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Un partito, per favore, se avete l’idea di come rifarlo

Sperare di fare crescere l’oggetto Partito Democratico a partire dalla sua attuale collocazione elettorale (e molto probabilmente abitativa dei suoi dirigenti e dei suoi parlamentari) ovvero le Zone a Traffico Limitato delle città italiane, oppure andare in mare aperto alla conquista di quella terra incognita che si chiama periferia (non solo geografica)?

Non dovrebbe essere questo il dilemma di fronte al quale i candidati alla segreteria del PD avrebbero l’onere e l’onore di dare una risposta iniziale? Finora non sono neppure riuscito a sentire il famigerato “silenzio assordante” di (in rigoroso ordine alfabetico che, casualmente è anche di vicinanza al Renzi/smo): Giachetti, Martina, Zingaretti.

Leggo, invece, che il PD, non di un segretario a capo di un’organizzazione sul territorio, avrebbe bisogno, ma borbotta Romano Prodi, di un padre (Scalfari scrive di un presidente certificando l’irrilevanza di Orfini, il presidente in carica).

Rigettando, in ossequio, come si conviene a una delle più viete e logore tradizioni della sinistra, il problema della leadership, Michele Salvati (e dire che l’aveva finalmente trovato il leader dei suoi sogni: Matteo Renzi. Gli aveva anche consigliato di continuer le combat, nelle sue parole: “Renzi, stick to your guns“) di recente ha argomentato, all’incirca per la trentesima volta in questi anni, la necessità di costruire un partito di sinistra liberale oppure liberale di sinistra. Quali ne siano i connotati di cultura politica (la presa in giro dei professoroni e dei gufi?) e quali le coordinate organizzative (oltre il giglio magico?) è, evidentemente, non soltanto per l’editorialista del Corriere, un problema irrilevante.

Per fortuna non così irrilevante da impedire ad Antonio Floridia di andare a vedere e valutare la democraticità del partito, le modalità previste dallo Statuto per garantire partecipazione e influenza, per coinvolgere simpatizzanti e potenziali elettori.

Poiché non è una detective story, la sua conclusione Floridia la mette nel titolo: Un partito sbagliato (Castelvecchi 2019). Alzata di scudi di Anzaldi, Ascani, Boschi, Romano, Serracchiani e del meritatamente ex-senatore Esposito, ripulsa sdegnata dei gruppuscoli dirigenti?

No, nessuno ha letto il libro né, in tutt’altri affari impegnati, troverà il tempo per leggerlo anche perché da leggere c’è già il Manifesto di Calenda, notissimo esperto di partiti e di rassemblements (a condizione che tengano fuori LeU), non di sistemi elettorali poiché il ruolo è occupato e presidiato da Ettore Rosato, quello della legge vigente.

Cartello europeista ‘ha da esse’ anche se, regole ciniche e bare, per il Parlamento europeo si vota con una legge proporzionale che suggerisce di trovare, costruire, appoggiare una pluralità di soggetti intorno a poche parole d’ordine con una pluralità di candidature di diverse estrazioni e con qualche curriculum europeo/europeista.

Il dilemma torna ineludibile: in quelle periferie si arriverà (non oso scrivere si “penetrerà”) ancora con nome e logo del Partito Democratico oppure è preferibile cercare il nuovo, magari dopo un’ampia discussione fra persone che, da un lato, se ne intendono, dall’altro, garantiscono di impegnarsi per un progetto ideale di lungo periodo, non per ricompense immediate e tangibili?

La rottamazione fu soltanto il tentativo, fallito, di fare piazza pulita. Oggi e domani, trascorso il lungo inverno leghista-stellato, il compito è non trovare casualmente un contenitore, ma formare un’organizzazione di uomini e donne, che non è una ditta (oggi piccola bottega artigiana che rischia lo sfratto), ma neppure un veicolo personalizzato. Che non può più in nessun modo essere il Partito Democratico che vediamo. Che è uno strumento per fare politica intesa sì come ottenere voti e conquistare cariche, ma anche come dare rappresentanza (ai cittadini, non all’indistinto popolo) e offrire capacità di governo.

“Sentinella sentinella quando finirà l’inverno?” “Quando avrete preparato la primavera”.

Pubblicato il 20 febbraio 2019 sul blog di Pasquino Huffingtonpost.it

Il rilancio del PD e l’opzione Minniti

Con Gianfranco Pasquino parliamo della crisi del PD e degli scenari futuri del partito

Intervista raccolta da Francesco Snoriguzzi

Le ultime Elezioni Politiche, il 4 marzo del 2018, hanno sancito ancora una volta la crisi profonda della Sinistra in Italia (ma il discorso è valido per tutta l’Unione Europea). Il Partito Democratico, principale rappresentante della Sinistra italiana, ha ottenuto il peggior risultato della sua storia attestandosi attorno al 18%. Allo stesso tempo, le elezioni hanno segnato una nettissima affermazione di quei movimenti populisti e neo-nazionalisti che avanzano in tutta la UE: oltre al successo annunciato del Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio, primo partito fuori da coalizioni, nella coalizione di Centro-Destra si è avuto lo storico superamento della Lega di Matteo Salvini (non più Lega Nord) rispetto a Forza Italia di Silvio Berlusconi. L’esito istituzionale ha confermato la svolta populista dell’Italia portando ad un Governo di Lega e M5S.

Di fronte alla lampante sconfitta, il PD sembra essere rimasto quasi stordito e fatica a trovare la forza di rialzarsi e di tornare a mobilitare il suo elettorato. Trattandosi di un fenomeno di portata quanto meno europea (ma si pensi anche a Donald Trumpnegli USA e a Jair Bolsanaro in Brasile) e con radici che affondano nel tempo (nel caso italiano si possono far risalire quanto meno alla vittoria di Berlusconi nel 1994), il risultato non dovrebbe stupire. Una ragione potrebbe essere certamente la scarsa abilità della Sinistra nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione digitale, che invece rappresentano il fiore all’occhiello della propaganda populista: i nuovi mezzi, per loro natura, non si prestano alla comunicazione ufficiale di un partito, che spesso risulta troppo formale ed ingessata, mentre risultano ideali per quei gruppi anti-sistema che li utilizzano per amplificare la rabbia dell’uomo medio.

