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Al fronte del sì serve più unità e leadership @DomaniGiornale

A fronte di “dure difficoltà”, sconfitte elettorali comprese (quella, brutta, dei cinque referendum lo è), chi ha vocazione per la politica, risponde con le parole di Max Weber: “Non importa, continuiamo!” Però, affinché lo “squoraggiamento” non diventi fenomeno diffuso e paralizzante s’impone l’obbligo di un’analisi realistica della situazione in grado di indicare prospettive percorribili. Sbagliato è sostenere che nei referendum sul lavoro (e sulla cittadinanza) si è manifestata una qualsivoglia crisi della democrazia. Al contrario, milioni di italiani hanno fatto uso di uno strumento proprio della democrazia, il referendum abrogativo, che contempla il non voto come modalità per incidere sull’esito. Il problema, semmai, consiste nel prendere atto che nella struttura sociale del paese, già da qualche tempo, i lavoratori dipendenti sono una, per quanto non trascurabile, minoranza. Né i quesiti né i loro sostenitori né la campagna elettorale sono stati in grado di convincere i moltissimi lavoratori autonomi a sostenere una pur nobile battaglia in grado di dare vita a una coalizione sociale e politica potenzialmente maggioritaria.

   Certo, nei referendum le poste in gioco possono essere molte, al di là degli specifici quesiti. Cercare di coinvolgere il governo di destra quasi fosse possibile sfiduciarlo dandogli una spallata è stato fin da subito un errore, comunque, non la modalità giusta per portare elettori aggiuntivi alle urne.  Al contrario, potrebbe avere convinto i sostenitori di quel governo a starsene comodamente e efficacemente a casa.

Gli elettori meritano sempre rispetto. Hanno mostrato interesse per il referendum. Si sono informati e hanno scelto con la loro cognizione di causa, come dimostrano i “no” al quesito inteso a rendere più facile il conseguimento della cittadinanza italiana. La loro affluenza alle urne ha implicato qualche costo in termini di tempo e di energie, forse anche di spese. Meglio, sempre, a mio parere, gli elettori che partecipano degli astensionisti. Il rispetto per i votanti non significa affatto che debbano, in questa circostanza, contare di più dei non votanti consapevoli. Di più, il rispetto anche degli elettori che hanno preferito non votare non implica affatto che commentatori, politici, gli altri cittadini debbano astenersi dal criticarli sul modo e sulla sostanza. Insistere sull’obiettivo di una democrazia partecipata è raccomandabile e positivo.

   Magari i politici del “sì” e i sindacalisti potrebbero utilmente interrogarsi sui loro errori di comunicazione e sulle loro inadeguatezze di mobilitazione. Per fare tornare i conti, anzi, per migliorarli, non sarà sufficiente concordare con Weber e continuare le battaglie senza cambiare molto. Costruire una coalizione politica potenzialmente maggioritaria richiede l’individuazione dei settori sociali ai quali mandare una pluralità di messaggi che spieghino in cosa quella coalizione non soltanto differisce, ma è preferibile al governo in carica. Esige visibile coesione di intenti e non prese di distanza furbesche e frequenti. Per lo più gli elettorati democratici preferiscono la stabilità a qualsiasi prospettiva di ricambio che si presenti all’insegna dell’incertezza e del conflitto.

Max Weber ricorderebbe a tutti quanto importante, mediaticamente e politica, è la leadership. Senza controproducenti ipocrisie è tempo di riconoscere che Meloni ha saputo esaltare il suo profilo di leader, di partito e di governo, anche nella sceneggiata minore della visita al suo seggio elettorale. I contenuti, ovvero, le priorità programmatiche, continueranno a contare, ma senza una leadership alternativa, credibile, emersa/scelta tempestivamente, per tempo, le opposizioni italiane non andranno da nessuna parte. Non riusciranno a ottenere il voto di quel 10 per cento circa che fa sempre la differenza in tutte le elezioni democratiche. Non perché gli elettori non le hanno capite, ma proprio perché, come e più che nel referendum, ne vedono le contraddizioni e le carenze.

Pubblicato il 11 giugno 2025 su Domani

La corruzione è lo specchio di una società che la tollera @DomaniGiornale

Fare politica è costoso, un po’ dappertutto. Richiede un investimento iniziale, ma anche da alimentare periodicamente, non piccolo: tempo, energie e denaro. La tanto, troppo sbandierata “passione” è importante, aiuta nei momenti difficili, ma non è mai sufficiente. Fare politica può anche essere un modo per arricchirsi: fama, prestigio, riconoscimenti, persino soddisfazioni quando si ha la capacità e la possibilità di formulare e attuare politiche che giovano ad una comunità, agli elettori, al sistema politico, sociale, economico (la Nazione?). Anche senza conoscerne le preziosissime teorizzazioni, molti concordano con Max Weber. Magari la distinzione fra vivere per la politica e vivere di politica è troppo drastica. Certamente, però, Weber non pensava affatto e non avrebbe in nessun modo condonato chi, volendo vivere di politica, avesse utilizzato qualsiasi suo ruolo per estrarre illecitamente vantaggi personali, anche ricorrendo alla corruzione, dalle sue attività.

   “Politici d’affari” fanno la loro comparsa in molti sistemi politici, non necessariamente in tutti. Nei regimi autoritari, la corruzione è insita, quasi la norma. La si scoperchia non appena cambiano i governanti. Nelle democrazie le differenze fra sistemi sono notevoli. Possono derivare sia dalle strutture: istituzioni, burocrazia, partiti, sia dalle mentalità più o meno disponibili ad accettare qualche dose di corruzione. Quindi, nei casi di frequente e diffusa corruzione in politica, non è sufficiente guardare esclusivamente alla politica, ma anche ai valori della società e relativi comportamenti.

