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Sarebbe un errore fatale rendere essenziale l’alleanza con i 5Stelle… #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Riccardo Tripepi

Con l’avvicinarsi delle prossime elezioni regionali, si intensifica il clima da campagna elettorale e per quel che attiene il centrosinistra, si discute sulle reali possibilità del campo largo in sperimentazione di strappare qualche regione al centrodestra e, soprattutto, sulla tenuta dell’alleanza tra PdMovimento 5 Stelle e le forze centriste. L’ennesimo scontro tra il leader di Italia Viva Matteo Renzi e l’omologo di Azione Carlo Calenda, da questo punto di vista, non fa ben sperare. Per analizzare lo scenario in continua evoluzione abbiamo discusso con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica e autore del saggio In nome del popolo sovrano – Potere e ambiguità delle riforme in democrazia.

Professore, come si presenta il centrosinistra in vista delle prossime elezioni regionali?

Il centrosinistra, per una volta, si presenta meglio del solito. Non ci sono state rotture irreparabili, e le marce di avvicinamento fra le diverse componenti sembrano più convincenti che in passato. Non tutto è risolto, ma si aprono degli spiragli per riuscire a fare qualcosa in più rispetto al recente passato. Penso che il centrosinistra possa giocarsi la vittoria in quattro o cinque regioni. Se riuscisse a conquistare anche la Calabria, sarebbe un risultato di grande rilievo. La partita in Veneto, invece, sarà molto più difficile. Nel complesso, però, arriva a questa tornata elettorale in condizioni migliori rispetto alle precedenti.

Matteo Renzi, dalla sua newsletter, ha indicato come «indispensabile» un’alleanza con i Cinque Stelle per costruire un vero campo largo. È d’accordo?

L’alleanza con i Cinque Stelle è importante, ma non dev’essere vista come una condizione imprescindibile. Il centrosinistra non può permettersi di dipendere interamente da questa intesa. La retorica che rende il Movimento Cinque Stelle “essenziale” per qualsiasi campagna o strategia elettorale è sbagliata. Sono alleati importanti ma non sono da considerare fondamentali per ogni campagna elettorale e per ogni elezione. Gli accordi vanno poi verificati caso per caso.

Il leader di Azione Carlo Calenda ha reagito con durezza alle parole di Renzi, dicendo che Azione non sosterrà mai candidati comuni con i Cinque Stelle…

Calenda reagisce male per abitudine, direi quasi per riflesso. Ma non è mai in grado di proporre un’alternativa credibile. È sbagliato porre veti perfino all’inizio della discussione. E sbaglia anche nel valutare il proprio peso politico: si illude di essere decisivo, ma finora è stato determinante solo nelle sconfitte. Un atteggiamento costruttivo sarebbe quello di contribuire alla definizione di candidature e programmi credibili, non certo quello di alzare barricate.

Lo stato di salute dei rapporti tra Pd e Movimento 5 Stelle, invece, come lo valuta?

Deve ancora migliorare. Le alleanze regionali e comunali dovrebbero essere decise in base alle dinamiche locali, non imposte dall’alto. È un errore che Conte e Schlein non devono commettere. Ogni territorio ha le sue peculiarità, e gli accordi vanno costruiti sul campo, coinvolgendo i gruppi dirigenti locali. I diktat nazionali producono solo risentimenti e fallimenti.

Per qualche interprete Pd e Movimento Cinque Stelle si stanno dividendo il Paese: il Pd punta al Centro- Nord, il Movimento al Sud, puntando anche al reddito di dignità regionale, parente stretto del reddito di cittadinanza. È così?

Può succedere che si formino queste dinamiche. Ma non bisogna esagerare con le semplificazioni. Prendiamo l’esempio di Roberto Fico in Campania: non mi pare stia interpretando una linea che punti esclusivamente verso politiche di tipo assistenzialista. È chiaro che al Sud servano anche politiche di sostegno, ma non ci si può fermare lì. Serve una strategia di sviluppo, una visione strutturata. Diversamente, si perpetua l’idea che il Sud sia solo una terra da aiutare e non da valorizzare. Ma non mi sembra strano che si offra sostegno alle aree più deboli del Paese.

E il centrodestra? Come arriva a questa tornata elettorale?

Il centrodestra parte da una posizione di forza: è al governo e ha una leader indiscussa, Giorgia Meloni, che riesce a tenere insieme la coalizione e a controllare tutto. I suoi vice Antonio Tajani e Matteo Salvini non sono in grado di insidiarle la leadership. E poi i leader del centrodestra sanno perfettamente che devono stare insieme, non uniti, per vincere. Questo garantisce stabilità all’alleanza che può anche concedere qualche sciagurato giro di valzer a qualche attore e soprattutto a Matteo Salvini che ha bisogno di visibilità. Alla fine, però, si ricompattano sempre.

Secondo lei il risultato delle elezioni regionali può influire sulla tenuta del governo Meloni?

Credo di no. Il governo deve andare avanti sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Le elezioni regionali hanno una loro dinamica distinta e non determinano automaticamente ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo. Vale per qualsiasi maggioranza, di destra o di sinistra: governare significa assumersi la responsabilità di guidare il Paese, indipendentemente dall’esito delle consultazioni locali.