Mentre ci si avvicina a delle Elezioni Europee che vedono il fronte anti-europeista più forte che mai, il PD (come i suoi equivalenti europei) si interroga su come uscire da questa fase di crisi e già si è scatenata una serrata lotta interna sulla figura del nuovo Segretario che dovrà traghettare il partito verso una nuova fase. Da un lato c’è il Segretario Reggente, Maurizio Martina, da un altro l’attuale Presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, da un altro ancora quella parte di partito che si riconosce nell’ex-Segretario ed ex-Presidente del Consiglio, Matteo Renzi; ultimamente, infine, si è parlato di una possibile candidatura dell’ex-Ministro degli Interni, Marco Minnitialla guida del PD e lui stesso ha dichiarato di considerare questa ipotesi.

La situazione resta molto complicata. Secondo Gianfranco Pasquino, ex-Senatore della Repubblica e Professore Emerito dell’Università di Bologna, però, l’eventualità di una candidatura di Minniti non è del tutto chiara: Minniti, afferma Pasquino, “dovrebbe decidere autonomamente se candidarsi oppure no, non farsi candidare da Renzi o dai ‘renziani’: se ha voglia di fare il Segretario del partito e ritiene che Zingaretti, che al momento è l’unico candidato in corsa, o che Martina siano inadeguati per quel ruolo, allora dovrebbe candidarsi; se Minniti si fa candidare dai renziani, però, diventa automaticamente il candidato dei renziani”. In tal caso, continua, Minniti finirebber per “rappresentare quello che Renzi ha fatto, o non ha fatto, nel corso della sua Segreteria: non dimentichiamo che Renzi era Segretario del partito e del partito non si è mai occupato”.

La figura dell’ex-Ministro degli Interni, in ogni caso, potrebbe risultare problematica per parte del PD. I due temi principali su cui la Sinistra sembra non intercettare più il favore dell’elettorato, infatti, sono il rapporto con la UE, da un lato, e la gestione del flusso migratorio, dall’altro. Se sui rapporti con la UE, la posizione di Minniti è sempre stata coerente con la linea espressa dal partito (puntando ad una riforma dell’Unione che vada nella direzione di maggiore integrazione, ovvero riforma del Trattato di Dublino e quote obbligatorie per la ripartizione dei migranti), la sua gestione del fenomeno migratorio è stata a volte più controversa. Il suo operato da Ministro degli Interni, infatti, è stato spesso criticato da una parte della Sinistra che lo ha spesso accusato di inseguire la Destra sul proprio territorio. Durante la propria esperienza da Ministro degli Interni, infatti, Marco Minniti ha portato avanti una linea improntata alla realpolitik prendendo, in alcuni casi, anche misure impopolari a Sinistra (in particolare quelle sulla gestione del flusso migratorio dalla Libia e sul codice di condotta per le Organizzazioni Non Governative).

È probabile che l’idea che sta dietro alla proposta di una candidatura di Minniti alla Segreteria del PD punti a far sì che la realpolitik di Minniti, contrapponendosi a posizioni generalmente percepite dall’elettorato come buoniste e superficiali su temi come la gestione dei flussi migratori, potrebbe contribuire a rilanciare i consensi elettorali del partito. Secondo il Professor Pasquino, però, “la posizione dura nei confronti dei migranti sia già totalmente occupata da Salvini e che sia impossibile scalzarlo: ci è arrivato prima di altri e in maniera molto pesante; ha avuto il vantaggio di porre all’attenzione di italiani che erano già molto preoccupati per l’immigrazione e quindi nessuna posizione dura della Sinistra potrà scalzare il consenso che Salvini ottiene da quello che dice e quello che fa, che per altro non è un granché ed è molto diverso da quello che dice”. Il partito, continua Pasquino, si ricostruisce in un altro modo: “certamente non facendo il buonista, ma neanche imitando posizioni di Destra, ma francamente non credo che Minniti stia inseguendo la Destra”.

Il punto, però, insiste Gianfranco Pasquino, non è quale linea debba esprimere il partito: “la domanda importante è quale tipo di Partito Democratico dovrebbe esserci, ma la questione vale per Minniti, per Martina, per Zingaretti, per chiunque voglia fare il Segretario del partito: bisogna avere un’idea di partito, una visione di partito; bisogna, soprattutto, avere un’idea chiara di come si vuole allargare il partito, perché se si propone di rimanere un partito da 18% il partito sarà quasi sempre irrilevante; bisogna avere la capacità di tenere insieme il partito come è, e già ci sono delle tensioni preoccupanti”. Secondo Pasquino, infatti, “il punto è che si deve ricostituire un Partito Democratico che è sostanzialmente decaduto e ci sono zone del Paese in cui, praticamente, non esiste neanche: che tipo di politica può fare un partito che non esiste? Tanto Minniti quanto Zingaretti devono dire che tipo di Partito Democratico intendono costruire”.

Di certo, l’esperienza insegna che i partiti di Sinistra hanno una certa tendenza ad optare per le scissioni, quando le loro correnti si trovano in disaccordo. In base alle critiche che la figura di Minniti può sollevare all’interno del partito, quindi, l’ipotesi che nel caso di una sua Segreteria il PD si avvii verso l’ennesima scissione non appare così remota. Secondo Pasquino, “se i renziani mettono le proprie carte su Minniti e Minniti non vince, dato che nel frattempo stanno organizzando dei Comitati Civici, si può pensare che si tratti di una premessa per fare qualcos’altro fuori dal Partito Democratico. I Comitati Civici, per di più costituiti dall’ex-Segretario del partito, sono già un principio di scissione, o comunque una minaccia, come a dire che, se non dovesse vincere il loro candidato, loro sono pronti ad andarsene”. I precedenti, continua il Professore, “in verità non sono così positivi: Renzi voleva migliaia di Comitati Civici per il SÌ al Referendum Costituzionale; non so quanti ne siano nati, ma sta di fatto che il Referendum è stato perso seccamente. Nonostante i precedenti non siano molto positivi, a mio avviso questa è oggettivamente un’azione contro il partito”.

