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Le inafferrabili condizioni per la fine del conflitto @DomaniGiornale


Ascolto e leggo con perplessità e grande preoccupazione tutto quello che viene detto e scritto in maniera non prevenuta e faziosa su come può/deve finire l’aggressione russa all’Ucraina. Nessuno, neppure Xi Jinping, sembra avere abbastanza potere per influenzare le decisioni di Putin, ma, forse, non abbiamo conoscenze sufficienti per sapere e capire che cosa pensa e dice il suo entourage, chi la pensa come lui chi ha dubbi e preferenze diverse. Anche se è certamente più facile analizzare le informazioni disponibili su quel che pensano e vorrebbero gli Europei e gli USA, ho l’impressione che in molti non sia ancora stata raggiunta la consapevolezza che in Ucraina, sull’Ucraina si sta “giocando” non solo la più che legittima, inviolabile sovranità di una democrazia, ma il futuro dell’ordine mondiale internazionale.
Sicuramente, all’inizio Putin voleva dare una lezione sulla potenza di fuoco della Russia, sul suo status e per il riconoscimento di un ruolo di assoluto rilievo. Oggi, proprio in seguito alle difficoltà incontrate, si è accorto che una sua eventuale vittoria, i cui criteri sono difficili da definire, potrebbe produrre frutti molto più copiosi. Non si tratta solo di ampliare il Lebensraum russo, esito temutissimo da tutti i paesi confinanti, ma di scardinare l’Unione Europea e, mostrando che gli USA non saprebbero come difenderla, rendere più largo l’Atlantico. A quel punto, indirettamente, Putin darebbe ancor più sostegno (im)morale alle mire cinesi su Taiwan.
La consapevolezza che, in effetti, gli scopi della guerra di Putin sono diventati più ambiziosi e devastanti sta lentamente diffondendosi nelle elite politiche e militari occidentali, appena ritardata dalle loro preferenze contrarie: vorrebbero che non fosse così. La partenza di qualsiasi negoziato è pertanto diventata ancora più improponibile poiché nessuno all’Ovest può accettare un nuovo ordine mondiale che certificherebbe una sconfitta, ideale prima che militare, e che ne esporrebbe tutta la vulnerabilità a qualsiasi richiesta futura della Russia di Putin. In assenza di canali negoziali, non resta che la via di una esposizione trasparente di quanto l’Occidente è, da un lato, impossibilitato a cedere, ovvero, la vita e la terra degli ucraini, e dall’altro, può garantire a Putin, non scrivo russi poiché delle loro preferenze non ho informazioni. Interpreto benevolmente, forse fin troppo, la richiesta personalistica di Macron di salvare la faccia dell’autocrate del Cremlino, purché quella faccia si mostri disponibile ad una tregua negoziale il prima possibile, nell’anniversario dell’inizio dell’operazione speciale militare. Ho già scritto, senza particolare originalità, che chi perde la guerra deve andarsene, ma, nella limitata misura del possibile, saranno i russi a decidere, meglio dopo una cessazione negoziata e definitiva del conflitto.
Pubblicato il 22 febbraio 2023 su Domani
Quanto conta Mattarella nel tempo delle destre @DomaniGiornale


Le chiavi di lettura del ruolo del presidente della Repubblica italiana possono essere, dovremmo averlo oramai imparato tutti, molteplici. Sottolineerò che la molteplicità delle possibili interpretazione e la relativa discrezionalità del Presidente costituiscono un fattore positivo per il miglior funzionamento del sistema politico italiano. Sì, quanto ho scritto è fin d’ora un avvertimento agli eventuali riformatori. La relativa discrezionalità di cui opportunamente gode il Presidente dipende, anzitutto, dalla definizione dei suoi poteri stabilita, peraltro flessibilmente, nella Costituzione. Per quanto ciascun Presidente sappia che “rappresenta l’unità nazionale” (art. 87), le differenze nelle modalità con cui hanno svolto questo compito sono state significative. Sono cresciute sia per il cambiar dei tempi e della politica sia per il grado di autonomia di cui ciascun Presidente ha potuto e voluto godere soprattutto dopo il 1994. Molto hanno contato e continuano a contare anche le convinzioni e le capacità del Presidente stesso.
