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La hybris di Meloni tra arroganza e compiacimento @DomaniGiornale

La hybris, come sapevano molto bene i greci, non è soltanto un errore (peccato non fa parte della loro terminologia), ma una malattia che colpisce gli uomini in politica, e, naturalmente, oggi anche le donne. Si caratterizza come una combinazione di sicurezza eccessiva e di arroganza esibita. Probabilmente senza che Giorgia Meloni se ne sia accorta, i primi sintomi della “sua” hybris si sono già manifestati. Non sono finora stati colti come dovrebbero dai commentatori, italiani e stranieri, perché le loro aspettative concernenti il governo di destra e la Presidente del Consiglio erano gravemente inficiate da pregiudizi. Adesso, preso atto che non c’è nessun ritorno del fascismo, quasi tutti i commentatori hanno fatto una virata (strambata) eccessiva. Lodano la moderazione, la visione, il senso dello Stato, l’adattabilità di Giorgia Meloni. Gli errori iniziali, in verità, le logiche conseguenze di posizioni ideologiche non sufficientemente indagate, sono stati corretti abbastanza rapidamente. I rapporti con l’Unione Europea sembrano implicare l’accettazione di principi una volta da lei dichiarati esiziali. Gli annunci per il futuro non sono roboanti, ma ottimisti e rassicuranti.

   Il bilancio dei fatidici primi cento giorni è, a dire suo e dei commentatori accomodanti, positivo e promettente. In un paese decente, qualche ente autonomo di ricerca e, magari, persino una qualche opposizione avrebbero proceduto ad esprimere critiche puntali, persino formulare un bilancio documentato e alternativo. Nel silenzio di chi proprio del tutto innocente non è, sembra andato perduto un discorso nient’affatto irrilevante su quanto nell’azione del governo Meloni discenda dalla eredità di impostazione e di attuazione più o meno avanzata lasciata da Mario Draghi. Poi i sondaggi premiano il governo e il capo del governo e allora scocca il tempo della hybris.

  Non è ben messo il Partito Democratico alla ricerca di una nuova leadership che, comunque, non sembra ancora essere anche un rinnovamento del partito, della sua politica, del suo stesso ruolo. La hybris dice che colpendolo lo si può mettere in ancora più serie difficoltà. Donzelli e Del mastro Delle Vedove sono più che lieti di essere gli squadristi dell’assalto che, data la loro vicinanza politica e istituzionale a Giorgia Meloni, è impossibile che sia stato deciso e attuato a sua insaputa. Ridottasi di intensità la bufera, la copertura del capo del governo è arrivata senza se senza ma. Nella parziale o totale afonia della Lega, tacitata con l’autonomia differenziata, e di Forza Italia, deboluccia sempre sul garantismo per gli altri, Meloni si avvia a riscuotere i successi elettorali regalatigli in Lombardia dal sedicente Terzo Polo e in Lazio dal mancato accordo Partito Democratico-Movimento 5 Stelle. La sua hybris ne uscirà, diciamo, potenziata e compiaciuta.

Pubblicato il 8 febbraio 2023 su Domani

Calenda – Meloni, un incontro che non si doveva fare

L’incontro chiesto dal sen. Calenda, capo del partito Azione, e gentilmente concesso dalla Presidente del Consiglio Meloni si presta a molte considerazioni di metodo e di merito non tutte positive. Se l’oggetto era sostanzialmente la Legge di Bilancio e le eventuali correzioni, allora la sede non doveva essere Palazzo Chigi, ma il Parlamento. In una democrazia parlamentare qualsiasi confronto e qualsiasi accordo, ma anche i contrasti e le prese di distanza debbono avvenire in Parlamento. La sovranità del popolo, Meloni dovrebbe saperlo, si esprime attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento. Inoltre, in Parlamento la discussione è aperta a tutti, visibile e gli accordi/disaccordi sono destinati ad essere trasparenti. In questo modo, il “popolo”, la nazione vengono informati, imparano, saranno in grado di valutare quanto proposto, eventualmente accettato dal governo e dalla sua maggioranza e, presumibilmente spesso, respinto con quali motivazioni. In Parlamento si dipana la conversazione politica che è il sale della democrazia.

