò al governo. Privo di competenze, secondo principio “nessuno che avesse avuto cariche politiche”, il suo antiparlamentarismo, “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno”, si tradusse nella tremenda semplificazione del taglio del numero dei parlamentari. Meglio sarebbe stato tentare qualche innovazione tecnologica alle modalità di svolgimento dei lavori parlamentari. A questi lavori sicuramente non giovò la rigida applicazione del limite di due mandati, misura che impedisce la formazione di una classe politica al prezzo di privarsi di esperienze e competenze e quindi anche di influenza.
L’onda di qualsiasi movimento può rimanere alta soltanto per un certo, mai molto lungo, periodo di tempo. L’effervescenza collettiva deve sfociare in qualcosa di più solido, altrimenti svanisce in un misto di delusione e risentimento. L’azione di governo (svolta) al governo servì a mantenere effervescenza e entusiasmo per un non troppo breve periodo. In assenza di qualche forma di istituzionalizzazione, alla quale le modalità di lavoro on-line non erano e non sono in grado di contribuire, il declino diventò, ed è stato, inevitabile.
La decisione di abolire il limite dei due mandati apre una delle strade che conducono alla trasformazione del movimento in partito: associazione di uomini e donne che presentano candidature, ottengono voti, vincono cariche. Le comunicazioni e le votazioni on-line sono di ostacolo alla formazione di un comunità che agisce sul territorio, che recluta, seleziona, promuove, rappresenta e governa, apprendendo la politica, acquisendo meriti, sperimentando alleanze. La collocazione progressista “indipendente” (ma chi si definirebbe “dipendente”, eterodiretto?) deve forse essere intesa come la delimitazione dell’area nella quale si cercheranno alleanze, ma il campo progressista in Italia è già piuttosto affollato e, almeno, in parte, piuttosto propenso al litigio come strumento di differenziazione.
Se progressista implica spingere avanti la società, la cultura, l’economia, la politica internazionale c’è tutta una elaborazione da fare, anche in competizione con gli altri progressisti, nessuno dei quali mi pare particolarmente attrezzato e avanzato, una volta segnati i punti di riferimento essenziali. Almeno al di là delle Alpi ce ne sono. Di nuovo, ripeto in attesa di smentite convincenti, gli scambi on line non agevolano ricerche e confronti assolutamente necessari.
L’aggiunta nel sistema politico italiano di un protagonista disponibile a interazioni anche tese e conflittuali nel largo ambito progressista può risultare molto positiva a due condizioni. La prima è che il Partito delle Cinque Stelle affini i suoi strumenti telematici per ampliare non soltanto le opportunità decisionali, ma soprattutto la conversazione democratica intesa a comprendere le preferenze e gli interessi dei cittadini. La seconda condizione è che la competizione inevitabile fra i progressisti non rimanga confinata nel ristretto ambito degli elettori già votanti. Recuperare, motivandoli, i milioni di elettori che dal 2013 al 2018 ritennero che il Movimento 5 Stelle offriva cambiamenti reali e profondi come nessun altro e dopo se ne allontanarono, costituisce un obiettivo sistemico in grado di dare slancio e forza al partito nascente. Con beneficio della politica italiana.
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna e in libreria da poco con il suo Fuori di testa. Errori e orrori di comunicatori e politici, spiega che Conte è un problema per il M5S e che il lavoro è uno dei pochi temi che unisce il campo largo.
Professor Pasquino, l’unità delle opposizioni in piazza ieri con i metalmeccanici significa che il campo largo passa anche dai temi del lavoro?
Il lavoro è l’unico tema sul quale hanno già trovato un accordo, a cominciare dal salario minimo garantito. Certo è un tema che si può utilizzare ma da solo non basta a creare il campo largo: pone le premesse, ma rimane molta strada da fare.
Una strada che passa anche per la difesa della sanità pubblica?
Più che la difesa della sanità pubblica si dovrebbe proporre una sanità pubblica migliore, più concreta e più efficiente che preveda investimenti di breve periodo per rinnovare l’apparato e di lungo periodo perché ci si è resi conto che i medici sono necessari e quindi bisogna riformare i test d’ingresso, preparare più personale e più infermieri. Anche su questo terreno la sinistra potrebbe trovare un accordo.
