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Lo sguardo corto di Meloni e gli interessi dell’Italia @DomaniGiornale

La diplomazia è anche un esercizio, spesso acrobatico, di equilibrismo. Ma, è vero che la politica estera di un paese che sia media potenza deve essere improntata alla ricerca degli equilibri, di volta in volta preferibili, tenendo nel massimo conto le alleanze, gli impegni presi, le promesse fatte agli elettori e, non da ultimo, le posizioni ideali del proprio partito.
Fin dall’inizio della sua esperienza di governo, Giorgia Meloni ha dimostrato di avere consapevolezza del fascio di problemi che il suo esplicito, mai nascosto, sovranismo implicava nei rapporti con gli Stati-membri dell’Unione Europea e con la Commissione, motore delle iniziative e attività. Pur rimanendo con la testa fuori dalla maggioranza che ha espresso e sostiene la Commissione è spesso riuscita a mettere piede nelle decisioni che contano. Lo ha fatto ridefinendo, ridimensionando il suo sovranismo senza tagliare i ponti con i partiti sovranisti al governo in Ungheria e in Slovacchia o all’opposizione, in particolare in Spagna. Però, la risposta alle furibonde e maleducate critiche all’Unione Europe formulate in un documento di strategia del National Security Council degli USA e alla profezia, quasi un augurio di smembramento dell’Unione, non può essere quelle di un delicato pontiere.
Quel ponte, già traballante, fra Usa e Unione Trump e i suoi collaboratori lo hanno distrutto. Non casualmente e non per una infelice e cattiva scelta delle parole, ma perché da tempo nutrivano astio per la costruzione di una unione di Stati che, secondo loro, si facevano/fanno proteggere militarmente senza pagare il conto, in maniera furba e egoistica, non più accettabile.
La presidente del consiglio italiana non ha condiviso le risposte severe e preoccupate dei maggiori leader europei. Ancora una volta il suo invito a cercare di capire il punto di vista di Trump è molto ambiguo potendo essere interpretato come sostegno alla posizione del Presidente appare come un indebolimento preventivo delle risposte che l’Unione riuscirà ad approntare e dare. Per di più la reazione di Meloni ha lo sguardo molto corto. Non vede che le elezioni americane di metà mandato nel novembre 2026 potrebbero già trasformare il Presidente in carica, se i repubblicani perdessero la maggioranza in una o entrambe le Camere in un’anatra zoppa, comunque già non rieleggibile nel 2028.
Non dovrebbe essere difficile neanche per i dirigenti politici che non sappiano ragionare sul lungo periodo, come fanno gli statisti, cogliere la volatilità della situazione. I molto eventuali vantaggi derivanti da un rapporto privilegiato con l‘attuale Presidente dovrebbero essere valutati alla luce degli inconvenienti e delle critiche che causeranno nei rapporti con gli stati-membri dell’Unione Europea. Quegli ipotetici vantaggi non contemplano affatto una crescita di prestigio per il governo Meloni e per la Nazione Italia, Anzi sono vantaggi limitati, di breve periodo, effimeri. Da un momento all’altro possono rivelare la contraddizione congenita e insanabile del sovranismo.
Se ciascun governante antepone e impone il suo interesse nazionale, lo Stato più forte vincerà cosicché il sovranismo Maga è regolarmente destinato ad avere la meglio su qualsiasi concorrente solitario. Qui sta l’altra contraddizione del sovranismo che intenda sfruttare vantaggi dalla sua tanto orgogliosa quanto presunta autonomia. Non sostenuta dagli USA, vista con sospetto dalla maggioranza partitica e politica dell’Unione Europea, Giorgia Meloni rischia l’irrilevanza politica per sé e per l’Italia. Indebolirebbe l’UE in questa fase cruciale nella quale è indispensabile alzare il tiro decisionale e migliorare il coordinamento politico in senso federalista, l’esatto contrario di qualsivoglia sovranismo. In una Unione indebolita anche l’Italia sarà inevitabilmente più debole sulla scena europea e mondiale, certamente meno sovrana.
Pubblicato il 10 dicembre 2025 su Domani
Francesca Albanese cittadina onoraria di Bologna #intervista al prof. Gianfranco Pasquino @RadioRadicale
https://www.radioradicale.it/scheda/771187
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati.
“Francesca Albanese cittadina onoraria di Bologna, intervista al prof. Gianfranco Pasquino” realizzata da Lanfranco Palazzolo con Gianfranco Pasquino (politologo, professore emerito di Scienza Politica all’Università degli Studi di Bologna).
