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Pasquino: «Al Partito democratico servono idee, non nomi» #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti
“Sto con Letta. Ha fatto bene a presidiare la piazza di Roma”

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna spiega che «il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario» e che quindi il problema del Partito democratico «non è accelerare i tempi del Congresso ma produrre delle idee». Secondo Pasquino «finora il dibattito è stato deludente» perché «i candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta» .
Professor Pasquino, Letta ieri ha scritto che l’opposizione sta contrastando le politiche del governo sull’immigrazione, ma a Catania c’è Aboubakar Soumahoro e non qualche dirigente del Pd. Trova che i dem stiano sbagliando strategia?
Il problema dell’immigrazione non riguarda i partiti o i dirigenti ma l’intero paese, e quindi chiunque sia al governo dovrebbe riuscire a coinvolgere l’opposizione. Il problema è che non abbiamo la soluzione in casa e che è un problema europeo. È l’unico caso in cui mi sento di dire che l’Ue porta una responsabilità pesante. Non riesco a immaginarmi un segretario di partito, peraltro dimissionario, che va li per risolvere la situazione. Anzi, farebbe solo peggio.
Dunque i politici che sono lì in questo momento sbagliano?
Sbagliano e penso che lo facciano solo per un po’ di popolarità e visibilità. Che Sinistra italiana abbia una posizione diversa dal Pd lo sappiamo, ma “accogliere tutti” non è la soluzione. Apprezzo la bontà di Soumahoro, ma la sua non è una soluzione politica.
Torniamo a Letta, che domenica è stato contestato alla manifestazione di Roma. Pensa abbia sbagliato ad andare?
Letta ha fatto benissimo ad andare per portare a quella manifestazione la posizione del Pd, che io condivido totalmente e che peraltro non tutti nel Pd condividono. Si è preso una responsabilità importante perché ci crede. Quella non è solo la sua posizione personale ma spero della maggioranza del partito. Non doveva lasciare la piazza agli equidistanti, che non fanno parte del Pd.
Eppure nelle stesse ore a Milano c’era un’altra manifestazione molto più vicina alle posizioni di Letta, non poteva andare lì come hanno fatto altri esponenti dem?
Bisogna andare dove c’è una posizione opposta o comunque diversa dalla tua, per testimoniarne l’esistenza. A Milano Calenda e Renzi avrebbero comunque controllato la manifestazione e messo Letta in una posizione difficile. Quella era una manifestazione molto vicina alla linea del Pd, è vero, ma proprio per questo Letta non avrebbe portato nulla di utile.
Il segretario dem ha auspicato ieri un’accelerazione sui tempi del Congresso, condivisa da Bonaccini. Crede che anche da questo passi un’opposizione più dura al governo Meloni?
Non penso, perché il governo va contrastato con le idee, non con il cambio di segretario. Il problema non è accelerare ma produrre delle idee. Finora il dibattito è stato deludente. I candidati parlano di politiche ma si tratta di ricostruire il partito dalle fondamenta. E bisogna sapere che tipo di partito si vuole costruire. Si vuole o no un partito socialdemocratico che riscopra il rapporto con i sindacati così da riportare indietro milioni di voti? In queste settimane non ho visto idee, solo persone che si candidano. L’unica che ha proposto qualcosa è Paola de Micheli, ma in generale il dibattito è cominciato male e non finirà bene.
La ricostruzione passa anche dal voto in Lazio e Lombardia: quale futuro vede per il Pd dopo il “caso Moratti”?
Non sono un astrologo ma è chiaro che in Lombardia la mossa di Renzi e Calenda fa perdere il Pd. Se il Pd aveva una minima possibilità di vincere, con Moratti che portava via voti al centrodestra, questa mossa invece lo farà perdere. Nel Lazio bisogna che Pd e M5S giungano a un accordo. Se Calenda e Renzi vanno su Alessio D’Amato, indeboliscono l’eventuale alleanza tra dem e grillini ma al tempo stesso la facilitano perché chiariscono le idee agli elettori. Ma Pd e M5S o si mettono insieme o rinunciano a vincere le regionali.

