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La propaganda sulla Costituzione

Leggo periodicamente le grida di (finto) dolore emesse da coloro che hanno sonoramente perso il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Sono quasi tutti accompagnati da vere indignate invettive contro i professoroni e soprattutto contro Gustavo Zagrebelsky, il Presidente del Comitato nazionale per il NO. Avremmo, non rispondo a nome suo, ma mi prendo la mia parte, non so quanto grande, di responsabilità, aperto la strada a infinite (non ancora finite) nefandezze. Per di più, di fronte alle nefandezze staremmo tutti zitti mentre il governo Lega-Cinque Stelle è affaccendato nella distruzione della Costituzione “più bella del mondo” (copyright non mio). Sull’aggettivo “bella” ho già variamente e ripetutamente eccepito affermando, senza timore di smentite, che non esiste un concorso di bellezza per le Costituzioni e che, se ci fosse, vincerebbe la Costituzione mai scritta, quella del Regno un tempo Unito. Dopodiché, contrariamente agli scrittori di stupidaggini seriali sul referendum, sulla Costituzione e sul governo, fra i quali annovero da qualche tempo il Direttore del “Foglio” Claudio Cerasa (si veda la sua risposta Antiparlamentarismo e silenzio dei costituzionalisti, alla lettera di un assegnista, sic, di ricerca in Diritto Costituzionale, pubblicata in prima pagina il 19 luglio), entro nel merito. Metto subito le carte in tavola. Ho scritto su tutte le tematiche attinenti il referendum costituzionale: Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, Università Bocconi Edizioni, 2015) . Ho anche criticato le, spesso davvero risibili, motivazioni dei sostenitori del sì in NO positivo. Per la Costituzione. Per le buone riforme. Per migliorare la vita e la politica, Novi Ligure, Edizioni Epoké, 2016 .

 

Credo di essermi abbondantemente conquistato il diritto di spazientirmi a fronte di critiche fondate sull’ignoranza e sulla ripetizione di errori monumentali, squalificanti.

Primo, davvero il governo giallo-verde è il prodotto certo e inevitabile della sconfitta di Matteo Renzi nel referendum da lui pervicacemente voluto? Dunque, molti cadono nella peraltro ben nota fallacia del post hoc ergo propter hoc: quel che viene dopo dipende sicuramente da quello che è avvenuto prima. Un evento del dicembre 2016 ha condizionato, addirittura determinato un evento del marzo 2018? In quindici mesi, il Partito Democratico e il suo segretario non sono riusciti a recuperare (qua il verbo è ballerino, forse ottenere, forse conquistare) abbastanza voti per rendere quella coalizione di governo numericamente impraticabile? Certo, se qualcuno, come il segretario Renzi, mai contraddetto da nessuno del suo cerchio non proprio magico, continua a sostenere che l’intero esercito dei 40 per cento che hanno votato Sì lo hanno fatto per lui e quindi che voti erano suoi, allora ha già deragliato. È diventato irrecuperabile, ancora di più quando paragona quella percentuale con il 24 percento dei voti ottenuti da Emmanuel Macron al primo turno delle elezioni presidenziali francesi nell’aprile 2017. Però, segnala uno, non l’unico, dei giganteschi errori di Renzi (più che dei suoi seguaci): rivelare di avere trasformato il referendum sul pacchetto di riforme costituzionali in un plebiscito sulla sua persona di ineguagliabile, inarrivabile, insuperabile riformatore. Incidentalmente, ai plebisciti su persone, tutti i “veri” democratici hanno l’obbligo politico e morale di rispondere sempre e senza esitazioni NO.

