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Una vita da predicatore errante passata tra scienza e politica @DomaniGiornale #TraScienzaePolitica @UtetLibri

I maestri, le lezioni ad Harvard, una “borsa di studio” del Pci al Senato. «Dopo tanto studio e passione, sento che è un po’ diminuita la mia speranza di influenzare il dibattito. Ma molti sul mio Twitter mi rassicurano» Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)

Scrivere una autobiografia non è mai stato in cima ai miei pensieri né ai miei progetti. Però, di tanto in tanto, leggevo autobiografie interessanti: tra le quali quella dello scrittore tedesco Premio Nobel Günther Grass, Sbucciando la cipolla (Torino, Einaudi, 2007), che non mi è piaciuta; dell’importante sociologo di Harvard George C. Homans, Coming to My Senses. The Autobiography of a Sociologist (Transaction Books 1984), del sociologo politico, oppositore del regime militare brasiliano, diventato Presidente, Fernando Henrique Cardoso, The Accidental President (Public Affairs 2006). Ho conosciuto entrambi. Cardoso lo incontrai a Washington D.C. nell’inverno del 1978, poi in alcuni convegni accademici. Affittai per un prezzo davvero modico la bella casa di Homans quando insegnai alla Summer School di Harvard diversi anni a partire dal 1980. Tuttavia, i miei ricordi di vita furono stimolati da due occasioni molto distanti e lontane. Il docufilm di Nanni Moretti, Santiago, Italia, che mi spinse a scrivere per il Mulino il resoconto dei miei ripetuti incontri (osservatore parlamentare del plebiscito del 1988 e delle elezioni presidenziali del 1989; incontro con la Presidenta Michelle Bachelet nel 2009) con il Cile: Italia, Santiago (n. 1/2019, pp. 156-163).

Seguì la richiesta da parte dell’Ambasciatore Alessandro Cortese de Bosis di avere uno scritto in memoria di suo zio Lauro, l’antifascista che, dopo avere volato sui cieli di Roma lanciando manifestini contro Mussolini, scomparve nel Tirreno. Questa storia è elegantemente narrata da Giovanni Grasso, Icaro. Il volo su Roma (Rizzoli 2021). Dovevo raccontare il mio semestre a Harvard nel 1974-75 quando fui Lauro de Bosis Fellow in the History of Italian Civilization. La Fellowship, primo assegnatario Gaetano Salvemini, era stata istituita dalla compagna di de Bosi, l’attrice Ruth Draper. Fu in quel periodo a Harvard che conobbi il più giovane Mario Draghi, allora Ph.D. candidate al Massachusetts Institute of Technology, sotto la supervisione del futuro Premio Nobel Franco Modigliani. Con questi due lunghi interventi il dado era tratto. Al resto pensò il Covid-19 cancellando tutte le gratificanti conferenze live, in persona, almeno quaranta all’anno negli ultimi dieci anni, ottanta conferenze nel 2016 contro il plebiscito costituzional-personalistico di Renzi, e i relativi, talvolta non brevi e non facili, viaggi (ancora grazie a chi mi invitò a Sciacca al tramonto).

In maniera sistematica, tutti i giorni, mattina e pomeriggio, mai la sera, scrissi, non di getto, ma riflettendo, ricercando, correggendo e precisando, con l’aiuto di una lettrice attenta soprattutto perché curiosa del mio passato, la mia biografia intellettuale. Racconto quello che sono diventato come studioso e docente, come parlamentare, come collaboratore (“imprevedibile” disse uno dei direttori) di molti quotidiani, last but not least, del “Domani”. C’è qualche riferimento molto discreto e riconoscente alle donne che hanno accompagnato parti della mia vita, ma, non c’è quasi nulla, per esempio, sulle mie vacanze da adolescente a Rapallo e Zoagli, sui miei fortunosi campeggi, sulla mia inadeguatezza tanto come sciatore quanto come surfista, sulle mie escursioni turistiche dalla Sardegna alla Corsica, dalla Grecia alla Spagna al Portogallo. Sì, nonostante il mio essere integralmente torinese il Mediterraneo è il “mio” mare.

La storia inizia nella Torino del Grande Torino la cui scomparsa a Superga quel pomeriggio piovoso e grigio del 4 maggio 1949 costituisce il secondo più grande dolore della mia vita. Nella Torino i cui nomi delle scuole segnalano un passato di uomini degni del nostro apprezzamento: elementari De Amicis; medie Costantino Nigra; liceo classico Camillo Benso di Cavour, da qualche anno diventato il miglior liceo cittadino e uno dei migliori d’Italia, allora inesorabilmente dietro il D’Azeglio, il liceo di Augusto Monti e Massimo Mila, Norberto Bobbio e Giancarlo Pajetta, Cesare Pavese e Franco Antonicelli, Giorgio Agosti e Leone Ginzburg. Ai miei tempi, al Cavour la personalità più importante fu Livio Berruti, olimpionico a Roma 1960 sui duecento metri. Pochi anni dopo, Adelaide Aglietta, segretaria del Partito Radicale, coraggiosissima giurata nel processo del 1977 alle Brigate Rosse. Dopo buoni studi con professori preparati (mai perso una lezione) esigenti, ero approdato all’Università, corso di laurea in Scienze Politiche. Non proprio quello che desiderava mia mamma, cioè, un figlio laureato in ingegneria, prestigio e guadagno. La immagino lieta e sorridente al sapere che mio figlio è diventato ingegnere.