Lezioni dal Parlamento, cosa abbiamo imparato secondo Pasquino @formichenews

Il centrodestra è davvero compatto? Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il Paese. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e accademico dei Lincei, autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet) e curatore di Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani)
Dimenticheremo presto, spero, i discorsi, meno i trascorsi, dei neo-Presidenti di Senato (Ignazio La Russa) e Camera (Lorenzo Fontana). Li aspettiamo alla prova mentre nei nostri occhi sono rimaste le memorabilia fasciste gelosamente custodite e generosamente esibite da La Russa e nelle nostre orecchie risuonano le affermazioni omofobe e (filo)putiniane di Fontana. Il centro-destra poteva fare meglio, ma almeno già sappiamo che il prossimo Presidente della Repubblica non verrà dalle due più alte cariche del Parlamento. Abbiamo anche visibilmente imparato che sui nomi il centro-destra è tutto meno che compatto. Va a prove di forza e a scontri finendo, seppure in maniera involontaria, di inserire qualche puntuto cuneo nei ranghi delle opposizioni. Queste, Partito Democratico, Movimento del Conte, Calenda e Renzi (i cui protagonismi non stanno nella stessa stanza per ragioni di stazza), promettono di essere dure, intransigenti, ad oltranza, ma qualcuno pensa che il suo voto potrà valere un incarico a futura memoria. Questa è la politica, commenta un ex-dalemiano su twitter. No, questo è soltanto una delle incarnazioni della cattiva politica che infanga la politica e dà la colpa ai populisti che, irresponsabili, incassano, gongolano e passano oltre. L’incasso non tarderà.
Il quesito è, ma doveva già essere stato sollevato dai commentatori troppo spesso genuflessi, se le due elezioni parlamentari, in misura diversa, non segnalino che il centro-destra è tutto meno che compatto. Certamente, il potere, la ricerca e l’esercizio del potere costituiranno una potente pomata rassodante e compattante, mai tale, però, da evitare scontri anche palesi e rumorosi, persino rischiosi, non soltanto per il governo, ma soprattutto per il paese. Fra breve vedremo più acutamente alcuni di questi scontri sui nomi dei ministri, anche donne. Politici e tecnici per me mai pari sono, ma in una democrazia decente entrambi verrebbero nominati con riferimento a competenza, esperienza e lealtà (elemento da non trascurare mai) politica che per me va al capo del governo e al programma sottoscritto, non ai capi dei partiti che, invece, a loro volta, dovrebbero essere impegnati e giudicati sul programma. Ne vedremo delle belle (sic) e delle brutte (ri-sic), ma è giusto esigere motivazioni articolate per entrambe. Poi, naturalmente, i voti contano e, temo, conteranno anche alcuni ricatti.
Lascio i ricatti alle loro nefaste traiettorie, e concludo con i ricordi. Il ricordo più bello è quello di una elegante signora novantenne che rappresenta un pezzo di storia d’Italia e d’Europa, del fascismo e della nazismo, dell’antisemitismo e delle discriminazioni, della democrazia. La senatrice a vita Liliana Segre, nominata da Mattarella, ha sintetizzato in poche precise e ammirevoli parole che cosa i politici (e i cittadini) dovrebbero fare per un’Italia migliore: applicare la Costituzione, seguendola anche, anzi, soprattutto, se la si vuole riformare (art. 138). Metaforicamente, il dito della Sen. Segre, che non sarebbe stata lì se il fascismo non fosse stato sconfitto, indicava la luna, ma non guardate solo la luna, guardate anche di chi è quel dito. Di una grande donna che testimonia che è possibile combattere, con perseveranza e grazia, odio e ingiustizie e vincere.