Pubblicato il 27 agosto 2025 su Il Dubbio

Come battere l’astensione cronica sui referendum @DomaniGiornale

I riferimenti troppo frequenti, poco precisi e incompleti al referendum sulla preferenza unica del 9 giugno 1991 sono in parte inappropriati in parte inutili per illuminare tutte le problematiche concernenti i prossimi referendum, per brevità, sul lavoro e sulla cittadinanza. Apparentemente faccenda puramente tecnica, il referendum sulla preferenza unica colpiva il sistema di potere, in particolare democristiano, che si era costruito sulle “cordate” di parlamentari e sulle loro correnti. Era anche il grimaldello per una riforma più incisiva delle leggi elettorali proporzionali, come subito capì Giuliano Amato, vicesegretario del Partito Socialista Italiano, che cercò di bloccarla sul nascere dichiarando incostituzionalissimi i referendum elettorali. Gli inviti all’astensione vennero, certo sulla scia di Craxi e del suo andare al mare quella domenica (peraltro al Nord il tempo non fu buono), ma anche da altri leader politici come Bossi che dichiarò che avrebbe fatto una lunga passeggiata nei boschi padani, da De Mita che sarebbe rimasto a casa a giocare a carte, e, a proposito delle autorità istituzionali, dal democristiano Antonio Gava, Ministro degli Interni preposto ai procedimenti elettorali, che annunciò di trascorrere la domenica con gli “amici”. Quel 95 per cento dei 62,5 per cento di italiani che recatisi all’urne votò sì alla preferenza unica segnalarono non solo di volere una riforma elettorale che permettesse loro di scegliere i parlamentari, ma misero in evidenza quanto quella classe politica del pentapartito avesse perso contatto con la società.

I quattro quesiti referendari attuali sul lavoro invitano piuttosto a riflettere su un altro importantissimo referendum, per brevità, sul taglio della scala mobile (9-10 giugno 1985), molto controversa riforma voluta e ottenuta dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e molto contrastata dal segretario del Partito Comunista Italiano che volle il referendum appoggiato soltanto da una parte della CGIL, segretario generale Luciano Lama. Per qualche tempo, Craxi intrattenne l’idea di fare fallire il referendum chiamando l’elettorato all’astensione. Venne fortemente sollecitato in quel senso, è opportuno ricordarlo, dal leader radicale Marco Pannella. Alla fine decise di accettare la sfida che vinse (partecipazione 77,85 per cento, no all’abrogazione 54,3) mettendo in gioco la sua stessa carica. Un minuto dopo la eventuale vittoria degli abrogatori avrebbe lasciato la Presidenza del Consiglio. Una lezione di accountability, di accettazione di responsabilità politica e istituzionale seguita da Matteo Renzi nel 2016 e da segnalare a Giorgia Meloni quando il suo premierato arriverà al vaglio del referendum costituzionale.

Da queste esperienze discendono due importanti lezioni. Prima, se il contenuto politico della legge è effettivamente significativo gli elettori vanno alle urne. Seconda, nella misura in cui i partiti si attivano la partecipazione elettorale supera il quorum giustamente richiesto per abrogare leggi approvate da una maggioranza dei parlamentari.

Se il tasso di astensione fosse conseguenza del disagio, come troppi sbagliando ritengono, ai promotori del referendum basterebbe convincere i “disagiati” che l’abrogazione di alcune leggi sul lavoro migliorerà le loro condizioni di vita. Sappiamo che non è così poiché il tasso medio di astensionismo è cresciuto a livelli che i Costituenti non potevano neppure lontanamente immaginare. Parte non piccola di quell’astensionismo è cronica, strutturale, non recuperabile. Conferisce un vantaggio iniziale immeritato agli oppositori di qualsiasi quesito referendario. Esistono convincenti proposte per sterilizzare questo vantaggio e per premiare, invece, i cittadini che si interessano, si informano, partecipano. Queste proposte potrebbero essere utilmente esposte e dibattute anche durante l’attuale, un po’ sonnecchiante, campagna elettorale. Le strade della democrazia sono molte. Bisogna trovarle, aprirle, percorrerle.

Pubblicato il 21 maggio 2025 su Domani

Con Renzi patti chiari Ma non c’è alternativa al campo larghissimo #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Attribuire tutta questa importanza a Renzi è esagerato, significa dargli un peso che non ha: il leader di Iv  è solo una componente e non tutti i suoi elettori andranno dove va lui

Per il professore emerito di Scienza Politica Gianfranco Pasquino, il Pd dovrebbe cercare di mettere Renzi «davanti a delle decisioni chiare, dicendogli che deve accettarle e attuarle». Questo perché, a partire dall’alleanza alle Regionali, il leader di Iv «ha bisogno di qualche successo almeno in una prima fase, poi magari riprenderà il suo ego». Ma lo stesso Renzi «deve dimostrare di essere rilevante, influente e decisivo».

Professor Pasquino, riuscirà Elly Schlein a trovare la quadra tra Matteo Renzi e Giuseppe Conte, tra Carlo Calenda e il duo Fratoianni-Bonelli?

Schlein è nata politicamente come movimentista e quindi con i movimentisti dovrebbe saper trattare. È lei che ha coniato l’espressione campo largo e lo sta perseguendo con determinazione, anche se non tutti sono convinti di entrare o che quella sia la soluzione definitiva, se mai ce ne sia una. In questi mesi ha avuto qualche successo e davanti a sé ha tre elezioni regionali importanti in aree in cui il campo largo ha buone possibilità di vincere. In più non ci sono alternative, dunque sta cercando di fare il massimo per raggiungere l’obiettivo.

Che è la vittoria in Umbria ed Emilia-Romagna, dove l’accordo c’è già, e in Liguria, dove il via libera da parte di tutte le componenti non c’è ancora: come finirà?