   Non mi ero mai posto l’interrogativo di che cosa avrei fatto. L’insegnamento di Storia e Filosofia nei licei mi è sempre parso attraente anche, credo, per l’influenza indiretta del mio professore di liceo, valdese, antifascista, per anni sospeso dalla cattedra durante il fascismo. Il resto lo fecero i grandi professori a Scienze politiche, in rigoroso ordine alfabetico: Norberto Bobbio, Leopoldo Elia, Luigi Firpo, Francesco Forte, Siro Lombardini, Alessandro e Ettore Passerin d’Entrèves, Guido Quazza. L’inserimento nell’accademia fu relativamente facile e rapido, piuttosto fortunato, ma anche meritato. Con un Master in Relazioni Internazionali della School of Advance International Studies della Johns Hopkins, un anno a Bologna, un anno a Washington, D.C., di scienza politica ne avevo imparata e ne sapevo abbastanza da essere reclutato da Giovanni Sartori e da cominciare a insegnare a Bologna (e anche a Firenze). Facevo anche conferenze varie in Emilia-Romagna, scrivevo articoli, partecipavo a dibattiti. Fui nominato Direttore di una ricerca sul terrorismo affidata all’Istituto Cattaneo dopo la strage alla stazione di Bologna. Poi, una somma di circostanze: divenni Direttore della rivista “il Mulino”, il mio piccolo libro Crisi dei partiti e governabilità (il Mulino 1980) fu letto da Ingrao che volle conoscermi, ad un convegno a Torino sul PCI “liocorno o giraffa” il mio intervento fu apprezzato da Giorgio Napolitano, infine, nella ricerca da parte del PCI di, lo debbo scrivere proprio così, “personalità della cultura” per il Parlamento 1983 su suggerimento di Lanfranco Turci, Presidente delle Regione Emilia-Romagna, con mia grande sorpresa (avevo praticamente accettato di andare a insegnare negli USA), mi venne offerta la candidatura. Scelsi il Senato e non me ne sono pentito. Scherzando ho talvolta parlato di una ricca borsa di studio offertami dal Partito Comunista Italiano. Lascio la valutazione ai molti dirigenti e miIitanti di partito, non quelli di Bologna che mi hanno poi regolarmente ignorato. Da Reggio Emilia a Cosenza, da San Giovanni Valdarno a Trani, da Pesaro a Treviso, da Rimini a Ferrara (elenco nient’affatto esaustivo), ancora oggi i “compagni” si ricordano di me e della mia disponibilità e io ricordo la grande maggioranza di loro come genuinamente interessati alla politica, a capire come rappresentare e come governare. Ho imparato tantissimo. Divenni abbastanza noto anche grazie al mio libro Restituire lo scettro al principe (Laterza 1985) frutto della mia esperienza nella Commissione Bozzi. Ebbi colleghi come Andreatta e Giugni, Sergio Mattarella e Eliseo Milani, Pannella e Natta, Ruffilli, il prudente Barbera e il conservatorissimo Rodotà. Tre legislature molto differenti, molte impegnative, culminate in una sconfitta nel 1996 nel collegio di Piacenza dove, oggettivamente, c’entravo molto poco. Qualche rammarico, ma tornando subito all’Università ebbi modo di scrivere quello che fu e rimane l’unico testo base di scienza politica opera di un solo autore.

   Grazie a Bobbio ero diventato da tempo condirettore del Dizionario di Politica, la cui edizione del 2004, Bobbio non ebbe modo di vedere. Grazie a Sartori diventai condirettore della “Rivista Italiana di Scienza Politica” e con il suo sostegno sono stato eletto socio dell’Accademia dei Lincei. Con il permesso accordatomi da entrambi mi fregio del titolo di loro allievo. Da qualche anno vengo invitato a talk show televisivi, non più a quelli nei quali ho blandamente corretto qualche esternazione fuori luogo del conduttore/conduttrice. C’est la vie. Rimango, come ha detto una mia cara amica sociologa tedesca, un Wanderedner (predicatore errante). Sento amaramente che è un po’ diminuita la mia speranza di avere qualche influenza sul dibattito pubblico, ma molti interlocutori sul mio Twitter (@GP_ArieteRosso) gentilmente mi rassicurano. Nelle parole di Kant “fai quel che devi accada quel che può”, spesso citate da Bobbio, trovo qualche conforto. Chi leggerà Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022) ne saprà di più e deciderà se il conforto è meritato.