 

Secondo, i sostenitori della tesi che il NO ha reso inevitabile, anzi, praticamente fabbricato il governo giallo-verde, stanno dicendo anche un’altra cosa molto grave. La campagna elettorale del PD, maldestramente guidata dal suo segretario, che non voleva che crescesse il prestigio e l’apprezzamento per il capo del governo Paolo Gentiloni, non ha saputo recuperare neanche un voto. Anzi, se la comparazione viene fatta con Bersani 2013, ha perso il 7 per cento degli elettori, quantità sostanzialmente superiore a coloro che hanno votato per LeU. Inoltre, i renziani dimenticano, non sono neppure sicuro che ne abbiano acquisito piena consapevolezza, che la coalizione Cinque Stelle-Lega non era l’unica numericamente e politicamente possibile. Infatti, Cinque Stelle e Partito Democratico avevano (probabilmente, non si possono mai prevedere tutti gli spostamenti, ancora hanno) la maggioranza assoluta di seggi sia alla Camera sia al Senato. La prematura e dissennata decisione di Renzi di buttare il suo partito all’opposizione ha reso possibile, sostanzialmente inevitabile, la formazione del governo Di Maio-Salvini. Il quesito continua a rimanere questo: il governo Cinque Stelle-Lega è preferibile ad un governo Cinque Stelle-PD? Un partito che dichiara di avere una missione nazionale (remember il Partito della Nazione?) accetta senza neppure un dibattito interno, senza andare a vedere le carte e senza verificare se esistano alternative esperibili di andare all’opposizione? Per starci, poi, alquanto male, senza sapere fare l’opposizione, rivelandosi totalmente irrilevante, paralizzato dal suo due volte ex-segretario e dai parlamentari da lui nominati grazie alla Legge Rosato e maggioritari nei gruppi PD sia alla Camera sia, ancor più, al Senato. Noto tristemente come nessuno che abbia fatto notare quanti governi nelle democrazie parlamentari europee sono fatti da coalizioni fra partiti nient’affatto omogenei.

Terzo, adesso, Cinque Stelle e Lega stanno, sempre secondo i sostenitori del Sì, manomettendo la Costituzione e né Zagrebelsky né i professoroni entrano in campo per difenderla, quella democrazia rappresentativa che, secondo Cerasa, rischia di essere travolta “dalla deriva antiparlamentarista che hanno contributo a generare votando NO al referendum del 2016. Quei “professoroni “, il Chiarissimo, Altissimo, Prestigiosissimo” (sono tutti aggettivi del Dottor Cerasa) Gustavo Zagrebelsky incluso, erano stati opportunamente e immediatamente schedati da due politologi renziani della prima ora: Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo in un indimenticabile articolo: Cari Professori del NO…, pubblicato ne “l’Unità”, 27 aprile 2016, inteso a screditarli non sul merito delle riforme e delle obiezioni, ma facendo riferimento alla loro età, spesso “avanzata” e alle cariche ed onori, perfetta esemplificazione di character assassination , che è la men che positiva definizione inglese di questo modo di procedere. Vale la pena di documentarsi leggendo il commento devastante di Marco Damilano, Cari professori uscite dalla curva, tempestivamente pubblicato sul blog dell’Espresso. Non discuto delle autonomie regionali differenziate, peraltro, richieste anche dal Presidente Pd della Regione Emilia-Romagna, ma ricordo che la sinistra non ha mai capito in quale direzione stava andando rincorrendo il cosiddetto federalismo della Lega. Era un pasticcio allora, lo rimane adesso. Chi è causa del suo mal pianga se stesso (et voilà: la rima). Vado, piuttosto, sulle due riforme costituzionali già iniziate: referendum propositivo e riduzione del numero dei parlamentari. Sul primo, argomento di sicura importanza, ricordo che la riforma costituzionale renziana andava nella direzione di dare maggiore potere ai referendari. Certo, esistono notevoli differenze, ma il punto riguarda le modalità di legiferare. Le Cinque Stelle vogliono trasferire grande potere ai cittadini a scapito del Parlamento. Noto che manca la riflessione più appropriata, quella riguardante i rapporti Governo/Parlamento. In realtà, potrebbe benissimo risultare che il referendum propositivo toglie potere al governo piuttosto che al Parlamento e che parlamentari capaci e competenti saprebbero come ridefinire i compiti delle loro rispettive Camere e riconquistare il ruolo che i Parlamenti sanno essere il loro, quello che non soltanto possono, ma debbono svolgere: controllo sull’operato del governo, conciliazione di interessi, comunicazione con la cittadinanza e, non da ultimo, last but tutt’altro che least, rappresentanza politica.