L’intervista è stata registrata venerdì 10 ottobre 2025 alle ore 12:00.
Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Bologna, Cittadinanza, Comuni, Esteri, Gaza, Geopolitica, Guerra, Hamas, Israele, Lepore, Manifestazioni, Medio Oriente, Meloni, Nobel, Pace, Palestinesi, Polemiche, Premio, Terrorismo Internazionale, Trump, Violenza.
Meloni piccona il potere degli elettori @DomaniGiornale

Il referendum costituzionale non ha quorum. Pertanto, la sua validità non dipende dalla percentuale di votanti, dal partecipazione al voto della maggioranza assoluta degli aventi diritto. I Costituenti ritennero che, dopo due letture del testo in entrambe le Camere a distanza di almeno tre mesi, gli elettori avessero/avrebbero acquisito informazioni sufficienti per esprimere, o no, il loro voto. Parlamentari, uomini e donne di partito, associazioni e, non da ultimo, i mezzi di comunicazione di massa, oggi aggiungeremmo le reti, i social, sarebbero stati in grado di suscitare abbastanza interesse e di spiegare l’importanza del voto spingendo alla partecipazione. Opportuno e giusto che gli elettori interessati, informati, partecipanti venissero poi premiati. Chi vota conta e decide se approvare o respingere la revisione costituzionale. Possiamo legittimamente sostenere che almeno una parte degli elettori che non si è recata alle urne lo ha fatto consapevolmente affidando l’esito ai partecipanti.
L’art. 75 della Costituzione stabilisce che il referendum, richiesto per abrogare, in maniera “totale o parziale”, “una legge o un atto avente valore di legge”, è valido “se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”. L’onere della diffusione dell’informazione sul quesito referendario e sulle conseguenze dell’abrogazione, ma soprattutto l’arduo compito di convincere la maggioranza assoluta dell’elettorato italiano a partecipare al voto, viene posto interamente sulle spalle dei promotori. Sono loro che debbono trovare le modalità operative e le argomentazioni mobilitanti per sconfiggere coloro che fra furbizia e opportunismo si esprimono a favore dell’astensione dal voto. La furbizia consiste nel trarre vantaggio dall’astensionismo “cronico” già abbastanza elevato che, imprevedibile e non previsto dai Costituenti, conferisce un notevole, immeritato vantaggio iniziale a chi mira ad impedire il raggiungimento del quorum. Sanno che a quorum conseguito perderebbero. Opportunisticamente fanno leva su e sfruttano disinteresse e disinformazione che non sono le migliori qualità degli elettorati in democrazia.
Meglio se le autorità istituzionali, come il Presidente del Senato, non si ponessero alla testa degli astensionisti (ma non sopravvalutiamo il loro seguito). Quanto all’annuncio del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si recherà al seggio, ma non voterà, non è soltanto uno spettacolo mediatico, una sceneggiata, che verrà coronata da un più o meno grande numero di foto e di riprese televisive. In attesa di saperne di più, che cosa farà Meloni in quel seggio, oltre ad intralciare le operazioni di voto (nel qual caso diventa auspicabile, procedere al suo sgombero), è un modo di deridere chi ha impegnato parte del suo tempo e delle sue energie? Certo non di dare dignità alla politica, di assumersi qualche doverosa responsabilità istituzionali, di riconquistare credibilità anche per gli strumenti, come per l’appunto il referendum, di democrazia diretta.
Intenzionalmente, nell’annunciato comportamento di Meloni non c’è nulla di tutto questo. Piuttosto, si rivela una concezione di democrazia nella quale ridurre comunque il potere degli elettori. Questa concezione si è già manifestata nella forte propensione ad abolire il ballottaggio per le elezioni municipali e regionali, e ha raggiunto il suo culmine nel disegno di legge costituzionale per l’elezione popolare del Presidente del Consiglio, il cosiddetto ”premierato” (pienamente suscettibile di referendum costituzionale) senza che si sappia con quali specifici meccanismi elettorali procedervi. Con tutti condizionamenti esistenti, spetta agli elettori e ai loro rappresentanti eletti cercare di sventare i più o meno sottili tentativi di restringimento della democrazia. Anche se in democrazia si presenteranno altre opportunità, meglio cominciare già dalla occasione offerta dagli imminenti referendum del 8 e 9 giugno.