Sull’immigrazione invece Pd e centristi spingono molto, meno il M5S visti anche i trascorsi con i vari decreti Sicurezza. Su questo tema potrebbero esserci dei problemi?
Potrebbero essercene e potrebbero anche essere in qualche modo esaltati ricordando a tutti che l’immigrazione non la risolve alcun paese europeo da solo. Serve una soluzione che sia effettivamente europea e che sia rispettata in tutti i paesi. Una soluzione per la quale bisogna superare i veti dei sovranisti e poi tradurla in concreto anche in Italia.
Politicamente quanto sono importanti le prossime Regionali per il futuro del centrosinistra?
L’alleanza deve essere costruita di volta in volta, in una regione se ci sono le Regionali, nei comuni se ci sono le Comunali. Nella speranza che creandola si crei anche uno strumento attrattivo per quegli elettori che non votano più. Bisogna anche vedere se si creano delle leadership delle quali gli elettori si fidino. Per tutti questi motivi le prossime Regionali sono molto importanti. Vedremo come va in Liguria, ma tutte queste tappe sono decisive perché si possono anche offuscare le differenze, mettendo ad esempio Renzi all’interno di una lista civica a sostegno di una candidato governatore, come in Emilia- Romagna. Ma bisogna esserci tutti e questo significa che ciascuno deve rinunciare a qualcosa.
Renzi ha rinunciato al simbolo, a cosa dovrebbe rinunciare il M5S?
Il problema principale del M5S è Conte. Il quale crede di poter tornare a fare il capo del governo mentre le cifre e le percentua-li sono chiare. Se mai l’alleanza del centrosinistra riuscirà ad avere abbastanza voti il premier deve essere espressione del partito più grande ed è molto difficile che il M5S superi il Pd. Deve prendere atto che è il secondo e rassegnarsi ai posti di potere che spettano al secondo.
Una sconfitta in Liguria sarebbe un duro colpo per il Pd, dopo la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Toti?
La Liguria è diventata importantissima perché se dovesse venire meno il sostegno di coloro che valutano negativamente quello che Toti ha fatto ciò implicherebbe un colpo di arresto non solo alle opinioni ma alle preferenze e alle speranze del centrosinistra.
Molti criticano la scelta di candidare Orlando: che ne pensa?
Orlando è spezzino e ha una storia politica ligure anche abbastanza lunga. È uomo capace ed è stato anche un buon ministro quindi credo sia il candidato migliore in queste circostanze. Non credo sarebbe una sua sconfitta ma di chi non riuscisse a trovare voti aggiuntivi che di solito vengono dagli astenuti.
Abbiamo parlato dei motivi che uniscono il campo largo: da dove potrebbero arrivare invece i problemi?
Beh, la politica estera potrebbe essere un problema ma dopo aver vinto la campagna elettorale, che certamente non sarà condotta su quello, visto che non p nemmeno una priorità per gli elettori. Schlein dovrebbe invece impostare il discorso sulla politica europea, terreno sul quale Conte è ambiguo e debole. Poi certo non si può guidare l’Italia con una politica estera zoppicante, basti pensare all’Ucraina e al futuro del Medio Oriente, oltre che di Israele.
Dopo le Europee Schlein si goduta un partito in salute: è ancora così?
Nel Pd vedo dei problemi che ci sono ma che riguardano il partito solo di riflesso. Nel bene, che è parecchio, e nel male, che comunque c’è, il Pd rappresenta un elettorato diviso su alcune questioni a partire dalla guerra, sia nel sostegno all’Ucraina sia nel sostegno a Israele. Schlein ha accettato di barcamenarsi e secondo me si è spinta un po’ troppo a favore di coloro che dicono basta a Zelensky e che criticano Israele. Ma la capisco, perché non può lasciare campo aperto a Conte che su entrambe le tematiche è su posizioni ben distanti da quelle del Pd.