Pubblicato il 11 marzo 2022 su Domani

Fisarmonica Quirinale. Pasquino sui segreti del Colle @formichenews

La “fisarmonica” resta ancora una lente utile per capire i rapporti tra partiti e presidente della Repubblica. Dal modo in cui sarà eletto il prossimo inquilino del Quirinale si avrà un’idea dei (veri) poteri del Colle nella dialettica parlamentare. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Le vicissitudini della “fisarmonica” come chiave per interpretare modalità e discrezionalità di azione dei Presidenti della Repubblica italiana mi hanno dato alcune soddisfazioni, ma hanno anche sollevato non poche preoccupazioni. Le soddisfazioni derivano dall’ampia circolazione della metafora. Le preoccupazioni discendono non tanto dalla sua attribuzione quanto dalla mancata comprensione e dalla davvero triste constatazione che tutti, e sono molti, coloro che la citano non hanno avuto la voglia di risalire alla fonte. Approfitto della cortesia di “Formiche” per procedere ad alcune puntualizzazioni. La prima, in un certo senso, discriminante è che la fisarmonica non ha nulla a che vedere, come sembra pensare Gian Marco Sperelli (Formiche.net 19/12/2021) con l’elezione del Presidente della Repubblica. Ai lettori piacerebbe sapere perché, dopo avere affermato che la teoria è “intrigante”, si affretti ad aggiungere che la “teoria [che non è tale] della funzione ‘a fisarmonica’ [è] forse poco credibile”. Meglio, dunque, precisare quel che dovremmo conoscere per procedere ad una valutazione convincente. Dopo anni di circolazione orale della metafora, ho deciso, consultatomi con Giuliano Amato, di risalire alle fonti.

    Cito da quanto ho scritto di recente nel mio Minima politica. Sei lezioni di democrazia (UTET 2020, pp. 69-70): “La buona notizia, per tutti, è che ho rinvenuto la prima evocazione della metafora. Premesso che, avendone discusso proprio con un perplesso e incuriosito Giuliano Amato, l’attribuzione originaria è certa. Sono lieto di dichiarare convintamente di averla ascoltata per la prima volta in una sua esposizione, intervento, relazione, conferenza, che, però, nessuno di noi due è finora riuscito a collocare con precisione nel tempo e nello spazio. Tuttavia, sono in grado di segnalare con quasi assoluta precisione quando per la prima volta misi per iscritto la metafora, attribuendola a lui. Lo feci in una recensione-discussione del libro di Paolo Guzzanti, Cossiga, uomo solo, Milano, Mondadori 1991, pubblicata proprio con il titolo La fisarmonica del Presidente, in “La Rivista dei Libri”, marzo 1992, con numerosi riferimenti ad altri articoli sul Presidente. Credo opportuno citare per esteso: ‘secondo Amato, già fin d’ora la Costituzione italiana garantisce al Presidente della Repubblica poteri ‘a fisarmonica’. Se il Presidente è autorevole, se la sua personalità è forte, se il suo prestigio è grande, se la sua popolarità è diffusa …. allora egli potrà allargare la fisarmonica dei suoi poteri fino alla sua massima estensione. Altrimenti … con l’elezione parlamentare, quindi contrattata fra i partiti … la fisarmonica dei poteri presidenziali rimarrà prevalentemente chiusa, tranne negli eventi di crisi, oppure subirà forzature, come con Gronchi e con Segni, con Saragat e persino con il popolarissimo, ma non per questo sempre ‘costituzionalissimo’, Pertini”.

    È poi passata molta acqua anche sotto i ponti non del solo Tevere e hanno fatto la loro comparsa ‘nuovi’ Presidenti in una situazione politica da molti punti vista molto diversa soprattutto a causa del crollo dei partiti di massa e dell’intero sistema dei partiti. Vent’anni dopo ho fatto concreto ricorso alla metafora della fisarmonica analizzando i comportamenti di tre Presidenti: Scalfaro, Ciampi e Napolitano (Italian Presidents and their Accordion, in “Parliamentary Affairs”, 2012, n. 4, pp. 845-860) mettendo in evidenza e sottolineando che quando i partiti sono solidi e compatti hanno il potere di impedire al Presidente di suonare la fisarmonica dei suoi numerosi e incisivi poteri. Iniziata tra il 1992 e il 1994 una transizione, a mio parere tuttora incompiuta, caratterizzata dal declino e dalla sostanziale e perdurante debolezza delle strutture partitiche, quei tre Presidenti (ai quali potremmo già aggiungere Sergio Mattarella) hanno goduto di enorme discrezionalità nell’uso dei loro poteri costituzionali. Ho altresì azzardato che Scalfaro e Napolitano, entrambi i più convintamente “parlamentaristi” durante tutta la loro lunghissima vita politica, sono stati incoraggiati, costretti, facilitati dalle circostanze a suonare la fisarmonica dei loro poteri in chiave definibile addirittura come semi-presidenziale. Aggiungerei che lo hanno fatto con molto gusto

   Non ho nessuna intenzione di trasformarmi in astrologo e di fare la mia previsione su chi verrà eletto Presidente. Credo, invece, che per ciascuna delle candidature finora emerse sia possibile, grazie ad un uso accorto dei criteri che definiscono la fisarmonica Amato-Pasquino, prevedere quanto spazio di autonomia decisionale quel particolare Presidente avrà, se e come intenderà usarlo, con quale impatto sui partiti e con quali conseguenze su governo e Parlamento e sul sistema politico. Mi pare significativo. Da tenere in grande conto per esprimersi fin d’ora sulle candidature in scena.