Pubblicato il 4 giugno 2025 su Domani
Il leader dell’opposizione non si sceglie con un duello tv @DomaniGiornale

In qualsiasi sistema politico democratico, le opposizioni hanno il dovere politico e qualche volta morale di criticare quanto fa il governo, ma anche la responsabilità di controproporre. Quando le opposizioni sono particolarmente capaci riescono addirittura a svolgere un’azione di pedagogia politica e culturale che non solo sconfiggerà quel governo, ma ne impedirà il ritorno sotto le stesse forme o simili. Poiché il compito delineato è oggettivamente piuttosto difficile, trovare opposizioni in grado di svolgerlo con successo è alquanto raro. Ancora più raro quando i commentatori e quel che rimane degli opinion leader non parlano parole di verità agli oppositori. Nel contesto italiano è almeno trent’anni che troppi opinionisti, ma anche filosofi, scienziati, attori, comici collocati a sinistra hanno esagerato a individuare pericoli e rischi per la democrazia e a suggerire/consentire qualche strappo alle regole per farvi fronte. Allarmismo e vittimismo non sono buoni consiglieri e accertatamente non servono a impostare nessuna operazione che miri a formulare una cultura politica all’altezza delle sfide attuali e del futuro che sta arrivando. Le esemplificazioni italiane di esagerazioni e errori sono numerose e mi limiterò a citare le più recenti.
Il cosiddetto premierato, nella versione in cui è stato presentato, è incompleto e irrisolto, squilibrato. Produrrà confusione e probabili controversie fra le istituzioni, ma non lo si può accusare di ogni nefandezza e di condurre inesorabilmente al crollo della democrazia italiana che, per fortuna, ha molta resilienza. Possibile che commentatori e politici continuino con declinante e non istruttiva credibilità a gradire “alla lupa, alla lupa!” (sì, qualche volta sono politicamente corretto) e niente più. In vista del referendum costituzionale, doveroso (la parola definitiva spetta al “popolo” italiano), non confermativo, ma oppositivo, mi pare preferibile argomentare che il premierato di Meloni è tanto inesistente quanto mal congegnato e proporre, non piccoli, banali, correttivi, ma vere riforme già note e altrove funzionanti.
Ma dove mai, quando mai, in che modo altrove nelle democrazie parlamentari multipartitiche si fanno duelli televisivi nel corso di campagne elettorali che per di più non riguardano le elezioni nazionali? Dobbiamo deplorare la molto opportuna decisione dell’Agcom che ha bloccato quello che, forse, sarebbe stato uno spettacolo, ma che difficilmente avrebbe contribuito a migliorare le conoscenze politiche degli italiani? È necessario alimentare la politica spettacolo e solleticare l’ego di alcuni fin troppo temprati conduttori tv (incidentalmente nessuna donna sarebbe all’altezza di cotanto evento?). Non è affatto necessario, anzi, potrebbe essere piuttosto controproducente.
Da ultimo, essere scelta come duellante con il capo del governo (maschile anche se “detta Giorgia”) significa l’investitura ufficiale di capo dell’opposizione per Elly Schlein? Non esiste nessun sistema politico multipartitico nel quale il ruolo di capo dell’opposizione deriva dalla scelta del conduttore di un dibattito televisivo. Le qualità che legittimano il riconoscimento di colui/colei che meglio guiderà l’opposizione sono essenzialmente due: il numero dei voti ottenuti e la capacità di costruire una coalizione alternativa al governo, coesa e propositiva. Davvero qualcuno può credere e fare credere che come mancata duellante Schlein abbia già superato, e agli occhi di chi, l’esame di ammissione all’ardua professione di capo dell’opposizione? Ha bisogno di questo grande, peraltro, molto scivoloso favore? Non sarebbe preferibile per lei, per l’opposizione, per il sistema politico e, con una modica dose di retorica, per la democrazia italiana, che quel ruolo se lo conquistasse a suon di voti e di proposte “forti”, innovative, convincenti, traducibili in apprezzabili politiche pubbliche di stampo europeo? The answer, my friend, is blowin’ in the wind.*
*il 24 maggio sarà il compleanno di Bob Dylan, molto più che un oppositore.