Quarto, questo sembra essere diventato il vero (o presunto) punctum dolens. Le Cinque Stelle mirano a ridurre il numero dei parlamentari con le più classiche delle motivazioni populiste: tagliare le “poltrone” per ridurre i costi (incidentalmente, espressione molto simile allo slogan della campagna renziana: “Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”). Dunque, scendere da 630 deputati a 400 e da 315 senatori eletti a 200. In tutto si passerebbe e da 945 eletti a 600. Ricordo che la trasformazione del Senato secondo la riforma costituzionale fatta approvare da Renzi totalmente eliminava i Senatori eletti dai cittadini (ci sarebbe qualche technicality aggiuntiva qui, ma il ragionamento tiene lo stesso), recuperandone 95 provenienti dai Consigli regionali più i cinque senatori a vita, davvero “cavoli a merenda”. In tutto da 945 parlamentari eletti si sarebbe scesi a 630 più 100, con la classica motivazione populista (e un di più di decisionismo accattone): meno poltrone, meno costi, i senatori di provenienza regionale non avrebbero avuto nessuna indennità, ma solo il rimborso delle spese. Quanto alla rappresentanza è subito opportuno ricordare che non è mai solo faccenda di numeri. La più potente assemblea legislativa e rappresentativa al mondo è senza dubbio alcuno il Senato degli USA. La rappresentanza dipende in misura sostanziale dalla legge elettorale, dalle modalità con le quali i rappresentanti sono eletti e possono essere rieletti. Da questo punto di vista, il vero vulnus, anzi, il colpo mortale alla rappresentanza politica viene, da un lato, dall’eventuale, ancorché fondamentalmente impossibile da praticare, vincolo di mandato, dall’altro, dai limiti ai mandati elettivi.

Ciò detto, dovrebbe essere evidente a tutti che la Legge Rosato con le sue liste bloccate è fatta apposta per rendere impossibile la buona rappresentanza politica. Altre erano le sue priorità. Gli eletti sapranno di dovere la loro carica (chiedo scusa, poltrona) a chi li ha candidati/e e messi in lista nelle posizioni più eleggibili, certamente, non agli elettori di fronte ai quali non avranno nessun interesse e nessun incentivo a tornare per parlare di politica (della vita reale), spiegando quel che hanno fatto, non fatto, fatto male. Eravamo addirittura arrivati al punto di ascoltare dalla voce del Ministro Boschi che i capilista bloccati (più spesso che no paracadutati, come lei stessa sarebbe stata a Bolzano nel 2018), nominati dal segretario del partito, acquisivano il ruolo di “rappresentanti del collegio”. Fin da subito sostenni che erano, invece, i commissari del (segretario del) partito. Insomma, il combinato disposto della profonda trasformazione del Senato, con i nuovi senatori che avrebbero rappresentato non i cittadini delle rispettive regioni, ma i partiti di quelle regioni, vale a dire del suo sostanziale depotenziamento in termini di rappresentanza e di capacità di controllo sull’operato del governo e sulle leggi dal governo proposte/imposte, con la legge elettorale, fosse l’Italicum sia la Legge Rosato, incideva gravemente sulla rappresentanza politica. Con qualche sospiro e un’alzata di spalle i renziani, ma anche un numero impressionante di commentatori politici, giornalisti e professori anche di scienza politica, raccontavano la favola del trade-off: bisogna rinunciare a un po’ di rappresentanza per avere un tot di governabilità (garantita anche da un cospicuo premio di seggi). Alla faccia di coloro che pensano, con notevoli pezze d’appoggio, che la buona, ampia, diversificata rappresentanza politica è la premessa, il fondamento irrinunciabile della governabilità, di qualsiasi governabilità.