La reazione sdegnata della società italiana, ancorché nient’affatto unanime, e le inchieste della magistratura, a partire da Mani Pulite portarono a una situazione nella quale la corruzione politica sembrava potesse diventare un fenomeno marginale, limitato. Di recente, invece, hanno fatto la loro comparsa casi gravi da Bari a Torino, in Sicilia e altre fattispecie (anche di ministri e sottosegretari, il conflitto di interessi è intrinsecamente portatore di corruzione), da ultimo, ieri, in Liguria dove si ipotizza una rete ampia e diversificata, quasi un sistema, che coinvolge Giovanni Toti, il Presidente della Regione Liguria e numerosi operatori economici anche di vertice. Per mia salvezza personale, mi cautelo subito con l’espressione “la giustizia faccia il suo corso” e completo “massima fiducia”. L’orologio della giustizia funziona come può, ma gira, gira costantemente.

Uomini e, in misura minore, donne, forse perché sono numericamente meno presenti e meno potenti, corrotti/e se ne trovano dappertutto, ma con enormi differenze fra paesi: quasi assente in Scandinavia e limitata nei sistemi anglosassoni tranne che negli USA, già non più “anglosassone”, che tutte le ricerche riscontrano e documentano. In qualche caso a tenerla bassa serve il controllo politico e sociale: partiti che la ripudiano e sistematicamente escludono chi è incline a praticarla; elettori informati e indignati che la puniscono con il voto; mass media che la raccontano senza sconti e senza favori (favoreggiamenti). In altri, è l’ambiente circostante che ne rende intollerabile il costo non solo politico: esclusione rapida e definitiva dalle cariche, ma anche reputazionale: messa al bando con vergogna da qualsiasi attività pubblica. In Italia, c’è molto da fare su entrambi i terreni, a cominciare dalle interazioni sociali di partenza, in famiglia, nelle scuole, fra gruppi di pari. Coloro che corrompono e coloro che si lasciano o addirittura si fanno corrompere non sono “furbi”. Sono malfattori le cui attività inquinano la vita di tutti, violano qualsiasi principio etico, mettono le fondamenta, costruiscono e perpetuano l’ingiustizia sociale. Questo è l’altissimo costo della corruzione, soprattutto quella politica.

Pubblicato il 8 maggio 2024 su Domani

Lavorare con le idee; le idee per lavorare #paradoXaforum

Nessun lavoro intellettuale si svolge in vitro e neppure in laboratori chiusi al mondo. Quando passeggiamo con Socrate che ci inquisisce, quando ci ingaglioffiamo (il verbo è suo) con Machiavelli, quando seduti su una panchina aspettiamo che l’orologio del campanile batta le 15 per correre incontro a Kant e chiedergli come possiamo diffondere la pace perpetua, quando ascoltiamo la conferenza di Weber su Il lavoro intellettuale come professione, non siamo mai soli. Abbiamo idee ricevute, intratteniamo interrogativi, ci godiamo i ricordi di tante buone letture, costruiamo proposte di soluzione tentando ripetutamente e faticosamente di salire sulle spalle dei giganti leggendo e rileggendo i loro testi. Spesso e, in tempi recenti, molto più spesso, siamo colpiti dalla faciloneria, dalla approssimazione, dalla superficialità degli altri. “L’enfer”, nella famosa frase di Jean-Paul Sartre, “c’est les autres”. Potremmo lasciarli lì, gli altri, con le loro citazioni sbagliate, spesso di seconda mano e plagiate, con riferimenti fuorvianti, con dimenticanze colpevoli, con il loro estremismo e narcisismo. Potremmo, invece, scegliere una alternativa apparentemente delicata, molto costosa e rischiosa che consiste nel pensare e nel provare che lavoro intellettuale è anche, regolarmente confrontarsi avec les autres. Il confronto con e la citazione del lavoro degli altri non risponde a nessun bisogno di guadagnarsi/procurarsi scambievolmente confronti e citazioni gratificanti. Risponde, invece, ad una certa idea di ricerca scientifica, sbagliando s’impara, trial and error, ovviamente per chi non è nato imparato e rimane a ballonzolare senza grazia ai piedi dei giganti.

Nel mio libro Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve (UTET 2023) ho cercato, schematicamente, ma non sacrificando nulla, di spiegare in che modo ho svolto il mio lavoro e come ho capito le modalità seguite da altri studiosi dei quali ho grande stima. Le tappe, tutte interconnesse, talvolta con qualche inevitabile e voluta sovrapposizione, sono: Leggere, Recensire, Ricercare e scrivere, Insegnare, Predicare (le due ultime sono separate da una linea sottile, ma reale, appena elastica). Non approfondisco, ma “condisco” con due osservazioni che mi paiono molto importanti. La prima è che ciascuna delle attività che ho evidenziato può innervare necessari criteri di valutazione. La seconda, acquisizione per me recente, in un dibattito triangolare su “L’Europa verso il mondo di domani”, è che il lavoro intellettuale non può mai esimersi dal citare, anche se apparentemente irrilevanti, le argomentazioni dei dibattenti. L’arroganza narcisistica non è neppure manovalanza intellettuale. Per lo più è sgarbo sgradevole. Va denunciata, sul posto. Chiedere quale libro letto sta a base di quale espressione, quali elementi utili e suggestivi emergono da libri recensiti, quali lacune mira a soddisfare un libro, un saggio, un articolo, quali testi sono preferibili per una buona trasmissione del sapere agli studenti, infine, quale è il contenuto, quale è lo stile, quale il luogo (mai la cattedra secondo Max Weber) per la predicazione, sono tutte domande legittime le cui risposte possono condurre a domande migliori e all’avanzamento di scienza e conoscenza. Il peccato mortale nel lavoro intellettuale si chiama plagio. Vale, naturalmente, anche per i giornalisti ai quali spesso tocca il compito o se ne appropriano, con altalenante (in)successo di diffondere le più recenti e nuove conoscenze specialistiche. I divulgatori bravi contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica. Quando quell’opinione pubblica si nutre, sostiene, incoraggia il lavoro intellettuale appare probabile che si sia fuorusciti dagli angusti confini dello stivale.    