   Dunque, Calenda e Meloni hanno scelto il metodo sbagliato che, in qualche modo, è destinato a destare legittimi sospetti sulla disponibilità di Calenda a sostenere alcune scelte di Meloni e sulla disponibilità di Meloni a reciprocare con cosa non so. Cronisti dei lavori parlamentari sapranno raccontarci di scambi più o meno sorprendenti. Andranno quegli scambi a migliorare la Legge di Bilancio? Se i miglioramenti sono conformi sia alle politiche volute dalla Presidente del Consiglio sia agli interessi di Calenda che, in teoria, dovrebbe essere (stare?) all’opposizione, sarà indispensabile valutare i costi di quegli accordi per il Bilancio dello Stato ovvero per le tasche, vado sul politichese, degli italiani.

   Calenda accusa le opposizioni del PD e del Movimento 5 Stelle di preconcetti e di rigidità che le renderanno sterili e non porteranno nulla di buono a coloro, persone e imprese, che le hanno votate. Non si vede il fondamento di questa accusa che potrà essere verificata soltanto sugli emendamenti che verranno introdotti in Parlamento e sulle argomentazioni dalle quali saranno accompagnati e sostenuti. Molto spesso Meloni ha rivendicato la novità dell’esistenza di “una maggioranza chiara, un programma comune e un mandato popolare”. Il suo incontro con Calenda segnala la possibilità che nella maggioranza esistano tensioni oscure che sono particolarmente sentite da Forza Italia, che non tutti gli elementi programmatici sono davvero condivisi, e allora, forse, supplirà Calenda, e che il mandato popolare ottenuto dal centro-destra possa essere ritoccato grazie a qualche apporto centrista. Insomma, da un lato, ai propri fini di visibilità e forse anche di egocentrismo, e, dall’altro, con l’obiettivo di avere una carta in più da giocare nei momenti di possibile difficoltà, rispettivamente Calenda e Meloni finiscono per favorire il ritorno di una politica di confusione nei ruoli e nelle responsabilità. Un ritorno che preferiremmo non vedere.      

Pubblicato GEDI il 1° dicembre 2022

La querela minaccia la libertà d’informazione @DomaniGiornale

In politica gli avversari si affrontano e si combattono con gli strumenti della politica. Analisi penetranti, indicazioni intelligenti, proposte innovative, idee idee idee. Da ultimo, se la competizione approda sul campo, più o meno largo, elettorale, l’arma sono i voti. In maniera ossessiva e rozza i politici, non so se più quelli di sinistra o di destra che si beano del loro “garantismo”, annunciano di non volere sconfiggere gli avversari per via giudiziaria, ma politicamente. Deve necessariamente essere molto diverso l’atteggiamento quando il conflitto è tra i politici e i giornalisti? Vale a dire la sconfitta dei giornalisti ad opera dei politici che non hanno gradito un’inchiesta non dovrebbe essere cercata sul piano fattuale smentendo le risultanze dell’inchiesta e dimostrando la falsità delle implicazioni perché i fatti non sono avvenuti? Ricorrendo ad un’altra frase classica del politichese, “lasciare che la giustizia faccia il suo corso”. I più bravi fra i politici e i loro giornalisti di riferimento sono di recente approdati anche alla decisione eroica di “difendersi nel processo, non difendersi dal processo”.