Dal canto suo, fin dall’inizio del suo primo mandato il Presidente Mattarella ha inteso e fatto chiaramente intendere che desidera rappresentare l’unità nazionale non tanto e non solo in patria (!), ma anche in special modo sulla scena europea. Pertanto, le sue esternazioni e i suoi comportamenti sono orientati a porre l’Italia, a prescindere dai governi del momento, che sono già stati parecchi, e parecchi sono stati i ministri con compiti europei, nella posizione e nella luce migliore possibile. Più di chiunque altro, proprio perché sta e vuole rimanere al disopra della mischia politica, Mattarella vuole proiettare sulla scena europea la credibilità del paese di cui è Presidente.
Qualche governo e qualche ministro rendono questo compito arduo, alcuni criticando il Presidente per una presunta invasione di campo. Invece, anche se, probabilmente il Presidente preferirebbe che il termine supplenza non venga evocato, la sua azione inevitabilmente e consapevolmente apporta qualcosa di più, di necessario per la credibilità, non tanto di uno specifico governo quanto del paese (della nazione, se vi suona meglio). La lunga telefonata di Mattarella con il Presidente Macron era intesa a comunicare a Macron che i rapporti fra Italia e Francia, fra le due nazioni, debbono rimanere (ritornare) a essere improntati a reciproca amicizia. Interpretando l’unità nazionale, il Presidente non si è sostituito al governo, ma ha in qualche modo segnalato al governo Meloni che deve ridefinire qualcosa di importante nello specifico rapporto con la Francia. Tocca al capo del governo, ai ministri competenti, a cominciare da quello degli Esteri, compiere, senza mal poste critiche, il passaggio dalla indiretta predica presidenziale ad una politica più equilibrata.
Pubblicato il 16 novembre 2022 su Domani
Sovranismi e Ue, “la contraddizion che nol consente” spiegata da Pasquino @formichenews

“Prima i sovranisti del nostro stivale capiscono che gli interessi nazionali si difendono e si promuovono a Bruxelles, non (af)fidandosi agli altri sovranisti, ungheresi, polacchi, spagnoli, ma contando sui federalisti, meglio sarà per loro e per l’Italia”. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e socio dell’Accademica dei Lincei
“Mi sono sempre fatto una certa idea della Francia. La Francia non sarebbe tale senza la grandeur, così Charles de Gaulle che, da sovranista coerente, voleva una Europa delle patrie.
Confederazione europea e non Unione europea, sovranità separate che convergono nei momenti decisionali, non condivisione delle sovranità in una visione che va oltre, al di sopra, al di là delle patrie.
Mai, comunque, la preminenza del diritto europeo sul diritto dei singoli Paesi, la sovranità non è solo legge, ma sicuramente consiste anche nella superiorità delle leggi di ciascun Paese, pardon, di ciascuna patria. Rivendicare questa sovranità, oggi, significa, da un lato, non avere capito che per nessuno Stato-membro esiste l’opzione di riconquista della sovranità spontaneamente ceduta (non espropriata) a una Unione sovranazionale, dall’altro, che la sola opzione alternativa disponibile è l’uscita, exit.
Condivisione della sovranità vuole dire anche condivisione delle politiche, secondo quanto stabilito dai Trattati. Naturalmente, i sovranisti cercheranno sempre una interpretazione minimalista dei doveri che vengano imposti alla loro patria e, altrettanto naturalmente, non accetteranno nessun impegno che non derivi da doveri esplicitamente sanciti.
Nel bene, che, se esiste, è quasi impalpabile, e nel male, che è ampio e diffuso, il tema dell’immigrazione è giuridicamente trattato in maniere discutibilissima, dimostratasi costantemente inadeguata. Ciascuno e tutti i sovranisti dovrebbero essere pienamente consapevoli che trovare sponde e accoglienza dagli altri sovranisti in questa materia è alquanto improbabile e che un esito positivo può seguire soltanto da accordi raggiunti con disponibilità e generosità, forse anche con l’attesa di reciprocità, fra di loro oppure a livello europeo.
