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Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali #DemocraziaFutura @Key4biz

Pubblicato il 2 Novembre 2023 su Key4biz

I due punti cruciali del disegno di legge costituzionale presentato dal governo, secondo Gianfranco Pasquino: “da contrastare tramite referendum oppositivo”.

Nell’editoriale scritto per l’undicesimo fascicolo in chiusura di Democrazia futura, Gianfranco Pasquino commenta il disegno di legge costituzionale[1]  presentato dal governo evidenziandone i due punti cruciali. Secondo il noto scienziato politico “L’elezione popolare diretta del Primo ministro” presenta numerosi rischi di incostituzionalità e sarebbe – così recita il titolo dell’articolo – “Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali, da contrastare tramite referendum oppositivo”. 

Secondo Pasquino “Da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione: primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti; secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi”. L’Accademico rileva da un lato l’assenza di un ballottaggio, giustificato per impedire ammucchiate nel fronte avverso di centrosinistra, dall’altro “L’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni”. Ne uscirebbe un Presidente della Repubblica privo non solo del potere di nomina del Premier ma anche di quello di scioglimento del Parlamento “ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi”. 

Elezione popolare diretta del Primo ministro è il titolo del disegno di legge costituzionale del governo che cambierebbe in maniera profonda e “originale” il modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana. Sappiamo della esistenza di molti giuristi favorevoli che già consigliarono Matteo Renzi quando formulò le sue riforme, poi sonoramente bocciate dal referendum (quindi, non confermativo!) e la sua legge elettorale Italicum che mezza Europa avrebbe apprezzato e imitato, ma che fu smantellata dalla Corte Costituzionale.

Il richiamo è doppiamente opportuno perché, primo, il disegno di legge innegabilmente si ispira al modello “sindaco d’Italia”; secondo, ha immediatamente ricevuto il sostegno di Renzi e di Maria Elena Boschi, la sua ex-ministra delle Riforme Istituzionali. L’obiettivo è garantire la stabilità del Primo Ministro nella carica in modo da migliorare l’efficienza/efficacia della sua azione.

Non solo stabilità nella durata nel tempo ma capacità politiche e solidità della coalizione. Da cosa dipende l’efficacia operativa di un capo di governo in una democrazia parlamentare

A proposito della stabilità alcune osservazioni comparate sulla durata in carica dei capi di governo e di Presidenti “presidenzialisti” e “semipresidenzialisti” possono essere utili. Il recordman assoluto di durata in carica come capo di un governo parlamentare è il socialdemocratico svedese Tage Erlander, 23 anni (1946-1969). Al secondo posto il Cancelliere democristiano tedesco Helmut Kohl, 16 anni (1982-1998), seguito, con una differenza di un paio di settimane, dalla democristiana Angela Merkel (2005-2021). Quarto il socialista spagnolo Felipe Gonzalez, 14 anni (1982-1996). Quinto, il socialista francese François Mitterrand, 14 anni (1981-1995), semipresidenzialista. Da ultimo, va collocato il più duraturo dei presidenti presidenzialisti, il Democratico statunitense Franklin Delano Roosevelt, 12 anni (1933-1945). Dunque, è possibile che nelle democrazie parlamentari i capi di governo siano significativamente stabili nella loro carica. La stabilità politica è una importante precondizione per l’efficacia operativa, ma questa efficacia dipende non dalla durata nel tempo, ma soprattutto dalle capacità politiche e personali del capo di governo e dalla solidità della coalizione.

I due punti controversi su cui sono probabili le obiezioni della Corte Costituzionale

Da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione:

  • primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti;
  • secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi.

Le probabilità che la Corte Costituzionale, sulla base della sua stessa giurisprudenza, obietti mi paiono elevatissime.

L’assenza di un ballottaggio per evitare ammucchiate

Praticamente, ovunque laddove il titolare della più alta carica viene eletto dai cittadini, in assenza di una maggioranza assoluta, è prevista la procedura del ballottaggio attraverso il quale il candidato vittorioso risulterà eletto dalla maggioranza assoluta dei votanti. Avrà, dunque, maggiore legittimazione politica, democratica. Il centro-destra teme e vuole scongiurare la formazione di schieramenti a lui contrari di tipo occasionale, opportunistico, eterogenei, puramente negativi. Tuttavia, è evidente che, in assenza di ballottaggio, quegli schieramenti, elegantemente le “ammucchiate” del centro-sinistra sarebbero costrette a formarsi prima delle elezioni. Invece, il ballottaggio renderebbe più trasparente il procedimento della loro formazione e consentirebbe all’elettorato di giudicare a maggior ragion veduta.