In Umbria c’è la possibilità di un recupero: la giunta di centrodestra non è stata particolarmente efficace e il centrosinistra aveva perso cinque anni fa anche a causa di certi personalismi. In Liguria la situazione è che Renzi con il suo personale egoismo aveva trovato una collocazione per i suoi anche nella giunta di Genova e questo ora è un ostacolo. Dopodiché Toti ha creato un casino tale da aprire una prateria per il centrosinistra e Orlando è un buon candidato con una solida storia politica alle spalle. Nella mia Emilia-Romagna pesa il fatto che il governo sta trattenendo i fondi per l’alluvione e non ha mai fatto quel che deve. Può darsi quindi che riesca a influenzare qualcuno con la promessa di sbloccare i fondi, ma la Regione mi sembra scarsamente contendibile dalla destra.

Pensa che in Liguria sia andato in scena, come ha accusato Toti, un altro atto della guerra tra politica e magistratura?

Quello che mi ha colpito è che Toti ha rivendicato che quello era il suo modo di fare politica. Non so se questo sia un reato ma comunque non sono d’accordo. Bisogna fare politica riuscendo ad attrarre gruppi e associazioni su decisioni che guardano avanti, non si possono concordare quelle decisioni in cambio di qualcosa, sia che siano voti o soldi. E quindi penso che Toti abbia sbagliato strada e anche difesa. La “guerra”, spesso, è tra alcuni politici, che a volte commettono reati, e magistrati che magari sono un po’ più “cattivi” o semplicemente più attenti di altri.

Tornando alle Regionali, il M5S è restìo ad accettare Renzi in coalizione: è necessaria la sua presenza?

Renzi rimane comunque inaffidabile, sia quando si riavvicina al centrosinistra che quando si allontana. Bisogna cercare di metterlo davanti a delle decisioni chiare, dicendogli che deve accettarle e attuarle. Credo che su questo punto lui sia disponibile perché ha bisogno di qualche successo almeno in una prima fase, poi magari riprenderà il suo ego. Ma deve dimostrare di essere rilevante, influente e decisivo.

Alla festa dell’Unità di Pesaro è stato accolto da applausi, altrove c’è stato qualche fischio: come la prenderanno gli elettori dem e M5S?

Gli elettori del Pd non hanno alcun altro partito nel quale andare, perché non è che i rapporti con Calenda siano migliori di quelli con Renzi. Quindi magari potrebbero protestare ma poi voteranno comunque Pd. Più difficile la situazione del M5S. Da una parte ci sono iscritti e militanti i quali sono contrari a Renzi e li capisco, visto che è la causa della caduta del governo Conte. Tuttavia gli elettori contiani sanno che bisogna comportarsi in maniera saggia e quindi che solo il campo largo offre un’alternativa alla destra e a Meloni.

Insomma, Renzi sì o Renzi no nel campo largo?

Le diversità di vedute ci sono e sono destinate a rimanere. Ma basta non accentuarle e metterle da parte. Ci sono opportunità da sfruttare ed esagerare con le prese di distanza porta alla sconfitta, come il centrosinistra dovrebbe aver imparato. La questione è in fieri e ce la porteremo avanti ancora per un po’. Ma attribuire tutta questa importanza a Renzi è esagerato, significa dargli un peso che non ha. Renzi è solo una componente e non tutti i suoi elettori andranno dove va lui.

Tra i temi che uniscono i partiti del campo largo si parla di sanità e Ius scholae, ma ci sono anche molte differenze: come possono pensare a un programma di governo partiti così diversi tra loro?

Qualsiasi discorso sul programma di governo mi pare prematuro. Questo esecutivo andrò avanti fino al 2027 tranne drammatiche diversità di vedute, come sullo Ius scholae, che Tajani sottolinea per questioni elettorali ma consapevole che non andrà da nessuna parte. La differenza vera è tra l’antieuropeista Salvini e l’europeista Tajani. In mezzo c’è Meloni che non solo sa che in Europa ci deve stare ma che deve anche assumere certe posizioni per contare qualcosa. Dopodiché al governo si arriva passando per alcune vittorie nelle elezioni locali e se il campo largo dimostra che si possono fare accordi a livello locale poi quegli accordi possono essere riproposti anche a livello nazionale.

Sulla politica estera anche nel Pd ci sono contrasti, basti pensare all’utilizzo delle armi in dote all’Ucraina: non è questo un punto dirimente sul quale basare l’alleanza?

Sul tema vedo delle tensioni e dei conflitti ma non è li che si farà l’alleanza. Ci sono due elementi del quale tenere conto: primo è che questi politici rappresentano una Repubblica nella quale ci sono visioni diverse sulle armi a Kiev. Paradossalmente questa classe politica rappresenta l’opinione pubblica, anche se non è in grado di educarla. In secondo luogo tutto sommato l’Italia è irrilevante. In politica estera contano Francia, Germania e ultimamente Svezia e Finlandia dopo l’entrata nella Nato.

Pubblicato il 4 settembre 2024 su Il Dubbio

Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali #DemocraziaFutura @Key4biz

Pubblicato il 2 Novembre 2023 su Key4biz

I due punti cruciali del disegno di legge costituzionale presentato dal governo, secondo Gianfranco Pasquino: “da contrastare tramite referendum oppositivo”.