Pubblicato il 15 ottobre 2022 su Formiche.net
«Che errore polarizzare lo scontro. Calenda-Renzi? Operazione balorda» #intervista @Avantionline
Soltanto il PD si oppone davvero alle destre @DomaniGiornale


Non deve essere così grave il pericolo fascista rappresentato da Giorgia Meloni se, da un lato, Calenda-Renzi, dall’altro, il ringalluzzito Conte sembrano impegnarsi soprattutto nell’erosione del Partito Democratico di Enrico Letta. In verità, contrariamente all’opinione di molti commentatori per i quali le parole e le impressioni contano più dei numeri e delle percentuali, non sembra in atto nessuna erosione. Anzi, i sondaggi più credibili indicano e documentano che da almeno un mese o poco più il Partito Democratico è, se non stabile intorno al 22 per cento, addirittura in leggera, forse impercettibile, crescita. Non solo, ma non si vede nessun effetto positivo della presunta erosione del PD sugli abusivi del Terzo Polo che rimangono bloccati su percentuali che sono quasi la metà di quelle dei veri Terzisti guidati da Conte. Il recupero dei Cinque Stelle che stanno inseguendo, forse raggiungendo Matteo Salvini, irrequieto leader della Lega, non sembra dovuto alla sottrazione di consensi a Letta, ma al possibile, probabile, rientro di elettori già pentastellati che si stanno ricredendo. D’altronde, il menu dell’offerta partitica non può sembrare maggiormente appetibile per chi aveva nutrito speranze di un reale cambiamento di sistema, certo, poi, disatteso, ma non senza esiti apprezzabili: reddito di cittadinanza e taglio dei parlamentari. Incuriosisce, però, che gli Azionisti e i Pentastellati mirino in particolar modo più a ricavarsi uno spazietto a spese del PD piuttosto che giocare a tutto campo anche con spirito repubblicano per impedire alla destra di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e forse più mettendola nelle condizioni di riformare la Costituzione repubblicana evitando l’eventuale sfida referendaria. Preoccupante sarebbe poi se Calenda-Renzi e Conte pensassero che il messaggio da mandare all’elettorato è che l’avversario principale è il Partito Democratico e non il trio delle meraviglie Meloni, Salvini, Berlusconi, le loro proposte programmatiche e valoriali, le loro collocazioni internazionali, le loro amicizie europee. Serenamente opposto a Giorgia Meloni, mi pare che Enrico Letta sia sostanzialmente uno dei pochi, unitamente a +Europa, a ritenere che la destra è per l’appunto l’avversario principale. Continuare a fare dell’ironia sul campo largo non soltanto non serve a nulla, neanche all’erosione immaginaria, ma significa non avere capito che, in effetti, l’avversario principale esiste e che, lui/lei sì, è da mesi il/la front runner. Non si fermerà quella corsa di testa proponendole, a quale titolo mai?, l’inserimento in un governo di unità nazionale che lo stesso proponente Calenda avrebbe in altri tempi carinamente definito accozzaglia e ammucchiata. Prima si contano i voti e i seggi. Poi si fanno i governi. Questa è la democrazia competitiva. Il resto non è “erosione”, ma confusione.
Pubblicato il 7 settembre 2022 su Domani
Il giorno della rottura tra Carlo Calenda & Enrico Letta @RadioRadicale intervista Gianfranco Pasquino
Dizionario per capire il confuso dibattito politico di questi giorni @DomaniGiornale


Caro Direttore,
mi accingo, ancora una volta senza esitazione di sorta, ad assolvere al missionario compito – di questi tempi assi arduo e scomodo – di sgomberare il dibattito pubblico dai detriti dell’ignoranza, dalle macerie delle culture politiche degenerate e estinte, e dalle trappole della manipolazione per riportalo sui binari solidi e rigorosi della Scienza Politica.