Pubblicato il 4 marzo 2024 su PARADOXAforum

Le elezioni decisive e il “momento Spinelli” @DomaniGiornale

“Non avremmo voluto mai prendere questo provvedimento, ma ce lo chiede l’Europa”. Questa frase l’abbiamo sentita tantissime volte pronunciata con faccia mesta da molti politici, più da coloro che stanno al governo che dagli oppositori. La chiamerò la sindrome dell’alibi. “No, questo, fosse per noi, se solo potessimo, lo faremmo subito e di più, ma le regole europee ce lo vietano. Purtroppo, dobbiamo rinunciarvi, ma la colpa è dell’Europa”. Questa è, invece, precisamente la sindrome della capra espiatoria (sic). Entrambe le sindromi sono simultaneamente presenti nel dibattito italiano. Probabilmente godranno di un’impennata non appena, presentate le liste e le candidature, anche quelle civetta, comincerà la campagna per l’elezione del Parlamento europeo.

   Troppo spesso, se non, addirittura, quasi sempre, gli europeisti non reagiscono in maniera efficace. Non sanno, come suggerirebbero gli esperti di comunicazione politica, controinquadrare (frame) le tematiche salienti e dettare una diversa agenda del discorso politico. Tanto per cominciare l’Europa siamo noi, non è un qualcosa di separato da e di estraneo alle nostre vite, di ieri, di oggi, e ancor più, di domani. Siamo noi che eleggiamo gli europarlamentari italiani;  è il nostro governo che nomina il rappresentante italiano nella Commissione, i nostri ministri in tutti i comitati interministeriali addetti alle politiche di settore e la Presidente del Consiglio che fa parte per l’appunto del Consiglio dei capi di governo. Se le decisioni che sono prese in queste istituzioni non tengono conto delle proposte italiane e vanno a scapito degli interessi nazionali potrebbe non essere un complotto dei poteri forti europei tutti coalizzati per oscure ragioni contro l’Italia. Sarebbe opportuno, piuttosto, interrogarci sulla qualità delle nostre proposte, sulla capacità dei nostri rappresentanti di creare coalizioni per proteggere e promuovere nel quadro europeo i nostri interessi, sulla credibilità del, come si dice con espressione che merita di essere analizzata e chiarificata, “sistema paese”.

  Qualsiasi alibi e qualsiasi tentativo di gettare le colpe su una o più capre espiatorie peggiorano la situazione dei paesi e dei loro dirigenti che vi fanno ricorso. Nel rapporto democratico fra governanti e cittadinanza, agli europeisti si offre l’opportunità e corre l’obbligo di mettere in evidenza quanto l’Unione Europea è progredita, nonostante enormi e drammatiche sfide, una delle quali, l’aggressione russa all’Ucraina, è tuttora in corso, un’altra, la pandemia da Covid, è stata sconfitta proprio grazie al coordinamento in sede europea e alle risorse messe in comune. Europeismo per gli italiani che ci credono e vogliono più Europa significa rifarsi agli scritti e alle azioni impetuose, incessanti, infaticabili di Altiero Spinelli e alle prospettive da lui delineate e perseguite: l’unificazione politica dell’Europa. Spinelli sapeva guardare indietro e rallegrarsi dei risultati ottenuti, senza mai però accontentarsi. Lo farebbe anche nelle condizioni, difficili, attualmente date. Ha subìto e subirebbe delle sconfitte, ma proprio come il politico per vocazione così brillantemente individuato da Max Weber, direbbe: “Non importa, ricominciamo”, avendo imparato e svolto un’opera di pedagogia politica europeista a tutto campo.

   Nel processo di unificazione europea, complicato, faticoso, contrastato, aperto a una molteplicità di soluzioni, esiste spesso un “momento Spinelli”. È quello nel quale i progressisti hanno il compito di unire le forze e mobilitare cittadini in nome di quel molto che l’Europa ha già fatto per noi e di quel di più che c’è e rimarrà ancora da fare con il contributo essenziale dei cittadini europei. Le elezioni dell’Europarlamento 2024 sono sicuramente quel “momento”. 

Pubblicato il 14 febbraio 2024 su Domani

Ai palestinesi serve una leadership carismatica @DomaniGiornale

C’è un tempo per la rappresaglia e c’è un tempo per la de-escalation. La durezza dell’aggressione di Hamas è stata tale che Israele non può rinunciare politicamente, prima ancora che militarmente, a mostrare le sue capacità di reazione. Al tempo stesso, deve lasciare trapelare con maggiore o minore evidenza la sua disponibilità a fare scendere il livello del conflitto, anche per tutelare per quanto possibile gli ostaggi nelle mani dei terroristi. A loro volta, tutti gli altri attori, in particolare quelli schierati a sostegno di Israele, hanno l’obbligo, da un lato, di aiutare lo Stato ebraico non cancellando le critiche alle politiche del governo Netanyahu, dall’altro, di non cessare affatto gli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza accompagnandoli con i più severi rimproveri alla leadership di Hamas e i necessari richiami a comportamenti non svincolati da qualsiasi principio di umanità. In particolare, facendo un po’ di autocritica per la sua disattenzione negli anni più recenti, certo in parte giustificabile con riferimento al contrasto all’aggressione russa dell’Ucraina, e per la sottovalutazione degli sviluppi in quell’area, l’Unione Europea deve misurare le sue sanzioni a Hamas e (ri)prendere iniziative diplomatiche.

   Lo stato del conflitto Hamas/Israele e delle sue ramificazioni potrebbe scoraggiare qualsiasi tentativo di guardare oltre il contingente. In molti potrebbe suscitare una riflessione che conduce alla convinzione che ha improntato la politica israeliana da molti, troppi anni. La sicurezza dello Stato ebraico dipende esclusivamente dalla sua superiorità militare. Questa convinzione, unita alla debolezza politica di Al Fatah e alla incapacità di Abu Mazen di intraprendere qualsiasi iniziativa nonché la sterzata a destra dei governi israeliani, ha significato che nelle menti di molti si è affermata l’idea che il massimo conseguibile sia uno status quo anche se punteggiato da frequenti conflitti e scontri di entità variabile, ma non elevata. La potente aggressione di Hamas può avere scritto la parola fine su questa illusione. Bisogna tornare a pensare a una soluzione duratura, concordata, di compromesso.