Il dibattito attuale tra le correnti del PD, incentrato soprattutto sui nomi e, in misura minore, sulla linea da seguire, non risponderebbe quindi alla questione fondamentale, ovvero la ricostituzione del partito. Il Professor Pasquino afferma che “il problema non riguarda una persona. Siamo di fronte ad una tematica enorme che si chiama immigrazione e che riguarda soprattutto l’Italia, ma non solo”. Si tratta di una tematica, continua Pasquino, “che non può avere una soluzione nazionale ma che deve necessariamente avere una soluzione europea”. A questo punto, quindi, “bisognerebbe chiedersi se chi diventerà Segretario del Partito sarà in grado di avere una credibilità nei confronti dell’Europa e fare cambiare politica all’Europa su alcuni passaggi”.

In conclusione, afferma Pasquino, “il partito dovrebbe ripartire dalla costruzione di una Sinistra plurale e una Sinistra plurale può essere o intorno al partito, ma in quel caso serve un rapporto di ascolto e interlocuzione, di comprensione e dibattito tra il dirigente e coloro che gli stanno attorno, oppure costituita in un partito plurale nel senso che si apre, ovvero, mantenendo i confini del partito, si dovrebbe aprire ad una serie di personalità che abbiano una qualche presenza sul territorio, non solo sulla televisione perché non è vero che il consenso passi solo attraverso la televisione”. La questione della presenza sul territorio è fondamentale: “il consenso, e la Lega lo sta dimostrando in maniera straordinaria, passa attraverso l’attività politica organizzata sul territorio con presenze dei più vari generi. È necessaria, quindi, una presenza plurale e presente sul territorio. Non bisogna chiudersi a Roma o in un qualsiasi bunker o in una qualsiasi stazione in disarmo, che si chiami Leopolda o in un altro modo”. Il partito, conclude Gianfranco Pasquino, “deve fare politica sul territorio, con persone che abbiano voglia, capacità e magari qualche esperienza di rappresentare pezzi di territorio: se uno pensa di vincere le elezioni in Trentino candidando la toscana Maria Elena Boschi vuol dire che non ha capito assolutamente nulla e che l’unica cosa che si voleva ottenere era mandare in Parlamento Maria Elena Boschi… quanto serva al Parlamento non so dirlo, ma di certo non serve al partito”.

Pubblicato il 24 ottobre 2015 su lindro.it

È possibile immaginare un altro PD

Detto che Maurizio Martina è diventato il settimo segretario del Partito Democratico dal 2007 e detto che il due volte ex-segretario Renzi ha fatto un intervento rancoroso tutto rivolto al passato minacciando un futuro vendicativo, che cosa si può e si deve aggiungere a quanto avvenuto nell’Assemblea del PD? Una sola, vera decisione è stata presa: il prossimo segretario sarà eletto nel febbraio 2019. Saranno gli iscritti e i simpatizzanti a scegliere fra, sembra, almeno tre candidati: lo stesso Martina, il governatore del Lazio Zingaretti, forse un renziano a tenere alta la bandiera delle battaglie perse e di un partito che non ha funzionato. Nell’Assemblea è mancata, ma dovrà pur emergere nel corso della campagna per l’elezione del prossimo segretario, una riflessione su due punti qualificanti: che tipo di partito, che tipo di opposizione. Martina ha indicato quattro elementi indispensabili: idee, persone, strumenti, progetti. Nessuno è entrato nei dettagli, ma è stato facile riscontrare una battaglia fra persone tutta all’interno del partito, con Renzi in testa a criticare il falso nueve Gentiloni, da lui incoronato, ma al quale spesso proprio lui non ha passato il pallone; l’ex-capogruppo al Senato Luigi Zanda; l’ex-capo della minoranza interna Gianni Cuperlo. È stata, in troppo larga misura, una resa dei conti che non serve in nessun modo a ristrutturare il partito. Martina ha almeno sottolineato che un partito di sinistra -ma vogliono il PD e i suoi elettori costruire un partito effettivamente di sinistra?-deve preoccuparsi delle diseguaglianze. Nessuno ha detto, però, con quali idee, con quali persone, con quali strumenti, con quale progetto. Per dirla in politichese, sul territorio il Partito Democratico è presente a macchioline di leopardo. Qualcuno, le Cinque Stelle e la Lega, l’hanno, per richiamare un infausto detto di Bersani, ampiamente smacchiato. Sul territorio si riproducono quasi le stesse divisioni personalistiche del centro, con qualche eccezione di donne e uomini ambiziosi e manovrieri che hanno abbandonato lo schieramento renziano. Nessuno ha parlato di cultura politica che, oramai svelatasi totalmente fallita la contaminazione fra pallide e esangui culture riformiste del passato, dovrebbe scaturire, almeno in parte, dalle riflessioni di intellettuali sbeffeggiati dai renziani e certamente non ascoltati e meno che mai “corteggiati” dagli oppositori interni. Nessuno, infine, ha detto che una cultura politica può trovare modo di formarsi e di esprimersi proprio nel fuoco di una sana battaglia parlamentare di opposizione. È nel “respingimento” dei disegni di legge improntati a repressione, populismo, anti-politica, anti-parlamentarismo e, nient’affatto, per ultimo, da anti-europeismo, che un partito di sinistra deve cercare di ridefinire la sua cultura per sé, per i suoi quadri, i suoi dirigenti, i suoi parlamentari e, persino, ma qui sta la funzione nazionale di quel partito, per l’elettorato. Non sarebbe poco.