Pubblicato il 22 maggio 2024 su Domani
Premierato: la proposta Meloni non garantisce stabilità, tantomeno garantisce efficacia al Governo
I modelli di governo hanno una logica che non è mai esclusivamente giuridica. Anzi, è una combinazione feconda di norme giuridiche e di principi politici. L’elezione popolare diretta del Primo ministro, scelta politica quant’altre mai, non giuridica, è stata effettuata tre volte in Israele, poi abbandonata a causa dei non buoni esiti. La proposta Meloni è incompleta e inadeguata. Promette stabilità, ma non può garantirla. Meno che mai garantisce efficacia al governo del Primo ministro. En attendant quale legge elettorale sarà di accompagno e quale difficilissimo rinvigorimento dei partiti si tenterà di promuovere, grazie, no: nessun premierato.
Autonomia per premierato. Pasquino mette in guarda da scambisti e semplificatori @formichenews

“Niente scambi di prigionieri, prima i cittadini poi le forme di governo”, dice il governatore leghista Zaia. Che dunque, contrariamente a Meloni, sembra pensare che le seconde non influiscano sulle condizioni da vita dei primi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza politica
Nella Lega e in Fratelli d’Italia si annidano alcuni scambisti. Nessuna sorpresa e nessuno scandalo. C’è qualcuno che crede non da oggi di potere ottenere l’autonomia differenziata appoggiando, meglio, non obiettando al premieratino di Giorgia Meloni. Meno incline a fare la scambista è la stessa Meloni, preoccupata, non da oggi, dalle conseguenze scarsamente prevedibili dell’attuazione dell’autonomia differenziata. In aggiunta a difficoltà, tensioni e conflitti sulle risorse e sulle attribuzioni di poteri, regioni forti entrerebbero in contrasto con un Primo ministro rafforzato dall’elezione popolare. I più ottimisti, difficile dire quanto tecnicamente attrezzati, sostengono che lo scambio può essere evitato procedendo ad un coordinamento. Nessuno, però, è intervenuto in maniera concreta e precisa a chiarire termini e modalità del coordinamento. Forse qualche parente di qualche governante sta già affilando le armi dei suoi saperi politici e costituzionali e verrà individuato al momento opportuno e premiato con una qualche carica appositamente create.
Uno che ha le idee chiare in materia è il Presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia: “Niente scambi di prigionieri [non capisco questa espressione, ma forse è del titolista del quotidiano che riporta le parole di Zaia. Semmai da scambiare sono gli ostaggi] tra premierato e autonomia [credo dovrebbe essere autonomie, al plurale, visto che sono “differenziate”], prima i cittadini poi le forme di governo.” Zaia, dunque, contrariamente a Meloni, sembra pensare che le forme di governo non concernano i cittadini, non influiscano sulle loro condizioni da vita. Strano, davvero, molto bizzarro visto che, invece, Meloni sostiene che l’elezione popolare diretta darà grande potere ai cittadini e che molto ritengono che le autonomie differenziate daranno potere ai governanti regionali non ai cittadini, comunque in forma molto indiretta. Per di più il potere dei governanti regionali Zaia vorrebbe ampliarlo con l’abolizione del limite dei mandati riforma per la quale Zaia non vede nessun inconveniente. Cito: “Se cambia il limite dei mandati per i presidenti di Regione non si crea nessuna cupola”. Chi sa cos’è la cupola di Zaia? Il problema, più che la concentrazione di potere, è l’incrostazione dei poteri. I democristiani, ex e post, dovrebbero averlo imparato. Si creano aggregazioni senza limiti e le innovazioni diventano rarissime, persino impossibili e i potenti senza limiti rischiano di essere oggetto di pratiche corruttive.»
Attendo le espressioni di giubilo e di ammirazione provenienti in maniera tersa da Vincenzo De Luca, il Presidente della Regione Campania. Senza limiti forse anche off limits. Dopodiché, come si potrà suggerire il limite ai mandati anche per il Primo ministro del premieratino? La precisazione di limiti, che per i capi di governi parlamentari non esistono (è il popolo a decidere chi premiare e chi cacciare) sarebbe segno di incoerenza, anzi un modo per surrettiziamente indebolirlo/a. Al secondo mandato potrebbe cominciare una vera e propria cacci al Primo ministro non più rieleggibile. Insomma: scambiare, coordinare, forse, ricominciare meglio, cambiare molto? Comunque, diffidare sia degli scambisti, con scambi inevitabilmente sempre al ribasso, sia dei terribili semplificatori.