Pubblicato il 30 dicembre 2021 su formiche.net

L’Ecclesiaste for President più o meno rieleggibile @DomaniGiornale

Sostiene l’Ecclesiaste che “c’è un tempo per l’elezione del Presidente della Repubblica e c’è un tempo per vietarne l’ineleggibilità”. Da tempo secolarizzati, anche se per molto tempo democristiani, alcuni parlamentari del Partito Democratico hanno depositato un disegno di legge assolutamente intempestivo. Intendono vietare la rieleggibilità del Presidente della Repubblica, sulla scia di dichiarazioni in tal senso di Antonio Segni e Giovanni Leone, certamente non considerati fra i migliori Presidenti italiani, e eliminare il semestre bianco, il periodo nei sei mesi precedenti la fine del suo mandato nel quale il Presidente non può sciogliere il Parlamento. L’intempestività è acclarata. I disegni di legge costituzionali, come questo, richiedono una doppia lettura di Camera e Senato a distanza minima di tre mesi. Dunque, il disegno di legge primo firmatario Zanda non ha assolutamente nessuna probabilità di essere approvato in questa legislatura. Dunque, quand’anche fosse debitamente calendarizzato, è destinato a “cadere” e dovrà essere ripresentato nella prossima legislatura ricominciando da capo il suo iter. Il ddl è intempestivo anche perché il Presidente Mattarella ha più volte dichiarato la sua indisponibilità ad accettare una rielezione. Dal Quirinale hanno espresso stupore che in questa già di per sé complicata circostanza qualcuno s’ingegni a ritoccare la Costituzione, mandando non è chiaro quali messaggi a chi.

   Il ddl Zanda et al. è anche fuori luogo poiché non risolve nessuno dei problemi esistenti riguardanti le modalità con le quali si potrebbero/dovrebbero manifestare le candidature e lo svolgimento di un trasparente dibattito pubblico. Al proposito, non abbiamo nessun insegnamento da trarre da qualsivoglia conclave, luogo quant’altri mai oscuro, ricco di complotti, denso di intrighi di cui nessuno oserebbe accollarsi le responsabilità. Si dice che molti entrino papi nel conclave e ne escano scornati, chiedo scusa, ma, purtroppo, nessuno chiarisce con quali credenziali si presentino i papabili e quali sono i loro successivi percorsi. Hanno scritto libri, quei cardinaloni? Partecipato a talkshow televisivi? Sono noti influencer? Quando, più o meno ad arte, perdono le staffe, l’audience si impenna?

Nel frattempo, noto che imporre la non-rieleggibilità del Presidente significa andare contro una delle migliori qualità delle democrazie parlamentari, la loro flessibilità, la loro capacità di fare fronte alle sfide in maniera inusitata. Non troppo paradossalmente, la rigidità è, anche, talvolta soprattutto, fragilità. Quanto al semestre bianco, prima di eliminarlo, sarebbe utile raccogliere e analizzare alcuni dati. Primo, quante volte in questi più di settant’anni di vita della repubblica italiana si sono presentate situazioni nelle quali sarebbe stato opportuno che il Presidente della Repubblica sciogliesse il Parlamento e il suo non poterlo fare ha provocato gravi danni al sistema politico italiano? Non era, comunque, e non rimane preferibile che i partiti risolvano i conflitti in Parlamento invece di logorare l’elettorato con scioglimenti a raffica anche nei sei mesi finali di una Presidenza? Infine, non sarebbe forse il caso che ci si rendesse conto che il vero potere del Presidente della Repubblica non consiste nello scioglimento del Parlamento, ma nel dire “no, non sciolgo né pro né contro nessuno, e contribuisco alla soluzione del problema incoraggiando la formazione di una maggioranza che dia garanzie di stabilità politica e di operatività decisionale”. C’è un tempo per lo scioglimento e c’è un tempo per la prosecuzione. Meglio non imporre nulla.    

Pubblicato il 7 dicembre 2021 su Domani

Federatore cercasi nella politica italiana #beemagazine

Nelle democrazie parlamentari i governi sono il prodotto di coalizioni fra partiti. Le leggi elettorali utilizzate sono sostanzialmente proporzionali.

Non essendo le coalizioni pre-elettorali necessarie, i dirigenti dei diversi partiti preferiscono non impegnarsi e sono i segretari dei partiti a impostare e fare la campagna elettorale. I partiti con correnti spesso “giocano” con più punte. Capo del governo diventerà colui il cui partito ha conquistato il più alto numero di seggi in parlamento. Questa è la prassi nei sistemi politici europei: dalle democrazie scandinave alla Germania e all’Olanda.

Non viene effettuata nessuna ricerca di un federatore poiché i partiti desiderano mantenere la loro piena autonomia in previsione della formazione di coalizioni differenti nel corso del tempo e non sono disposti a sacrificare le loro specificità e la loro visibilità.