Parla Gianfranco Pasquino: “La lezione del Sud è che il campo si allarga se la coalizione è fatta bene”
In provincia di Bolzano avanza l’estrema destra. Crolla la Lega che viene doppiata da Fratelli d’Italia. Nella provincia autonoma di Trento i meloniani moltiplicano per dieci i voti di cinque anni fa, anche se calano rispetto alle politiche, e diventano il secondo partito della coalizione. A Foggia vince il campo largo con la candidata del M5S, Maria Aida Episcopo. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna.
Professore come si deve inquadrare la vittoria di Foggia. È un caso isolato o il segnale che quando le opposizioni sono unite un’alternativa alla destra c’è? “L’elemento locale conta moltissimo. Il fatto che Giuseppe Conte (leader del M5S, ndr) sia esattamente di quella zona ha una certa importanza. Però è ovvio che se l’opposizione riesce a mettersi assieme in maniera non conflittuale e senza rivendicare successi in anticipo ha possibilità di vincere. Dunque è un fatto locale da un lato, ma dall’altro anche una lezione di tipo nazionale. La politica consiste nella capacità di fare delle coalizioni stabili e che abbiano obiettivi condivisi. Questo è quello che bisogna fare. Il campo si allarga se la coalizione è fatta bene”.
Come si stanno comportando il Pd e il M5S nell’opposizione alle destre? “Non stanno dando il peggio di sé ma non stanno neanche dando nessun segnale particolarmente originale e innovativo. Non hanno cioè la capacità di trovare i punti sui quali fare leva. Uno l’hanno trovato ed è il salario minimo e secondo me su quello devono continuare a insistere. Poi devono trovarne altri con una proposta. Il salario minimo ha il vantaggio di essere una proposta con una soluzione. Se ci si limita a dire che bisogna cambiare la sanità non basta, bisogna che dicano in che modo. Lo stesso sull’immigrazione. Giusto fare l’opposizione su punti specifici però servono proposte che siano effettivamente alternative. Bisogna sapere. in poche parole, unire la critica alla proposta e alla soluzione”.
Come giudica invece il risultato per il centrodestra da queste ultime elezioni? “Il centrodestra rivela che continua a essere la maggioranza di questo Paese, di quelli che vanno a votare. E la parte che va più avanti è quella di Giorgia Meloni, perché FdI è un partito sul territorio e, in particolare, a Bolzano e a Trento vicino a una parte di elettorato di destra. E poi perché è il partito della presidente del Consiglio e quindi ha maggiore visibilità. Matteo Salvini (leader della Lega, ndr) fa sparate quotidiane ma non ha una linea politica. È semplicemente ondeggiante e questo non può sperare che produca voti”.
Si può dire che la vicenda umana di Meloni abbia finito per rafforzarla? “Si può anche dirlo ma non abbiamo molti elementi per farlo. Certamente un elemento di simpatia di una parte di elettorato magari più emotivo può esserci stato. Lei ha preso una decisione brusca e brutale che sicuramente non l’ha indebolita”.
In occasione della festa di compleanno del suo governo, Meloni ha sostenuto che contro di lei ci sono state meschinità mai viste. Con chi ce l’aveva? “Non lo so. Sicuramente c’è una parte di commentatori politici che ha posizioni pregiudiziali contro di lei. Alcune donne in particolare. Meloni invece è una donna politicamente molto intelligente e anche capace, molti la criticano anche per quello. Certe volte però, bisogna anche dire, che Meloni esagera a fare un po’ di vittimismo: dovrebbe rimanere dura e pura”.
Nel fuori onda sul suo ex compagno reso pubblico da una rete Mediaset vi legge una sorta di ritorsione della famiglia Berlusconi e di Forza Italia? “Sono incline a non pensare a piccole vendette e ritorsioni. Anche se ci sono elementi di personalismo. Meloni che, secondo i berlusconiani. è stata creata da Silvio Berlusconi, tesi peraltro sbagliata, non è stata sufficientemente generosa e rispettosa nei confronti di Berlusconi. Capisco il risentimento. Però penso che non sia ricambiato in maniera così stupida dai berlusconiani e dalla famiglia”.