    Per coloro che si compiacciono della distinzione fra il politico che ha visione corta, limitata e circoscritta dalle scadenze elettorali, e lo statista che pensa e opera a giovamento della prossima generazione, il problema riguarda la leadership politico-governativa di Israele. Sarà anche opportuno notare che nelle democrazie, e Israele è uno stato democratico e pluralista, sono gli elettori a scegliere le leadership. Bobbio direbbe che le leadership democratiche si propongono, quelle autoritarie si impongono. Unione Europea, USA e tutti coloro che intendano avere un ruolo debbono porsi l’interrogativo riguardante le (plurale) leadership palestinesi. Sono certamente parte del problema. Saranno inevitabilmente anche parte della soluzione.

   “Le esperienze delle cose moderne e la lezione delle antique” (Machiavelli) suggeriscono di guardare a come fu evitato il bagno di sangue nel Sudafrica che si accingeva ad intraprendere la strada della democratizzazione. Fu la leadership carismatica di Mandela a convincere la maggioranza dei neri ad una transizione senza vendette. Il resto lo fece in seguito la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Naturalmente, nessuno ha il potere di fare nascere un leader carismatico. Nelle condizioni di enorme e abnorme ansietà collettiva (Max Weber) che caratterizza la vita di molti palestinesi, è possibile sperare nella comparsa, a rimpiazzare la leadership burocratica di Al Fatah e quella militare di Hamas, di un leader che con il suo carisma, da un lato, ottenga il necessario riconoscimento israeliano di credibilità, accompagnato dal massimo di restituzione dei territori, e, dall’altro, convinca i suoi sostenitori che la soluzione prospettata è il massimo e il meglio conseguibile e che offrirà condizioni e prospettive di vita altrimenti irraggiungibili? Solo utopia? Esistono alternative?  

Pubblicato il 11 ottobre 2023 su Domani

Una cultura politica, anche libresca, per il Partito Democratico

Apprendiamo che Nicola Zingaretti, le cui benemerenze culturali non sono note né al grande pubblico né a me, sostituirà Gianni Cuperlo alla Presidenza della Fondazione del Partito Democratico. Dovrà, nelle parole della segretaria, avere quello sguardo “lungo e largo” necessario al partito. Quando ascolto queste banalità, mi intristico. Hanno quasi tutti smesso di studiare tempo fa, pochi lo avevano fatto e ancora meno, fra questi Cuperlo, hanno continuato.

Il mio tic di Pavlov consisterebbe nel chiedere a Zingaretti quale libro sta leggendo, chiedo scusa, quale è l’ultimo libro che ha letto (la domanda vale anche per Schlein). So che verrei sbeffeggiato. Non sanno i sbeffeggiatori che la loro reazione rafforza la mia convinzione che da tempo la cultura non abita più nel Partito Democratico. Anzi, probabilmente, nonostante le roboanti affermazione sulla raccolta delle migliori culture riformiste del paese, comunque giunte esauste e al capolinea nell’anno 2007 dopo Cristo, il PD di cultura politica praticamente non ne ha (ne ho discusso nel fascicolo di Paradoxa: La scomparsa delle culture politiche in Italia .

Cuperlo faceva del suo meglio, ma certamente era consapevole che quel suo partito frastagliato in correnti dedite alla riproduzione di posti, di cultura politica produrne non poteva, ma il galleggiamento garantiva che in qualche modo circolassero idee. Era, poi, nella sua, immagino piena, consapevolezza, la sua personale non centralità politica, a impedire che fossero le idee a guidare l’azione politica. La movimentista Schlein coerentemente si agita e agita alcune idee che, per quel che conta, spesso coincidono con alcune mie preferenze. Ma lo sguardo non mi pare né lungo né largo, abbastanza sbilenco e centrato sui dintorni, su coloro che l’attorniano. Da movimento a istituzione, poi, come hanno brillantemente scritto Max Weber e Francesco Alberoni, il passo è talmente lungo che, spesso, proprio non riesce.

Provocatoriamente, adesso subito, desidererei che Zingaretti suggerisse e/o si facesse suggerire quei cinque-sei libri non solo di autori contemporanei, ma anche di classici, non solo utile per la citazione ad effetto, ma per l’impostazione di una strategia riformista, progressista, pluralista, europeista. No, non mi sono dimenticato “pacifista”; l’ho omessa deliberatamente. Non ho l’aggettivo per giustizia sociale, ma questo obiettivo è la stella polare della cultura progressista. Se non lo fosse, un dibattito aperto, non per linee correntizie, dovrebbe costituire la prima attività lanciata da Zingaretti, magari con l’invito a Cuperlo a tenere una delle relazioni introduttive,

Come? Mi state dicendo che non funzionano così i partiti? Che questo tipo di dibattito non sta nel DNA del Partito Democratico? Mi piace avere ragione, ma sarei ancora più contento di averla a ragion veduta. A dibattito consumato. Realismo della ragione.

Pubblicato il 24 luglio 2023 su PARADOXAforum

Democrazia Futura. Mario Draghi fra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica @Key4biz #DemocraziaFutura

Un bilancio della sua presenza a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale.

Un bilancio della presenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale richiedono alcune premesse. Per fin troppo tempo, in maniera affannata e ripetitiva, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e alcuni editorialisti di punta (Aldo Cazzullo, Paolo Mieli, persino Ferruccio de Bortoli) hanno criticato i governi e i capi di governo non eletti (dal popolo), non usciti dalle urne (Antonio Polito) (1).

La nomina di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio li ha finora zittiti tutti nonostante la sua non elezione popolare e il suo non essere uscito da nessuna urna.