Giorgia Meloni ha scelto di querelare il quotidiano “Domani” e il suo Direttore per un’inchiesta della primavera scorsa. Raccomandazioni a favore di un imprenditore di mascherine i cui prodotti sarebbero costati allo Stato il doppio di quelle dei concorrenti. Emiliano Fittipaldi ha già fornito tutti gli elementi della sua inchiesta. Naturalmente, il tempo passato da marzo a oggi ha visto un enorme cambiamento sulla scena politica. La già allora potente capo del partito Fratelli d’Italia è diventata la ancora più potente Presidente del Consiglio cosicché la sua querela ha immediatamente acquisito maggiore peso e probabilmente susciterà maggiore attenzione mediatica. Il capo del governo “scelto dagli italiani” (meglio, che ha vinto le elezioni e ottenuto il voto di fiducia da entrambe le Camere) vuole dare una costosa lezione a un quotidiano che senza appoggiare nessuno specifico partito sta all’opposizione. In questa luce, l’inchiesta giornalistica potrebbe apparire agli occhi dell’opinione pubblica come un subdolo tentativo di delegittimazione del capo del governo.

    Il rinvio a giudizio del Domani solleva alcuni problemi generali rimasti irrisolti nei rapporti fra governo, qualsiasi governo, e mass media. Senza fare nessun peccato è lecito pensare che il Capo del governo e i suoi avvocati intendano mandare un messaggio (di stampo ungherese): “attenzione alle critiche e denunce, voi, giornalisti, non ve ne lasceremo passare una, ve le faremo pagare care”. Poi saranno i giornalisti stessi, interiorizzato il messaggio, a decidere quanto vogliono esporsi. Dunque, è logico concludere che assicurare la difesa della libertà di stampa, ad eccezione di pochissime fattispecie, da querele governative significa, fuor di retorica, difendere un pezzo importante della libertà.

Pubblicato il 23 novembre 2022 su Domani

La scoperta delle fatiche di un governo di coalizione @DomaniGiornale

Sembra che per la prima volta al mondo si vada in Italia alla formazione di un governo di coalizione superando le intemperanze fuggite (?) dal sen di Berlusconi. Peraltro, in Svezia nelle tre settimane dalle elezioni il centro ha dovuto addirittura chiedere il sostegno esterno dei Democratici Svedesi, destra populista sovranista. Nei governi di coalizione spesso “impazza” anche il toto ministri e bisogna esercitarsi nel gioco delle caselle. Infatti, esistono ministeri più importanti di altri e ministeri preferiti dai capi dei partiti che compongono la coalizione poiché, più che avere soluzioni a quei problemi, pensano che portino voti. Anche questo accade dappertutto e, comprensibilmente, richiede tempo. In Germania, il governo guidato dal socialdemocratico Scholz e sostenuto da Verdi e Liberali ha avuto bisogno di più di due mesi dalle elezioni prima di entrare in carica. Tedesco è sicuramente il proverbio “i partiti frettolosi fanno governi ciechi”.

   A tutti i governi di coalizione, le associazioni di vario tipo, a meno che non siano state disintermediate, i commentatori politici, i partiti di opposizione chiedono ministri di alto profilo, politici, ma, insomma, anche tecnici (il Presidente della Coldiretti Ministro dell’Agricoltura?). Sempre il capo del governo e i suoi collaboratori promettono il meglio del meglio, accentuando la qualità della competenza, indicando come elemento qualificante l’esperienza, spingendosi a affermare indispensabile il riconoscimento esplicito della preminenza del capo di governo. Anche altrove e, per usare il politichese, “non da oggi”, quando si produce un cambio sostanziale nella compagine di governo (non è, con buona pace di commentatori superficiali, un’alternanza totale poiché due dei tre partiti hanno avuto responsabilità rilevanti nel precedente governo), fra i “nuovi” governanti serpeggia il timore che la burocrazia e affini, ovvero il deep State, si preparino ad ostacolare, sabotare le attività del governo, le sue politiche specialmente se innovative. Di qui la richiesta di lealtà istituzionale.