C’era un conflitto di interessi che ha finito per schiacciare la premier considerando che il suo compagno si occupava anche di politica? “Le parentele non mi piacciono, bisognerebbe guardarsene. Poi mi ricordo però che Hillary Clinton era la moglie del presidente degli Usa, Bill Clinton. In questo caso se fossi stato Giorgia Meloni gli avrei detto al mio compagno di continuare a lavorare a Mediaset ma di non andare in video come Nunzia De Girolamo non doveva invitare il marito Francesco Boccia nella sua trasmissione”.
Quanto è successo svela una contraddizione in termini tra i proclami su Dio, patria e famiglia di Meloni e la sua vita privata? “Quando si entra in politica lo spazio della vita privata è automaticamente ridotto. Una certa incongruenza c’è. Non può ergersi a tutrice dei valori tradizionali e poi non osservarli nella sua vita privata. Ma questo lo devono e possono valutare solo i suoi elettori”.
Che bilancio fa del primo anno di governo Meloni? “La promessa del cambiamento non è stata totalmente recepita. Il governo ha in qualche modo galleggiato e cerca di attribuire questo galleggiamento ai governi precedenti e questo forse in parte può essere vero. Ma è un governo a cui do un 6 meno. Non vedo la prospettiva di fondo. Alcune cose non mi piacciono che sono quelle che riguardano i valori complessivi. Non mi piace l’atteggiamento nei confronti della magistratura e quello punitivo verso i migranti. È un governo che ha fatto meno male di quello che la sinistra temeva ma anche meno bene di quello che forse i suoi stessi elettori vorrebbero”.
Dove condurrà la competizione in atto fra Elly Schlein e Giuseppe Conte? Può essere positiva per lo schieramento anti-governo Meloni oppure è un ostacolo alla convergenza su programmi, proposte, prospettive? Altrove, per intenderci, dalle democrazie scandinave al Portogallo, alla Spagna e, fino all’avvento di Macron, alla Francia (ma il sistema istituzionale e elettorale fa molta differenza), nell’ambito della sinistra e del centro-sinistra, spesso esiste un partito chiaramente più grande in termini di voti e di consenso. A quel partito spetta indicare la leadership dello schieramento che, se vittorioso, verrà premiata con la conquista della carica di capo del governo. Al momento, secondo i sondaggi e in base ai voti del settembre 2022, la distanza in termini percentuali fra il Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle non consente al primo di rivendicare in maniera inoppugnabile la guida dello schieramento più ampio. Inoltre, impegnato nell’estendere il più possibile il suo appello politico elettorale, Conte si dimostra maggiormente orientato a competere con il PD piuttosto che a convergere. Quello che è successo con il sostegno comune al salario minimo appare un’eccezione sicuramente raccomandabile e istruttiva, da valorizzare (anche se, temo, che verrà il momento delle bandierine di rivendicazione). Quello che, invece, è finora mancato ad entrambi (di “+Europa” e “Azione” non parlo poiché mi paiono molto carenti quanto a capacità di mobilitazione) è un disegno di recupero di quel 40 percento di elettorato che per varie ragioni non è andato alle urne.
La competizione Schlein/Conte non appare l’argomento di maggiore attrattività per quegli astenuti. Anzi, da altri luoghi e da altre elezioni, sappiamo che gli scontri nella sinistra smobilitano specialmente la parte di elettori che vogliono sì un’alternativa di governo al centro-destra, ma, al tempo stesso, vogliono che quel governo sia sufficientemente coeso, con il minimo di tensioni interne e credibilmente capace di attuare le sue promesse. Altrimenti, starsene, pur tristemente, a casa per loro rimane un’opzione preferibile.