Tuttavia, se le materie sulle quali i sovranisti debbono esprimersi sono delicate agli occhi dei loro rispettivi elettorati, allora mors tua vita mea. La grandeur della Francia non può fare nessuna graziosa concessione ”nazionale” e meno che mai sentirsi dire che quella concessione era dovuta, il minimo che potesse fare. D’altronde, Macron deve tenere conto della sovran-nazionalista Marine Le Pen. Un atto di generosità può farlo con adeguato riconoscimento da parte degli italiani. Grave è che, non sentendosi abbastanza elogiato, in un lungo singulto di fiera grandeur Macron minacci ritorsioni su altri settori di competenza europea. Il suo è, in effetti, un comportamento sovranista che rischia di innescare quello che chiamerò lo scaricabarile del sovranismo con l’Italia non propriamente ben messa.
Se ciascun sovranista agisce esclusivamente in difesa o nel perseguimento dei suoi interessi nazionali di brevissimo respiro, non riuscendo neppure ad immaginare gli sviluppi successivi, in una situazione che definirò sovranismus omnium contra omnes, qualcuno vincerà poco e gli altri perderanno molto.
Non è chiaro che cosa voglia vincere il Presidente Macron tranne forse fare la faccia feroce per recuperare un prestigio nazionale, patriottico un po’ offuscato anche dalla sua coda di paglia.
Di certo, l’esternazione intempestiva e plebea di Salvini va a scapito di qualsiasi interesse nazionale, di qualsivoglia riconquista di sovranità. Prima i sovranisti del nostro stivale capiscono che gli interessi nazionali si difendono e si promuovono a Bruxelles, non (af)fidandosi agli altri sovranisti, ungheresi, polacchi, spagnoli, ma contando sui federalisti, meglio sarà per loro e per l’Italia. “Assolver non si può chi non si pente,/né pentere e volere insieme puossi/ per la contraddizion che nol consente” (Inferno, XXVII, 118-120).
Pubblicato il 13 novembre 2022 su Formiche.net
Non è vero che il sistema francese premia gli estremisti @DomaniGiornale


Sono un estimatore nella sua interezza del sistema semipresidenziale francese della Quinta Repubblica. Ha efficacemente portato la Francia fuori dalla palude (l’espressione è di Maurice Duverger) garantendo governabilità e alternanza. La sua validità è testimoniata anche dalla diffusione che il modello complessivo, con pochi adattamenti, ha avuto dal Portogallo a Taiwan, dalla Polonia ad alcuni stati africani. Pour cause. Naturalmente, è possibile riscontrare qualche inconveniente, discutibile, cioè da sottoporre a discussione, ma bisogna saperlo fare con le opportune osservazioni “sistemiche”. Vale a dire che ciascuna componente del sistema deve essere vista e valutata, correttamente definita, nell’ambito complessivo del semipresidenzialismo. Ho l’impressione che Carlo Trigilia (“Domani”, 13 aprile) sia scivolato in un serio fraintendimento guardando al sistema elettorale maggioritario a doppio turno per, alla fine, liquidarlo come inadeguato in sé e ancor più per l’Italia. Un conto è l’elezione del Presidente della Repubblica, un conto alquanto diverso è l’elezione dell’Assemblea nazionale. Sempre di doppio turno si tratta, ma quello per la Presidenza è un doppio turno tecnicamente “chiuso”: al secondo turno, correttamente definito ballottaggio, accedono solo i primi due candidati. Qui non è possibile fare nessun discorso sulla (dis)proporzionalità dell’esito. Piuttosto, è molto probabile che entrambi i candidati cercheranno di offrire il massimo di rappresentanza politica all’elettorato, pur sapendo di avere dei limiti. Alla fine, il vittorioso dichiarerà inevitabilmente che intende rappresentare tutti i suoi concittadini, essere il “loro” Presidente e toccherà agli studiosi, all’opinione pubblica, all’opposizione valutare se, come e quanto saprà tenere fede alla promessa.