Nell’editoriale scritto per l’undicesimo fascicolo in chiusura di Democrazia futura, Gianfranco Pasquino commenta il disegno di legge costituzionale[1]  presentato dal governo evidenziandone i due punti cruciali. Secondo il noto scienziato politico “L’elezione popolare diretta del Primo ministro” presenta numerosi rischi di incostituzionalità e sarebbe – così recita il titolo dell’articolo – “Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali, da contrastare tramite referendum oppositivo”. 

Secondo Pasquino “Da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione: primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti; secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi”. L’Accademico rileva da un lato l’assenza di un ballottaggio, giustificato per impedire ammucchiate nel fronte avverso di centrosinistra, dall’altro “L’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni”. Ne uscirebbe un Presidente della Repubblica privo non solo del potere di nomina del Premier ma anche di quello di scioglimento del Parlamento “ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi”. 

Elezione popolare diretta del Primo ministro è il titolo del disegno di legge costituzionale del governo che cambierebbe in maniera profonda e “originale” il modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana. Sappiamo della esistenza di molti giuristi favorevoli che già consigliarono Matteo Renzi quando formulò le sue riforme, poi sonoramente bocciate dal referendum (quindi, non confermativo!) e la sua legge elettorale Italicum che mezza Europa avrebbe apprezzato e imitato, ma che fu smantellata dalla Corte Costituzionale.

Il richiamo è doppiamente opportuno perché, primo, il disegno di legge innegabilmente si ispira al modello “sindaco d’Italia”; secondo, ha immediatamente ricevuto il sostegno di Renzi e di Maria Elena Boschi, la sua ex-ministra delle Riforme Istituzionali. L’obiettivo è garantire la stabilità del Primo Ministro nella carica in modo da migliorare l’efficienza/efficacia della sua azione.

Non solo stabilità nella durata nel tempo ma capacità politiche e solidità della coalizione. Da cosa dipende l’efficacia operativa di un capo di governo in una democrazia parlamentare

A proposito della stabilità alcune osservazioni comparate sulla durata in carica dei capi di governo e di Presidenti “presidenzialisti” e “semipresidenzialisti” possono essere utili. Il recordman assoluto di durata in carica come capo di un governo parlamentare è il socialdemocratico svedese Tage Erlander, 23 anni (1946-1969). Al secondo posto il Cancelliere democristiano tedesco Helmut Kohl, 16 anni (1982-1998), seguito, con una differenza di un paio di settimane, dalla democristiana Angela Merkel (2005-2021). Quarto il socialista spagnolo Felipe Gonzalez, 14 anni (1982-1996). Quinto, il socialista francese François Mitterrand, 14 anni (1981-1995), semipresidenzialista. Da ultimo, va collocato il più duraturo dei presidenti presidenzialisti, il Democratico statunitense Franklin Delano Roosevelt, 12 anni (1933-1945). Dunque, è possibile che nelle democrazie parlamentari i capi di governo siano significativamente stabili nella loro carica. La stabilità politica è una importante precondizione per l’efficacia operativa, ma questa efficacia dipende non dalla durata nel tempo, ma soprattutto dalle capacità politiche e personali del capo di governo e dalla solidità della coalizione.

I due punti controversi su cui sono probabili le obiezioni della Corte Costituzionale

Da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione:

  • primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti;
  • secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi.

Le probabilità che la Corte Costituzionale, sulla base della sua stessa giurisprudenza, obietti mi paiono elevatissime.

L’assenza di un ballottaggio per evitare ammucchiate

Praticamente, ovunque laddove il titolare della più alta carica viene eletto dai cittadini, in assenza di una maggioranza assoluta, è prevista la procedura del ballottaggio attraverso il quale il candidato vittorioso risulterà eletto dalla maggioranza assoluta dei votanti. Avrà, dunque, maggiore legittimazione politica, democratica. Il centro-destra teme e vuole scongiurare la formazione di schieramenti a lui contrari di tipo occasionale, opportunistico, eterogenei, puramente negativi. Tuttavia, è evidente che, in assenza di ballottaggio, quegli schieramenti, elegantemente le “ammucchiate” del centro-sinistra sarebbero costrette a formarsi prima delle elezioni. Invece, il ballottaggio renderebbe più trasparente il procedimento della loro formazione e consentirebbe all’elettorato di giudicare a maggior ragion veduta.

L’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni

Anche se eletto dal popolo, il Primo ministro può essere sostituito senza nessun ritorno al popolo, ma in Parlamento purché la sua sostituzione venga effettuata dalla e nella sua maggioranza e con un parlamentare già appartenente a quella stessa maggioranza. L’espediente mira a rendere impossibile sia l’assunzione/ascensione di un “tecnico” al vertice del governo sia un cambio di maggioranza, cosiddetto ribaltone, fenomeni entrambi tanto rari quanto possibili in tutte le democrazie parlamentari et pour case: non demandare all’elettorato con il ritorno anticipato alle urne, quindi logorandolo, la soluzione di problemi prodotti dai politici. Qualora il sostituto prescelto non ne ottenesse la fiducia il Presidente della Repubblica ha l’obbligo di sciogliere il Parlamento.