Nel molto complicato e tuttora non consolidato caso italiano hanno fatto la loro comparsa, necessitata e facilitata dalla legge elettorale Mattarella, due federatori: per il centro-destra Silvio Berlusconi nel 1994 (rimasto tale nel 1996 e nel 2001), per il centro-sinistra Romano Prodi nel 1996 (nel 2006 fu più che un federatore un revenant).

Federatore è colui che ha l’autorità e la capacità di mettere insieme diversi partiti ponendosi al vertice della coalizione pre-elettorale indispensabile per sfruttare le opportunità offerte da una legge elettorale che assegna i seggi in collegi uninominali (tre quarti del totale con la legge Mattarella).

Entrambi, Berlusconi e Prodi, provenivano dall’esterno del mondo partitico, ma non del mondo politico con il quale avevano intrattenuto, diversamente, molti rapporti importanti e continuativi.

La questione del federatore si pone oggi in Italia sia per il centro-destra sia per il centro-sinistra a causa della debolezza di entrambi gli schieramenti, aggravata per il centro-sinistra dalla sua, peraltro tradizionale, frammentazione (derivante anche dalle ambizioni di troppi piccoli leader).

Perduto Berlusconi, federatore strategico, astuto e spregiudicato, dotato di risorse in grado di soddisfare molti appetiti, il centro-destra sa che la sua “compattezza” è quasi obbligatoria e relativamente facile data la vicinanza politica delle priorità dei dirigenti e delle preferenze e interessi degli elettorati.

Stabilito che il leader, ovvero la persona da candidare alla Presidenza del Consiglio sarà chi ha ottenuto più voti, il federatore sarà l’elettorato. Nel nucleo grande della, a sua volta molto necessitata coalizione Partito Democratico- Cinque Stelle, i secondi sanno che non possono acconsentire senza colpo ferire alla candidatura “federante” di un esponente del PD. Il ceto dei professionisti della politica del PD si ritiene legittimato a guidare la coalizione e, contestualmente, a scegliere un eventuale federatore.

Molto improbabile è che faccia la sua comparsa un altro uomo come Prodi, che, per di più, godette della autorevolissima, irripetibile sponsorship di Nino Andreatta.

Per un brevissimo periodo fu l’ex-sindaco di Milano Giuliano Pisapia a accarezzare l’idea di agire come federatore della sinistra. Oggi, qualcuno potrebbe suggerire, anzi, suggerirà il nome di Beppe Sala, esempio di grande successo di un “civico” diventato amministratore efficace, potenzialmente in grado di unificare le sparse membra della sinistra.

Chi non crede negli uomini della Provvidenza, Prodi non fu presentato così e, comunque, quella potenziale aureola il cardinale Ruini si affrettò a negargliela, chi si chiede perché la Provvidenza o anche semplicemente l’ambizione non provveda a lanciare una figura di donna con qualità, deve giungere ad una constatazione accertabile con l’analisi comparata. Le donne di successo in politica dal Cile (Bachelet) alla Nuova Zelanda (Ardern) da Angela Merkel alle Prime ministre di paesi scandinavi, hanno tutte ingaggiato, combattuto e vinto (qualche volta anche perso come Ségolène Royal) battaglie decisive contro gli uomini. Fra le donne italiane in politica proprio non è possibile vedere nessuna simile propensione ad una sana conflittualità politica.

Ferma restando la mia diffidenza nei confronti di un federatore/trice della sinistra che venga incoronato dai dirigenti dei partiti federandi, il discorso non può essere spinto più avanti e meglio congegnato fintantoché non si saprà quale legge elettorale verrà congegnata e adottata.

Nella maniera più facile da apprezzare, se ci saranno molti collegi uninominali, la sinistra dovrà trovare, anche in un federatore, le modalità per dare vita ad alleanze. Comunque, il federatore (o la federatrice) dovrebbero iniziare presto a fare conoscere la loro disponibilità. Potrebbero anche chiedere la verifica del sostegno dei potenziali elettori in primarie organizzate in maniera decente. L’unica cosa sicuramente da evitare è il tentativo di trascinare Mario Draghi nel frastagliato campo della sinistra.

Pubblicato il 15 novembre 2021 su beemagazine

Cortesi, scorretti, inesperti, manipolatori

Scorrettezza politica e costituzionale oppure cortesia istituzionale? Fare conoscere in anticipo al Presidente della Repubblica la lista dei ministri del prossimo eventuale (issimo) governo delle Cinque Stelle è, a mio parere, un gesto sostanzialmente propagandistico senza nessun senso istituzionale, ma anche senza nessuna violazione costituzionale. A Giovanni Sartori e, per quel che conta, anche a me, già pare costituzionalmente deprecabile che nei simboli di molti partiti compaia il nome del leader anche se è vero che alcuni partiti avrebbero vita ancora più triste e grama se non sfruttassero quel minimo di popolarità derivata che le apparizioni televisive dei leader garantiscono loro. Fu Berlusconi, non bloccato da Ciampi, a inaugurare la moda. Voleva non solo asserire con forza il suo predominio su Forza Italia e sul Popolo della Libertà, ma anche sottolineare che era lui e solo lui il candidato alla carica di Presidente (del Consiglio). Abbiamo anche visto e non stigmatizzato abbastanza le consultazioni parallele tenute dal segretario del PD Matteo Renzi nel dicembre 2016 dopo la pesante sconfitta referendario nel per individuare il suo successore. La sfilata di Padoan, Gentiloni, Delrio e Franceschini da lui convocati a Palazzo Chigi si configurò come una reale soperchieria costituzionale.