Pubblicato il 12 novembre 2023 su Formiche.net
Pasquino: «Riforma Meloni mediocre e pasticciata. Ma la sinistra deve avere le idee più chiare» #intervista #avanti della domenica @Avantionline


Intervista raccolta da Giada Fazzalari
“Il Governo Meloni ha fatto poco, non ha dato il segno di una qualsiasi svolta significativa tranne per lo più quando parlano di diritti civili, diritti delle persone e diritti delle donne, dimostrano di essere abbastanza indietro con le loro proposte, un po’ bigotti e un po’ reazionari”
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, accademico dei Lincei, è autore di numerosi apprezzati testi. Il suo libro più recente, forse l’ultimo, è “Il lavoro intellettuale” (UTET 2023). È anche molto orgoglioso della quinta edizione, riveduta ed ampliata, del “Nuovo corso di scienza politica” recentemente uscita per Il Mulino, testo sul quale si sono formate generazioni di studenti. Pasquino, tra i più acuti intellettuali del nostro Paese, conoscitore, come pochi, dei meccanismi della politica, ci ha dato un parere sulla recente riforma costituzionale varata dal Consiglio del Ministri.
Allora professor Pasquino, che idea si è fatto di questa riforma che Meloni descrive come “la madre di tutte le riforme”?
«Prima di tutto non è la madre di tutte le riforme perché ci sono una serie di altri aspetti che non vengono neanche toccati, anche se vengono indicati vagamente: ad esempio la legge elettorale che potrebbe essere essa stessa la madre delle riforme. È una riforma mediocre, pasticciata, che non stava nel programma elettorale di Fratelli d’Italia, che diceva chiaramente di volere il semipresidenzialismo. L’opinione che mi sono fatto è che è una riforma sbagliata».
Ma Giorgia Meloni ha detto che l’obiettivo è garantire stabilità a chi governa. A suo avviso è così?
«Qui bisogna sapere distinguere tra la stabilità nella carica e la capacità di governare. Se vogliamo la stabilità nella carica, questa è assicurata certamente da un presidenzialismo vero, cioè quello degli Stati Uniti ad esempio. Trump è stato in carica quattro anni, ha governato molto male; Biden sarà in carica fino al 2024 governando un po’ meglio. Non sono uomini particolarmente capaci e sono anche piuttosto anziani, quindi privi di idee originali e proiettate nel futuro. Dunque, sì, il presidenzialismo garantisce stabilità nella carica. Se si vuole anche capacità di governare questa dipende naturalmente dagli elettori, da un lato, che sappiano scegliere bene, ma soprattutto dai partiti perché sono i partiti che producono le persone che vanno a occupare incarichi di governo. E nella riforma di Meloni non c’è assolutamente nulla sui partiti».
C’è chi sostiene che in Italia siamo già oltre il premierato: cioè che abbiamo un “capo”, un super premier che impedisce ai suoi parlamentari di presentare emendamenti su una legge fondamentale dello Stato come la legge di stabilità e, quindi, un Parlamento esautorato della sua prerogativa principale. Lei cosa ne pensa?
«In verità non è esattamente così: la premier può chiedere di non presentare emendamenti, ma il Parlamento lo può fare naturalmente. Di volta in volta si voterà, se le opposizioni sono in grado di trovare gli emendamenti giusti, nei momenti giusti sui punti giusti della legge finanziaria riusciranno comunque a illustrarli, che è quello che conta perché mandano così un messaggio ai gruppi di interesse, ai cittadini interessati, alla stampa e a farli votare. Meloni sta dicendo alla sua maggioranza di non presentare emendamenti, ma ogni parlamentare può avvalersi delle sue prerogative. Insomma, stiamo facendo un casino su cose che Meloni non può ottenere».
E il ruolo del Capo dello Stato in questa riforma pensata da Giorgia Meloni?
«Su questo punto si sono dette tantissime cose che mi permetto di chiamare ‘cazzate’. Se il premier viene eletto direttamente dai cittadini, il Presidente della Repubblica perde il potere di nominarlo, a meno che pensiamo che nominare sia semplicemente registrare, ratificare l’elezione diretta. Poniamo il caso che il premier eletto si dimetta e la sua maggioranza proponga un altro candidato all’interno della maggioranza. Il Presidente della Repubblica può opporsi? No. Inoltre, se il Capo dello Stato perde il potere di nominare il Presidente del Consiglio, perde anche il potere di sciogliere il Parlamento perché se la maggioranza continua ad avere il controllo del Parlamento non ne chiederà lo scioglimento. Poi, di tanto in tanto se lo ricordano, hanno detto che non ci saranno più i senatori a vita. Quindi il Presidente della Repubblica perderà anche il potere di nominare il senatore vita e Pasquino perderà l’ultima chance di entrare in Senato allegramente in pompa magna dall’ingresso principale». (sorride…)
Quindi questa riforma favorirebbe il bipolarismo?