    A questo punto, dovrei scrivere “tanta roba”, ma il moralista che è in me afferma al contrario che la richiesta dev’essere fatta e che la lealtà deve valere come criterio per il reclutamento e la valutazione delle prestazioni anche dei ministri pena l’immediata estromissione. Sappiamo quanto difficile all’occorrenza è stato in Italia licenziare ministri sleali. Giusta, quindi, e apprezzabile la cautela di Giorgia Meloni. Sottotraccia c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. In qualche ministero s’annidano tuttora enormi occasioni di conflitti di interessi. E, allora, si facciano avanti ministri competenti, esperti, leali, che non rappresentino gli interessi giudiziari e imprenditoriali di qualche capo partito. In materia, nelle democrazie europee non trovo paragoni appropriati.

Pubblicato il 20 ottobre 2022 su Domani

Il neo Presidente La Russa ha ringraziato apertamente i senatori della minoranza che lo hanno votato.  Vicepresidenze delle Camere e delle Commissioni ci diranno poi chi erano i destinatari di quei ringraziamenti

I ringraziamenti espliciti, quasi plateali rivolti dal neo-eletto Presidente del Senato Ignazio La Russa ai senatori/senatrici che non fanno parte della maggioranza per averlo votato mandano due segnali politicamente molto significativi. Da un lato, comunicano a quei senatori/senatrici che sono benvenuti e che, quando ci sarà l’occasione, saranno adeguatamente ricompensati. Che i loro voti, palesi e segreti, continueranno ad essere più che bene accetti. In estrema sintesi, dietro l’angolo è nata quella che potremmo definire una maggioranza eventuale. Dall’altro, le parole del Presidente La Russa fanno sapere a Berlusconi, che ha imposto la scheda bianca/astensione ai parlamentari di Forza Italia, che i “buchi” da lui/loro lasciati possono essere riempiti rapidamente e in maniera abbondante con appoggi esterni. In un modo da non sottovalutare, i ringraziamenti di La Russa indeboliscono grandemente il potere di ricatto che Berlusconi strenuamente tentava di utilizzare sulla formazione del governo Meloni con la richiesta di un Ministero importante per la sua fedelissima (parola non mia di cui confesso non capire fino in fondo il significato) Licia Ronzulli.

   Per quel che riguarda il centro-destra, il resto, vale a dire altre trame, vantaggi, reazioni, altri ricatti, altre convergenze più o meno inaspettate, lo si vedrà quando (e se) e con quanti voti verrà eletto il Presidente della Camera, che dovrebbe essere un deputato della Lega. Chi siano i senatori/senatrici che più o meno generosamente hanno deciso l’elezione di La Russa precisamente non lo sappiamo. Tuttavia, potremo avere qualche elemento conoscitivo e esplicativo in più, forse persino decisivo, quando verranno eletti gli uffici di Presidenza della Camera e del Senato.

   Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, in quanto rappresentanti i due gruppi più numerosi non hanno nessuna intenzione di cedere le vicepresidenze a Azione. Dunque, se il voto segreto premiasse un candidato/a espressione dell’area Calenda-Renzi diventerà fin troppo facile sostenere che si è prodotto uno scambio. La moralità non è il terreno su cui si fonda la politica né in Italia né, in maniera minore, altrove. Molte altre cariche istituzionali sono disponibili a cominciare dalle prestigiose e potenti Presidenze delle Commissioni. Altri scambi sono possibili e probabili dai quali, però, le opposizioni in ordine sparso risulteranno inevitabilmente e imprevedibilmente indebolite.

Al tempo stesso, però, l’imminente governo del centro-destra avrà al suo interno una componente (Forza Italia) amaramente insoddisfatta, non convinta, a meno di avere ottenuto molto nella formazione del governo, dell’obbligo politico di agire in maniera disciplinata e solidale. Poiché sono note anche le mire di Salvini per un Ministero, gli Interni, per il quale la Presidente del Consiglio in pectore ha già fatto sapere di preferire un’altra, non specificata, personalità, se ne può concludere che sul governo Meloni già si addensano non pochi pesanti nuvoloni.