Non ha bisogno Di Maio di mettere il suo nome nel simbolo del Movimento che è molto più noto di lui e molto più attrattivo agli occhi di un elettorato insoddisfatto della politica italiana, irritato, anti-establishment che non ha nessun bisogno di sapere in anticipo né il nome del Presidente del Consiglio né i nomi dei ministri. Dunque, siamo di fronte a una sceneggiata napoletana che, pur criticabile, merita poca considerazione perché non intacca per nulla i poteri del Presidente della Repubblica al quale spetterà la nomina del Presidente del Consiglio “e, su proposta di questi, i ministri”. Riconosciamo a Di Maio la piena libertà di proporre i ministri che vorrebbe, ma la nomina spetterà a Mattarella e, se mai Di Maio andasse al governo, quei ministri dovrà prima di tutto concordarli con gli alleati della coalizione che fosse riuscito a formare. È anche sbagliato criticare Di Maio perché ha parlato di governo ombra, che è quello che alcune opposizioni costruiscono, soprattutto nei paesi anglosassoni a competizione bipolare/bipartitica (ci provò anche, malamente e tardivamente, il PC/PDS), come se si preparasse a stare all’opposizione- che potrebbe, comunque, essere il suo destino dopo il 4 marzo. Di Maio sta cercando di “fare ombra” sia al centro-destra, nel quale è in corso uno scontro en plein soleil di potenziali Primi ministri, sia al PD con il suo attacco a due punte, Renzi e Gentiloni, (uno più puntuto dell’altro) e con molti aspiranti alcuni (tramanti) nell’ombra.

Preso atto che la lista dei ministri di Di Maio non appare ricca di personalità quanto, piuttosto, povera di esperienza politica e quindi splendidamente rappresentativa dell’ideologia e della pratica delle Cinque Stelle, interpreterei la sua presentazione precoce come un omaggio un po’ maldestro (ma anche un po’ sinistro) alla logica delle istituzioni e della competizione politica. Infatti, è innegabile che da molte parti venga spesso la richiesta, soprattutto nelle elezioni comunali, di fare conoscere in anticipo la squadra dei governanti come se le squadre fossero automaticamente un valore aggiunto. Certo, se Virginia Raggi avesse fatto conoscere in anticipo la sua squadra avrebbe anche potuto in anticipo procedere al raffinato gioco di dimissioni, sostituzioni, nuove nomine etc. Non so se Di Maio ha fatto tesoro di quella (non)esperienza. Credo, invece, che, magari senza esserne del tutto consapevole, senza forse neanche volerlo sta comunicandoci qualcosa di importante. Il Movimento Cinque Stelle sta proseguendo la sua lenta marcia nelle istituzioni cominciata nella confusione in Parlamento cinque anni fa. Prolungata non splendidamente nei lavori parlamentari facendo “crescere” qualche competenza, la marcia pentastellata nelle istituzioni è approdata al riconoscimento del ruolo e dei poteri del Presidente della Repubblica. Le modalità del riconoscimento sono piuttosto pasticciate e contengono anche un ingenuo tentativo di condizionamento di Mattarella. Forse, vogliono persino essere una sfida ai Renzi e ai Berlusconi, ai Salvini e alle Meloni. Tutti costoro, soprattutto i primi due, hanno anche altre gatte da pelare e non hanno risposto adeguatamente. Tuttavia, se i famigerati intellettuali di riferimento, i giuristi (e i politologi) di corte dicessero alto e forte che tutto quello, nomina dei ministri compresa, che succederà dopo il 4 marzo avrà inizio esclusivamente con le consultazioni presidenziali ufficiali e con l’esercizio pieno dei poteri del Presidente sarebbe già un piccolo, ma utile passo avanti per tenere sotto controllo le conseguenze del voto prodotte da una brutta legge elettorale (mai abbastanza deprecata).

Pubblicato il 1 marzo 2018 su FondazioneNenniblog

La legge elettorale di fronte alla “fiducia” #leggeElettorale #Fiducia @RadioRadicale

Intervista realizzata da Lanfranco Palazzolo registrata giovedì 12 ottobre 2017 alle ore 17:53.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Elezioni, Fiducia, Gentiloni, Governo, Legge Elettorale, Mattarella, Napolitano, Parlamento, Partito Democratico, Politica, Presidenza Della Repubblica, Renzi, Riforme, Sindaci.

La registrazione audio ha una durata di 8 minuti.