Un Presidente della Repubblica ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi

Mi pare evidente che questo esito può essere procurato ad arte dalla maggioranza anche qualora sia in corso la sua disgregazione. Comunque, in questo modo relativamente soffice, avendo già perso il potere di nomina del Primo ministro, il Presidente della Repubblica si vede sottrarre anche il potere di scioglimento del Parlamento. Poiché il disegno di legge abolisce i senatori a vita per meriti sociali, artistici, scientifici e culturali, il Presidente della Repubblica italiana, da protagonista nel complesso intreccio di freni e contrappesi istituzionali e democratici, diventa figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi, finendo confinato fra i passacarte irrilevanti

Dell’abolizione dei Senatori a vita non scrivo nulla poiché mi trovo in lampante conflitto d’interessi avendo presentato nel 1987 un disegno di legge intitolato “Soppressione dei senatori a vita art. 59” includendovi, dunque, anche gli ex-Presidenti della Repubblica. Costoro potrebbero giustamente continuare a fregiarsi del titolo di Presidente Emerito. I cittadini che hanno eccelso mei campi sociale, artistico, scientifico e letterario dovrebbero essere opportunamente onorati in altro modo.

La strada del referendum oppositivo in caso di approvazione della riforma

La valutazione complessiva del disegno di legge costituzionale del governo di centro-destra è senza esitazioni negativa. Il modello di governo parlamentare viene scombussolato non da un nuovo, coerente modello, ma da un’elezione che può soddisfare gli appetiti populisti indebolendo, se non sostanzialmente sconvolgendo i freni e i contrappesi istituzionali e democratici. Ciò detto, dando per scontato che il centro-destra ha i numeri e l’intenzione di approvare la sua riforma, rimane aperta e praticabile la strada del referendum costituzionale, ovviamente non confermativo, ma oppositivo.


[1] Le sue idee e proposte in materia sono esposte nel libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Università Bocconi Editore-Egea, 2015, 204 p.

Pasquino: «Il premierato? Non esiste, questo testo è un pasticcio» #intervista @ildubbionews

di Giacomo Puletti

Il professore emerito di Scienza politica a Bologna: «L’idea di poter mantenere il potere di garanzia del Quirinale non sta in piedi: il presidente della Repubblica non potrebbe più nominare il capo del Governo né sciogliere le Camere»

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, definisce la riforma Casellati «un pasticcio» perché «il premierato non esiste» e spiega che l’Autonomia differenziata «è solo una questione negoziale» usata dalla Lega per mettere in difficoltà Fdi.

Professor Pasquino, che giudizio dà della riforma istituzionale proposta dalla ministra Casellati, che introduce una sorta di premierato all’italiana?

Ho scritto, credo nel 2003, un articolo accademico sulla rivista italiana di Scienza politica, nel quale affermavo che il premierato non esiste. E dunque inevitabilmente questa riforma risulterà un pasticcio. Quando si parla poi di “premierato all’italiana” è ancora peggio perché sappiamo benissimo che una cosa fatta “all’italiana” non è una buona cosa. Basti pensare all’Italicum, che non era una buona legge elettorale. Se poi premierato vuol dire elezione diretta del presidente del Consiglio, questa formula è esistita in un solo paese, cioè Israele, per tre volte. E ogni volta il progetto è stato poi abbandonato. Chi viene dopo dovrebbe imparare dagli errori, non imitarli.

La maggioranza, e anche Matteo Renzi, invitano a leggere i testi proposti, e guardano al modello inglese. Cosa non la convince?

Il premier inglese non è eletto direttamente dagli elettori. Il capo del governo è colui che ha una maggioranza assoluta, o quasi perché a volte ci sono degli escamotages, in Parlamento. Inoltre sappiamo che la forma parlamentare all’inglese si regge su un sistema maggioritario a turno unico. Non ho letto il testo della proposta Casellati ma ho letto quello di Renzi, ed è una stupidaggine colossale. È il tentativo di trasportare a livello nazionale il sistema per l’elezione dei sindaci. Ma come si fa a pensare che si possa governare l’Italia con il sistema con cui si governa, non so, Benevento? É un’idea sbagliata e per di più neanche originale. Il sindaco d’Italia non è un’idea di Renzi ma di Mario Segni, in qualche modo un riformatore, ma era già sbagliata all’epoca e lo è oggi.

Con la riforma cambierebbe anche la legge elettorale?

La riforma del sindaco d’Italia implica automaticamente un nuovo sistema elettorale, cioè quello già previsto per l’elezione del sindaco nei paesi con più di 15mila abitanti. Sappiamo che il sindaco viene eletto con il sistema a doppio turno e quindi con la maggioranza assoluta e anche con un premio di maggioranza che si trasforma in seggi. Ma si immagina a livello nazionale fin dove può arrivare un sistema che prevede un grosso premio di maggioranza? E infatti questo è uno dei motivi per cui l’Italicum fu dichiarato incostituzionale.

Cosa dovrebbe proporre l’opposizione per istillare il dubbio nella maggioranza?

Non è un problema della maggioranza, ma della maggioranza più Renzi. Ed è questo che la rende forte. La risposta dovrebbe essere una sola. Basterebbe puntare sul rafforzamento del governo attraverso il voto di sfiducia costruttiva di tipo tedesco. In Germania si vota contro il cancelliere in carica ed entro 48 ore a favore del nuovo cancelliere, sempre a maggioranza assoluta. In Spagna c’è la mozione di sfiducia il cui primo firmatario, se viene approvata, diventa capo del governo. Con un colpo solo, Sanchez è diventato presidente del governo. Il modello tedesco consente anche eventuali ripensamenti tra la prima sfiducia e la nuova fiducia. E consente in qualche modo adattamenti per decidere bene cosa fare in quelle 48 ore. Il tempo non è stato scelto a caso ma è il tempo tecnico affinché tutti sappiano che devono tornare da eventuali missioni all’estero e tornino.