Pubblicato AGL il 14 ottobre 2022

La corsa di Meloni verso palazzo Chigi è legittima Ma lasci stare Orban… #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti 7 settembre 2022

Per chi suona la fisarmonica del Capo dello Stato @formichenews

Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare presidente del Consiglio e ministri. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Il commento di Gianfranco Pasquino Accademico dei Lincei e autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022)

La fisarmonica (del Presidente della Repubblica) non è affatto, come ha perentoriamente scritto Carlo Fusi (28 agosto), un “funambolismo tutto italiano e rappresentazione tra le più eclatanti della crisi di sistema in atto”. Al contrario, è una metafora delle modalità elastiche del funzionamento delle democrazie parlamentari che consentono di analizzare, capire, spiegare al meglio il ruolo del Presidente della Repubblica italiana ieri, oggi e, se non sarà travolto dal pasticciaccio brutto del presidenzialismo diversamente inteso dal trio Meloni-Salvini-Berlusconi, domani.

   In sintesi, definiti dalla Costituzione, dalla quale non è mai lecito prescindere, i poteri del Presidente della Repubblica italiana, l’esercizio di quei poteri dipende dai rapporti di forza fra i partiti in Parlamento e il Presidente, la sua storia, il suo prestigio, la sua competenza. Partiti deboli e divisi saranno costretti a lasciare spazio al Presidente sia nella formazione del governo sia nello scioglimento o no del Parlamento. Partiti forti e compatti diranno al Presidente se e quando sciogliere il Parlamento e chi nominare Presidente del Consiglio e ministro. Meloni non ha nessun titolo, oggi, per dire a Mattarella che deve nominarla. Se ci saranno i numeri, ovvero una maggioranza assoluta FdI, Lega e FI, dovranno essere Salvini e Berlusconi a fare il nome di Meloni a Mattarella, aggiungendo che non accetteranno nessuna alternativa.

   Certo, il Presidente chiederà qualche garanzia europeista, ma non potrà opporsi al nome. “Crisi di sistema in atto”? O, piuttosto, funzionamento da manuale di una democrazia parlamentare nella quale il governo nasce in Parlamento e viene riconosciuto e battezzato dal Presidente? Verrà anche sostenuto dalla .sua maggioranza parlamentare e sarò operativo quanto il suo programma e i suoi partiti vorranno e i suoi ministri sapranno. Quel che dovrebbe essere eclatante è la constatazione che nessun presidenzialismo di stampo (latino) americano offre flessibilità. Anzi, i rapporti Presidente/Congresso sono rigidi. Il Presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso che, a sua volta, non può sfiduciare e sostituire il Presidente. Nel passato, spesso, l’uscita dallo stallo era un golpe militare.

    Nessuna legge elettorale, nemmeno l’apprezzatissima Legge Rosato, può rendere elastico il funzionamento del presidenzialismo che, come abbiamo visto con Trump, ha evidenziato molti degli elementi più eclatanti di una crisi di sistema. Altro sarebbe il discorso sul semipresidenzialismo, da fare appena i proponenti ne chiariranno i termini e accenneranno ad una legge elettorale appropriata. Nel frattempo, sono fiducioso che in vista del post-25 settembre il Presidente Mattarella stia diligentemente raccogliendo tutti gli spartiti disponibili e facendo con impegno e solerzia tutti i solfeggi indispensabili per suonare al meglio la sua fisarmonica. Altri saranno i cacofoni.