Pubblicato AGL 10 luglio 2018

Il crollo di un progetto velleitario

Nel 2007 ero da dieci anni iscritto ai DS (Democratici di Sinistra), l’unico partito di cui ho mai preso la tessera. Quando iniziò la battaglia per portare i DS all’incontro con la Margherita con l’obiettivo di dare vita ad un Partito Democratico, “scesi in campo” a sostegno della Mozione 3 che suggeriva di procedere lentamente attraverso una prima fase federativa. Andai un po’ dappertutto, accolto con molta sufficienza, a esporre le tesi della Mozione 3. Mi recai anche nel più grande, dal punto di vista degli iscritti, dei Circoli dei DS a Pesaro. Dopo i tre classici interventi: una giovane donna per la Mozione 1; un sindacalista per la Mozione 2; un Prof per la 3, i giovani DS mi offrirono da bere. Tre di loro, sugli otto componenti della segretaria, erano stati miei studenti di Scienza politica a Bologna. Vi ho convinti, chiesi, voterete per me? No, fu la risposta chiara inequivocabile immediata, “facciamo parte della segreteria del partito”.

Un po’ dappertutto facevo notare che la promessa di mettere insieme il meglio delle culture politiche riformiste del paese era molto velleitaria. Da un lato, le due maggiori culture politiche, quella comunista e quella cattolico-democratica, si erano esaurite, sconfitte dalla storia e dalla pratica; dall’altro, una vera cultura politica riformista, quella socialista, non era neppure stata invitata. Nel tripudio di discorsi e di lacrime a Campo di Marte alla fine di un tiepido aprile 2017 si consumò il congresso di chiusura dei DS con un lunghissimo appassionato appello alle emozioni di Piero Fassino. E, per quel che conta, con la mia non adesione. Poi dal Lingotto cominciò la cavalcata di Walter Veltroni, “fusosi” a freddo con Dario Franceschini, scelto come suo vicesegretario: ecco la contaminazione delle culture politiche! Narrando la nuova Italia che avrebbe costruito, invece di dire con quale partito nuovo avrebbe fatto tutte quelle belle cose, Veltroni si candidava, forse non del tutto consapevolmente, ma inevitabilmente, lo scrissi subito, alla carica di Presidente del Consiglio. Era la ricomparsa della classica sindrome democristiana: il segretario del partito sfidante naturale del capo del governo. A riprova, Prodi cadde pochi mesi dopo e Veltroni si lanciò a testa bassa nella nuova avventura: il partito a vocazione maggioritaria.

Fra vocazione maggioritaria e elezione di nuovi segretari, nessuno nel Partito Democratico ha mai neppure iniziato a riflettere sulla cultura politica di un partito di sinistra (?); riformista (?); progressista (?). Nulla dirò sulla cultura istituzionale la cui inadeguatezza si è rivelata tragicamente nelle riforme costituzionali e nella conduzione del referendum 2016. Adesso, qualcuno, Carlo Calenda, sostiene che bisogna andare oltre il PD, un partito mai consolidatosi. Qualcun’altro, Maurizio Martina, risponde che è necessario un “ripensamento complessivo” di un pensiero che non si è mai espresso, di una cultura politica che non si è mai formata, attraverso “scuole di politica” che sono per lo più state “passerelle per politici”. Non dovrebbe essere difficile andare oltre un partito che non è mai stato tale. Sarà difficilissimo farlo, forse impossibile, se il ripensamento verrà affidato a uomini e donne del cui pensiero politico è più che lecito dubitare.

Pubblicato il 26 giugno 2018 su larivistaILMULINO

Qui ci serve una formula magica

Con la forza dei numeri, non delle idee, Renzi ha ancora una volta imposto la sua linea alla Direzione del Partito Democratico. L’unanimità, del tutto fittizia, ottenuta dalla relazione Martina salva la carica del segretario reggente, ma pone la parola fine sull’eventuale apertura di un negoziato con i Cinque Stelle. È quel che Renzi aveva del tutto impropriamente, ma deliberatamente, dichiarato in una trasmissione televisiva, non il luogo dove si dovrebbero annunciare decisioni politiche tanto importanti come quelle che riguardano il governo dell’Italia. La conclamata rinuncia del PD a prendere qualsiasi iniziativa, non credibile essendo quella di un governo istituzionale (da affidare a chi? agli sconfitti del referendum del 4 dicembre, Renzi-Boschi, e all’autore della pessima Legge Rosato?), segna un altro passo verso l’irrilevanza politica del partito. I retroscena dicono che il Presidente della Repubblica sia rimasto molto irritato dai comportamenti dei renziani che, per di più, non si fermano qui, potendo addirittura sfociare in una sostituzione di Martina a fine maggio nell’Assemblea nazionale.

Pur consapevole della difficoltà di dare vita ad un governo decente, pardon, politico, Mattarella non si aspettava di trovarsi fra le mani una potata tanto bollente. Lunedì farà l’ultimo giro di consultazioni per cercare una formula che rappresenti il punto d’equilibrio fra le diverse richieste dei partiti, tutte contenenti qualche elemento accettabile e molti elementi discutibili. Accettabile era la richiesta del centro-destra di essere riconosciuto come lo schieramento vincente; inaccettabile la pretesa di ottenere l’incarico senza indicare con quali voti avrebbe raggiunto la maggioranza assoluta in entrambe le Camere. Mattarella, correttamente e tenendo conto del precedente di Napolitano, non è favorevole allo scouting, vale a dire alla caccia a parlamentari nei quali il trasformismo faccia aggio sulla responsabilità. Non sarebbero affidabili. Ugualmente legittima era la richiesta delle Cinque Stelle che toccasse a loro dare vita al governo; molto meno convincente che al loro capo Luigi Di Maio spettasse senza se senza ma la carica di Presidente del Consiglio se non si dimostrava in grado di trovare gli alleati per una coalizione maggioritaria.