Il doppio turno per l’elezione dell’Assemblea nazionale è “aperto”, vale a dire possono accedere al secondo turno tutti i candidati che hanno superato una soglia predeterminata, nel caso francese, almeno il 12,5 per cento dei voti degli aventi diritto. La soglia è alta; è stata spesso messa in discussione; sono state esplorate alternative, ma nata come 5 per cento, arrivata al 12,5, là è rimasta. Sicuramente e inevitabilmente, sovrarappresenta i partiti grandi (premio di “grandezza” non distante, ma molto diverso da un premio di maggioranza) rendendo difficilissima la vita dei partiti piccoli e sottorappresentando quelli che si collocano alle estreme dello schieramento partitico che in Francia e non solo va da destra e sinistra e viceversa. Non è affatto vero che questo doppio turno premia gli estremisti, come sembra sostenere e temere Trigilia. Al contrario, serve proprio per scoraggiarli e sottorappresentarli a meno che godano di un elevato e diffuso consenso nel qual caso, però, democraticamente vincono il dovuto. Riferirsi al successo “presidenziale” di Mélenchon e ai voti di Zemmour per sostenere che la polarizzazione è uno degli effetti deprecabili del doppio turno è semplicemente sbagliato, anche perché il doppio turno, che sarà un ballottaggio, li ha esclusi. Semmai, si potrebbe deprecare che la vittoria di Macron o di Le Pen dipenda dai voti di quegli specifici elettori etichettati come estremisti. Pronti, non tutti, lo sappiamo, ad entrare nell’arena del ballottaggio, saranno costretti a scegliere una candidatura meno estrema di quella votata al primo turno. Incidentalmente, rispetto alle elezioni del 2017, non c’è dubbio che Marine Le Pen si è deliberatamente “moderata” per conquistare voti gollisti insoddisfatti dalla républicaine Valérie Pécresse. Insomma, le critiche di Trigilia sono fuori bersaglio.
Pubblicato il 15 aprile 2022 su Domani
I populisti si riconoscono ma fanno fatica a unire le forze @DomaniGiornale


Non serve a nulla, ed è sbagliato, criticare alcuni politici, italiani e francesi (mi limito a questi due contesti) perché usano toni e argomenti populisti, al tempo stesso rimproverando partiti (il Partito Democratico, ad esempio) e leader (il Presidente Macron, altro esempio) per avere, più o meno deliberatamente o per incapacità, abbandonato il popolo. Quasi esistesse una contrapposizione netta fra chi va, populisticamente, verso il popolo (i narodniki nostri contemporanei) e chi si muove nelle Zone a Traffico Limitato. Maggiore sofisticatezza analitica offrirebbe un quadro più composito e realistico degli elettorati nei sistemi politici democratici e riuscirebbe a rendere conto di situazioni in cambiamento segnate oggi più di ieri, anche a causa di grandi migrazioni, da fattori culturali.
Prendo le mosse da una considerazione che ritengo imprescindibile. In tutti i regimi democratici esiste sempre una striscia, più o meno grande e visibile, di populismo. D’altronde, senza popolo non è possibile parlare di democrazia. Poi, sicuramente, quello che fa la differenza sono le modalità con le quali gli uomini e le donne in politica fanno appello al popolo, affermano di interpretarlo (“la gente non ci capirebbe”) cercano di mobilitarlo, in special modo, contro i “nemici del popolo”. Al popolo, però, fanno riferimento anche i nazionalisti che vogliono guidarlo, utilizzarlo e contrapporlo ad altri popoli, spesso considerati inferiori, addirittura non-popoli. Quando questo nazionalismo appare frusto e oramai privo di slancio, gli subentra, in particolare nell’ambito del processo di unificazione politica federale dell’Unione Europea, il richiamo allarmato al pericolo della perdita di identità e di sovranità. Con qualche sorpresa dei dirigenti populisti, non sembra vero che tout se tient. Di qui alcune battute d’arresto, alcuni ri-orientamenti, alcuni riposizionamenti in Italia e in Francia accompagnati da alcune regressioni elettorali.
I populisti di tutto il mondo spesso si riconoscono, ma altrettanto spesso fanno fatica a unire le loro forze. Proprio non possono dare vita a una ininterrotta rivoluzione identitaria e ripiegano nel “sovranismo in un solo paese” (il loro). Anzi, almeno i più accorti fra loro evitano di impegnarsi, se non a parole e a distanza, in troppi entusiastici riconoscimenti e approvazioni. Per alcuni populisti il richiamo al popolo viene subordinato, magari anche solo di poco, all’idea di nazione che mi pare il caso di Marine Le Pen. Altri hanno di recente provato ad accentuare il sovranismo subito “puniti” dalla necessità in caso di pandemia di cooperare per soluzioni che non si riescono a trovare negli asfittici confini nazionali. Quale nazione da sola si sentirebbe al sicuro dalle mire espansionistiche di un paese, per esempio, come la Russia?