Pubblicato il 30 agosto 2022 su Formiche.net

Patto per una buona campagna elettorale e un buongoverno

Nel molto frammentato panorama partiti(ni)co italiano qualsiasi accordo che conduca a aggregazioni politiche ampie è da salutare con favore. Il patto elettorale e politico stilato da Partito Democratico, da Azione e da +Europa va nel senso giusto. Anche qualora non riuscisse a sconfiggere le destre, tutta avanti nei sondaggi, lo schieramento di sinistra e centro avrà una presenza numerica e politica importante nel ridimensionato Parlamento italiano. Sarà in grado di svolgere un’opera efficace di controllo su quanto farà il governo (a guida Meloni?), di controproporre sulla base delle sue proposte programmatiche, di mantenere utili legami di rappresentanza con l’elettorato, non soltanto il suo. Comprensibilmente criticato, perché temuto, dalle destre, il Patto fortemente voluto da Enrico Letta non è pienamente apprezzato neppure nella sua area di riferimento, quel campo largo nel quale il segretario del PD avrebbe voluto impegnare più giocatori. Ambizioni personali e vecchi e nuovi rancori continuano a essere presenti e dannosi non solo per i dirigenti che li nutrono, ma soprattutto per l’elettorato una parte del quale non è disponibile ad affidarsi a chi non garantisce stabilità politica e convergenza programmatica, ma si esibisce in distinguo e litigi permanenti, spesso l’unico modo per farsi notare.

In quanto ai programmi, alle cose da fare per l’Italia, il Patto ha una caratterizzazione abbastanza precisa. Lo sfondo è dato dall’europeismo e dall’atlantismo, mai così rilevanti per fare fronte all’aggressione russa in Ucraina e alle sue pesanti conseguenze politiche e economiche. Poi, praticamente su tutte le materie più importanti, Letta, Calenda e Bonino hanno opportunamente scelto di fare riferimento a quella che viene chiamata Agenda Draghi, ovvero a quanto il governo di ampia coalizione guidato da Mario Draghi stava facendo e aveva progettato di portare a compimento. Naturalmente, quell’Agenda non deve essere intesa come esaustiva e immodificabile. Lo stesso Presidente del Consiglio avrebbe introdotto modifiche e variazioni derivanti da mutate situazioni. D’altronde, anche a fini nient’affatto criticabili di accrescimento del suo consenso elettorale, il Partito Democratico ha assoluta necessità di potenziare gli interventi sociali che sintetizzerò nell’espressione “riduzione delle diseguaglianze”, anche economiche. Però, molti sanno che la ricetta migliore per ridurre le diseguaglianze è costituita dalla crescita economica, ambito nel quale toccherà a Calenda sprigionare il suo tasso di innovazione finora più declamato che tradotto in indicazioni concrete.

Fuori da accuse, recriminazioni, diffusione di notizie manipolate o semplicemente false, senza ipocrisie e senza illusioni, sembra arrivato il tempo del confronto, anche aspro, fra le destre e il Patto fra centro e sinistra, non soltanto sulle cose da fare, ma anche sulla competenza e sulla credibilità di chi si candida a farle. Potrebbe ancora scaturirne una campagna elettorale apprezzabile.

Pubblicato AGL il 4 agosto 2022

Ci sono troppi “campi larghi” nella politica italiana @DomaniGiornale

Immagino che Letta non sia troppo contento di sentire che il migliore campo largo l’ha creato Damiano Tommasi a Verona. Proprio il giocatore che ha sempre respinto con gentilezza la richiesta di definirsi di destra o di sinistra. Per fortuna Tommasi non ha neanche detto “tutt’e due” e nelle sue parole si trova l’indicazione a stare dalla parte di una politica decente. Che non è mai la politica dei populisti. Ciò detto, se spingiamo il “laboratorio” (termine del tutto inappropriato) Verona per trarne qualcosa che prefiguri accadimenti nazionali, andiamo davvero troppo in là. Meglio, invece, fare una riflessione che non si fondi mai su un unico caso per quanto eclatante. Infatti, se è giusto affermare che ha vinto l’idea di campo largo formulata e ripetuta da Letta, nella pratica, di campi larghi se ne sono visti parecchi. Pochi campi erano uguali per composizione e molti differivano comunque poiché al loro interno, componente spesso essenziale, si trovava una lista civica. Quelle liste contano e sono spesso state decisive grazie al loro radicamento locale che, naturalmente, risulta proprio l’elemento non trasferibile e non sfruttabile in elezioni nazionali.