Per nulla condivisibile, anzi, da scartare senza necessità di spiegazioni, che si vada a un inedito duello con Salvini definito molto erroneamente secondo turno elettorale, come sostiene Di Maio, facendo solo confusione. Non soltanto lo scioglimento del Parlamento è esclusivo potere presidenziale, come hanno dimostrato ad abbondanza Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano, ma è da considerarsi un’ultima ratio alla quale Mattarella spera non si sia ancora pervenuti e per la quale, comunque, sarà indispensabile dare vita a un governo capace di garantire un ineccepibile svolgimento del procedimento elettorale. Non rimane, scusate se è poco, dirò scherzosamente, che trovare la formula quasi magica per dare vita a un governo che, mi esercito anch’io nelle formule, sia di “responsabilità nazionale”. Non per (ri)fare riforme costituzionali pasticciate, ma per governare l’economia secondo i criteri definiti in sede di Unione Europea, per spingere la crescita e creare posti di lavoro. Non pare neanche il caso di scrivere un’altra legge elettorale, potendo bastare, per il momento, tre ritocchi alla Legge Rosato: introduzione del voto disgiunto; soglia del 4 per cento per l’accesso al Parlamento; abolizione delle candidature multiple. Non un governo di tutti, dirà Mattarella, ma di coloro che, per l’appunto, con responsabilità nazionale, saranno disponibili ad assumersi oneri e, eventualmente, onori. Quanto al Presidente del Consiglio e ai ministri, il Presidente rivendicherà a se stesso le scelte, oculate e rappresentative, di personalità con esperienza e competenza. Non è un libro dei sogni, ma un’agenda di lavoro certamente impegnativa. Auguri, Presidente, a lei e a noi.

Pubblicato AGL il 7 maggio 2018

Le urne, i dubbi e i conti del Quirinale

Quel che non sono finora riusciti a muovere i leader dei vari partiti nelle loro consultazioni reciproche potrebbe essere stato messo in movimento, un po’ dagli elettori del Molise, un po’ di più dagli elettori del Friuli-Venezia Giulia. Nella sua fin troppo rentrée anticipata (aveva promesso due anni di silenzio), alla televisione, non nella Direzione del partito, convocata per il 3 maggio, il due volte ex-segretario del PD Matteo Renzi ha chiuso qualsiasi spiraglio di dibattito con le Cinque Stelle, spiazzando il segretario reggente, Maurizio Martina, che ha subito deprecato metodo e merito delle dichiarazioni renziane. Non è più chiaro che cosa sarà all’ordine del giorno della Direzione, magari quella discussione finora mancata sulle ragioni della secca sconfitta del 4 marzo.

Lanciando un messaggio sia al Presidente Mattarella sia al centro-destra, il sedicente senatore “semplice” di Scandicci, Impruneta, Lastra a Signa ha altresì dichiarato la sua disponibilità a un governo costituente, utile anche a salvare per un anno e mezzo circa le poltrone dei senatori, ai quali ha fatto riferimento esplicito, e dei deputati da lui nominati e fatti eleggere. Mentre il Presidente della Camera, il pentastellato Roberto Fico, colto sul fatto di non pagare i contributi a chi lavora a casa sua e della compagna come colf, scopre il contrappasso dell’ossessiva, ancorché giusta, campagna delle Cinque Stelle sull’onestà, il nervosismo travolge Di Maio che sente che Palazzo Chigi per lui non è più dietro l’angolo. Renzi non apre il forno del Partito Democratico; Salvini adamantino vuole che il forno del centro-destra non escluda l’inaccettabile, per le Cinque Stelle, vecchio fornaio Silvio Berlusconi. Lo stallo è servito, a mio parere, senza eccessive preoccupazioni poiché il governo Gentiloni c’è e può continuare.

Pur non esagerando l’impatto del voto per le elezioni regionali del Friuli-Venezia Giulia (fra l’altro, ha votato meno del 50 per cento degli aventi diritto) e tenendo conto delle specificità, i segnali politici sono chiari. Primo, le Cinque Stelle arretrano significativamente, segno che una parte non piccola di quegli elettori non hanno affatto gradito l’andirivieni fra i due forni e la preclusione nei confronti di Berlusconi. Secondo, il PD e le liste alla sua sinistra sono stabili o appena declinanti. Non c’è nessun segnale di ripresa, nessun apprezzamento per la decisione di stare all’opposizione. Anzi, si direbbe che gli elettori della regione abbiano preso atto che il PD vuole stare all’opposizione (ma in Friuli-Venezia Giulia era il partito della governatrice uscente) e lì l’hanno collocato. Nella sua nuova veste di statista sobrio e misurato, Salvini non ha esultato in maniera scomposta, ma lui e il candidato della Lega Massimiliano Fedriga sono i vincitori assoluti di queste elezioni. Rispetto al 2013, la Lega ha più che quadruplicato i suoi voti da 33 mila a 147 mila. Dal canto suo, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, leale alleata nel centro-destra, più che triplica i suoi consensi passando da 6 mila a 23 mila voti, mentre prosegue inarrestabile il declino di Forza Italia che perde 30 mila voti.

Ferme restando tutte le note di cautela su un voto nel quale le tematiche regionali e le personalità dei candidati hanno un’importanza significativa, sarebbe sbagliato non trarne un paio di lezioni. La prima è che il Nord(est) dimostra di essere un territorio, al tempo stesso, molto ostico per le Cinque Stelle e molto favorevole al centro-destra. La seconda è che diventa alquanto più difficile pensare che sia fattibile una coalizione di governo che escluda il centro-destra. Forse, da oggi, anche al Quirinale il Presidente Mattarella si sarà rimesso a fare i conti del numero dei seggi che mancano al centro-destra per il conseguimento della maggioranza assoluta in Parlamento. Si chiederà anche se, eventualmente rompendo con le prassi rigorosamente seguite dai suoi predecessori: “nessun incarico se non esiste una maggioranza precostituita”, la situazione attuale non richieda una eccezione.