Mi sento obbligato a cominciare esponendo le mie credenziali, forse un’aggravante. Per 43 anni ho insegnato Scienza politica nell’Università di Bologna. Ho tenuto anche corsi in università straniere da Washington, D.C. a Los Angeles, da Harvard a Madrid, da Oxford a Natollin (Polonia). Ho maturato esperienza e competenza nell’ambito dei Sistemi politici comparati. Ho scritto almeno cinque volumi specificamente in materia più un prezioso (sic) libretto sui Sistemi elettorali. Sono particolarmente orgoglioso di Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985) dove, a scanso di equivoci che persistono, il principe non è il capo del governo, ma il cittadino sovrano già identificato da Lelio Basso. Nel dicembre 1985 il libro fu presentato a Torino da Norberto Bobbio e Pietro Ingrao (nel pubblico ricordo mia mamma molto emozionata). Ho scritto articoli accademici usciti in diverse lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, da ultimo, cinese. Ho pubblicato più di un centinaio di articoli di divulgazione su quotidiani e settimanali (ricordo con piacere “Rinascita”). Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985 ho fatto parte della Commissione Bozzi per le Riforme Istituzionali. Fra i molti colleghi parlamentari ricordo Roberto Ruffilli, capogruppo della DC, Pietro Scoppola, Beniamino Andreatta, Sergio Mattarella, Mario Segni, Gino Giugni, Stefano Rodotà, Augusto Barbera, Eliseo Milani (con il quale scrivemmo la Relazione di Minoranza della Sinistra Indipendente del Senato), provenienze e competenze diverse, ma nessuno tanto sprovveduto quanto i contemporanei. Nell’estate-autunno 2016 sono stato presente, spesso protagonista, in circa ottanta iniziative per sostenere il NO al plebiscito costituzionale indetto e cavalcato da Matteo Renzi. Da ultimo sono frequentemente presente nel dibattito con tweet, spero puntuti e chiarificatori, nel complesso, temo, inefficaci, ma non ho ancora avuto il coraggio di chiedere chi parla/scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni.
Già durante l’esperienza referendaria mi resi tristemente conto di quanto diffusa e grande fosse/sia la confusione sotto il cielo delle regole e delle istituzioni. Da allora si è estesa e fatta persino più spessa. Su un solo punto, posso, credo, cantare vittoria. Sembra che quasi tutti i politici e i giornalisti abbiano imparato che in nessuna democrazia parlamentare, mai il governo è eletto dal popolo. In verità neanche nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali il popolo elegge il governo, ma soltanto il Presidente che poi con modalità varie formerà e trasformerà quasi a piacimento libitum il suo governo, cambiando i suoi ministri, mai previamente presentati agli elettori.
Con il taglio, ovvero la riduzione del numero dei parlamentari è tornato in auge il bicameralismo perfetto che tale non è. Perfetto è aggettivo che si riferisce al funzionamento, mentre i bicameralismi esistenti, quello italiano compreso, possono essere paritari o differenziati secondo criteri appositi. Non parlerò delle leggi elettorali, quelle che portano i rappresentanti in parlamento, se non per menzionare due notissime firme del Corriere della Sera, la prima che concluse un suo denso articolo con lo scoop che sarebbe tornato un sistema proporzionale a turno unico, la seconda che, riflettendo sulle elezioni parlamentari francesi del giugno 2022 annunciò la probabilità di non pochi ballottaggi con tre o addirittura quattro candidati/e. Mi limiterò a sottolineare che il ballottaggio non prevede desistenze e non consente alleanze preventive. Invece, praticamente tutte le varianti di doppio turno offrono ampie gamme di opportunità a candidati, partiti, elettori.
L’instabilità governativa essendo notoriamente il più grave problema politico-costituzionale italiano di tanto in tanto qualcuno formula la proposta del presidenzialismo, anatema per la sinistra, ma oggetto largamente non identificato neppure dai suoi proponenti. Sembra che intorno a Giorgia Meloni abbiano deciso, riportato dal Corriere, che si potrebbe avere il semipresidenzialismo alla francese insieme al voto di sfiducia costruttivo previsto nella Costituzione della Repubblica parlamentare tedesca: una combinazione assolutamente e fecondamente europea. Esultano le cancellerie degli Stati-membri dell’Unione Europea che si interrogavano preoccupati sul tasso di europeismo di Fratelli d’Italia. Via tweet è arrivata la benedizione “mi auguro ci sia il presidenzialismo. Il mio modello è la Germania”, di Giovanni Toti (forse un omonimo, Professore di Diritto Costituzionale Comparato nell’Università della Liguria, non certamente il Presidente della Regione, ma non ho visto smentite).
Quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Bisogna garantire a molti la possibilità di intervenire nel dibattito sulle regole e sulla loro eventuale riforma offrendo rappresentanza parlamentare. Irrompe così nel deprimente discorso sulle implicazioni e conseguenze della Legge Rosato il cosiddetto diritto di tribuna ovvero la più o meno graziosa e generosa concessione da parte dello schieramento guidato da Enrico Letta di qualche seggio a Sinistra Italiana e ai Verdi in cambio dei loro pochi, ma, chi sa, talvolta decisivi, voti nei collegi uninominali. I francesi ne hanno discusso, inconcludentemente per anni. Nei collegi uninominali a causa del sistema elettorale maggioritario candidati di aggregazioni che, complessivamente, potevano raccogliere 6-8 e più per cento di voti su scala nazionale finivano per non vincere mai. Si pensò di riservare un 10 per cento di seggi per garantire l’ingresso in parlamento di rappresentanti di quelle liste chiamandolo diritto di tribuna. Non se ne fece, giustamente (poiché candidature eccellenti trova-va-no accoglienza da leader intelligenti), niente. La logica italiana, offerta di seggi in cambio di voti, è sostanzialmente diversa da quella francese: ampliare la rappresentanza politico-parlamentare, da suggerire di non ricorrere all’espressione “diritto di tribuna”.
Concludo, almeno temporaneamente, criticando l’uso del termine front runner. Negli USA, front runner è colui/colei che in un affollato campo di partecipanti alle elezioni primarie per designare il candidato/a alla Presidenza della Repubblica si trova in testa dopo tre o quattro primarie negli Stati. Il front runner non è il capo di un partito, non il capo del partito più grande, non il leader o il tessitore di una coalizione. Sostanzialmente, è una terminologia che nel contesto italiano non ha senso e, comunque, se del caso, oggi la front runner è Giorgia Meloni.
So che questo mio ennesimo tentativo di pulizia e precisione terminologica difficilmente risulterà vittorioso. Pazienza: tornerò su questi e altri termini ogniqualvolta l’uso fattone sarà scandaloso. Nel frattempo, dixi et salvavi animam meam.
GIANFRANCO PASQUINO
Accademico dei Lincei
Pubblicato 7 agosto 2022 su Domani
Una domanda a Draghi, legittima, sulla redistribuzione. Firmato Pasquino @formichenews

Dov’è la redistribuzione buona almeno come il debito che Draghi definisce buono? Oggi, in uno stato di frammentazione delle organizzazioni è difficile vedere chi saprebbe farsi portatore di quelle istanze e diventare credibile implementatore di politiche produttive-redistributive tenendo la barra diritta. Però, la domanda a Draghi va fatta. È una domanda legittima, anzi, buona, persino molto buona
Il problema non è sapere se e perché Draghi ha ceduto e non ha imposto il contributo di solidarietà per un paio d’anni sui redditi al di sopra dei 75 mila Euro l’anno (incidentalmente una soglia bassa anche e soprattutto in un paese di evasori medio alti). Neanche se lo ha fatto per non alienarsi i potenziali suoi elettori per la Presidenza della Repubblica, ipotesi che respingo sdegnosamente. Il problema è se Meloni e Salvini, Berlusconi e Renzi stanno segnalando che sono già d’accordo su alcune misure economiche oppure sono soltanto degli opportunisti oppure ancora stanno continuando con quelle che i giornalisti chiamano prove tecniche (magari preannunciando l’inciucio).