«Il bipolarismo viene incoraggiato certamente, perché se sono gli elettori a dover elegge un Capo del Governo, è probabile, ma non del tutto certo, che ci saranno due soli candidati. Però se lo si voleva davvero incoraggiare, bisognava decidere con un sistema elettorale a doppio turno con ballottaggio. Non vogliono il ballottaggio perché pensano che magari vanno in testa al primo turno e però poi non riescono a raccogliere il consenso di altri elettori. Però non è così che si fa una riforma vera. Il ballottaggio è cruciale: laddove il Capo dello Stato di una repubblica presidenziale o semipresidenziale è eletto direttamente dai cittadini, è previsto sempre il ballottaggio. L’Argentina ha due belle regolette: se un candidato ottiene il 45% dei voti è immediatamente eletto; se un candidato ottiene il 40% dei voti e ha più del 10% di vantaggio sul secondo classificato, è automaticamente eletto, altrimenti si va al ballottaggio, come succederà il 19 novembre. Il governo ha voluto evitare il ballottaggio e ha sbagliato, perché è un potentissimo dispensatore di opportunità politiche: obbliga i due candidati a spiegare perché sono uno meglio dell’altro e c’è un maggior flusso di informazioni; inoltre sono due settimane intensissime nelle quali tutti vogliono sapere tutto e nelle quali si attrae grande interesse da parte degli elettori perché sanno che a quel punto davvero il loro voto è decisivo».
Ci sono ballottaggi famosi che confermano questa tesi…
«Sì. Quello in Francia nel 2002 quando c’erano Chirac e Le Pen: nel passaggio dal primo al secondo turno di ballottaggio, circa un milione e mezzo di francesi in più andò a votare. L’altro ballottaggio importante fu quello fra Giscard d’Estaing e Mitterrand del 1981. Nel passaggio dal primo al secondo turno Mitterrand, che vinse, di nuovo riuscì a mobilitare centinaia di migliaia di elettori in più. Quindi se i due candidati al ballottaggio sono credibili e offrono una vera scelta, gli elettori vanno a votare».
Professore, ma con una destra che supera il 40% dei consensi, la sinistra così frammentata cosa deve fare?
«La sinistra dovrebbe riuscire a convergere su determinate posizioni, come ha fatto sul salario minimo e cioè una riforma vera, importante e significativa su cui la sinistra è riuscita a mettersi d’accordo. Non dovrebbe essere difficile trovare l’accordo su che cosa davvero bisogna inserire nella Costituzione italiana. Il voto di sfiducia costruttivo è l’unico punto che può essere sollevato e introdotto nella Costituzione italiana senza toccare gli altri poteri, senza toccare nessun equilibrio. Tra l’altro, se andiamo a rileggere il famoso ordine del giorno Perassi in Assemblea Costituente, diceva che bisognava trovare i meccanismi di stabilizzazione del governo. La Costituzione italiana venne approvata nel ‘48, un anno dopo i tedeschi introducono il voto di sfiducia costruttiva; gli spagnoli quando tornano alla democrazia nel ‘78 si chiedono come stabilizzare i governi e adottano qualcosa che assomiglia al voto di sfiducia costruttivo».
Ma allora, se garantisce la stabilizzazione dell’azione di governo, perché secondo lei Meloni non vuole la sfiducia costruttiva?
«Questo non l’ho capito. Renzi, a questa domanda esplicita, rispose: “non me lo hanno lasciato fare”, ma non c’è nessuna traccia nel dibattito sulla sua riforma su questo punto. Non capisco perché il governo non voglia introdurla, perché questo è un vero meccanismo di stabilizzazione e la Germania e la Spagna lo dimostrano abbondantemente. È vero, consente un ribaltone ma il ribaltone è votato in maniera esplicita e trasparente dalla maggioranza assoluta dei parlamentari».
In chiusura, siamo ad un anno dall’entrata in carica del governo Meloni. Facendo un bilancio, che voto dà all’azione di governo e al tipo di opposizione che ha fatto la sinistra?