La maggioranza dice che verrà mantenuto il potere di garanzia del presidente della Repubblica…

Questa storia di mantenere il potere di garanzia del Quirinale non ha senso. Perché il presidente della Repubblica non potrà nominare il presidente del Consiglio e non potrà sciogliere il Parlamento. Nelle città è il sindaco che decide se sciogliere il consiglio comunale, ma in quel momento cade anche lui. Insomma, sarebbe un disastro.

Crede che lo scambio riforma istituzionale- autonomia tra Fdi e Lega arriverà a conclusione?

Non mi faccia fare l’astrologo, diciamo che se vogliono probabilmente ci arrivano. Poi debbo ricordare che anche in quel caso la parola passerete agli elettori con il referendum.

Eppure le tensioni ci sono e la Lega sembra pronta a forzare la mano sull’Autonomia, vista la tenacia del ministro Calderoli…

L’Autonomia differenziata è la cosa meno sexy che si possa immaginare. È una cosa che serve alle regioni potenti per diventare ancora più potenti e a quelle più deboli per cercare di avere maggior potere che tuttavia difficilmente otterranno. Ma sono d’accordo sul fatto che sia solo una questione negoziale che serve alla Lega per dire “dateci l’autonomia sennò non votiamo la riforma istituzionale”.

Pensa che con l’opposizione alla riforma istituzionale il Pd di Schlein possa ritrovare la centralità che viene minacciata ogni giorno dal M5S di Conte?

Da un lato sono convinto che il Pd faccia bene a sottolineare il fatto di essere un partito nel quale si discute e si hanno posizioni diverse, entro certi limiti. E questo lo apprezzo. Dall’altro lato però su certe questioni deve dimostrarsi compatto. In primis sull’Europa. Il Pd è l’unico partito veramente europeista in Italia, con l’aggiunta di + Europa che però è un piccolo partito. Il punto di partenza deve essere l’europeismo, dividersi su questo è suicida.

E sul premierato?

Sulle riforme istituzionali è bene che dicano che si possono fare aggiustamenti precisi e puntuali senza stravolgere la Costituzione, che è un edificio nel quale se si toglie un mattoncino bisogna sapere dove ricollocarlo, altrimenti crolla tutto. Con due o tre piccole e mirate riforme il sistema può funzionare meglio. Detto questo, il problema italiano non è costituzionale ma politico, perché i partiti sono diventate macchine poco funzionanti che si aggrappano al guidatore. Ma il problema è annoso e parte da prima di Tangentopoli, quando i democristiani si sono cullati sul loro potere, i comunisti non hanno riformato il partito come avrebbero dovuto fare dopo la morte di Berlinguer, e i socialisti si sono buttati anima e cuore su Craxi.

Pubblicato il 31 agosto si Il Dubbio

Pasquino: «Al Partito democratico servono idee, non nomi» #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

“Sto con Letta. Ha fatto bene a presidiare la piazza di Roma”

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna spiega che «il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario» e che quindi il problema del Partito democratico «non è accelerare i tempi del Congresso ma produrre delle idee». Secondo Pasquino «finora il dibattito è stato deludente» perché «i candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta» .

Professor Pasquino, Letta ieri ha scritto che l’opposizione sta contrastando le politiche del governo sull’immigrazione, ma a Catania c’è Aboubakar Soumahoro e non qualche dirigente del Pd. Trova che i dem stiano sbagliando strategia?

Il problema dell’immigrazione non riguarda i partiti o i dirigenti ma l’intero paese, e quindi chiunque sia al governo dovrebbe riuscire a coinvolgere l’opposizione. Il problema è che non abbiamo la soluzione in casa e che è un problema europeo. È l’unico caso in cui mi sento di dire che l’Ue porta una responsabilità pesante. Non riesco a immaginarmi un segretario di partito, peraltro dimissionario, che va li per risolvere la situazione. Anzi, farebbe solo peggio.

Dunque i politici che sono lì in questo momento sbagliano?

Sbagliano e penso che lo facciano solo per un po’ di popolarità e visibilità. Che Sinistra italiana abbia una posizione diversa dal Pd lo sappiamo, ma “accogliere tutti” non è la soluzione. Apprezzo la bontà di Soumahoro, ma la sua non è una soluzione politica.

Torniamo a Letta, che domenica è stato contestato alla manifestazione di Roma. Pensa abbia sbagliato ad andare?

Letta ha fatto benissimo ad andare per portare a quella manifestazione la posizione del Pd, che io condivido totalmente e che peraltro non tutti nel Pd condividono. Si è preso una responsabilità importante perché ci crede. Quella non è solo la sua posizione personale ma spero della maggioranza del partito. Non doveva lasciare la piazza agli equidistanti, che non fanno parte del Pd.

Eppure nelle stesse ore a Milano c’era un’altra manifestazione molto più vicina alle posizioni di Letta, non poteva andare lì come hanno fatto altri esponenti dem?

Bisogna andare dove c’è una posizione opposta o comunque diversa dalla tua, per testimoniarne l’esistenza. A Milano Calenda e Renzi avrebbero comunque controllato la manifestazione e messo Letta in una posizione difficile. Quella era una manifestazione molto vicina alla linea del Pd, è vero, ma proprio per questo Letta non avrebbe portato nulla di utile.

Il segretario dem ha auspicato ieri un’accelerazione sui tempi del Congresso, condivisa da Bonaccini. Crede che anche da questo passi un’opposizione più dura al governo Meloni?