Di tutto un po’, ma questo impasto non può essere un pezzo di programma prossimo venturo del centro-destra più Italia Viva. Sarebbe il prodromo della cattiva utilizzazione dei fondi europei oppure, peggio, dell’incapacità di spenderli in progetti accettabili dalla Commissione perché rispondenti ai criteri di innovazione, trasformazione, efficienza. L’interrogativo più lancinante comunque è, come suggeritomi da Simona Sotgiu, “riusciranno le forze politiche a trovare nuovamente la forza di mettere in atto misure redistributive?” La risposta potrebbe essere tranchante.
Da nessuna parte nelle democrazie europee i governi di centro-destra mettono in atto politiche redistributive. Quando lo fanno, poi, la loro redistribuzione va, non a favore dei settori svantaggiati, ma a favore di coloro che promettono di procedere a politiche di investimento, creazione di ricchezza, forse anche, ma è quasi l’ultima delle considerazioni, di creazione di posti di lavoro. Frettolosamente ne concludo che la prima redistribuzione ha senso per chi si impegna a risolvere le difficoltà attuali di alcuni ceti. La seconda è quella classica dei neo-liberisti friedmanniani senza nessuna garanzia che funzioni, anzi, al contrario. Entrambe sono, nell’ordine, redistribuzioni meno o più cattive.
Ma, allora, dov’è la redistribuzione buona almeno come il debito che Draghi definisce buono? Me la ricordo. Grazie alla mia età e a buoni studi. Fu la redistribuzione socialdemocratica classica. Oggi, in uno stato di frammentazione delle organizzazioni è difficile vedere chi saprebbe farsi portatore di quelle istanze e diventare credibile implementatore di politiche produttive-redistributive tenendo la barra diritta. Però, la domanda a Draghi va fatta. È una domanda legittima, anzi, buona, persino molto buona.
Pubblicato il 5 dicembre 2021 su formiche.net
I soldi non hanno odore, ma servono al potere.
L’intensissima attività di conferenziere e consulente, sembra anche molto lautamente pagata, del Senatore Matteo Renzi è finita nel mirino della magistratura che vuole vederci chiaro. Dal punto di vista del metodo, ovvero come si stanno svolgendo le indagini, Renzi sostiene che è stata violata la sua immunità poiché i magistrati avrebbero dovuto chiedere una previa autorizzazione. Ne discuterà l’apposita Commissione del Senato la cui convocazione per il 24 novembre è stata richiesta dallo stesso Renzi per sue comunicazioni in materia. I magistrati hanno già replicato sostenendo di essersi imbattuti nel conto corrente di Renzi in maniera indiretta che non necessitava di autorizzazione. Dal punto di vista della sostanza, vi sono diverse considerazioni degne di nota e di approfondimento specifico. La prima riguarda l’eventuale violazione della normativa sul finanziamento dei partiti. I magistrati sostengono che i fondi ingenti che sono affluiti nelle casse della Fondazione Open, organizzatrice delle riunioni alla Leopolda, sono serviti a finanziare le attività di un partito: Italia Viva, di cui la Fondazione è stretta emanazione, e viceversa, vale a dire che la Fondazione è l’organismo sul quale si basa Italia Viva. Dunque, quei fondi hanno violato la legge. La replica dei renziani è stata finora che un conto è la Fondazione e un conto molto diverso è un partito e che, comunque, non spetta ai magistrati definire che cosa è un partito.
Da parte mia, messi da parte alcuni elementi nient’affatto necessari all’esistenza di un partito, ad esempio, una ideologia, mi limiterò a sostenere, sulla scia del grande studioso di scienza politica Giovanni Sartori, che partito è (o diventa) qualsiasi associazione che presenta candidature alle elezioni non importa se locali, nazionali, europee. Questa definizioni minima, ma essenziale, si attaglia convincentemente anche a Italia Viva. Potrà, poi, essere precisata e ampliata.