Forse, però, siamo già entrati, sans faire du bruit, in una nuova fase del pensiero costituzionale del Corriere. Draghi vive e opera in “una sorta di semipresidenzialismo sui generis”, sostiene Ernesto Galli della Loggia (2) non senza lamentarsi per l’ennesima volta della sconfitta delle riforme renziane che avrebbero aperto “magnifiche sorti e progressive” al sistema politico italiano senza bisogno di semipresidenzialismo e neppure del voto di sfiducia costruttivo German-style. Fermo restando che le forme di governo cambiano esclusivamente attraverso trasformazioni costituzionali mirate, esplicite, sistemiche, la mia tesi è che Draghi è il capo legittimo di un governo parlamentare che, a sua volta, è costituzionalmente legittimo: “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94).Tutti i discorsi sull’operato, sulle prospettive, sui rischi del governo Draghi si basano su aspettative formulate dai commentatori politici  da loro variamente interpretate e criticate.

Sospensione della democrazia o soluzione costituzionale flessibile del parlamentarismo?

Lascio subito da parte coloro che hanno parlato di sospensione della democrazia poiché, al contrario, stiamo vedendo all’opera proprio la democrazia parlamentare come saggiamente delineata nella Costituzione italiana. Sono la flessibilità del parlamentarismo Italian-style e l’importantissima triangolazione fra Presidenza della Repubblica, Governo e Parlamento che per l’ennesima (o, se si preferisce, la terza volta dopo Dini 1995-1996; e Monti 2011-2013) volta ha prodotto una soluzione costituzionale a problemi politici e istituzionali.

Il discorso sulla sospensione della politica merita appena più di un cenno. Infatti, nessuno dei leader politici ha “sospeso” le sue attività e le elezioni amministrative si svolgono senza nessuna frenata né distorsione. Aggiungo che non soltanto Draghi è consapevole che quel che rimane dei partiti ha la necessità di ingaggiare battaglie politiche, ma anche che, da un lato, prende atto di questa “lotta” politica, dall’altro, la disinnesca se non viene portata nel Consiglio dei Ministri.

Sbagliano, comunque, coloro che attribuiscono a Draghi aspettative e preferenze del tipo “non disturbate il manovratore”. Al contrario, se volete disturbare è imperativo che le vostre posizioni siano motivate con riferimento a scelte e politiche che siano nella disponibilità del governo e dei suoi ministri. Chi ha, ma so che sono pochissimi/e, qualche conoscenza anche rudimentale del funzionamento del Cabinet Government inglese (certo, costituito quasi sempre da un solo partito), nel quale può manifestarsi la supremazia del Primo ministro, dovrebbe apprezzare positivamente la conduzione di Draghi.

I veri nodi da sciogliere: ristrutturazione del sistema dei partiti e accountability

A mio modo di vedere rimangono aperti due problemi: la ristrutturazione del sistema di partiti e la accountability. Il primo si presenta come un wishful thinking a ampio raggio, privo di qualsiasi conoscenza politologica. Il secondo è, invece, un problema effettivo di difficilissima soluzione.

Non conosco casi di ristrutturazione di un sistema di partiti elaborata e eseguita da un governo, dai governanti. Fermo restando che in nessuna delle sue dichiarazioni Draghi si è minimamente esposto e impegnato nella direzione di una qualsivoglia (necessità di) ristrutturazione, facendo affidamento sull’essenziale metodo della comparazione la scienza politica indica tre modalità attraverso le quali un sistema di partiti potrebbe ristrutturarsi: leggi elettorali; forma di governo; emergere di una nuova frattura politica.

Leggi elettorali, forma di governo, emergere di fratture politiche o sociali

Quanto alle leggi elettorali, pur tecnicamente molto perfezionabile, la legge Matttarella, grazie ai collegi uninominali nei quali venivano eletti tre quarti dei parlamentari, incoraggiò la competizione bipolare e la formazione di due coalizioni, che, più a sinistra che a destra, fossero coalizioni molto composite,  è responsabilità dei dirigenti dei partiti. Fu un buon inizio. Oggi ci vuole molto di più per ristrutturare il sistema dei partiti. Non può essere compito di Draghi e del suo governo, ma i dirigenti dei partiti e i capicorrenti tutto desiderano meno che una legge elettorale che offra più opportunità agli elettori e più incertezza e rischi per candidati e liste. 

La spinta forte alla ristrutturazione potrebbe sicuramente venire da un cambio nella forma di governo. Da questo punto di vista, il semipresidenzialismo di tipo francese è davvero promettente per chi volesse imprimere dinamismo al sistema politico italiano. Mentre mi pare di sentire da lontano le classiche irricevibili critiche alle potenzialità autoritarie della Quinta Repubblica, ricordo di averne fatto oggetto di riflessione e valutazione in più sedi (3) e respingo l’idea che all’uopo sia necessaria la trasformazione di Draghi in novello de Gaulle. Naturalmente, non sarà affatto facile per nessuno imporre una trasformazione tanto radicale se non in presenza di una non augurabile crisi di grande portata.

La terza modalità che potrebbe obbligare alla ristrutturazione del sistema dei partiti è la comparsa di una frattura sociale e politica di grande rilevanza che venga sfruttata sia da un partito esistente e dai suoi leader sia da un imprenditore politico (terminologia che viene da Max Weber e da Joseph Schumpeter).

La frattura potrebbe essere quella acutizzata e acutizzabile fra europeisti e sovranisti, sulla scia di quanto scrisse Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene. Potrebbe anche manifestarsi qualora si giungesse ad una crescita intollerabile di diseguaglianze, non solo economiche, cavalcabile da un imprenditore che offra soluzioni in grado di riaggregare uno schieramento. In entrambi i casi, la ristrutturazione andrebbe nella direzione di un bipolarismo che taglierebbe l’erba sotto ai piedi di qualsiasi centro che, lo scrivo per i nostalgici, non è mai soltanto luogo di moderazione, ma anche di compromissione ovvero, come scrisse l’autorevole studioso francese Maurice Duverger, vera e propria palude.