Pubblicato AGL il 1° maggio 2018

Il Partito Democratico al bivio

L’esplorazione del Presidente della Camera Roberto Fico (Cinque Stelle) si è conclusa positivamente. Le Cinque Stelle confermano che è loro intenzione aprire un confronto programmatico con il Partito Democratico. Dal canto suo, il segretario reggente del PD Maurizio Martina si dichiara disponibile a verificare se anche nel suo partito esiste una maggioranza a favore dell’inizio del confronto. Toccherà alla Direzione del Partito convocata per giovedì 3 maggio esprimersi, non sul se fare o no un governo con le Cinque Stelle, ma sull’apertura del confronto programmatico. Le prime mosse del due volte ex-segretario del PD Matteo Renzi e dei suoi sostenitori sembrano essere pregiudizialmente ostili a qualsiasi inizio di confronto. In maniera irrituale, ma rivelatrice del suo personale no procedurale, Matteo Renzi ha fatto una specie di sondaggio “intervistando” i passanti in una piazza di Firenze. Dal canto loro, certamente con l’approvazione, se non anche con l’incoraggiamento dello stesso Renzi, numerosi parlamentari da lui nominati/e hanno inondato la rete esprimendo il loro dissenso con l’hashtag #Senzadime. Usando una metafora cara a Renzi, mentre le Cinque Stelle entrano in campo, lui, che il giorno della sua brutta sconfitta elettorale, aveva portato via il pallone, fa sapere direttamente e indirettamente che non ha intenzione di restituirlo consentendo che la partita cominci. Soltanto un voto a lui contrario della Direzione lo costringerà alla restituzione del pallone e a entrare in campo.

I commentatori che s’impegnano in raffinati conteggi sono giunti alla conclusione preliminare che gli “aperturisti” del PD non hanno attualmente la maggioranza. Qualcosa può cambiare in una settimana soprattutto se il segretario reggente e coloro che pensano che un partito che si chiama democratico ha una responsabilità nazionale riescono chiarire agli iscritti, ai simpatizzanti e agli elettori del PD che il passo da compiere non consiste nella formazione di un governo con il Movimento Cinque Stelle, per di più a guida di Di Maio, ma nell’individuazione di eventuali convergenze fra i programmi delle Cinque Stelle e del Partito Democratico.

Per uscire dall’ambiguità e per recuperare il senso delle regole in base alle quali funzionano le democrazie parlamentari, coloro che ritengono utile la trattativa debbono, anzitutto, sottolineare che il Movimento Cinque Stelle è un interlocutore legittimo, già riconosciuto come tale dal Presidente della Repubblica. Non si deve ostracizzare a prescindere un attore politico-parlamentare che rappresenta un terzo degli elettori italiani. In secondo luogo, pur nella consapevolezza che gli elettori italiani lo hanno, per una molteplicità di motivazioni, punito, il PD non deve rinunciare a rappresentare le loro preferenze e i loro interessi e, certo, lo potrà fare meglio se troverà il modo di influenzare il programma del prossimo governo. Terzo, gli oppositori di qualsiasi inizio di confronto enfatizzano siderali distanze programmatiche, persino sulla stessa concezione di democrazia (non oggetto della trattativa di governo che, comunque, si svolge nel quadro della democrazia parlamentare), ma senza confronto nessuna di quelle distanze potrà mai essere misurata convincentemente. Sembra che sulle priorità delle Cinque Stelle e del PD, le distanze siano a ogni buon conto meno significative di quelle fra Cinque Stelle e Salvini (o centro-destra nella sua interezza), ad esempio, sul reddito di cittadinanza/di inclusione o lotta alla povertà e sull’Europa.

Ne sapremo di più, tutti, compresi i due interlocutori, se il confronto comincerà. Prematuro è parlare di Presidente del Consiglio e di ministri anche perché la nomina del primo spetta al Presidente della Repubblica il quale ha anche il potere costituzionale di accettare o respingere i secondi. Nel bene e nel male, la Direzione del PD ha la grande responsabilità di scegliere se aprire o affossare un vero confronto programmatico e politico.

Pubblicato AGL il 27 aprile 2018

Perchè stare a guardare è roba da irresponsabili

La Direzione del Partito Democratico aveva un sacco bello di domande politicamente rilevanti alle quali rispondere. Ha deciso, quasi all’unanimità, sette astenuti soltanto, di evaderle. Però, è riuscita, nuovamente quasi all’unanimità, a rispondere a una domanda che nessuno ha ancora fatto. In assenza del segretario Renzi che, per correttezza politica, avrebbe dovuto presentare le sue dimissioni al più importante organismo del suo partito, spiegando perché erano necessarie e doverose, la Direzione le ha accettate senza batter ciglio. L’accettazione è stata sanzionata da un inutile tweet di Gentiloni che ha lodato “lo stile e la coerenza politica” di Renzi, facendo finta di non avere letto l’intervista di Renzi al “Corriere della Sera” nella quale figuravano in maniera prominente le critiche al Presidente del Consiglio, il cui governo non avrebbe neppure dovuto nascere dopo la batosta referendaria, e al Presidente della Repubblica.

In altri tempi in altri partiti, dopo una pesante sconfitta elettorale, due milioni e mezzo di voti persi dal 2013 al 2018, più di sette milioni se Renzi continua a intestarsi il perdente bottino del “sì” al referendum costituzionale del dicembre 2016, la Direzione si sarebbe chiesta dove sono finiti quei voti, se si poteva/doveva fare una campagna elettorale meno personalizzata, se, invece, di parlare di squadra a due punte, in realtà relegando Gentiloni al ruolo di “spalla”, non fosse stato preferibile valorizzare quanto fatto dal governo. Avrebbe cercato di capire che tipo di partito è diventato il PD: forte nelle città medio-grandi debolissimo nei comuni relativamente piccoli; molto votato dalle fasce medio-alte per reddito e istruzione, abbandonato dai settori popolari; evanescente fra gli elettori al di sotto dei 40 anni, presente in maniera cospicua fra gli ultrasessantenni. Il vice-segretario Martina ha accuratamente evitato di discutere di tutto questo che implicherebbe anche una critica severa a un partito divenuto personalista e una ricerca vera di un modello di partito diverso, con qualche radicamento territoriale. Che siano state le candidature paracadutate almeno in parte responsabili dell’emorragia di voti? No, la Direzione di questo tema mondano non si è occupata anche perché avrebbe portato con sé una qualche riflessione sulle modalità di scelta delle candidature e quindi sulla responsabilità non solo del segretario dimissionario, ma anche dei suoi collaboratori, tutti rieletti, seduti nelle prime fila. Nulla dirò sulla legge Rosato per non sentire come replica un sospiro e il lamento: “ah, avessimo avuto l’Italicum…” che non discuto in quanto ad esito, quasi sicuramente non favorevole al PD, ma in quanto alla qualità: cattiva legge elettorale. La Direzione non si è neanche interrogata sui più che mediocri risultati delle piccole liste coalizzate: Civica Popolare del ministro Lorenzin, Insieme dei prodiani, +Europa di Emma Bonino.