«Il governo Meloni ha fatto poco, certamente non ha dato il segno di una qualsiasi svolta significativa tranne per lo più quando parlano di diritti civili, diritti delle persone e diritti delle donne, dimostrano di essere abbastanza indietro con le loro proposte, un po’ bigotti e un po’ reazionari. Sul piano dei diritti proprio non ci siamo. Per il resto non sono particolarmente interessati alle diseguaglianze, hanno qualche corporazione da difendere come i balneari, adesso i tassisti, qualche volta i farmacisti e così via. La risposta è 6 meno. La sinistra invece si merita massimo un 5. Dovrebbe imparare a costruire alleanze (politiche, ma anche sociali), trovare delle risposte ad alcuni problemi e convincere quella parte di elettorato italiano che è disposta a cambiare il proprio voto. È una parte che non è grandissima ma è sempre decisiva, il 10 – 12% di italiani guardano quale ’è l’offerta politica e decidono su quella base. Gli italiani devono essere convinti che l’offerta politica della sinistra non solo è migliore di quella di destra, ma può essere attuata, perché non basta offrire la luna e poi non sapere come fare ad arrivarci».
Pubblicato il 12 novembre 2023 su Avanti della domenica

I patti bilaterali sui migranti non servono a nulla @DomaniGiornale

L’accordo raggiunto fra Giorgia Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama per la costruzione di due Centri di Permanenza per i Rimpatri gestiti dal governo italiano, ma localizzati in Albania, pur molto diverso da quanto stabilito tempo fa in materia di controllo dell’immigrazione con il presidente della Tunisia Kaïs Saïd, risponde alla stessa logica. Troppo facile, ma indispensabile sottolineare che una parte non piccola dell’attivismo della Presidente del Consiglio italiana è deliberatamente orientata a costruirne, mantenerne, esaltarne la figura e il ruolo di donna politica molto presente, laboriosa, rispettata sulla scena internazionale, capace di fare eccellere l’Italia in tutti i consessi che contano, ma soprattutto nei rapporti bilaterali. Questo aspetto della logica dell’attivismo internazionale sembra anche volere suggerire che all’estero hanno una valutazione del governo Meloni di gran lunga superiore a quella, pure nient’affatto in calo, in patria, e soprattutto molto diversa dalle critiche, stridenti e non particolarmente né efficaci né originali, delle opposizioni. Però, l’attivismo internazionale è dispendioso in termini di tempo e di energie e per lo più non in vetta alle preoccupazioni degli italiani tranne forse proprio per quel che riguarda l’immigrazione.
L’altra componente della logica dell’attivismo internazionale meloniano è complessa, ma decifrabile. Per molti studiosi e operatori, forse anche per la stessa Meloni, l’immigrazione è un problema non soltanto destinato a durare, ma soprattutto non suscettibile di nessuna soluzione ad opera di un solo Stato, per quanto forte e ben governato. La soluzione, difficilissima, che richiederà adattamenti, innovazione, grande concordia, collaborazione convinta e prolungata, non può venire che da decisioni collettive, prese e attuate nella e dalla Unione Europea. Esclusivamente nel contesto di Stati dotati di risorse e di capacità, ma anche consapevoli che hanno già oggi e avranno ancor più domani bisogno di lavoratori da trasformare in cittadini integrandoli nel tessuto economico, sociale, culturale delle rispettive nazioni, si può legittimamente nutrire l’aspettativa di porre sotto controllo, se non addirittura di orientare al meglio flussi migratori epocali, che non cesseranno.
Probabilmente, sia perché conosce preferenze e posizioni dei suoi amici (?) sovranisti, a partire dal più protervo di loro l’ungherese Viktor Orbán, sia perché crede poco alle capacità dell’Unione di produrre una soluzione che accontenti tutti sia poiché vuole dimostrare di essere la prima della classe sia, da ultimo, ma niente affatto infimo, in quanto è alla ricerca di un grande tema di cui lei sia l’interprete più originale e più di successo, Meloni mira a dimostrare che esiste una soluzione nazionale e che lei passo dopo passo accordo dopo accordo bilaterale e bilaterale l’ha trovata quella soluzione e la pone in pratica, se necessario in splendido isolamento, quando possibile senza escludere, capitasse mai, limitate convergenze con Bruxelles. Nel frattempo, riserva alla Commissione una pluralità di rimproveri, in qualche misura appropriati, ma il tema migrazione è di competenza degli Stati nel Consiglio. Giusto che le opposizioni facciano notare che di risultati positivi dall’accordo con la Tunisia non se ne siano visti. Altrettanto opportuno individuare tutte le criticità tecniche e di gestione dei Cpr, ma, in special modo quelle riguardanti gli elementari diritti civili dei migranti, spesso abbondantemente non rispettati o palesemente violati. Al proposito, talvolta Guantanámo è un termine di riferimento non particolarmente polemico né assurdo. In assenza di un pacchetto di soluzioni alternative praticabili in tempi necessariamente brevi, Meloni sta sull’onda alta dei sondaggi sulla sua personale popolarità e si propone di veleggiare verso il Parlamento di Bruxelles con voti e seggi quantomeno quadruplicati.