I compiti ambiziosi su cui potremo valutare l’operato del governo Draghi e il futuro del premier in politica e nelle istituzioni

Il governo Draghi in quanto tale non può incidere su nessuno di questi, peraltro molto eventuali e imprevedibili, sviluppi. La sua esistenza garantisce lo spazio e il tempo per chi volesse e sapesse agire per conseguire l’obiettivo più ambizioso. Nulla di più, giustamente. Draghi e il suo governo vanno valutati con riferimento alle loro capacità di perseguire e conseguire il rinnovamento di molti settori dell’economia italiana, la riforma della burocrazia, l’ammodernamento della scuola e l’introduzione di misure che producano maggiore e migliore coesione sociale. Sono tutti compiti necessariamente ambiziosissimi.

Per valutarne il grado di successo bisognerà attendere qualche anno, ma fin d’ora è possibile affermare che il governo ha impostato bene e fatto molto.

Qui si situa il discorso che non può essere sottovalutato sul futuro di Draghi in politica e nelle istituzioni. I precedenti di Lamberto Dini e di Mario Monti dovrebbero scoraggiare Draghi a fare un suo partito, operazione che, per quel che lo conosco, non sta nelle sue corde e non intrattiene. Ricordando a tutti che Draghi è stato reclutato per un incarico specifico: Presidente del Consiglio (dunque, sì, in democrazia le autorità possono essere tirate per la giacca!), procedere alla sua rimozione per una promozione al Colle più alto, richiede convincenti motivazioni, sistemiche prima ancora che personali.

È assolutamente probabile, addirittura inevitabile, che, senza farsene assorbire e sviare, Draghi stesso stia già valutando i pro e i contro di una sua ascesa al Quirinale.

Non credo che il grado di avanzamento nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sarà già a fine gennaio 2022 tale da potere ritenere che viaggerà sicuro senza uscire dai binari predisposti dal governo. Però, è innegabile che esista il rischio che il prossimo (o prossima) Presidente non sia totalmente sulla linea europeista e interventista del governo Draghi. Così come è reale la possibilità che il successore di Mattarella sia esposto a insistenti e possenti pressioni per lo scioglimento del Parlamento e elezioni anticipate con la vittoria annunciata dei partiti di destra e dunque governo nient’affatto europeista, se non addirittura programmaticamente sovranista.

L’ipotesi plausibile di Draghi al Quirinale alle prese con la formazione del governo dopo le elezioni del 2023: verso una coabitazione all’italiana?

Non è, dunque, impensabile che negli incontri che contano Draghi si dichiari disponibile ad essere eletto Presidente della Repubblica.

A partire dalla data della sua elezione Draghi avrebbe sette anni per, se non guidare, quantomeno orientare alcune scelte politiche e istituzionali decisive.:

  • Anzitutto, non procederà a sciogliere il Parlamento se vi si manifesterà una maggioranza operativa a sostegno del governo che gli succederà.
  • Avrà voce in capitolo nella nomina del Presidente del Consiglio e di non pochi ministri.
  • Rappresenterà credibilmente l’Italia nelle sedi internazionali.

Qualora dopo le elezioni del 2023 si formasse eventualmente un governo di centro-destra Draghi Presidente della Repubblica ne costituirà il contrappeso non soltanto istituzionale, ma anche politico per tutta la sua possibile durata.

In questa chiave, forse, si può, ma mi pare con non grandi guadagni analitici, parlare di semipresidenzialismo di fatto nella versione, nota ai francesi, della coabitazione: Presidente versione europeista contrapposto a Capo del governo di persuasione sovranista. Il capo del governo governa grazie alla sua maggioranza parlamentare, ma il Presidente della Repubblica può sciogliere quel Parlamento se ritiene che vi siano problemi per il buon funzionamento degli organismi costituzionali (ed è probabile che vi saranno).

L’irresponsabilità del capo di governo non politico. Uno stato di necessità e un vulnus non attribuibile a Draghi.

Concludo con un’osservazione che costituisce il mio apporto “originale” alla valutazione dei governi guidati da non-politici.

Ribadisco che non vedo pericoli di autoritarismo e neppure rischi di apatia nell’elettorato e di conformismo.

Nell’ottica della democrazia il vero inconveniente del capo di governo non-politico è la sua sostanziale irresponsabilità. Non dovrà rispondere a nessuno, tranne con un po’ di sana retorica a sé stesso e alla sua coscienza, di quello che ha fatto, non fatto, fatto male.

Poiché la democrazia si alimenta anche di dibattiti e di valutazioni sull’operato dei politici, l’irresponsabilità, cioè la non obbligatorietà e, persino, l’impossibilità di qualsiasi verifica elettorale a meno che Draghi intenda, commettendo, a mio modo di vedere, un errore, creare un partito politico oppure porsi alla testa di uno schieramento, esistente o da lui aggregato,   rappresenta un vulnus. Non è corretto attribuire il vulnus a Draghi, ma a chi ha creato le condizioni che hanno reso sostanzialmente inevitabile la sua chiamata. Ne ridurremo la portata grazie alla nostra consapevolezza dello stato di necessità, ma anche se i partiti e i loro dirigenti sapranno operare per impedire la futura ricomparsa di un altro stato di necessità. È lecito dubitarne.

Note al testo

  • Ho criticato le loro analisi e proposte in un breve articolo: Cfr. Gianfranco Pasquino,Ma di cosa parlate, cosa scrivete?”, Comunicazione Politica, XXII, (1), gennaio-aprile, pp.103-108.
  • Ernesto Galli della Loggia, “Il sistema politico che cambia”, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2021.  
  • Si vedano i miei contributi in: Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino,  Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, il Mulino, 1996, 148 p. e il capitolo conclusivo: “Una Repubblica da imitare?” del libro da me curato insieme a Sofia Ventura, Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Bologna, il Mulino, 2010, 283 p. [pp. 249-281].   