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Riforma da bocciare #4dicembre

cattura

Intervista raccolta da Mattia Vallieri

Le carte fondamentali delle democrazie servono a controllare i potenti, non ad aumentarne le prerogative

Questa riforma merita un 4 in pagella”. Una bocciatura netta della riforma costituzionale (“che peggiora l’esistente”) arriva da Gianfranco Pasquino, intervenuto all’iniziativa ‘Per un no sano e consapevole’ organizzato dall’Anpi e intervistato dal direttore di Estense.com Marco Zavagli.

Una stroncatura su più fronti quella presentata dal professore di scienza politica: “in questa riforma non c’è niente di buono. Anche l’abolizione del Cnel, una delle poche cose ragionevoli, può essere fatta il 6 dicembre da una maggioranza qualificata dei parlamentari modificando un solo articolo della Costituzione”. Bordate anche su nuovo Senato e rapporto Stato-Regioni: “io rimango alla riforma come è stata scritta e lì i nuovi senatori vengono scelti dai consigli regionali e questo fa capire che rappresenteranno i partiti e non i territori, qualcuno parlerebbe di lottizzazione – attacca Pasquino -; ricordiamoci poi che servirà una ulteriore legge per decidere come verranno eletti, scelti, nominati. Una parte di centralizzazione dei poteri ci sta ma in questa riforma è troppa”.

Tutte ragioni per cui “non temo una deriva autoritaria, ma una deriva confusionaria, perché anche se alcuni obiettivi sono buoni, il modo di realizzarli è davvero sconclusionato”. Eppure “alcune riforme sono necessarie”. Ma con cautela: “pensiamo al tanto l’articolo 70. Ai costituenti bastarono nove parole (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”). A chi ha scritto questa riforma 438. Spero davvero che chi l’ha redatta non siano né parlamentari né funzionari”.

Anche perché “viviamo in un paese in cui si cambia la Costituzione che tanti cittadini non conoscono e alla faccia della coerenza professionale si modifica il titolo V dopo averlo voluto fortemente per seguire l’idea federalista della Lega” accusa l’ex senatore, dichiarando la sua approvazione ad una modifica della Costituzione diversa da quella proposta dal governo Renzi.

Non si possono cambiare i principi fondamentali della Costituzione ma io sarei favorevole a toccare anche la prima parte – afferma il professore sfidando gli sguardi degli esponenti Anpi -. L’articolo 21 (libertà di pensiero e parola ndr) andava benissimo per un paese rurale degli anni ’20 oggi con TV e social non va bene, i Patti Lateranensi non hanno senso di fronte all’articolo 8 per il quale tutte le religioni hanno pari dignità; va affrontata poi la questione del conflitto d’interessi e la situazione dei partiti necessita di una disciplina”.

Ce n’è anche per Benigni, un comico che prima diceva che avevamo la “Costituzione più bella del mondo e che ora dice, da comico, che abbiamo la riforma costituzionale più bella del mondo”.

Qual è allora la Costituzione più bella del mondo? “E’ quella non scritta. Penso alla Magna Charta Libertatum dell’Inghilterra, voluta dai lord inglesi per limitare e non per accrescere il potere del re. Ricordiamoci che le carte fondamentali delle democrazie servono proprio a questo: a controllare i potenti, non ad aumentarne le prerogative”.

Va poi ricordato che “i padri costituenti non avevano molti esempi con cui confrontarsi. Nel Nord Europa c’erano, e ci sono, delle monarchie e noi avevamo appena votato contro i Savoia; nell’Europa meridionale erano insediate delle dittature. L’unica a disposizione era quella francese, che non è proprio un modello di perfezione”.

Venendo ora al punto cruciale della riforma (il superamento del bicameralismo perfetto) arriva l’ennesima critica di Pasquino: “Il sistema parlamentare voluto dai costituenti serviva per migliorare la qualità delle leggi, con questa riforma si passa oltre senza però avere possibilità di valutare se le cose miglioreranno o meno”.

Secondo il politologo “c’erano anche meccanismi per rafforzare il potere del capo del governo senza ridurre il ruolo del Parlamento. Per dare stabilità bastava inserire il voto di sfiducia costruttivo. Ma Renzi ha detto che non gli è stata data possibilità di inserirlo. Bugia, non si è mai dibattuto sul tema in parlamento”.

Ecco perché alla fine la “pagella” del professore è impietosa: “4 alla riforma, 5 – ai contenuti, 4 a chi l’ha scritta”. ‘Così tanto?’ si domanda dal pubblico. “Eh, ormai gli zero non si danno più”.

Intanto tra una settimana sono attesi alla resa dei conti due schieramenti contrapposti, anche se “più che una battaglia è una partita. Una partita che non finirà il 4 dicembre. In democrazia le partite non finiscono mai”. E questo sia che vinca il sì, “con il conseguente tempo necessario per l’adeguamento normativo”, sia che vinca il no, in conseguenza del quale “parlare di elezioni anticipate è fantapolitica, non è proprio fattibile”. Secondo l’esperto, in caso di sconfitta, “Renzi presenterà le dimissioni e Mattarella avvierà le consultazioni sul nuovo premier. Per terminare la legislatura e tornare alle urne nel 2018”.