L’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni

Anche se eletto dal popolo, il Primo ministro può essere sostituito senza nessun ritorno al popolo, ma in Parlamento purché la sua sostituzione venga effettuata dalla e nella sua maggioranza e con un parlamentare già appartenente a quella stessa maggioranza. L’espediente mira a rendere impossibile sia l’assunzione/ascensione di un “tecnico” al vertice del governo sia un cambio di maggioranza, cosiddetto ribaltone, fenomeni entrambi tanto rari quanto possibili in tutte le democrazie parlamentari et pour case: non demandare all’elettorato con il ritorno anticipato alle urne, quindi logorandolo, la soluzione di problemi prodotti dai politici. Qualora il sostituto prescelto non ne ottenesse la fiducia il Presidente della Repubblica ha l’obbligo di sciogliere il Parlamento.

Un Presidente della Repubblica ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi

Mi pare evidente che questo esito può essere procurato ad arte dalla maggioranza anche qualora sia in corso la sua disgregazione. Comunque, in questo modo relativamente soffice, avendo già perso il potere di nomina del Primo ministro, il Presidente della Repubblica si vede sottrarre anche il potere di scioglimento del Parlamento. Poiché il disegno di legge abolisce i senatori a vita per meriti sociali, artistici, scientifici e culturali, il Presidente della Repubblica italiana, da protagonista nel complesso intreccio di freni e contrappesi istituzionali e democratici, diventa figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi, finendo confinato fra i passacarte irrilevanti

Dell’abolizione dei Senatori a vita non scrivo nulla poiché mi trovo in lampante conflitto d’interessi avendo presentato nel 1987 un disegno di legge intitolato “Soppressione dei senatori a vita art. 59” includendovi, dunque, anche gli ex-Presidenti della Repubblica. Costoro potrebbero giustamente continuare a fregiarsi del titolo di Presidente Emerito. I cittadini che hanno eccelso mei campi sociale, artistico, scientifico e letterario dovrebbero essere opportunamente onorati in altro modo.

La strada del referendum oppositivo in caso di approvazione della riforma

La valutazione complessiva del disegno di legge costituzionale del governo di centro-destra è senza esitazioni negativa. Il modello di governo parlamentare viene scombussolato non da un nuovo, coerente modello, ma da un’elezione che può soddisfare gli appetiti populisti indebolendo, se non sostanzialmente sconvolgendo i freni e i contrappesi istituzionali e democratici. Ciò detto, dando per scontato che il centro-destra ha i numeri e l’intenzione di approvare la sua riforma, rimane aperta e praticabile la strada del referendum costituzionale, ovviamente non confermativo, ma oppositivo.


[1] Le sue idee e proposte in materia sono esposte nel libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Università Bocconi Editore-Egea, 2015, 204 p.

Pasquino: «Il premierato? Non esiste, questo testo è un pasticcio» #intervista @ildubbionews

di Giacomo Puletti

Il professore emerito di Scienza politica a Bologna: «L’idea di poter mantenere il potere di garanzia del Quirinale non sta in piedi: il presidente della Repubblica non potrebbe più nominare il capo del Governo né sciogliere le Camere»

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, definisce la riforma Casellati «un pasticcio» perché «il premierato non esiste» e spiega che l’Autonomia differenziata «è solo una questione negoziale» usata dalla Lega per mettere in difficoltà Fdi.

Professor Pasquino, che giudizio dà della riforma istituzionale proposta dalla ministra Casellati, che introduce una sorta di premierato all’italiana?

Ho scritto, credo nel 2003, un articolo accademico sulla rivista italiana di Scienza politica, nel quale affermavo che il premierato non esiste. E dunque inevitabilmente questa riforma risulterà un pasticcio. Quando si parla poi di “premierato all’italiana” è ancora peggio perché sappiamo benissimo che una cosa fatta “all’italiana” non è una buona cosa. Basti pensare all’Italicum, che non era una buona legge elettorale. Se poi premierato vuol dire elezione diretta del presidente del Consiglio, questa formula è esistita in un solo paese, cioè Israele, per tre volte. E ogni volta il progetto è stato poi abbandonato. Chi viene dopo dovrebbe imparare dagli errori, non imitarli.

La maggioranza, e anche Matteo Renzi, invitano a leggere i testi proposti, e guardano al modello inglese. Cosa non la convince?

Il premier inglese non è eletto direttamente dagli elettori. Il capo del governo è colui che ha una maggioranza assoluta, o quasi perché a volte ci sono degli escamotages, in Parlamento. Inoltre sappiamo che la forma parlamentare all’inglese si regge su un sistema maggioritario a turno unico. Non ho letto il testo della proposta Casellati ma ho letto quello di Renzi, ed è una stupidaggine colossale. È il tentativo di trasportare a livello nazionale il sistema per l’elezione dei sindaci. Ma come si fa a pensare che si possa governare l’Italia con il sistema con cui si governa, non so, Benevento? É un’idea sbagliata e per di più neanche originale. Il sindaco d’Italia non è un’idea di Renzi ma di Mario Segni, in qualche modo un riformatore, ma era già sbagliata all’epoca e lo è oggi.