   Subito da aggiungere, perché è anch’essa una variabile tanto importante quanto non generalizzabile (meno che mai se ci si riferisce a Tommasi), la persona/personalità di candidati e candidate scelti/e da Partito Democratico e alleati è risultata decisiva quando la partita si è giocata su un margine ristretto. Attuale ”allenatore”, per rimanere in metafora, delle squadre scese vittoriosamente nei campi larghi del paese, Letta vorrà poi trasformarsi nel capitano-giocatore della sua “nazionale” oppure dovrà affrontare e risolvere il problema della leadership?

Più o meno visibilmente, ma inesorabilmente, l’individuazione di chi sarà il leader della squadra del centro-destra agita le ambizioni di Salvini e di Meloni. Diventato nervosetto a causa dei sondaggi che segnalano che la sua ambiguità gli fa perdere consensi, Salvini è stato anche punito da alcune candidature da lui imposte e risultate perdenti. “Granitica”, Giorgia Meloni incassa i suoi dividendi di coerenza, critica le scelte sbagliate, ma ribadisce la sua appartenenza al campo del centro-destra. Non può andare da nessuna altra parte. Proprio la sua coerenza fa risaltare ancora di più le tensioni e le differenze di opinione e di posizionamento (nazionale) anche nelle città nelle quali, ad esempio, Genova, il centro-destra vince. E dire che nelle città meno si sentono le distanze fra chi del centro-destra sta al governo e chi all’opposizione, chi è europeista e chi combatte per un’altra Europa, chi è atlantista e chi è opportunista (però, “per la pace”). Il messaggio più facile da capire per i tre del centro-destra è che la vantata compattezza non è un dato, ma qualcosa da costruire in maniera convincente e credibile. Esiste sempre un po’ dappertutto una parte piccola, ma importante di elettorato che vota per chi offre garanzie di dare vita a un governo stabile. Quell’elettorato si è forse manifestato anche a Verona.

L’ultimo elemento degno di nota di queste elezioni amministrative nel loro piccolo è che nessuno dei vari partitini che si strattonano al centro si è dimostrato cruciale. Tuttavia, è ipotizzabile che una parte, quanta lo sapremo in base alla legge elettorale che verrà, del loro consenso elettorale potrebbe essere decisivo, magari non tanto per la vittoria del centro-destra o del campo largo, ma per la formazione del governo. Tutta un’altra storia.

Pubblicato il 29 giugno 2022 su Domani

Salvini e Conte due spine, prima se ne vanno meglio è. A lezione da Pasquino #intervista @L_Argomento

Il politologo: “Referendum flop? E’ questa la vittoria della riforma Cartabia contro i critici, uno dei quali si trova incidentalmente anche al governo”

Intervista raccolta da Francesco De Palo

“Salvini e Conte sonno due spine, principalmente per i propri partiti, prima se ne vanno meglio è. Il referendum flop? E’ stata la vittoria della riforma Cartabia contro i critici, uno dei quali si trova incidentalmente anche al governo”. Lo dice a L’Argomento il prof. Gianfranco Pasquino, politologo di fama internazionale e Professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Bologna. Da due mesi è uscito il suo ultimo libro, “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (editore Utet).

La bassa affluenza cosa ci trasmette sul presente e sul futuro dell’istituto referendario?

Che bisogna fare delle domande alle quali gli elettori possono rispondere convintamente; che bisogna individuare delle tematiche che si prestano davvero a dire sì o no e non essere forse un po’ così, un po’ cosà. Ma soprattutto bisogna essere convinti delle richieste che si fanno e quindi fare una campagna elettorale decente. Se uno riesce a riformare la giustizia non può passare le sue giornate a chiedere la pace da parte dell’Ucraina nei confronti della Russia. Cioè bisogna fare la campagna elettorale, non fare i furbi.

Crede che la concomitanza con la riforma Cartabia abbia tolto peso specifico alla consultazione?