Lasciate inevase le domande politiche che segneranno comunque i problemi che il PD in quanto partito dovrà affrontare per non scomparire, la Direzione ha dato una risposta secca e sommaria ad una domanda che non è ancora stata rivolta agli organi statutari: “staremo all’opposizione”. A prescindere momentaneamente da qualsiasi altra considerazione, il verbo è sbagliato. Poiché attualmente il PD è al governo con Gentiloni e con un pacchetto di ministri importanti, il verbo giusto è “andremo” all’opposizione. La giustificazione di questo comportamento a futura memoria è semplicemente stupida: gli elettori ci hanno mandato all’opposizione. Sicuramente, non sono stati gli elettori che hanno votato Partito Democratico a mandarlo all’opposizione. Anzi, votandolo speravano riuscisse a rimanere al governo. È tuttora probabile che gli elettori del PD desiderino che il partito protegga e promuova le loro preferenze, i loro interessi, addirittura i loro ideali con impegno, con “umiltà e coesione politica” (seconda parte del tweet di Gentiloni che, evidentemente, sta già sognando un altro partito .

In una democrazia parlamentare multipartitica chiamarsi pregiudizialmente fuori dalle procedure, consultazioni e confronti programmatici, che conducono alla formazione di un governo, rifiutare il proprio apporto, annunciare un’opposizione preconcetta è un atteggiamento che ho definito “eversivo”. Nel frattempo, già più di una volta, il Presidente Mattarella ha richiamato tutti al senso di responsabilità. Esiste una responsabilità nei confronti dei propri elettori, ma c’è anche una responsabilità superiore, quella nei confronti della democrazia parlamentare: responsabilità nazionale. Chi si rifiuta di contribuire alla soluzione del rebus prodotto dai partiti e dai loro dirigenti agevolati da una pessima legge elettorale che ha dato loro troppo potere a scapito di quello degli elettori è irresponsabile. Se rende impossibile qualsiasi soluzione il suo comportamento merita di essere definito eversivo.

Pubblicato il 14 marzo 2018

Sì a proposte senza più preconcetti #direzionePd

Le premesse della riunione della Direzione del Partito Democratico di oggi non sembrano buone. Sarebbe stato opportuno che Renzi presentasse di persona le sue dimissioni ai componenti della Direzione spiegando perché sono andati perduti 2 milioni e mezzo di voti dal 2013 ad oggi, chiarendo anche quali sono i motivi per i quali il PD dovrebbe andare e rimanere all’opposizione. Invece, la lettera di dimissioni sarà letta dal Presidente del partito, Matteo Orfini e la relazione la farà il vicesegretario Martina. I problemi aperti, a cominciare dai numeri della sconfitta logica conseguenza dei comportamenti del segretario e dei suoi troppo ossequienti collaboratori, meritano una discussione approfondita e senza reticenze. La Direzione dovrebbe chiedersi perché il partito non ha saputo sfruttare al meglio gli esiti positivi, ancorché migliorabili, conseguiti dal governo Gentiloni. Sarà stata l’ambiguità della formula a “due punte”, troppo spesso utilizzata dal sovraesposto segretario e che a molti ha probabilmente segnalato la volontà di Renzi di tornare a Palazzo Chigi? Anche se l’esito elettorale della lista Liberi e Uguali è stato assolutamente deludente, chiunque voglia guidare un partito di centro-sinistra deve sapere prevenire scissioni sulla sua sinistra. Un bravo segretario tiene all’unità del suo partito, accetta il dissenso interno, vi si confronta, non lo schiaccia, anzi, mira a valorizzarlo. Comunque, qualsiasi rilancio del Partito Democratico passa attraverso il recupero sicuramente degli elettori, probabilmente anche di molti dirigenti di Liberi e Uguali. Una qualche sperimentazione di accordi potrebbe già cominciare sulla valutazione delle proposte programmatiche del Movimento Cinque Stelle per una molto eventuale formazione del prossimo governo. La Direzione non dovrebbe partire da una posizione preconcetta “stare [più precisamente “andare”, poiché il governo Gentiloni è tuttora costituzionalmente in carica] all’opposizione”. Un partito che dalla segreteria di Veltroni (2007) in poi si definisce “a vocazione maggioritaria” viola uno dei suoi precetti fondanti se si colloca pregiudizialmente fuori del gioco di formazione del governo. Potrebbe essere chiamato ad un atto di grande responsabilità politica nei confronti del paese che ha bisogno di un governo (relativamente, sic) stabile, effettivamente operativo. La Direzione dovrebbe evitare di disperdere il suo tempo a discutere delle date e delle modalità per l’elezione del prossimo segretario a scapito dei più importanti temi politici. Sono giuste le ambizioni personali, persino benvenute, se accompagnate da elaborazioni relative a che tipo di partito dovrà diventare il Partito Democratico e di quale cultura politica dovrà dotarsi. Con Renzi non c’è praticamente stata nessuna attenzione alle strutture del Partito che dovessero sostenerne le politiche, creare e mantenere rapporti e legami con l’elettorato, divulgare quanto fatto e, eventualmente, cambiare linea. Una riflessione autocritica dei molti che hanno assecondato Renzi nella trascuratezza dell’organizzazione del partito è assolutamente raccomandabile. All’inizio del 2017 le minoranze interne del PD, compresi i due candidati alternativi a Renzi alla segreteria del partito, vale a dire Orlando e Emiliano, chiesero una conferenza programmatica, che è un modo per discutere non soltanto le politiche, ma anche il veicolo grazie al quale farle camminare. Quella conferenza appare oggi ancora più necessaria, forse prioritaria. Infine, c’è il problema dei problemi vale a dire come dotare il Partito Democratico di una cultura politica convintamente e efficacemente riformista. Criticando i “professoroni”, Renzi e la sua più stretta collaboratrice mandavano anche il messaggio che della fusione del meglio delle culture riformiste italiane a loro non importava nulla. Però, senza una cultura politica riformista (che si traduce anche nel migliorare le proposte di altri) il Partito Democratico non soltanto è destinato a continuare a perdere voti, ma perderà il senso della sua stessa esistenza.