Con la riforma cambierebbe anche la legge elettorale?

La riforma del sindaco d’Italia implica automaticamente un nuovo sistema elettorale, cioè quello già previsto per l’elezione del sindaco nei paesi con più di 15mila abitanti. Sappiamo che il sindaco viene eletto con il sistema a doppio turno e quindi con la maggioranza assoluta e anche con un premio di maggioranza che si trasforma in seggi. Ma si immagina a livello nazionale fin dove può arrivare un sistema che prevede un grosso premio di maggioranza? E infatti questo è uno dei motivi per cui l’Italicum fu dichiarato incostituzionale.

Cosa dovrebbe proporre l’opposizione per istillare il dubbio nella maggioranza?

Non è un problema della maggioranza, ma della maggioranza più Renzi. Ed è questo che la rende forte. La risposta dovrebbe essere una sola. Basterebbe puntare sul rafforzamento del governo attraverso il voto di sfiducia costruttiva di tipo tedesco. In Germania si vota contro il cancelliere in carica ed entro 48 ore a favore del nuovo cancelliere, sempre a maggioranza assoluta. In Spagna c’è la mozione di sfiducia il cui primo firmatario, se viene approvata, diventa capo del governo. Con un colpo solo, Sanchez è diventato presidente del governo. Il modello tedesco consente anche eventuali ripensamenti tra la prima sfiducia e la nuova fiducia. E consente in qualche modo adattamenti per decidere bene cosa fare in quelle 48 ore. Il tempo non è stato scelto a caso ma è il tempo tecnico affinché tutti sappiano che devono tornare da eventuali missioni all’estero e tornino.

La maggioranza dice che verrà mantenuto il potere di garanzia del presidente della Repubblica…

Questa storia di mantenere il potere di garanzia del Quirinale non ha senso. Perché il presidente della Repubblica non potrà nominare il presidente del Consiglio e non potrà sciogliere il Parlamento. Nelle città è il sindaco che decide se sciogliere il consiglio comunale, ma in quel momento cade anche lui. Insomma, sarebbe un disastro.

Crede che lo scambio riforma istituzionale- autonomia tra Fdi e Lega arriverà a conclusione?

Non mi faccia fare l’astrologo, diciamo che se vogliono probabilmente ci arrivano. Poi debbo ricordare che anche in quel caso la parola passerete agli elettori con il referendum.

Eppure le tensioni ci sono e la Lega sembra pronta a forzare la mano sull’Autonomia, vista la tenacia del ministro Calderoli…

L’Autonomia differenziata è la cosa meno sexy che si possa immaginare. È una cosa che serve alle regioni potenti per diventare ancora più potenti e a quelle più deboli per cercare di avere maggior potere che tuttavia difficilmente otterranno. Ma sono d’accordo sul fatto che sia solo una questione negoziale che serve alla Lega per dire “dateci l’autonomia sennò non votiamo la riforma istituzionale”.

Pensa che con l’opposizione alla riforma istituzionale il Pd di Schlein possa ritrovare la centralità che viene minacciata ogni giorno dal M5S di Conte?

Da un lato sono convinto che il Pd faccia bene a sottolineare il fatto di essere un partito nel quale si discute e si hanno posizioni diverse, entro certi limiti. E questo lo apprezzo. Dall’altro lato però su certe questioni deve dimostrarsi compatto. In primis sull’Europa. Il Pd è l’unico partito veramente europeista in Italia, con l’aggiunta di + Europa che però è un piccolo partito. Il punto di partenza deve essere l’europeismo, dividersi su questo è suicida.

E sul premierato?

Sulle riforme istituzionali è bene che dicano che si possono fare aggiustamenti precisi e puntuali senza stravolgere la Costituzione, che è un edificio nel quale se si toglie un mattoncino bisogna sapere dove ricollocarlo, altrimenti crolla tutto. Con due o tre piccole e mirate riforme il sistema può funzionare meglio. Detto questo, il problema italiano non è costituzionale ma politico, perché i partiti sono diventate macchine poco funzionanti che si aggrappano al guidatore. Ma il problema è annoso e parte da prima di Tangentopoli, quando i democristiani si sono cullati sul loro potere, i comunisti non hanno riformato il partito come avrebbero dovuto fare dopo la morte di Berlinguer, e i socialisti si sono buttati anima e cuore su Craxi.

Pubblicato il 31 agosto si Il Dubbio

Pasquino: «Al Partito democratico servono idee, non nomi» #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

“Sto con Letta. Ha fatto bene a presidiare la piazza di Roma”

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna spiega che «il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario» e che quindi il problema del Partito democratico «non è accelerare i tempi del Congresso ma produrre delle idee». Secondo Pasquino «finora il dibattito è stato deludente» perché «i candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta» .