Sapendolo leggere, il voto di milioni di cittadini “democratici” rivela qualcosa che non può mai essere spiegato da un unico fattore e per ciascuno degli elettori possono esserci differenti scale di priorità. Tanto nel voto per Jan-Luc Mélenchon quanto nel voto per Marine Le Pen esistono motivazioni populistiche, “noi, popolo dimenticato dalle élite”, ma ne segue una divaricazione immediata. L’ex-socialista Mélenchon si preoccupa, politicamente e elettoralmente, della crescita delle diseguaglianze, certamente, non al primo posto nell’agenda neo-centrista del Presidente in carica. La candidata del Rassemblement National vuole più potere per il popolo dei francesi autoctoni. Forse, populismi entrambi; certamente non coalizzabili.
Pubblicato il 13 aprile 2022 su Domani
Meglio non sballottare il voto francese @formichenews

Sconsiglio gli esercizi di comparazione con la situazione italiana fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno, e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei
Le notizie su Emmanuel Macron “sorpassato” da Marine Le Pen si sono rivelate largamente esagerate, cioè sbagliate. Le già non elevate probabilità che il Rassemblement National, almeno apparentemente diventato meno sovranista e anti-Unione Europea, riesca a portare all’Eliseo la sua leader sono chiaramente diminuite. I numeri, direbbero i francesi, cantano. Possiamo ascoltare più di una canzone. La prima è rimasta sottovoce. Quando vanno a votare quasi il 75 per cento dei francesi, tre su quattro, intonare la ripetitiva melodia sull’aumento dell’astensionismo significa, chiaramente, “steccare”. Dopodiché, ovviamente, al ballottaggio la partecipazione elettorale diminuirà poiché un certo numero di francesi, avendo perso il loro candidato/a preferito/a si asterrà- Macron/Le Pen? ça m’est égal! La seconda canzone viene proprio dai numeri. Nel pur molto affollato campo dei concorrenti il Presidente Macron aumenta i suoi voti di quasi un milione rispetto al 2017, mentre l’aumento di Marine Le Pen è di circa 500 mila. A sua volta anche Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto mezzo milione di voti in più rispetto a cinque anni fa. Tutti gli altri candidati, a cominciare dal destro Eric Zemmour, sono chiaramente perdenti, talvolta come la repubblicana gollista Pécresse e la socialista Hidalgo, in maniera umiliante più che imbarazzante.
Registrato il non troppo ammirevole affanno con il quale i commentatori italiani tentano di trarre qualche lezione francese, risulta opportuno segnalare che domenica 10 aprile si è svolto il primo turno dell’elezione popolare diretta in una repubblica semi-presidenziale. Gli elettori hanno votato, come sanno gli studiosi, in maniera “sincera”, senza nessun calcolo specifico scegliendo il candidato/a preferito/a. Al ballottaggio, invece, una parte tutt’altro che piccola di loro, addirittura quasi la metà, sarà costretta a votare “strategicamente”, in buona misura contro il candidato/a meno sgradito/a. Rimanendo nel campo musicale, il “là” lo ha già dato Mélenchon: “mai la destra”. Naturalmente, nient’affatto tutti i suoi 7 milioni e seicentomila elettori torneranno alle urne. Tuttavia, è molto improbabile che coloro che lo hanno votato perché “anti-sistema” ritengano gradevole che il sistema venga fatto cadere sotto i colpi della destra lepenista.
Non c’è quasi nulla di cui le destre italiane abbiano di che rallegrarsi. Certamente, Meloni potrebbe sostenere che con il presidenzialismo, che i suoi titubanti alleandi (Salvini e Bersluconi) non le hanno sostenuto, la sua leadership apparirebbe molto visibile (ma poi improbabilmente vincente). Non so quanto Fratoianni, sicuro anti-semipresidenzialista, voglia e possa godersi il voto conquistato da Mélenchon. Sono sicuro che Letta può tirare un sospiro di sollievo, ma saggiamente sa che, guardando oltre il ballottaggio, conteranno i voti per le elezioni legislative francesi che con molta probabilità confermeranno una maggioranza operativa per un vittorioso Macron.