No, la riduzione del numero dei parlamentari, magari giustificata con la necessità di maggiore e migliore efficienza, da un lato, non è di per sé un attentato alla democrazia, dall’altro, però, esige una apposita legge elettorale di cui non v’è traccia nel disegno (esagero complimentosamente) riformatore delle Cinque Stelle, del governo giallo-verde. Certo è che le critiche dei renziani e di tutti coloro che hanno sostenuto le riforme del loro capo sono semplicemente opportunistiche e inaccettabili. Le riforme delle Cinque Stelle si muovono sullo stesso terreno. Possono essere contrastate, e lo saranno, con le argomentazioni usate dai sostenitori del NO. Questo è esattamente quanto, se diventerà necessario, cercherò di fare, insieme ai moltissimi “partigiani buoni”, nello spazio che riuscirò a conquistarmi. Nel frattempo, mi auguro, senza farmi illusioni, che i produttori seriali di stupidaggini costituzionali imparino qualcosa e cerchino di essere un po’ più originali e attenti alla realtà effettuale (Machiavelli).

Pubblicato il 25 luglio 2019

Cittadini con lo scettro

paradoxaforum

Non ce la raccontiamo. Nei referendum vince chi ottiene più voti. Tutto il resto sono favole, pardon, narrazioni, infondate, anzi, sfondate. Poi, è giusto tornare alla definizione della situazione e del quesito. Già, gli elettori, spesso, valutano anche il quesito. Sembra, quindi, davvero bizzarro sostenere che moltissimi elettori del NO non abbiano avuto come motivazione prevalente, non necessariamente esclusiva, quella di bocciare le riforme brutte e un tantino pericolose, perché concentranti, più o meno surrettiziamente, potere nelle mani dell’esecutivo. Quando poi il capo di quell’esecutivo personalizzava al massimo la sua prolungatissima (alla faccia della riduzione dei costi della politica) campagna referendaria portandola più volte nell’arena del plebiscitarismo, ovvio che moltissimi elettori abbiano deciso di votare contro il plebiscitante per mandarlo a casa.

Il primo dato interessante e, in un certo senso, decisivo viene dall’analisi del voto per fasce d’età. Il governo giovanilistico è stato bocciato dall’81 per cento degli under 34 e sostenuto dal 53 per cento degli over 55 che, forse, sperano di ingraziarselo e di evitare la rottamazione. La verità è, piuttosto, che gli anziani temono l’instabilità politica più dei giovani i quali, probabilmente, hanno pensato che un governo inadeguato, fatto di promesse senza prestazioni, dovesse essere sostituito senza rimpianti.

L’assenza di prestazioni atte a cambiare la loro situazione deve essere state motivante in praticamente tutte le aree del Sud, ad esempio, in Campania: 69 per cento NO; 31 per cento SI’, ossia un esito molto difforme da quello nazionale: 59 e qualcosa NO contro 40 e qualcosa per il SI’ . Evidentemente il governatore De Luca e i suoi seguaci non sono riusciti a reperire abbastanza fritture di pesce da offrire ai loro attuali e potenziali “clienti”. Non vorrei spingermi fino a sostenere, anche se mi piacerebbe, che questo referendum costituzionale potrebbe segnalare l’inizio della fine delle politiche clientelare. Temo, infatti, che, non soltanto in Campania, quei comportamenti facciano la loro ricomparsa nelle prossime elezioni politiche (in attesa di conoscere la nuova legge elettorale).