Professor Pasquino, Letta ieri ha scritto che l’opposizione sta contrastando le politiche del governo sull’immigrazione, ma a Catania c’è Aboubakar Soumahoro e non qualche dirigente del Pd. Trova che i dem stiano sbagliando strategia?

Il problema dell’immigrazione non riguarda i partiti o i dirigenti ma l’intero paese, e quindi chiunque sia al governo dovrebbe riuscire a coinvolgere l’opposizione. Il problema è che non abbiamo la soluzione in casa e che è un problema europeo. È l’unico caso in cui mi sento di dire che l’Ue porta una responsabilità pesante. Non riesco a immaginarmi un segretario di partito, peraltro dimissionario, che va li per risolvere la situazione. Anzi, farebbe solo peggio.

Dunque i politici che sono lì in questo momento sbagliano?

Sbagliano e penso che lo facciano solo per un po’ di popolarità e visibilità. Che Sinistra italiana abbia una posizione diversa dal Pd lo sappiamo, ma “accogliere tutti” non è la soluzione. Apprezzo la bontà di Soumahoro, ma la sua non è una soluzione politica.

Torniamo a Letta, che domenica è stato contestato alla manifestazione di Roma. Pensa abbia sbagliato ad andare?

Letta ha fatto benissimo ad andare per portare a quella manifestazione la posizione del Pd, che io condivido totalmente e che peraltro non tutti nel Pd condividono. Si è preso una responsabilità importante perché ci crede. Quella non è solo la sua posizione personale ma spero della maggioranza del partito. Non doveva lasciare la piazza agli equidistanti, che non fanno parte del Pd.

Eppure nelle stesse ore a Milano c’era un’altra manifestazione molto più vicina alle posizioni di Letta, non poteva andare lì come hanno fatto altri esponenti dem?

Bisogna andare dove c’è una posizione opposta o comunque diversa dalla tua, per testimoniarne l’esistenza. A Milano Calenda e Renzi avrebbero comunque controllato la manifestazione e messo Letta in una posizione difficile. Quella era una manifestazione molto vicina alla linea del Pd, è vero, ma proprio per questo Letta non avrebbe portato nulla di utile.

Il segretario dem ha auspicato ieri un’accelerazione sui tempi del Congresso, condivisa da Bonaccini. Crede che anche da questo passi un’opposizione più dura al governo Meloni?

Non penso, perché il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario. Il problema non è accelerare ma produrre delle idee. Finora il dibattito è stato deludente. I candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta. E bisogna sapere che tipo di partito si vuole costruire. Si vuole o no un partito socialdemocratico che riscopra il rapporto con i sindacati così da riportare indietro milioni di voti? In queste settimane non ho visto idee, solo persone che si candidano. L’unica che ha proposto qualcosa è Paola de Micheli, ma in generale il dibattito è cominciato male e non finirà bene.

La ricostruzione passa anche dal voto in Lazio e Lombardia: quale futuro vede per il Pd dopo il “caso Moratti”?

Non sono un astrologo ma è chiaro che in Lombardia la mossa di Renzi e Calenda fa perdere il Pd. Se il Pd aveva una minima possibilità di vincere, con Moratti che portava via voti al centrodestra, questa mossa invece lo farà perdere. Nel Lazio bisogna che Pd e M5S giungano a un accordo. Se Calenda e Renzi vanno su Alessio D’Amato, indeboliscono l’eventuale alleanza tra dem e grillini ma al tempo stesso la facilitano perché chiariscono le idee agli elettori. Ma Pd e M5S o si mettono insieme o rinunciano a vincere le regionali.

Lezioni dal Parlamento, cosa abbiamo imparato secondo Pasquino @formichenews

Il centrodestra è davvero compatto? Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il Paese. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e accademico dei Lincei, autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet) e curatore di Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani)

Dimenticheremo presto, spero, i discorsi, meno i trascorsi, dei neo-Presidenti di Senato (Ignazio La Russa) e Camera (Lorenzo Fontana). Li aspettiamo alla prova mentre nei nostri occhi sono rimaste le memorabilia fasciste gelosamente custodite e generosamente esibite da La Russa e nelle nostre orecchie risuonano le affermazioni omofobe e (filo)putiniane di Fontana. Il centro-destra poteva fare meglio, ma almeno già sappiamo che il prossimo Presidente della Repubblica non verrà dalle due più alte cariche del Parlamento. Abbiamo anche visibilmente imparato che sui nomi il centro-destra è tutto meno che compatto. Va a prove di forza e a scontri finendo, seppure in maniera involontaria, di inserire qualche puntuto cuneo nei ranghi delle opposizioni. Queste, Partito Democratico, Movimento del Conte, Calenda e Renzi (i cui protagonismi non stanno nella stessa stanza per ragioni di stazza), promettono di essere dure, intransigenti, ad oltranza, ma qualcuno pensa che il suo voto potrà valere un incarico a futura memoria. Questa è la politica, commenta un ex-dalemiano su twitter. No, questo è soltanto una delle incarnazioni della cattiva politica che infanga la politica e dà la colpa ai populisti che, irresponsabili, incassano, gongolano e passano oltre. L’incasso non tarderà.