In una certa misura sì, ma in realtà il referendum era chiesto contro la riforma Cartabia. I promotori hanno voluto dire che tutto l’impianto della riforma non piaceva e offrivano ai cittadini cinque quesiti per distruggerla. E quindi in un certo senso è questa la vittoria della riforma Cartabia contro i critici, uno dei quali si trova incidentalmente anche al governo.

Come giudica l’ipotesi circolata in questi giorni di abolire il quorum per il referendum?

Non è un’ipotesi circolata in questi giorni ma che esiste sul tavolo da almeno dieci anni: ovvero non abolire il quorum ma cambiarlo. Abolirlo del tutto non si può. Una legge approvata da una maggioranza parlamentare non può essere abolita da una minoranza degli elettori.

Le amministrative hanno di fatto aperto la campagna elettorale per le politiche? E con quali prerogative per i due schieramenti?

Non hanno aperto niente. Riguardavano quel tipo di città e solo quei sindaci. Poi ognuno trarrà delle conseguenze per sé, definite e decisive. Ci si potrebbe chiedere: ma allora la campagna elettorale a che cosa servirà? E di qui a dieci mesi non succederà nulla? No, io credo che qualcuno guarderà bene i dati e si renderà conto che ci sono alcune cose che funzionano nei suoi candidati e nelle sue proposte e qualcun altro riuscirà in qualche modo a ridefinire tutto questo. Però io continuo a pensare che gli elettori fanno attenzione a quello che li riguarda. Però una buona campagna elettorale fa cambiare idea a un certo numero di elettori che possono essere il numero decisivo.

Secondo lei Salvini e Conte sono due spine per Meloni e Letta?

Aspetti, voglio dare una risposta cattiva. Salvini e Conte sono due spine. Salvini per la Lega e Conte per quel che rimane del Movimento cinque Stelle che Conte non controlla e ha perso anche quelli che dovrebbe recuperare. Salvini sta perdendo elettori a mani basse, sta perdendo anche prestigio all’interno della Lega e quindi è una spina lui per la Lega. Prima se ne vanno, meglio è.

Manfred Weber, il numero uno del Ppe, prima della riunione dell’altro giorno, due mesi fa, venendo a Roma in Vaticano, e incontrando poi tutti gli esponenti centristi, ha detto che il problema non è la Lega in sé, ma Salvini, che mai entrerà nel Ppe. Questo assunto potrà influire sulle alleanze, al netto della legge proporzionale che, si dice, si potrà fare?

Dunque, a prescindere dal fatto che io preferisco Max Weber a Manfred Weber, è chiaro che Salvini è un problema per l’Europa, non c’è nessun dubbio. Ed è un problema, naturalmente, anche per il Partito popolare europeo che è uno degli assi portanti della politica europea. Quindi Salvini ha un problema sicuro con loro.

Quale l’elemento più tragico, secondo la sua opinione, del conflitto in Ucraina? Il fatto che si usi il grano come un’arma, il fatto che si calpesti il diritto internazionale o concetti basilari come la sovranità?

L’elemento drammatico è dato dal fatto che c’è un despota autoritario che aggredisce uno Stato libero e democratico e dice che trattasi di operazione militare speciale, di non guerra. Quindi fa anche delle operazioni che Orwell avrebbe sanzionato. E la neolingua è una manipolazione della lingua. C’è qualcuno che crede che si possa chiedere seriamente agli ucraini di rinunciare a parte del loro territorio, di rinunciare a difendersi? Questo è drammatico. Vuol dire che mettiamo sullo stesso piano un regime autoritario con un regime democratico e diciamo che il regime democratico deve cedere alle mire di un regime autoritario. La mia opinione, invece, è che noi dovremmo porre il problema del regime change. Se vogliamo che la Russia smetta di fare guerre, bisogna sostituire il guerrafondaio Putin.

Pubblicato il 14 giugno 2022 su L’Argomento