Pubblicato il 26 novembre su Estense.com

Allarme Pokémon al Quirinale

Il fatto

La notizia è che i Pokémon non si trovano nei giardini e nelle stanze del Quirinale. Senza bisogno di indulgere al famigerato “tiro della giacchetta”, è tuttavia opportuno avvisare il Presidente Mattarella di essere molto cauto, addirittura più del suo solito, poiché intorno a lui si muovono molti “mostriciattoli” di origine non proprio giapponese.

C’è il mostriciattolo Meglio che niente che corre orgoglioso di essere il portatore, non sappiamo quanto sano, di una riforma costituzionale, a dire dei suoi stessi sostenitori, che non migliora l’esistente, ma soltanto il “niente”. C’è il Pokemon Nonmel’hannolasciatofare che narra dell’impossibilità di intervenire laddove sarebbe stato più utile ovvero su una reale ridefinizione dei poteri e delle responsabilità del governo e del suo capo. Un po’ alla luce un po’ nell’ombra si muove, cercando di camuffarsi, il Pokémon femmina della personalizzazione plebiscitaria del referendum che scatta periodicamente e viene repressa come il braccio del Dr. Stranamore. Affusolato, ma capiente, poiché contiene una molteplicità di seggi fa capolino un Pokemon anomalo che chiamano Italicum. Ha il volto triste perché gli dicono che non piace più a nessuno, tranne al Prof D’Alimonte che continua ad esercitarsi in paragoni azzardatissimi, anche perché l’Italicum è il suo nipotino. Dentro di sé, però, il Pokemon nipotino del professore non riesce a trattenere qualche periodica risata quando legge le alternative che lo cancellerebbero. Non sono necessariamente peggio di lui, ma non riescono neanche ad essere convincentemente migliori.

In un angolo del giardino sta, mogio mogio, il Pokemon Senatolentoecostoso. Ha puntigliosamente raccolto i dati sulle seconde Camere e può documentare quello che già sapeva. Abitualmente, è il più veloce di tutte le seconde camere nelle democrazie occidentali e costa più o, spesso, meno di loro. E’ amareggiato per l’accanimento con cui un Senatore Napolitano lo accusa di essere il primo responsabile del cattivo funzionamento del sistema politico. Nel frattempo, acutamente avvistata dal Ministro Boschi, ha fatto la sua comparsa anche l’Armata Pokemon Brankaleòn. E’ composta da alcuni professoròn, da gufi selezionati, da oscurantisti senza arte né parte. Manifestano allegria, ancorché contenuta. Alcuni di loro si dirigono verso l’Ufficio Studi della Confindustria che hanno saputo essere frequentato da econometrici burloni. Altri vorrebbero varcare l’Atlantico per rassicurare JP Morgan, Standard and Poor’s , forse Goldmann Sachs, che loro, i Pokemon Brankaleòn, sono jolly good fellows, buontemponi, mica dei Brexiters. Saprebbero rimettere le mani a riforme da rendere, non “meglio che niente”, ma decenti.

Poi, avendo ascoltato il discorso di Mattarella, quasi un carismatico segnale inviato al più veloce capo del governo del XXI secolo, tutti i Pokemon decidono di fare un’incursione al Quirinale. Vogliono proprio vederlo questo Presidente che, si dice, è anche stato relatore di un sistema elettorale, un po’ Mattarellum, ma del quale, pur criticandolo, nessuno ha detto mai “meglio che niente”. E molti oggi dicono meglio della proporzionale, meglio del Porcellum e meglio dell’Italicum. Sarà il caso di stanarlo il Mattarellum di Mattarella?

Pubblicato il 30 luglio 2016

“Una riforma pasticciata e confusa”. Intervista a #RadioPopolare

RadioPopolare

La Costituzione non è soltanto un documento giuridico, ma è anche un documento politico. La Costituzione fornisce regole, procedure, indica comportamenti agli attori politici, ai partiti, alle istituzioni. Dunque, far commentare la Costituzione soltanto dai giuristi è sempre, secondo me, molto limitativo. E farla riformare soltanto dai giuristi significa prendere una prospettiva possibile, non l’unica e certamente non la più alta.

La premessa di Gianfranco Pasquino chiarisce l’obiettivo della trasmissione di oggi (24 maggio 2016): analizzare la modifica della Costituzione “Renzi-Boschi” da una prospettiva più politica che giuridica.  Intervista condotta da Raffaele Liguori

ASCOLTA L’INTERVISTA

#RadioRadicale Intervista Gianfranco Pasquino sul Referendum costituzionale

L’intervista realizzata da Lanfranco Palazzolo è stata registrata in collegamento telefonico da Chicago domenica 8 maggio 2016 alle ore 10:48. La registrazione audio ha una durata di 7 minuti.

“Siamo in collegamento con il professor Gianfranco Pasquino dagli Stati Uniti per parlare delle delle riforme in particolare della proposta radicale di sottoporre i referendum confermativo a diversi diversi quesiti referendari perché il corpo elettorale probabilmente potrebbe giudicare diversamente diversi passaggi della riforma costituzionale in un referendum confermativo diviso per parti …”

ASCOLTA L’AUDIO