Naturalmente, la competizione Partito Democratico/Movimento Cinque Stelle è nelle cose, nei fatti, nello stato del paese. Personalmente, non sono un cantore della necessità assoluta e prioritaria di ridurre le diseguaglianze soprattutto quelle economiche. So, però, che è ai ceti svantaggiati che la sinistra, non soltanto in Italia, sembra avere perso la capacità di parlare e, talvolta, persino, la volontà di andarli a cercare. La questione dovrebbe essere posta in termini di opportunità: aprire spazi di accesso alla buona istruzione, alla buona sanità, alle buone pensioni che possono seguire ad un mercato del lavoro accessibile anche in seguito a procedure di qualificazione e di reinserimento dei lavoratori/trici. Questa, sulle idee, sui progetti, sulle soluzioni, è la buona competizione nella sinistra. Il momento giusto è ora poiché il governo annaspa nel PNRR, colpisce malamente le banche, non ha ricette di ristrutturazione del welfare. Il non originale mantra dei centrodestri è che i problemi sono stati creati dai governi precedenti. La risposta dei due partiti che in quei governi erano le componenti più importanti, oltre a mettere in questione affermazioni infondate, deve consistere in singole proposte chiare, condivise, solidariamente sostenute, quello che si può chiamare “la pratica dell’obiettivo”. Valutando i contributi agli obiettivi conseguiti, PD, M5S e coloro disposti a collaborare saranno in grado di meglio scegliere la leadership più promettente per vincere le prossime elezioni.
Intervista raccolta da Francesco Spagnolo. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica, in esclusiva a ‘Notizie.com’: “La storia del Pd è molto triste”.
Professor Pasquino, si aspettava una vittoria così netta di Fratelli d’Italia?
“Non mi aspettavo un successo così schiacciante della Meloni, ma una vittoria sì. Ha vinto alla grande e peraltro portando via voti a Salvini e a Berlusconi. Il Centrodestra grossomodo è dove lo davano le previsioni con Fratelli d’Italia più avanti perché ha strappato voti agli altri due partiti“.
Lei ha parlato di voti strappati a Salvini e Berlusconi. Questo potrebbe portare tensioni all’interno della coalizione?
“Qualche tensione ci sarà inevitabilmente perché Salvini è irrequieto, molto nervoso e invidioso e rimane con la sua ambizione. Sente che la sua carriera politica è in difficoltà e cercherà di appropriarsi di qualche tematica, essere molto presente mediaticamente. Ma penso che Giorgia Meloni abbia abbastanza larghe per controbattere, ma qualche tensione me l’aspetto. Berlusconi è in declino totale, la sua classe dirigente si sta liquefacendo e quindi non è un grosso problema“.
Possiamo parlate di Salvini e Letta come grandi sconfitti?
“Salvini sicuramente sì, secondo me Letta non è un grande sconfitto. Ha perso perché pensava di arrivare sopra il 20%, ma lo ha fatto in maniera elegante. E’ un uomo competente, che conosce la politica e non ha mai esagerato. La sconfitta non è sua ma del Pd perché i dirigenti non fanno quello che dovrebbero fare. Dopodiché Letta ha preso atto della sconfitta ed ha detto che si dimette però continua una brutta storia che si chiama Partito Democratico, che non riesce a radicarsi, trovare delle tematiche, non riesce a darsi una unità e una visione“.
Chi potrebbe essere il nome giusto per rilanciare il Pd?
“Non c’è nessun nome giusto. Credo che ci sono molti uomini ambiziosi, ma presumo che faranno un tentativo di trovare una donna. Sembra che questa sembra Elly Schlein sia chissà che cosa, ma io penso di no. Dovrebbero fare delle primarie vere e non contrattate in anticipo. La storia del Partito Democratico è molto triste“.
Il M5s ha avuto una crescita importante al Sud. Un risultato inaspettato alla vigilia per i pentastellati.
“Il fatto del reddito di cittadinanza è molto importante al Sud e quindi hanno cercato di difenderlo sostenendo Conte, ma questo non basta. Un partito che arriva al 17% può essere contento, ma ricordo che quattro anni fa era al 33% e quindi ha perso il 16% dei suoi elettori. Possono festeggiare di non essere andati malissimo, ma non possono dire di aver ottenuto un grande risultato“.
Delusione invece per il Terzo Polo e Di Maio.
“Di Maio evidentemente non si è radicato, ma nella zona di Napoli aveva dei concorrenti molto agguerriti iniziando dal fatto che il presidente della Camera non lo sosteneva. Il Terzo Polo non è mai esistito. Era una riunione degli ego di Calenda e Renzi visto che il vero Terzo Polo sono i pentastellati. Hanno anche utilizzato una caratterizzazione sbagliata e illusoria per cercare di catturare gli elettori“.