Il quesito è, ma doveva già essere stato sollevato dai commentatori troppo spesso genuflessi, se le due elezioni parlamentari, in misura diversa, non segnalino che il centro-destra è tutto meno che compatto. Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il paese. Fra breve vedremo più acutamente alcuni di questi scontri sui nomi dei ministri, anche donne. Politici e tecnici per me mai pari sono, ma in una democrazia decente entrambi verrebbero nominati con riferimento a competenza, esperienza e lealtà (elemento da non trascurare mai) politica che per me va al capo del governo e al programma sottoscritto, non ai capi dei partiti che, invece, a loro volta, dovrebbero essere impegnati e giudicati sul programma. Ne vedremo delle belle (sic) e delle brutte (ri-sic), ma è giusto esigere motivazioni articolate per entrambe. Poi, naturalmente, i voti contano e, temo, conteranno anche alcuni ricatti.

Lascio i ricatti alle loro nefaste traiettorie, e concludo con i ricordi. Il ricordo più bello è quello di una elegante signora novantenne che rappresenta un pezzo di storia d’Italia e d’Europa, del fascismo e della nazismo, dell’antisemitismo e delle discriminazioni, della democrazia. La senatrice a vita Liliana Segre, nominata da Mattarella, ha sintetizzato in poche precise e ammirevoli parole che cosa i politici (e i cittadini) dovrebbero fare per un’Italia migliore: applicare la Costituzione, seguendola anche, anzi, soprattutto, se la si vuole riformare (art. 138). Metaforicamente, il dito della Sen. Segre, che non sarebbe stata lì se il fascismo non fosse stato sconfitto, indicava la luna, ma non guardate solo la luna, guardate anche di chi è quel dito. Di una grande donna che testimonia che è possibile combattere, con perseveranza e grazia, odio e ingiustizie e vincere.

Pubblicato il 15 ottobre 2022 su Formiche.net

«Che errore polarizzare lo scontro. Calenda-Renzi? Operazione balorda» #intervista @Avantionline

«Al Pd serve una scelta socialdemocratica. Calenda e Renzi hanno partorito un “polino”» Intervista raccolta da Giada Fazzalari

Soltanto il PD si oppone davvero alle destre @DomaniGiornale

Non deve essere così grave il pericolo fascista rappresentato da Giorgia Meloni se, da un lato, Calenda-Renzi, dall’altro, il ringalluzzito Conte sembrano impegnarsi soprattutto nell’erosione del Partito Democratico di Enrico Letta. In verità, contrariamente all’opinione di molti commentatori per i quali le parole e le impressioni contano più dei numeri e delle percentuali, non sembra in atto nessuna erosione. Anzi, i sondaggi più credibili indicano e documentano che da almeno un mese o poco più il Partito Democratico è, se non stabile intorno al 22 per cento, addirittura in leggera, forse impercettibile, crescita. Non solo, ma non si vede nessun effetto positivo della presunta erosione del PD sugli abusivi del Terzo Polo che rimangono bloccati su percentuali che sono quasi la metà di quelle dei veri Terzisti guidati da Conte. Il recupero dei Cinque Stelle che stanno inseguendo, forse raggiungendo Matteo Salvini, irrequieto leader della Lega, non sembra dovuto alla sottrazione di consensi a Letta, ma al possibile, probabile, rientro di elettori già pentastellati che si stanno ricredendo. D’altronde, il menu dell’offerta partitica non può sembrare maggiormente appetibile per chi aveva nutrito speranze di un reale cambiamento di sistema, certo, poi, disatteso, ma non senza esiti apprezzabili: reddito di cittadinanza e taglio dei parlamentari. Incuriosisce, però, che gli Azionisti e i Pentastellati mirino in particolar modo più a ricavarsi uno spazietto a spese del PD piuttosto che giocare a tutto campo anche con spirito repubblicano per impedire alla destra di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e forse più mettendola nelle condizioni di riformare la Costituzione repubblicana evitando l’eventuale sfida referendaria. Preoccupante sarebbe poi se Calenda-Renzi e Conte pensassero che il messaggio da mandare all’elettorato è che l’avversario principale è il Partito Democratico e non il trio delle meraviglie Meloni, Salvini, Berlusconi, le loro proposte programmatiche e valoriali, le loro collocazioni internazionali, le loro amicizie europee. Serenamente opposto a Giorgia Meloni, mi pare che Enrico Letta sia sostanzialmente uno dei pochi, unitamente a +Europa, a ritenere che la destra è per l’appunto l’avversario principale. Continuare a fare dell’ironia sul campo largo non soltanto non serve a nulla, neanche all’erosione immaginaria, ma significa non avere capito che, in effetti, l’avversario principale esiste e che, lui/lei sì, è da mesi il/la front runner. Non si fermerà quella corsa di testa proponendole, a quale titolo mai?, l’inserimento in un governo di unità nazionale che lo stesso proponente Calenda avrebbe in altri tempi carinamente definito accozzaglia e ammucchiata. Prima si contano i voti e i seggi. Poi si fanno i governi. Questa è la democrazia competitiva. Il resto non è “erosione”, ma confusione.  