In conclusione, tuttavia, sconsiglio questi esercizi di comparazione fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno (che, forse, Formiche mi inviterà a commentare) e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. “Mogli e voti di casa tua” (antico detto provenzale).
Pubblicato il 11 aprile 2022 su Formiche.net
Francia, Pasquino: “Rivincerà Macron. Boom antipolitico? Fa bene a Fratoianni” #intervista @Affaritaliani

Intervista al professore emerito di Scienza politica: “Se ci saranno scossoni per il governo, non verranno certo dalla Francia” di Paola Alagia
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica: “Nessuna influenza sui partiti di destra in Italia perché Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”
I francesi hanno archiviato il primo turno delle presidenziali. L’esito della sfida tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen è rimandato ai ballottaggi tra due settimane. E’ vero che l’attuale inquilino dell’Eliseo è in vantaggio, ma è altrettanto evidente che il consenso raccolto dal fronte dei partiti antisistema, da Le Pen all’estrema destra di Eric Zemmour, alla sinistra di Jean-Luc Mélenchon, sommati agli altri meno rappresentativi, ha superato la soglia del 50%. Quanto basta, soprattutto dopo la vittoria di Orban in Ungheria, per ringalluzzire i partiti di destra in Italia, a cominciare dalla Lega di Salvini? Affaritaliani.it lo ha chiesto a Gianfranco Pasquino. Il professore emerito di Scienza politica non ha dubbi al riguardo: “Nessuna influenza perché sostanzialmente Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”.
Professore, la partita comunque rimane aperta e il dato dell’elettorato antisistema significherà qualcosa. Che ne pensa?
E invece no. La partita non è aperta. È assolutamente poco aperta, direi quasi chiusa. A favore di Macron.
Spostiamoci in Italia. Lei, dunque, guardando al governo Draghi escluderebbe fibrillazioni come riflesso del voto francese? Mi riferisco alla tentazione del voto per esempio da parte della Lega che potrebbe portare Salvini ad abbandonare la maggioranza.
Non possiamo trascurare un elemento saliente e cioè che l’elettore è sufficientemente intelligente da capire che vota per il Parlamento italiano e quindi guarda i dati francesi con sufficienza. Da noi i cittadini, questo sì, sarebbero molto più preoccupati se Le Pen fosse in testa e Zemmour fosse andato molto bene. Comunque, i voti francesi sono francesi, punto. E quando voteremo a febbraio-marzo del 2023 saranno ampiamenti dimenticati.
Conclusione: nessuno scossone. E’ così?
Gli scossoni non vengono dalla Francia. Se ci saranno è perché ce li daremo noi da soli.
Soffermiamoci un attimo su Giorgia Meloni e Marine Le Pen. E’ vero che la leader di FdI non ha voluto un gruppo unico con quello di Salvini e Le Pen. Tuttavia, c’è qualche similitudine nella parabole di queste due donne?
La prima similitudine è appunto che sono due donne, la seconda è che sono due donne di destra che si sono fatte in qualche modo da sé, anche se Le Pen ha avuto un vantaggio, suo padre, rispetto a Giorgia Meloni. Dopodiché rappresentano due tipi di nazionalismo, ma quello francese è sempre stato molto aggressivo. A eccezione dell’aggressività ai tempi del fascismo, invece, Meloni ha saputo distaccarsene, ha usato anche le parole giuste, patriota invece che nazionalista. E comunque poi a fare la differenza è il sistema elettorale: nella Repubblica semipresidenziale francese, infatti, Le Pen convoglia i consensi su di sé.
Nel campo del centrosinistra italiano, da un lato c’è il segretario del Pd Enrico Letta che ha parlato apertamente di rischio terremoto per l’Europa e impatto sull’Italia, in caso di vittoria di Marine Le Pen. Dall’altro c’è il leader del M5s Giuseppe Conte che, invece, al netto delle differenti visioni ha sottolineato la vicinanza rispetto ad alcuni temi posti. Cosa raccontano queste sfumature?
Conte non conosce abbastanza la politica e quindi quando si esprime su argomenti che non conosce dice cose che sono sbagliate. Tutto qui.