Non penso, perché il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario. Il problema non è accelerare ma produrre delle idee. Finora il dibattito è stato deludente. I candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta. E bisogna sapere che tipo di partito si vuole costruire. Si vuole o no un partito socialdemocratico che riscopra il rapporto con i sindacati così da riportare indietro milioni di voti? In queste settimane non ho visto idee, solo persone che si candidano. L’unica che ha proposto qualcosa è Paola de Micheli, ma in generale il dibattito è cominciato male e non finirà bene.

La ricostruzione passa anche dal voto in Lazio e Lombardia: quale futuro vede per il Pd dopo il “caso Moratti”?

Non sono un astrologo ma è chiaro che in Lombardia la mossa di Renzi e Calenda fa perdere il Pd. Se il Pd aveva una minima possibilità di vincere, con Moratti che portava via voti al centrodestra, questa mossa invece lo farà perdere. Nel Lazio bisogna che Pd e M5S giungano a un accordo. Se Calenda e Renzi vanno su Alessio D’Amato, indeboliscono l’eventuale alleanza tra dem e grillini ma al tempo stesso la facilitano perché chiariscono le idee agli elettori. Ma Pd e M5S o si mettono insieme o rinunciano a vincere le regionali.

Lezioni dal Parlamento, cosa abbiamo imparato secondo Pasquino @formichenews

Il centrodestra è davvero compatto? Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il Paese. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e accademico dei Lincei, autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet) e curatore di Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani)

Dimenticheremo presto, spero, i discorsi, meno i trascorsi, dei neo-Presidenti di Senato (Ignazio La Russa) e Camera (Lorenzo Fontana). Li aspettiamo alla prova mentre nei nostri occhi sono rimaste le memorabilia fasciste gelosamente custodite e generosamente esibite da La Russa e nelle nostre orecchie risuonano le affermazioni omofobe e (filo)putiniane di Fontana. Il centro-destra poteva fare meglio, ma almeno già sappiamo che il prossimo Presidente della Repubblica non verrà dalle due più alte cariche del Parlamento. Abbiamo anche visibilmente imparato che sui nomi il centro-destra è tutto meno che compatto. Va a prove di forza e a scontri finendo, seppure in maniera involontaria, di inserire qualche puntuto cuneo nei ranghi delle opposizioni. Queste, Partito Democratico, Movimento del Conte, Calenda e Renzi (i cui protagonismi non stanno nella stessa stanza per ragioni di stazza), promettono di essere dure, intransigenti, ad oltranza, ma qualcuno pensa che il suo voto potrà valere un incarico a futura memoria. Questa è la politica, commenta un ex-dalemiano su twitter. No, questo è soltanto una delle incarnazioni della cattiva politica che infanga la politica e dà la colpa ai populisti che, irresponsabili, incassano, gongolano e passano oltre. L’incasso non tarderà.

Il quesito è, ma doveva già essere stato sollevato dai commentatori troppo spesso genuflessi, se le due elezioni parlamentari, in misura diversa, non segnalino che il centro-destra è tutto meno che compatto. Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il paese. Fra breve vedremo più acutamente alcuni di questi scontri sui nomi dei ministri, anche donne. Politici e tecnici per me mai pari sono, ma in una democrazia decente entrambi verrebbero nominati con riferimento a competenza, esperienza e lealtà (elemento da non trascurare mai) politica che per me va al capo del governo e al programma sottoscritto, non ai capi dei partiti che, invece, a loro volta, dovrebbero essere impegnati e giudicati sul programma. Ne vedremo delle belle (sic) e delle brutte (ri-sic), ma è giusto esigere motivazioni articolate per entrambe. Poi, naturalmente, i voti contano e, temo, conteranno anche alcuni ricatti.

Lascio i ricatti alle loro nefaste traiettorie, e concludo con i ricordi. Il ricordo più bello è quello di una elegante signora novantenne che rappresenta un pezzo di storia d’Italia e d’Europa, del fascismo e della nazismo, dell’antisemitismo e delle discriminazioni, della democrazia. La senatrice a vita Liliana Segre, nominata da Mattarella, ha sintetizzato in poche precise e ammirevoli parole che cosa i politici (e i cittadini) dovrebbero fare per un’Italia migliore: applicare la Costituzione, seguendola anche, anzi, soprattutto, se la si vuole riformare (art. 138). Metaforicamente, il dito della Sen. Segre, che non sarebbe stata lì se il fascismo non fosse stato sconfitto, indicava la luna, ma non guardate solo la luna, guardate anche di chi è quel dito. Di una grande donna che testimonia che è possibile combattere, con perseveranza e grazia, odio e ingiustizie e vincere.

Pubblicato il 15 ottobre 2022 su Formiche.net

«Che errore polarizzare lo scontro. Calenda-Renzi? Operazione balorda» #intervista @Avantionline

«Al Pd serve una scelta socialdemocratica. Calenda e Renzi hanno partorito un “polino”» Intervista raccolta da Giada Fazzalari