Quasi sicuramente l’interpretazione del voto più balorda e più partigiana (quella di un partigiano “cattivo” per ricorrere all’indimenticabile distinzione formulata dalla Ministro Boschi) è stata fornita dal sottosegretario Luca Lotti, renzianissmo della prima ora (all’ultima lo aspetteremo). Il Partito Democratico può ripartire dal 40 per cento come se i voti al SI’ fossero stati dati tutti a Renzi ovvero, meglio, al PD di Renzi (PdR). Senza tralasciare che questa interpretazione è una conferma inconsapevole del carattere plebiscitario dato da Renzi alla consultazione referendaria, i dati dicono che quel 40 per cento di voti hanno una provenienza almeno in parte di centro-destra (metà dell’elettorato dell’NCD, più del 20 per cento di Forza Italia, circa il 10 per cento di Lega e Fratelli d’Itali), sostanzialmente elettori che, come ho scritto sopra, hanno deciso di votare le riforme per timore di un effetto negativo sul governo (di cui fanno parte l’NCD e, informalmente, i verdiniani) e timorosi di eventuali gravi conseguenze economiche, naturalmente allarmisticamente esagerate, che non ci sono state. Insomma, il Partito Democratico continua a stare dov’è da parecchio tempo, intorno al 30 per cento o poco più.

Seguendo, da parte mia, molto malvolentieri, i nient’affatto pii, ma deliberatamente manipolatori, desideri di Lotti, il PD non dovrebbe in nessun modo assecondare coloro che, a cominciare da Napolitano (uno dei grandi sconfitti del referendum),vorrebbero cambiare l’Italicum scarnificandolo del premio di maggioranza. Quell’ottima legge elettorale che, secondo il (ex-)Presidente del Consiglio, tutta l’Europa c’invidia e mezza Europa imiterà, verrà invece modificata, se non addirittura cestinata. Al 40 per cento più uno il PD da solo non ci arriva proprio e il ballottaggio con le Cinque Stelle, che hanno portato al NO quasi tutto il loro elettorato, salvo marginalissime defezioni, continua a essere rischiosissimo. E’ difficile, e quasi sicuramente sbagliato, immaginare che il voto politico rifletterà il voto referendario. Altri protagonisti, altre tematiche, altre circostanze: faremmo un gravissimo torto democratico all’elettorato italiano se pensassimo che non valuta la posta in gioco. Il 4 dicembre ha saputo farlo, molto bene, affluendo alle urne con intenzione e convinzione. La vittoria è sua.

Pubblicato il 6 dicembre 2016 su ParadoXaforum

Non credo al voto di protesta. Ha vinto la passione politica

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Intervista raccolta da Francesco Grignetti per La Stampa

GP

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, a 74 anni s’è impegnato a fondo nella campagna referendaria per il No. Su questo risultato ci contava. Anche lui, però, è rimasto sorpreso dal record di affluenza. “Da Sciacca a Pordenone, ad ogni iniziativa trovavo sempre più gente. Che ci fosse molta voglia di capire, era evidente. Ma non mi aspettavo neppure io una partecipazione così straordinaria“.

Che cosa è accaduto, la gente ha riscoperto il valore della Costituzione?

No, il voto è stato essenzialmente politico dopo che il presidente del Consiglio ha gettato sul piatto la sua carica e anche il suo ruolo di ispiratore di questa riforma, che io ritenevo sbagliata. Gli italiani a quel punto hanno reagito alla doppia sfida: chi perché gli era contrario politicamente, chi perché non voleva che modificasse a quel modo la Costituzione.

Dietro l’alta partecipazione c’è dunque una somma di ragioni?

Su tutte, la chiave politica. Molti hanno votato per sostenere questo governo e molti altri per farlo cadere. Chi era contro, si sa. Ma c’è stato anche un elettorato del Pd, specie dell’ex Margherita, che si è mobilitato a difesa. Mi spiego così i numeri altissimi del voto in Trentino, Toscana, Emilia Romagna, come anche il record di Firenze.

E quanto ha inciso la difesa della Costituzione?