Polo dovrebbe essere una aggregazione. Allora, sia chiaro, le destre si sono effettivamente, non da oggi, aggregate, poi hanno differenze e fanno confusione, ma polo. Il campo largo è diventato un polo progressista: PD, Articolo Uno, +Europa, e vabbé. Calenda e Renzi hanno messo temporaneamente sotto controllo i loro gonfi e incomprimibili ego, ma i numeri non fanno di Azione il terzo polo, ma il quarto. Prima di loro sta il Movimento 5 Stelle. In attesa delle coalizioni fra poli.
Sconsiglio gli esercizi di comparazione con la situazione italiana fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno, e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei
Le notizie su Emmanuel Macron “sorpassato” da Marine Le Pen si sono rivelate largamente esagerate, cioè sbagliate. Le già non elevate probabilità che il Rassemblement National, almeno apparentemente diventato meno sovranista e anti-Unione Europea, riesca a portare all’Eliseo la sua leader sono chiaramente diminuite. I numeri, direbbero i francesi, cantano. Possiamo ascoltare più di una canzone. La prima è rimasta sottovoce. Quando vanno a votare quasi il 75 per cento dei francesi, tre su quattro, intonare la ripetitiva melodia sull’aumento dell’astensionismo significa, chiaramente, “steccare”. Dopodiché, ovviamente, al ballottaggio la partecipazione elettorale diminuirà poiché un certo numero di francesi, avendo perso il loro candidato/a preferito/a si asterrà- Macron/Le Pen? ça m’est égal! La seconda canzone viene proprio dai numeri. Nel pur molto affollato campo dei concorrenti il Presidente Macron aumenta i suoi voti di quasi un milione rispetto al 2017, mentre l’aumento di Marine Le Pen è di circa 500 mila. A sua volta anche Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto mezzo milione di voti in più rispetto a cinque anni fa. Tutti gli altri candidati, a cominciare dal destro Eric Zemmour, sono chiaramente perdenti, talvolta come la repubblicana gollista Pécresse e la socialista Hidalgo, in maniera umiliante più che imbarazzante.
Registrato il non troppo ammirevole affanno con il quale i commentatori italiani tentano di trarre qualche lezione francese, risulta opportuno segnalare che domenica 10 aprile si è svolto il primo turno dell’elezione popolare diretta in una repubblica semi-presidenziale. Gli elettori hanno votato, come sanno gli studiosi, in maniera “sincera”, senza nessun calcolo specifico scegliendo il candidato/a preferito/a. Al ballottaggio, invece, una parte tutt’altro che piccola di loro, addirittura quasi la metà, sarà costretta a votare “strategicamente”, in buona misura contro il candidato/a meno sgradito/a. Rimanendo nel campo musicale, il “là” lo ha già dato Mélenchon: “mai la destra”. Naturalmente, nient’affatto tutti i suoi 7 milioni e seicentomila elettori torneranno alle urne. Tuttavia, è molto improbabile che coloro che lo hanno votato perché “anti-sistema” ritengano gradevole che il sistema venga fatto cadere sotto i colpi della destra lepenista.
Non c’è quasi nulla di cui le destre italiane abbiano di che rallegrarsi. Certamente, Meloni potrebbe sostenere che con il presidenzialismo, che i suoi titubanti alleandi (Salvini e Bersluconi) non le hanno sostenuto, la sua leadership apparirebbe molto visibile (ma poi improbabilmente vincente). Non so quanto Fratoianni, sicuro anti-semipresidenzialista, voglia e possa godersi il voto conquistato da Mélenchon. Sono sicuro che Letta può tirare un sospiro di sollievo, ma saggiamente sa che, guardando oltre il ballottaggio, conteranno i voti per le elezioni legislative francesi che con molta probabilità confermeranno una maggioranza operativa per un vittorioso Macron.
In conclusione, tuttavia, sconsiglio questi esercizi di comparazione fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno (che, forse, Formiche mi inviterà a commentare) e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. “Mogli e voti di casa tua” (antico detto provenzale).