Pubblicato AGL il 12 marzo 2018

Referendum anticipo delle urne

“iPerché” di Impaginato, risponde Pasquino:
referendum anticipo delle urne, Renzi ha perso la testa.

Il referendum nel lombardo veneto? Utile senza’altro ad alzare i toni contro il governo, una sorta di anticipo della prossima campagna elettorale, ma Matteo Renzi e il Pd hanno perso la testa. Così il prof. Gianfranco Pasquino, uno dei massimi politologi italiani, docente di scienza politica all’università di Bologna, nonché adjunct professor al Bologna Center della Johns Hopkins University.

Antonio Polito sul Corriere della Sera scrive che la voce del nord va ascoltata: il referendum è stato lo strumento giusto?
Non era certo lo strumento per ascoltare, ma solo per alzare i toni contro il governo nazionale e spia di una certa visione di regionalismo straccione che sta imperando in Italia. Era anche il momento giusto perché la Sicilia sta andando verso le sue elezioni in una condizione economica e gestionale disastrata. Quindi si apre una sfida, anche se non ho ben capito cosa hanno voluto dire gli elettori. Ma di un’altra cosa sono sicuro: i veneti vogliono che la maggior parte delle loro tasse resti lì. Il classico egoismo di taluni settori del nord, spiegabile perché sono esasperati dal modo in cui i loro soldi sono poi utilizzati a livello nazionale.

È vero che da oggi in poi ci sarà questo big bang di riforme istituzionali di stampo federalista?
Semplicemente la Lega sta per tornare al governo. Questo è un segnale politico: sia Zaia sia Maroni, ma il primo più del secondo, sono in grado di mobilitare una parte cospicua dell’elettorato, portarla alle urne per votare sì e per molte buone ragioni. Sperano (Salvini in primis) che ciò sia un trampolino di lancio per le prossime politiche. Se dovessero vincerle allora dovranno, in qualche modo, fornire una risposta a questo tipo di domande.

Perché dice in qualche modo?
Perché siamo in presenza di una situazione dall’enorme complessità: non può essere certamente solo una questione di soldi, ma di competenze. Bisognerà che, chi sarà preposto a negoziare con loro, accetti che alcune competenze in più vadano a Lombardia e Veneto, purché ci siano garanzie in grado di essere esercitate.

Questo potere di negoziato per le singole regioni potrà minare l’unità nazionale?
La nostra è un’unità nazionale abbastanza debole, fluida e gelatinosa. Non è rigida per cui si dà un colpo e un pezzo se ne va. Ma si continuerà a trattare credo senza grandi idee, anche perché non ci troviamo di fronte a degli straordinari pensatori federalisti. Mi riferisco a persone che siano in grado di indicare come ristrutturare lo Stato Italiano in maniera federale: e purtroppo non ne esistono in Italia

Per cui la questione settentrionale e quella meridionale come si affrontano?
Dobbiamo renderci conto che la vera battaglia italiana non è relativa alla ridistribuzione di risorse all’interno del Paese, quanto piuttosto a come stare in Europa, quindi come utilizzare al meglio tutte le opportunità che l’Ue offre ai membri virtuosi.

Dal momento che, come confermano le ultime posizioni nelle classifiche europee, l’Italia di virtuoso al momento fa poco, pensa che il rischio troika determinerà le alleanze post elettorali?
La Grecia è stata un caso straordinario e un caso limite, perché nel frattempo la troika ha governato il Portogallo che, nonostante grandi proteste di piazza, è rientrato nei binari giusti e sta crescendo poco più dell’Italia, da un paio d’anni a questa parte. Il Portogallo ha imparato la lezione greca, anche se Atene partiva da un punto ancora più basso. Ciò che ci importa sapere è che, se utilizzassimo al meglio i fondi Ue specialmente nel Mezzogiorno d’Italia dove nemmeno sono spesi in tempo, si riuscirebbe a far fronte, con risorse continentali, ai nostri atavici problemi creati da una contingenza di vizio italiano.

Il Pd avrebbe potuto fare una riforma diversa per non arrivare a questo referendum?
Sì. Ma il dato è che in Veneto e Lombardia il Pd è debole, e alcuni esponenti nazionali di quelle due regioni potevano essere più attenti. Penso al vicesegretario Guerini che avrebbe potuto avere qualche altra risposta, o al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina,lombardo, che cerca di minimizzare, o al capogruppo Rosato: sarebbero dovuti in quella campagna elettorale tentando di dare una curvatura diversa.

Il punto di non ritorno del Pd è nel referendum dello scorso dicembre? Compreso lo scivolone su Bankitalia, la diaspora a sinistra e, da ultimo, il ping pong Renzi-Boldrini?
Renzi ha perso la testa due volte: del governo e di se stesso. Per cui oggi si dimena in modo scomposto. Purtroppo per noi i suoi collaboratori non gli dicono nulla perché, grazie alla nuova legge elettorale, Renzi avrà la possibilità di nominare e fare eleggere un centinaio di parlamentari. Detto questo il Pd ha perso qualsiasi strategia di rilevanza, anche se non del tutto: in molti elettori serpeggia la tesi che i democrat siano comunque un argine contro la destra o contro i populismi. Ma proprio la propaganda renziana presenta traccia evidenti di quel populismo, come la proposta di voler difendere i risparmiatori contro le banche: una classica affermazione populista. Riprovevole che nessuno glielo abbia ricordato.

Pubblicato il 23 ottobre 2017