Ha giocato un ruolo. Io non ho condiviso certi allarmi sul rischio di una deriva autoritaria. È indubbio, però, che in parte dell’elettorato questo timore c’era. E comunque il segno generale di questa riforma, dall’abolizione delle Province al principio di supremazia dello Stato sulle Regioni (un principio che aveva irritato moltissimo in Veneto, per dire, dove sono gelosi della loro autonomia), a un Senato residuale e di consiglieri regionali, ecco questo segno generale era la compressione degli spazi elettivi. A quest’impostazione gli italiani hanno detto no. Nel voto, c’è chi legge soprattutto il disagio sociale. Ci credo poco. L’alta partecipazione ci dice altro, una fortissima voglia di partecipazione.

Altro che fuga dalla politica.

Assolutamente. Se prendiamo l’affluenza misera alle Regionali dell’Emilia-Romagna nel 2014, scesa al 37%, non possiamo certo tirare la conclusione che gii emiliani e i romagnoli siano diventati indifferenti alla politica. Quel voto era un astensionismo di protesta, tutto qui. E infatti, con il 75,9% di domenica, le percentuali tornano a livello delle Politiche del 2013, che in Emilia Romagna videro votare l’82% degli elettori.

Professore, detto di questa voglia di partecipazione, certo non fuga dalla politica, che cosa si aspetta dalle prossime elezioni politiche? Alti o bassi numeri di affluenza?

Se avremo una legge elettorale che permette all’elettore di esprimersi pienamente, se non ci saranno liste bloccate che mortificano le scelte, mi aspetto la solita Italia appassionata. E se avremo davanti un anno politico decente, prevedendo un testa a testa tra il Pd e il M5S, mi aspetto una fortissima mobilitazione dei rispettivi elettorati, che soprattutto non vorranno far vincere l’avversario.

Pubblicato il 6 dicembre 2016

Non perdiamoci di vista

Donne e uomini, cittadine e cittadini, partigiani “buoni” e sindacalisti vigorosi, professori/esse di istituti superiori e studenti/esse che mi avete invitato e ascoltato a

Vicenza (ANPI), Massa (Giovani universitari), Bologna (centro Sociale Costa), Reggio Emilia (Possibile), Galliera (BO), Castelfranco Emilia (ANPI), Bologna (ACLI-DeGasperi), Reggio EMILIA , Cremona, Casalmaggiore, Montecavolo (RE), Sciacca, Potenza, Napoli, Mestre, Viadana, Ficarolo, Guastalla, Filo d’Argenta, Pescantina (VR), Ozzano nell’Emilia (BO), Calci (PI), Lamporecchio, Larciano, Imola, Treviglio, Zola Predosa, San Lazzaro (BO), Cavriago, Pisa, Ferrara, Vigarano Mainarda, Forlì, Medolla, Vittorio Veneto, Vicenza, Bologna (Possibile), Cesena, San Giovanni in Persiceto,Modena (ANPI) e Modena (Confindustria), Parma, Padova, Milano (1, 2, 3), Maranello, Crevalcore, Bologna (Sinistra per il Sì), Ferrara (ANPI), Rimini, Rovereto, Vergato (BO), Senigallia, Ancona, San Giorgio a Liri (FR), Pordenone …

Grazie.

Un grande lungo affettuoso abbraccio collettivo. Non perdiamoci di vista.

 