Pubblicato il 8 novembre 2023 su Domani
Uno scambio che ha il sapore del ricatto #MES
Il Meccanismo Europeo di Stabilità non entra in vigore perché, approvato da venti stati dell’Unione, non è ancora stato ratificato dall’Italia. La ratifica non costituisce nessun obbligo di utilizzo. Oramai è evidente che Giorgia Meloni sta ricattando, è il verbo più preciso, gli altri stati e l’Unione nel suo insieme con un comportamento di stampo orbaniano. Vuole più tempo e più discrezionalità per l’uso dei fondi del PNRR. Non è patriottismo. Deve essere considerato riprovevole antieuropeismo che molti capi di governo ricorderanno a scapito dei nostri interessi nazionali.
La hybris di Meloni tra arroganza e compiacimento @DomaniGiornale


La hybris, come sapevano molto bene i greci, non è soltanto un errore (peccato non fa parte della loro terminologia), ma una malattia che colpisce gli uomini in politica, e, naturalmente, oggi anche le donne. Si caratterizza come una combinazione di sicurezza eccessiva e di arroganza esibita. Probabilmente senza che Giorgia Meloni se ne sia accorta, i primi sintomi della “sua” hybris si sono già manifestati. Non sono finora stati colti come dovrebbero dai commentatori, italiani e stranieri, perché le loro aspettative concernenti il governo di destra e la Presidente del Consiglio erano gravemente inficiate da pregiudizi. Adesso, preso atto che non c’è nessun ritorno del fascismo, quasi tutti i commentatori hanno fatto una virata (strambata) eccessiva. Lodano la moderazione, la visione, il senso dello Stato, l’adattabilità di Giorgia Meloni. Gli errori iniziali, in verità, le logiche conseguenze di posizioni ideologiche non sufficientemente indagate, sono stati corretti abbastanza rapidamente. I rapporti con l’Unione Europea sembrano implicare l’accettazione di principi una volta da lei dichiarati esiziali. Gli annunci per il futuro non sono roboanti, ma ottimisti e rassicuranti.
Il bilancio dei fatidici primi cento giorni è, a dire suo e dei commentatori accomodanti, positivo e promettente. In un paese decente, qualche ente autonomo di ricerca e, magari, persino una qualche opposizione avrebbero proceduto ad esprimere critiche puntali, persino formulare un bilancio documentato e alternativo. Nel silenzio di chi proprio del tutto innocente non è, sembra andato perduto un discorso nient’affatto irrilevante su quanto nell’azione del governo Meloni discenda dalla eredità di impostazione e di attuazione più o meno avanzata lasciata da Mario Draghi. Poi i sondaggi premiano il governo e il capo del governo e allora scocca il tempo della hybris.
Non è ben messo il Partito Democratico alla ricerca di una nuova leadership che, comunque, non sembra ancora essere anche un rinnovamento del partito, della sua politica, del suo stesso ruolo. La hybris dice che colpendolo lo si può mettere in ancora più serie difficoltà. Donzelli e Del mastro Delle Vedove sono più che lieti di essere gli squadristi dell’assalto che, data la loro vicinanza politica e istituzionale a Giorgia Meloni, è impossibile che sia stato deciso e attuato a sua insaputa. Ridottasi di intensità la bufera, la copertura del capo del governo è arrivata senza se senza ma. Nella parziale o totale afonia della Lega, tacitata con l’autonomia differenziata, e di Forza Italia, deboluccia sempre sul garantismo per gli altri, Meloni si avvia a riscuotere i successi elettorali regalatigli in Lombardia dal sedicente Terzo Polo e in Lazio dal mancato accordo Partito Democratico-Movimento 5 Stelle. La sua hybris ne uscirà, diciamo, potenziata e compiaciuta.
Pubblicato il 8 febbraio 2023 su Domani