Pubblicato il 14 settembre 2021 su Key4biz

La libertà e la Costituzione spiegate a Giorgia Meloni (che non le conosce) @DomaniGiornale

Dalla sua posizione privilegiata che le garantisce una cospicua “rendita di opposizione” Giorgia Meloni ha scritto un tweet che contiene elementi preoccupanti. “L’idea di utilizzare il green pass per poter partecipare alla vita sociale è raggelante, è l’ultimo passo verso la realizzazione di una società orwelliana. Una follia anticostituzionale che Fratelli d’Italia respinge con forza. Per noi la libertà individuale è sacra e inviolabile”.

La caratteristica essenziale del sistema politico totalitario descritto da Orwell era l’abolizione completa della privacy alla quale si aggiungeva il controllo su tutte le comunicazioni fra persone fino all’uso di una neo-lingua. Il green pass non ha nulla a che vedere con Orwell e con il totalitarismo. Pone le persone di fronte ad una scelta. Chi desidera andare a teatro e allo stadio, al cinema e al palazzetto del basket, frequentare alcuni luoghi pubblici, prendere treni e aerei deve dimostrare di essere vaccinato, ovvero farsi vaccinare. La vaccinazione, dalla quale consegue il green pass, non è comunque un obbligo, ma è l’opportunità offerta a tutti che ciascuno deciderà di accettare liberamente in qualsiasi momento. Chiunque intende partecipare alla vita sociale sa che ci sono sempre regole da rispettare. In una situazione di pandemia, la prima sovrastante regola è quella di non essere in condizione di contagiare gli altri partecipanti i quali, a loro volta, da un lato, non debbono essere potenziali portatori di contagio, dall’altro, non debbono essere esposti al contagio portato da altri.

   Da nessuna parte al mondo, in nessuno dei sistemi politici al massimo grado liberali, la libertà individuale è “sacra e inviolabile”. Dappertutto, esistono regole che delimitano l’esercizio della libertà individuale. Dopo mesi di dibattitti, tutti dovremmo sapere che la libertà di ciascuno di noi si arresta laddove comincia la libertà degli altri. In tutte le costituzioni democratiche esistono limiti chiaramente stabiliti affinché non si configuri una situazione, lo scrivo con parole che richiamano Orwell, nella quale tutti siano formalmente liberi, ma qualcuno sia più libero degli altri. Quanto alla Costituzione italiana, spesso richiamata raramente letta, mi limiterò a citare l’articolo 16 sulla libertà di circolazione che, ovviamente, ricomprende quella di frequentare luoghi pubblici. Ė riconosciuta a “ogni cittadino” “salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e di sicurezza”. L’articolo 17 stabilisce che “le riunioni in luogo pubblico” possono essere vietate dalle autorità “per comprovati moti di sicurezza o di incolumità pubblica”.

Nel green pass non c’è follia, meno che mai anticostituzionale, ma, richiamando Max Weber, razionalità orientata allo scopo. In definitiva, né George Orwell né la Costituzione italiana offrono appigli adeguati e convincenti alle tesi di Giorgia Meloni contro il green pass, tesi che non sono libertarie quanto, piuttosto, anarchiche, ideologiche e irresponsabili.

Pubblicato il 16 luglio 2021 su Domani

Chi guida un partito deve anche essere parlamentare? I casi di Conte e Letta @DomaniGiornale

Nelle democrazie parlamentari i segretari dei partiti, destinati a diventare capi dei governi e/o delle opposizioni seggono, dopo regolare elezione, in Parlamento. Detto che, altrove, i Primi ministri tecnici, tecnocratici, venuti dalla società civile e dagli schermi televisivi, semplicemente non esistono, la presenza dei segretari dei partiti in Parlamento risponde ad alcune premesse e mira ad alcune conseguenze, tutte importanti. La premessa più importante è che, per entrare in Parlamento, quel capo partito deve misurarsi con gli elettori, interloquendo con loro, cercando di imparare le loro preferenze e esigenze, esprimendo le sue posizioni. La campagna elettorale, soprattutto dove ancora esistono mass media e cronisti di valore, è una cosa molto seria. Oserei aggiungere che è la premessa di una buona attività parlamentare. La conseguenza più significativa è che l’eletto, se ha guidato il suo partito ad una vittoria numerica e politica, è automaticamente il candidato alla carica di capo del governo. Il/la più forte dei segretari di partito che hanno perso diventerà il capo dell’opposizione. Inevitabilmente, nei miei occhi sta lo spettacolo esemplare e istruttivo degli scambi rapidi, incisivi, sarcastici a Westminster fra il capo del governo e quello dell’opposizione che comunicano informazioni, politiche, critiche con grande giovamento per l’opinione pubblica. Quando nel 1963 i Conservatori inglesi dovettero fare fronte alle dimissioni del loro Primo Ministro e scelsero Lord Alec Douglas-Home, il prescelto fu obbligato a lasciare la carica di Lord e due settimane dopo partecipò ad un’elezione suppletiva per entrare alla Camera dei Comuni. Lo scrisse memorabilmente Max Weber che il Primo ministro inglese deve sapere essere il “dittatore del campo di battaglia parlamentare”. Naturalmente, non tutti i capi dei governi parlamentari sono egualmente dotati quanto a capacità oratoria e a presenza scenica. Certo sia Margaret Thatcher sia Tony Blair lo sono stati, ma l’importante è che la dialettica politica sia ricondotta e sviluppata nelle aule parlamentari. Tutti coloro che lamentano, talvolta per ragioni sbagliate, il declino, il tramonto, l’eclisse del Parlamento, dovrebbero apprezzare quei dibattiti condotti dai segretari dei partiti e, soprattutto, ogni volta che è possibile, dal capo del governo che si confronta con il capo dell’opposizione e i suoi altri antagonisti.