E’ vero pure che la questione del potere d’acquisto è sentita anche in Italia. Così come è abbastanza conclamata una distanza tra i partiti di sinistra e il loro storico elettorato, non le pare?
La sinistra che non ottiene i consensi a sinistra? Non lo so. Qui il problema è a monte: dovremmo definire bene cosa sia la sinistra. Quali sono i suoi temi? Le classi popolari non hanno solo problemi economici, ma anche culturali, a cominciare dall’accoglienza, che prescinde da quella dei profughi ucraini. Una questione, appunto, che la sinistra ha affrontato malamente. C’è un multiculturalismo inadeguato e questo ha allontanato alcuni elettori.
Pubblicato il 11 aprile 2022 su Affaritaliani.it
Perché tocca all’Ue guidare le trattative tra Mosca e Kiev @DomaniGiornale


Non deve essere Macron e non deve essere Draghi. Non tocca a Boris Johnson e neppure alla pensionata Angela Merkel. Negoziare con la Russia, intermediare fra Putin e Zelensky è compito esclusivo e urgente dell’Unione Europea. Pertanto, le due autorità che hanno l’obbligo politico e etico di attivarsi sono la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Josep Borrell. Condurre ad una tregua immediata e riportare ad una situazione nella quale le armi cedano ai negoziati sarà più probabile, anche se non facile, grazie al fatto importantissimo che l’Unione Europea ha dimostrato non soltanto la sua compattezza politica, ma anche la sua volontà univoca di potenza di pace per la pace.
Avendo stabilito una pluralità di pesanti sanzioni economiche nei confronti della Russia, del suo leader, degli oligarchi, e potendo, in assenza di accordi, estenderle e inasprirle, l’Unione va al tavolo delle trattative con risorse di cui può fare uso efficace, scambiandole in maniera appropriata. Abbiamo giustamente plaudito alla inaspettata coesione fra gli Stati-membri e alle loro solidarietà in azione. Abbiamo notato che, con pochissime e limitate eccezioni, le opinioni pubbliche europee sostengono le posizioni dei loro governi. Questo significa che l’azione diplomatica dell’Unione può partire con il piede giusto e con il vigore che le democrazie hanno regolarmente saputo dimostrare nelle ore più buie. Avendo già accettato di prendere in considerazione la domanda di adesione dell’Ucraina all’Unione, il Parlamento Europeo ha segnalato al legittimo governo ucraino che gli garantirà tutti i vantaggi, che sono molti, che derivano dal diventare Stato-membro.
Poiché l’Unione è stata provatamente in grado di produrre e di mantenere la pace al suo interno dal momento della sua formazione ad oggi, la sua credibilità non dovrebbe sfuggire nemmeno a Putin. Nessun europeo pensa che l’Ucraina nella UE possa diventare una testa di ponte per attacchi alla sicurezza della Russia, una spina nel fianco. Questo implica che l’Ucraina rinuncerà a un suo eventuale, ventilato inserimento nella Nato. Non ne avrebbe, comunque, più nessuna necessità dopo un accordo chiaro fra Unione Europea e Russia. Non abbiamo modo di fare cadere i sospetti dell’autocrate russo sui possibili rischi di contagio democratico. Sul tavolo del negoziato, però, von der Leyen e Borrell non dovranno in nessun modo porre le questioni interne al regime russo. Il Parlamento europeo si è già ripetutamente e giustamente espresso a favore dei diritti degli oppositori. Lì si deve fermare. Infine, potremo continuare a auspicare che le opposizioni a Putin non siano né oppresse né represse, ma questa è un’altra storia (per un’altra volta).
Pubblicato il 9 marzo 2022 su Domani
Lezioni francesi: sistema elettorale, rieleggibilità del Presidente, candidature delle donne … #Francia
Non apprezzo necessariamente tutto quello che viene dalla Francia, ma ho sempre considerato la Quinta Repubblica, il semipresidenzialismo, le sue istituzioni e il sistema elettorale maggioritario degni della massima attenzione. I francesi eleggeranno direttamente il prossimo Presidente nella primavera del 2022. La buona notizia è che sono candidate tre donne: la socialista Anne Hidalgo, la nazionalista di destra Marine Le Pen e Valérie Pécresse che ha vinto le primarie dei Républicains, gollisti e eredi del gollismo. In Italia abbiamo, soprattutto le donne “politiche”, qualcosa da imparare.