Sullo sfondo del conflitto Renzi/magistrati, stanno due vicende di notevole rilevanza per il sistema politico italiano. Anzitutto, si pone il problema etico e politico se un parlamentare (nel caso di un governante sarebbe ancora più grave e eclatante) possa ricevere molto denaro da enti (sono costretto a essere vago) e governanti stranieri come i reali dell’Arabia Saudita. In molte democrazie non è consentito. Il sospetto che quei pagamenti, anche sotto forma di donazioni, finiscano per influenzare comportamenti e voti del parlamentare è inevitabile. In secondo luogo, dati i tempi, il rischio è che questa vicenda, più o meno oscura, del Senatore Renzi, abbia riflessi sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica Italiana. Sono 14 i senatori di Italia Viva e 26 i deputati. Questi quaranta voti possono risultare decisivi per fare eleggere Presidente sia il candidato/a del centro-destra sia quello/a del centro-sinistra. Questa considerazione è destinata a pesare anche sulla valutazione della immunità richiesta da Renzi e sulla destinazione dei voti presidenziali.
Pubblicato AGL il 19 novembre 2021
Il problema etico con i redditi privati del senatore Renzi @DomaniGiornale


Di tanto in tanto, ma in Italia piuttosto raramente, qualcuno solleva un argomento delicatissimo: il posto dell’etica in politica. Addirittura se debba esserci un posto, anche piccolo, per l’etica in politica. Sulla scia di non pochi filosofi della politica, da Immanuel Kant a Norberto Bobbio, ritengo che la politica liberale e democratica abbia a suo fondamento un’etica. Intendo per etica alcuni principi fondamentali da rispettare e praticare senza eccezione alcuna. Fra i molti principi che stanno alla base del liberalismo, parola sulla bocca di molti che non sanno di cosa parlano, sta quello, praticamente costitutivo, che il potere politico, nato per riequilibrare e contrastare il potere economico, deve essere e rimanerne separato. Non deve essere usato per acquisire potere economico. A sua volta il potere economico non deve mai trovarsi in condizione di controllare il potere politico, di subordinarlo, di imporre le sue preferenze, i suoi interessi. L’esistenza di un conflitto fra gli interessi privati e i doveri pubblici è un vulnus gravissimo che può indebolire e svilire qualsiasi politica liberal-democratica.
Dal punto di vista liberale utilizzare le cariche politiche per ottenere ricompense economiche di qualsiasi entità e di qualsiasi provenienza è un comportamento non etico. Potrebbe anche essere un comportamento non necessariamente illecito dal punto di vista delle leggi vigenti. Tuttavia, la sua non “eticità” appare lampante. In molti sistemi politici vale il principio che ai detentori di cariche di rappresentanza e di governo bisogna negare la possibilità di ricevere denaro in cambio di prestazioni come lezioni, conferenze, consulenze fintantoché hanno una carica. La ratio è che non solo è probabile che siano interpellati, reclutati e pagati quasi esclusivamente perché hanno quella carica, ma anche perché è assolutamente probabile che coloro che ricompensano quelle prestazioni lo facciano in buona misura anche per ingraziarsi quei politici.
Più o meno inconsciamente, i politici che ricavano guadagni dalle loro attività a favore di associazioni e governi, di persone e di enti finiranno per non sentirsi liberi quando gli interessi dei loro “donatori” faranno capolino. Saranno influenzati nelle loro argomentazioni pubbliche, nelle decisioni da prendere, negli emendamenti da scrivere, nelle leggi da votare. Non potranno mai essere al di sopra dei sospetti cosicché quei sospetti, legittimi o no, inquineranno il dibattito pubblico, renderanno problematica la trasparenza dei processi decisionali, colpiranno la qualità della democrazia. Forse, come sostiene il senatore Matteo Renzi, le sue conferenze sono lautamente pagate perché riflettono l’importanza di insostituibili conoscenze derivanti anche dalla sua esperienza di capo del governo, ma non sono penalmente rilevanti. Certamente, però, sollevano un problema etico: uso del potere politico per l’ottenimento di profitti economici, di prima grandezza. Nella patria del liberalismo, la Gran Bretagna, molti affermerebbero “it’s simply not done”. Non s‘ha da fare.
Pubblicato il 10 novembre 2021 su Domani