Soltanto il PD si oppone davvero alle destre @DomaniGiornale

Non deve essere così grave il pericolo fascista rappresentato da Giorgia Meloni se, da un lato, Calenda-Renzi, dall’altro, il ringalluzzito Conte sembrano impegnarsi soprattutto nell’erosione del Partito Democratico di Enrico Letta. In verità, contrariamente all’opinione di molti commentatori per i quali le parole e le impressioni contano più dei numeri e delle percentuali, non sembra in atto nessuna erosione. Anzi, i sondaggi più credibili indicano e documentano che da almeno un mese o poco più il Partito Democratico è, se non stabile intorno al 22 per cento, addirittura in leggera, forse impercettibile, crescita. Non solo, ma non si vede nessun effetto positivo della presunta erosione del PD sugli abusivi del Terzo Polo che rimangono bloccati su percentuali che sono quasi la metà di quelle dei veri Terzisti guidati da Conte. Il recupero dei Cinque Stelle che stanno inseguendo, forse raggiungendo Matteo Salvini, irrequieto leader della Lega, non sembra dovuto alla sottrazione di consensi a Letta, ma al possibile, probabile, rientro di elettori già pentastellati che si stanno ricredendo. D’altronde, il menu dell’offerta partitica non può sembrare maggiormente appetibile per chi aveva nutrito speranze di un reale cambiamento di sistema, certo, poi, disatteso, ma non senza esiti apprezzabili: reddito di cittadinanza e taglio dei parlamentari. Incuriosisce, però, che gli Azionisti e i Pentastellati mirino in particolar modo più a ricavarsi uno spazietto a spese del PD piuttosto che giocare a tutto campo anche con spirito repubblicano per impedire alla destra di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e forse più mettendola nelle condizioni di riformare la Costituzione repubblicana evitando l’eventuale sfida referendaria. Preoccupante sarebbe poi se Calenda-Renzi e Conte pensassero che il messaggio da mandare all’elettorato è che l’avversario principale è il Partito Democratico e non il trio delle meraviglie Meloni, Salvini, Berlusconi, le loro proposte programmatiche e valoriali, le loro collocazioni internazionali, le loro amicizie europee. Serenamente opposto a Giorgia Meloni, mi pare che Enrico Letta sia sostanzialmente uno dei pochi, unitamente a +Europa, a ritenere che la destra è per l’appunto l’avversario principale. Continuare a fare dell’ironia sul campo largo non soltanto non serve a nulla, neanche all’erosione immaginaria, ma significa non avere capito che, in effetti, l’avversario principale esiste e che, lui/lei sì, è da mesi il/la front runner. Non si fermerà quella corsa di testa proponendole, a quale titolo mai?, l’inserimento in un governo di unità nazionale che lo stesso proponente Calenda avrebbe in altri tempi carinamente definito accozzaglia e ammucchiata. Prima si contano i voti e i seggi. Poi si fanno i governi. Questa è la democrazia competitiva. Il resto non è “erosione”, ma confusione.  

Pubblicato il 7 settembre 2022 su Domani

La rappresentanza politica non cade dal cielo

Le candidature al parlamento sono il volto e le gambe di un partito/coalizione. Sono il volto perché, politici di lungo corso e esperti provenienti dalla società “civile”, donne espressione di associazioni, giovani all’inizio della carriera, offrono l’immagine che il partito vuole dare di se stesso agli elettori. Le candidature sono le gambe del partito poiché tocca a loro portare il programma alle organizzazioni sociali, economiche, culturali e religiose, alle iniziative con gruppi di elettori, nei salotti televisivi. La disponibilità e la capacità dei candidati di “spendersi” sul territorio delle circoscrizioni elettorali, diventate molto ampie in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari, sono qualità importanti che possono fare la differenza e che, pertanto, meritano di essere prese in seria considerazione e premiate.

   Le tensioni e le critiche che hanno accompagnato la formazione delle liste dei candidati del Partito Democratico sono, da un lato, inevitabili, dall’altro, istruttive. Il PD è un partito piuttosto grande e diversificato. Nel 2018 la maggioranza dei suoi parlamentari era stata scelta da Renzi. Inevitabile che il nuovo segretario Letta volesse procedere ad un rinnovamento. Per qualcuno/a di loro la non-ricandidatura o l’essere collocato/a in posizione di difficilissima eleggibilità può significare la fine della carriera. Tuttavia, chi fa politica “per passione” dovrebbe comunque impegnarsi pancia a terra per il suo partito/coalizione.

   In seguito alla riduzione del numero dei parlamentari, comunque vada il PD perderà un terzo dei suoi parlamentari. L’unico partito certo di guadagnare parlamentari, quasi triplicandone il numero, è Fratelli d’Italia che, dunque, dovrebbe riuscire a sfuggire a tensioni, conflitti, recriminazioni. Non soltanto Giorgia Meloni potrà permettersi di riconfermare tutti i parlamentari uscenti, ma sarà in grado di reclutare i nuovi in un ambito affollato di ambiziosi e pretendenti. Probabilmente, cercherà anche qualche colpo ad effetto: candidature inaspettate e prestigiose e sarà generosa con gli alleati.

   In chiave più ampia, anche perché le elezioni del 25 settembre saranno importantissime per il governo del paese, è mia opinione che gli elettori dovranno valutare le candidature con riferimento ad un criterio sovrastante: se eletto/a quel(la) parlamentare vorrà e saprà interpretare e rappresentare le mie preferenze, i miei interessi, le mie necessità in maniera “fedele” e efficace? Questo criterio implica che quanti più sono i paracadutati tanto più difficile e rara sarà una buona rappresentanza politica. Parlamentari che non vivono nel collegio nel quale vengono eletti non riusciranno, neppure con il più intenso degli impegni, a offrire quella rappresentanza politica che solo chi conosce un territorio e i suoi abitanti può dare. Se i cittadini si sentiranno poco e male rappresentati aumenterà tristemente la loro distanza dalla politica con conseguenze negative sia sull’opposizione sia sullo stesso governo.

Pubblicato AGL il 18 agosto 2022