Pubblicato il 7 settembre 2022 su Domani

La rappresentanza politica non cade dal cielo

Le candidature al parlamento sono il volto e le gambe di un partito/coalizione. Sono il volto perché, politici di lungo corso e esperti provenienti dalla società “civile”, donne espressione di associazioni, giovani all’inizio della carriera, offrono l’immagine che il partito vuole dare di se stesso agli elettori. Le candidature sono le gambe del partito poiché tocca a loro portare il programma alle organizzazioni sociali, economiche, culturali e religiose, alle iniziative con gruppi di elettori, nei salotti televisivi. La disponibilità e la capacità dei candidati di “spendersi” sul territorio delle circoscrizioni elettorali, diventate molto ampie in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari, sono qualità importanti che possono fare la differenza e che, pertanto, meritano di essere prese in seria considerazione e premiate.

   Le tensioni e le critiche che hanno accompagnato la formazione delle liste dei candidati del Partito Democratico sono, da un lato, inevitabili, dall’altro, istruttive. Il PD è un partito piuttosto grande e diversificato. Nel 2018 la maggioranza dei suoi parlamentari era stata scelta da Renzi. Inevitabile che il nuovo segretario Letta volesse procedere ad un rinnovamento. Per qualcuno/a di loro la non-ricandidatura o l’essere collocato/a in posizione di difficilissima eleggibilità può significare la fine della carriera. Tuttavia, chi fa politica “per passione” dovrebbe comunque impegnarsi pancia a terra per il suo partito/coalizione.

   In seguito alla riduzione del numero dei parlamentari, comunque vada il PD perderà un terzo dei suoi parlamentari. L’unico partito certo di guadagnare parlamentari, quasi triplicandone il numero, è Fratelli d’Italia che, dunque, dovrebbe riuscire a sfuggire a tensioni, conflitti, recriminazioni. Non soltanto Giorgia Meloni potrà permettersi di riconfermare tutti i parlamentari uscenti, ma sarà in grado di reclutare i nuovi in un ambito affollato di ambiziosi e pretendenti. Probabilmente, cercherà anche qualche colpo ad effetto: candidature inaspettate e prestigiose e sarà generosa con gli alleati.

   In chiave più ampia, anche perché le elezioni del 25 settembre saranno importantissime per il governo del paese, è mia opinione che gli elettori dovranno valutare le candidature con riferimento ad un criterio sovrastante: se eletto/a quel(la) parlamentare vorrà e saprà interpretare e rappresentare le mie preferenze, i miei interessi, le mie necessità in maniera “fedele” e efficace? Questo criterio implica che quanti più sono i paracadutati tanto più difficile e rara sarà una buona rappresentanza politica. Parlamentari che non vivono nel collegio nel quale vengono eletti non riusciranno, neppure con il più intenso degli impegni, a offrire quella rappresentanza politica che solo chi conosce un territorio e i suoi abitanti può dare. Se i cittadini si sentiranno poco e male rappresentati aumenterà tristemente la loro distanza dalla politica con conseguenze negative sia sull’opposizione sia sullo stesso governo.

Pubblicato AGL il 18 agosto 2022

Il giorno della rottura tra Carlo Calenda & Enrico Letta @RadioRadicale intervista Gianfranco Pasquino

Controcorrente, puntata di lunedì 8 agosto 2022 , intervista condotta da Lanfranco Palazzolo

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Dizionario per capire il confuso dibattito politico di questi giorni @DomaniGiornale

Caro Direttore,

mi accingo, ancora una volta senza esitazione di sorta, ad assolvere al missionario compito – di questi tempi assi arduo e scomodo – di sgomberare il dibattito pubblico dai detriti dell’ignoranza, dalle macerie delle culture politiche degenerate e estinte, e dalle trappole della manipolazione per riportalo sui binari solidi e rigorosi della Scienza Politica.