Non meno importante è sapere che il capo non-parlamentare di un partito inevitabilmente non è al crocevia delle informazioni, delle sensazioni, dei malumori, qualche volta dei dissensi e dei complotti che fanno regolarmente la loro comparsa in tutti i parlamenti. Rischia di venire a conoscenza di quello che bolle in pentola con qualche potenzialmente molto negativo ritardo. Non è, comunque, in grado di acquisire di persona quanto circola in aule parlamentari che per lo più non frequenta.

Quella che potrebbe essere una riflessione accademica, comunque, mai trascurabile, su quale sia la collocazione migliore per un segretario di partito, diventa, invece, qualcosa di immediatamente rilevante. Al momento sia il PD sia il Movimento 5 Stelle sono guidati da due personalità non parlamentari, qualcuno potrebbe persino aggiungere “extraparlamentari” che, per Conte, appare qualifica sostanzialmente adeguata. Credo che Letta dovrebbe accettare di essere candidato nel collegio di Siena e mirare a tornare in Parlamento. Una sua buona campagna elettorale avrebbe valenza nazionale. Gli servirebbe per affinare le tematiche che ritiene rilevanti. I voti che conquisterà daranno anche una misura del consenso suo e del suo partito. Infine, tornato in parlamento, la sua già acquisita competenza gli sarà molto utile nei rapporti con parlamentari pd che non ha scelto e nei confronti con i leader degli altri partiti, ad eccezione di Conte, che tutti già seggono alla Camera o al Senato. Gioverà anche al recupero di prestigio del Parlamento. Non è poco.

Pubblicato il 14 luglio 2021 su Domani

Partita del Quirinale. Nomi, numeri e regolette del prof. Pasquino @formichenews

Alberti Casellati, Berlusconi, Casini e le possibili mosse del centrodestra al momento del voto. Il politologo Gianfranco Pasquino dà la sua sarcastica versione a Formiche.net su quello che potrà accadere tra poco più di sei mesi al Colle, ricordando però che è giusto porsi il problema del Quirinale, ma è ancora troppo presto…

Mio nonno, che ha visto tante elezioni presidenziali, alcune proprio non divertenti, sostiene che alcune regolette valgono ancora. La prima è che i Presidenti di Senato e Camera partono con un piccolo vantaggio. Quindi, fa bene a mostrarsi presidenziabile Maria Elisabetta Alberti Casellati che, fra l’altro, gode anche del vantaggio di essere donna, al momento giusto.

Roberto Fico non ha l’età, ma c’è un ex-Presidente della Camera che ha l’età e non è appesantito da nessun bagaglio di scontri, cattiverie, politiche malfatte, ideologie, idee: Pier Ferdinando Casini. Da qualche tempo, il suo silenzio è anche il segnale che non vuole essere bruciato da nessuno. Non è pericoloso.

Certo, se qualcuno fa girare il nome di Romano Prodi, anche come risarcimento del pasticciaccio brutto del 2013, allora perché non riesumare Silvio Berlusconi. Senza tante remore ci pensa lui stesso, ma qualche cenno lo hanno già fatto Tajani e alcuni premurosi giornalisti di destra. Popolare, cristiano, europeista, liberale e tanto altro, Berlusconi non si sottrarrebbe all’arduo compito. I numeri, se il centro-destra si mantiene come coalizione relativamente compatta, non mancherebbero.

D’altronde, a questo punto, con la disgregazione anche solo parziale del Movimento 5 Stelle, al centro-sinistra non basterebbe nessun isolato squillo di tromba. E i nomi mancano o sono davvero evanescenti. Mio nonno non vuole tirarli fuori questi nomi poiché, non avendo mai creduto nel detto “molti nemici molto onore”, cerca di non scontentare nessuno.

Al momento, con qualche riluttanza preferisce spiegarmi(vi) quale potrebbe essere la strategia del centro-destra se avessero un po’ di immaginazione politica. Non dovrebbero anticipare nulla, votando bianco o un candidato di bandiera di ciascuno di loro nelle prime tre votazioni. Poi, improvvisamente alla quarta votazione annunciare che convergeranno convintamente su Draghi. Non sarà facile per molti parlamentari di centro-sinistra chiamarsi fuori da questa “convergenza”. Né d’altronde potrebbero consentire che il merito dell’elezione di Draghi se lo attribuiscano tutto Meloni e Salvini, concedendo a Berlusconi di annunciare che è stato lui a dirlo per primo.

La ratio di questo voto del centro-destra è che “promuovere” Draghi al Quirinale significa aprire la porta ad un nuovo, improbabile governo oppure, questa è la prima opzione di Meloni e Salvini, a nuove elezioni politiche con la garanzia per l’Europa che comunque Draghi sovrintenderà all’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza e la garantirà.

Se questo scenario ha la plausibilità che gli attribuisce quell’attento e colto osservatore che è mio nonno, può essere evitato soltanto da qualche netta, ma per adesso prematura, dichiarazione di Draghi. Oppure da fortissime pressioni su Mattarella affinché accetti di rimanere fino alle elezioni del 2023. Il precedente di Napolitano c’è e insegna che si potrebbe procedere in tal senso, ma con l’accordo, non molto probabile, del centro-destra.

Mio nonno che non smette mai di leggere e approfondire Kant e Weber sostiene che la Repubblica italiana è arrivata al punto in cui hanno un ruolo rilevantissimo alcuni intramontabili imperativi categorici, il senso civico e dello Stato, l’etica della responsabilità che certamente hanno Draghi e Mattarella. Molto, quasi tutto, dipenderà dalla loro interpretazione di quello che è giusto fare, non per le loro ambizioni personali, il loro posto nella storia italiana e europea è già assicurato, ma in base alla loro valutazione/preoccupazione per le condizioni attuali e prossime del sistema socio-economico e politico italiano.

Preoccupato anche lui, mio nonno conclude che è giusto porsi il problema del Quirinale, ma è too early to call, troppo presto. E anche se oggi è l’anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza degli USA, né lui né io pensiamo che quel presidenzialismo sarebbe la soluzione dei problemi politici e istituzionali italiani.

Pubblicato il 4 luglio 2021 si formiche.net