L’occupazione ha fatto emergere anche una società civile afghana @DomaniGiornale

In Afghanistan c’erano le truppe americane, ma anche quelle della NATO nonché i soldati italiani che, notoriamente, svolgono solo missioni umanitarie (sic). Prima, con nessun successo ci furono anche i sovietici, sonoramente costretti a ritirarsi dopo alcuni anni di guerra perdente. In Afghanistan gli USA non andarono per esportare la democrazia (il tentativo fu abbozzato in Iraq un paio d’anni dopo), ma per colpire i terroristi di Al Quaeda e distruggerne i santuari. Ci sono riusciti. La maggior parte del tempo e la maggior parte delle risorse, certo, inopinatamente ingenti, furono destinate a compiti definibili di nation-building, di costruzione di strutture in grado di produrre e mantenere l’ordine politico e sociale. Pur avendo rotto i rapporti (o forse proprio per questo) con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato, Fukuyama indicò chiaramente gli obiettivi nel libro da lui curato Nation-Building. Beyond Afghanistan and Iraq (2006): addestrare e equipaggiare le Forze Armate, dotare le principali città di forze di polizia efficienti, dare vita a una burocrazia statale capace di fornire i servizi essenziali e di attuare le decisioni del potere politico, costruire ospedali e scuole, garantire il diritto a libere elezioni. Ma, come ha tanto intelligentemente quanto sarcasticamente scritto uno studioso argentino, Fabián Calle, “il potere del voto non potrà mai essere alla stessa altezza del potere dei messaggeri della volontà di Dio”.
Quella americana non era, dunque, una “semplice” e criticabile, in effetti talvolta criticata (da chi?), occupazione militare. Non aveva inspiegabili obiettivi territoriali quanto, piuttosto, l’obiettivo, idealistico (proprio così) di fare emergere una società civile, a cominciare dalla libertà per le donne e da un loro ruolo, in uno dei luoghi più impervi al mondo. Parte di questi obiettivi, come rivelano le molti voci di donne terrorizzate dalla prospettiva di ripiombare nella sottomissione violenta ai talebani, erano stati conseguiti. Certo, è giusto andare alla ricerca di una spiegazione del collasso degli apparati statali afghani. Non so se tutta la risposta sta nella enorme corruzione soprattutto dei vertici, ma credo che una nazione e i suoi apparati non siano mai facilmente costruibili laddove i gruppi etnici, a cominciare dai Pashtun ai quali appartengono i talebani, non abbiano nessuna intenzione di giungere a compromessi.
Chi critica l’occupazione militare USA non dovrebbe oggi, in maniera assolutamente contraddittoria, lamentare il “tradimento” degli USA che ritirano le loro truppe. Forse il segretario generale della NATO ha preventivamente espresso il suo dissenso rispetto alla decisione di Trump attuata da Biden? Si è levata alta e forte la voce di Macron, di Merkel e di Di Maio/Guerini? Nessuno degli analisti ha pre-visto un crollo tanto rapido e capillare quanto quello che in pochi giorni ha consegnato il paese ai Talebani. A furia di azioni umanitarie, le varie missioni europee non si erano mai preoccupate di quanti e quanto armati fossero i talebani? La delega data agli americani per i colloqui “di pace” ha implicato tappare le orecchie e chiudere gli occhi dei cooperanti, dei dirigenti, degli ambasciatori europei presenti e attivi in Afghanistan? Nessuno può mettere in dubbio che, adesso, salvare le vite e il futuro di chi ha collaborato con gli europei e gli italiani, sia l’obiettivo prioritario da perseguire. Non aggiungerò “senza se e senza ma” perché credo sia opportuno interrogarsi se la fuoruscita di tutti gli Afghani e Afghane che hanno lavorato con gli occidentali per un esito molto diverso non finisca per privare il paese proprio delle energie di cui ha più bisogno: quelle di coloro che vogliono un paese decente per donne e uomini, non schiacciato da un credo religioso e da leggi crudeli.
Pubblicato il 18 agosto 2021 su Domani