Mi sento obbligato a cominciare esponendo le mie credenziali, forse un’aggravante. Per 43 anni ho insegnato Scienza politica nell’Università di Bologna. Ho tenuto anche corsi in università straniere da Washington, D.C. a Los Angeles, da Harvard a Madrid, da Oxford a Natollin (Polonia). Ho maturato esperienza e competenza nell’ambito dei Sistemi politici comparati. Ho scritto almeno cinque volumi specificamente in materia più un prezioso (sic) libretto sui Sistemi elettorali. Sono particolarmente orgoglioso di Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985) dove, a scanso di equivoci che persistono, il principe non è il capo del governo, ma il cittadino sovrano già identificato da Lelio Basso. Nel dicembre 1985 il libro fu presentato a Torino da Norberto Bobbio e Pietro Ingrao (nel pubblico ricordo mia mamma molto emozionata). Ho scritto articoli accademici usciti in diverse lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, da ultimo, cinese. Ho pubblicato più di un centinaio di articoli di divulgazione su quotidiani e settimanali (ricordo con piacere “Rinascita”). Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985 ho fatto parte della Commissione Bozzi per le Riforme Istituzionali. Fra i molti colleghi parlamentari ricordo Roberto Ruffilli, capogruppo della DC, Pietro Scoppola, Beniamino Andreatta, Sergio Mattarella, Mario Segni, Gino Giugni, Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Eliseo Milani (con il quale scrivemmo la Relazione di Minoranza della Sinistra Indipendente del Senato), provenienze e competenze diverse, ma nessuno tanto sprovveduto quanto i contemporanei. Nell’estate-autunno 2016 sono stato presente, spesso protagonista, in circa ottanta iniziative per sostenere il NO al plebiscito costituzionale indetto e cavalcato da Matteo Renzi. Da ultimo sono frequentemente presente nel dibattito con tweet, spero puntuti e chiarificatori, nel complesso, temo, inefficaci, ma non ho ancora avuto il coraggio di chiedere chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.

Già durante l’esperienza referendaria mi resi tristemente conto di quanto diffusa e grande fosse/sia la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni. Da allora si è estesa e fatta persino più spessa. Su un solo punto, posso, credo, cantare vittoria. Sembra che quasi tutti i politici e i giornalisti abbiano imparato che in nessuna democrazia parlamentare, mai il governo è eletto dal popolo. In verità neanche nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali il popolo elegge il governo, ma soltanto il Presidente che poi con modalità varie formerà e trasformerà quasi a piacimento libitum il suo governo, cambiando i suoi ministri, mai previamente presentati agli elettori.

Con il taglio, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari è tornato in auge il bicameralismo perfetto che tale non è. Perfetto è aggettivo che si riferisce al funzionamento, mentre i bicameralismi esistenti, quello italiano compreso, possono essere paritari o differenziati secondo criteri appositi. Non parlerò delle leggi elettorali, quelle che portano i rappresentanti in parlamento, se non per menzionare due notissime firme del Corriere della Sera, la prima che concluse un suo denso articolo con lo scoop che sarebbe tornato un sistema proporzionale a turno unico, la seconda che, riflettendo sulle elezioni parlamentari francesi del giugno 2022 annunciò la probabilità di non pochi ballottaggi con tre o addirittura quattro candidati/e. Mi limiterò a sottolineare che il ballottaggio non prevede desistenze e non consente alleanze preventive. Invece, praticamente tutte le varianti di doppio turno offrono ampie gamme di opportunità a candidati, partiti, elettori.

L’instabilità governativa essendo notoriamente il più grave problema politico-costituzionale italiano di tanto in tanto qualcuno formula la proposta del presidenzialismo, anatema per la sinistra, ma oggetto largamente non identificato neppure dai suoi proponenti. Sembra che intorno a Giorgia Meloni abbiano deciso, riportato dal Corriere, che si potrebbe avere il semipresidenzialismo alla francese insieme al voto di sfiducia costruttivo previsto nella Costituzione della Repubblica parlamentare tedesca: una combinazione assolutamente e fecondamente europea. Esultano le cancellerie degli Stati-membri dell’Unione Europea che si interrogavano preoccupati sul tasso di europeismo di Fratelli d’Italia. Via tweet è arrivata la benedizione “mi auguro ci sia il presidenzialismo. Il mio modello è la Germania”, di Giovanni Toti (forse un omonimo, Professore di Diritto Costituzionale Comparato nell’Università della Liguria, non certamente il Presidente della Regione, ma non ho visto smentite).

Quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Bisogna garantire a molti la possibilità di intervenire nel dibattito sulle regole e sulla loro eventuale riforma offrendo rappresentanza parlamentare. Irrompe così nel deprimente discorso sulle implicazioni e conseguenze della Legge Rosato il cosiddetto diritto di tribuna ovvero la più o meno graziosa e generosa concessione da parte dello schieramento guidato da Enrico Letta di qualche seggio a Sinistra Italiana e ai Verdi in cambio dei loro pochi, ma, chi sa, talvolta decisivi, voti nei collegi uninominali. I francesi ne hanno discusso, inconcludentemente per anni. Nei collegi uninominali a causa del sistema elettorale maggioritario candidati di aggregazioni che, complessivamente, potevano raccogliere 6-8 e più per cento di voti su scala nazionale finivano per non vincere mai. Si pensò di riservare un 10 per cento di seggi per garantire l’ingresso in parlamento di rappresentanti di quelle liste chiamandolo diritto di tribuna. Non se ne fece, giustamente (poiché candidature eccellenti trova-va-no accoglienza da leader intelligenti), niente. La logica italiana, offerta di seggi in cambio di voti, è sostanzialmente diversa da quella francese: ampliare la rappresentanza politico-parlamentare, da suggerire di non ricorrere all’espressione “diritto di tribuna”.

Concludo, almeno temporaneamente, criticando l’uso del termine front runner. Negli USA, front runner è colui/colei che in un affollato campo di partecipanti alle elezioni primarie per designare il candidato/a alla Presidenza della Repubblica si trova in testa dopo tre o quattro primarie negli Stati. Il front runner non è il capo di un partito, non il capo del partito più grande, non il leader o il tessitore di una coalizione. Sostanzialmente, è una terminologia che nel contesto italiano non ha senso e, comunque, se del caso, oggi la front runner è Giorgia Meloni.

So che questo mio ennesimo tentativo di pulizia e precisione terminologica difficilmente risulterà vittorioso. Pazienza: tornerò su questi e altri termini ogniqualvolta l’uso fattone sarà scandaloso. Nel frattempo, dixi et salvavi animam meam.

GIANFRANCO PASQUINO

Accademico dei Lincei

Pubblicato 7 agosto 2022 su Domani

Una domanda a Draghi, legittima, sulla redistribuzione. Firmato Pasquino @formichenews

Dov’è la redistribuzione buona almeno come il debito che Draghi definisce buono? Oggi, in uno stato di frammentazione delle organizzazioni è difficile vedere chi saprebbe farsi portatore di quelle istanze e diventare credibile implementatore di politiche produttive-redistributive tenendo la barra diritta. Però, la domanda a Draghi va fatta. È una domanda legittima, anzi, buona, persino molto buona

Il problema non è sapere se e perché Draghi ha ceduto e non ha imposto il contributo di solidarietà per un paio d’anni sui redditi al di sopra dei 75 mila Euro l’anno (incidentalmente una soglia bassa anche e soprattutto in un paese di evasori medio alti). Neanche se lo ha fatto per non alienarsi i potenziali suoi elettori per la Presidenza della Repubblica, ipotesi che respingo sdegnosamente. Il problema è se Meloni e Salvini, Berlusconi e Renzi stanno segnalando che sono già d’accordo su alcune misure economiche oppure sono soltanto degli opportunisti oppure ancora stanno continuando con quelle che i giornalisti chiamano prove tecniche (magari preannunciando l’inciucio).

   Di tutto un po’, ma questo impasto non può essere un pezzo di programma prossimo venturo del centro-destra più Italia Viva. Sarebbe il prodromo della cattiva utilizzazione dei fondi europei oppure, peggio, dell’incapacità di spenderli in progetti accettabili dalla Commissione perché rispondenti ai criteri di innovazione, trasformazione, efficienza. L’interrogativo più lancinante comunque è, come suggeritomi da Simona Sotgiu, “riusciranno le forze politiche a trovare nuovamente la forza di mettere in atto misure redistributive?” La risposta potrebbe essere tranchante.

Da nessuna parte nelle democrazie europee i governi di centro-destra mettono in atto politiche redistributive. Quando lo fanno, poi, la loro redistribuzione va, non a favore dei settori svantaggiati, ma a favore di coloro che promettono di procedere a politiche di investimento, creazione di ricchezza, forse anche, ma è quasi l’ultima delle considerazioni, di creazione di posti di lavoro. Frettolosamente ne concludo che la prima redistribuzione ha senso per chi si impegna a risolvere le difficoltà attuali di alcuni ceti. La seconda è quella classica dei neo-liberisti friedmanniani senza nessuna garanzia che funzioni, anzi, al contrario. Entrambe sono, nell’ordine, redistribuzioni meno o più cattive.

 Ma, allora, dov’è la redistribuzione buona almeno come il debito che Draghi definisce buono? Me la ricordo. Grazie alla mia età e a buoni studi. Fu la redistribuzione socialdemocratica classica. Oggi, in uno stato di frammentazione delle organizzazioni è difficile vedere chi saprebbe farsi portatore di quelle istanze e diventare credibile implementatore di politiche produttive-redistributive tenendo la barra diritta. Però, la domanda a Draghi va fatta. È una domanda legittima, anzi, buona, persino molto buona.

Pubblicato il 5 dicembre 2021 su formiche.net