NO positivo a riforme confuse e sbagliate

Le Costituzioni migliori, come l’italiana, danno regole, procedure, istituzioni che servono al funzionamento del sistema politico. Qualsiasi riforma costituzionale ha senso se mira a migliorare il sistema politico e si giustifica se riesce a farlo. E’ molto improbabile che le riforme Renzi-Boschi conseguano questo obiettivo. Il pacchetto di riforme sul quale gli italiani sono chiamati a votare il 4 dicembre è disorganico, contingente, senza visione. E’ criticabile quello che c’è. E’ preoccupante quello che non c’è. La parola d’ordine utilizzata da Renzi è governabilità, ma sono pochi gli italiani insoddisfatti perché non si sentono “governati”. La maggioranza di noi si sente poco e male rappresentato. Togliere il voto di fiducia al Senato, farlo eleggere dai consiglieri regionali, in conformità con “le scelte espresse dagli elettori”, fra i consiglieri in carica e i sindaci della Regione, attribuirgli poche competenze legislative e qualche potere di richiamo delle leggi approvate dalla Camera dei Deputati significa togliere rappresentanza ai cittadini. Il bicameralismo paritario può essere differenziato, preferibilmente non con motivazioni antipolitiche: “tagliare i politici” e “ridurre i costi”, ma il sistema non funzionerà automaticamente meglio. I nuovi Senatori dovranno svolgere compiti gravosi – l’elaborazione delle importantissime politiche europee e la valutazione delle politiche pubbliche- per i quali non sono preparati e che richiederanno moltissimo del loro tempo in una difficile combinazione con la loro attività nelle regioni e nei comuni. Saggiamente, già alcuni sindaci di città importanti hanno dichiarato di non essere interessati a diventare Senatori. Curiosamente, mentre si crea un Senato delle Regioni apparentemente per dare rappresentanza e influenza alle regioni, la riforma del Titolo V della Costituzione, non soltanto sottrae molti poteri legislativi alle regioni stesse, ma codifica la clausola di supremazia statale: lo Stato potrà intervenire praticamente ogni volta che non gradisce le politiche di qualche regione. Tutto questo aprirà la strada a frequenti conflitti che la Corte Costituzionale dovrà dirimere.

Si poteva fare diversamente e meglio imitando il molto ben funzionante Bundesrat tedesco che non soltanto ha un minor numero di componenti, 69 (costi più contenuti), ma che rappresenta davvero ciascun Land, essendo espressione della maggioranza che ha vinto le elezioni, e che, all’occorrenza, costituisce un contrappeso al potere del governo. Congiuntamente, la riforma del Senato e la nuova ripartizione delle competenze fra Stato e regioni dimostrano che, da un lato, Renzi e Boschi non hanno un’idea chiara di quale modello di Stato è migliore per l’Italia, dall’altro, che hanno deciso di comprimere il ruolo del Parlamento. E’ una compressione necessaria per produrre più leggi più rapidamente? Tutti i dati disponibili rivelano che il parlamento bicamerale italiano mediamente produce più leggi in tempi inferiori a quelli di altri parlamenti bicamerali differenziati (Francia, Germania, Gran Bretagna). Acconsente alle leggi volute dal governo: più dell’80 per cento delle leggi approvate sono di origine governativa. Nella riforma non c’è nessuna indicazione sulla delegificazione. Si ampliano gli spazi legislativi del governo: corsie preferenziali e tempi certi per il voto sui decreti (che significherà, data la maggioranza artificialmente costruita dal premio in seggi dell’Italicum, sicura approvazione), si concede uno “statuto dell’opposizione” che, incredibilmente, sarà sostanzialmente definito dalla maggioranza.

E’ molto dubbio che saranno i cittadini ad acquisire qualche potere nei confronti del Parlamento e del governo con la nuova regolamentazione dei referendum e dell’iniziativa legislativa popolare. Il referendum abrogativo avrà abbassato il quorum di validità con riferimento alla percentuale di votanti nelle precedenti elezioni politiche, ma soltanto se richiesto da 800 mila elettori, cifra difficilissima da raggiungere per i cittadini, conseguibile quasi esclusivamente dalle grandi organizzazioni, sindacati e, forse, partiti. Se accompagnato da 150 mila firme, il testo di una proposta legislativa popolare dovrà essere discusso e votato dal Parlamento, ma non esiste nessuna “sanzione” per un voto di rigetto. Si doveva prevedere che quegli stessi cittadini, magari raccogliendo più firme, ottenessero di sottoporre il loro testo a referendum popolare. Che il potenziamento della voce dei cittadini non è affatto centrale nelle riforme Renzi-Boschi lo si nota dal suo non apparire nel testo del quesito referendario. Infine, quello che non c’è, ma surrettiziamente potrebbe sbucare. Poiché governabilità significa anche capacità di governo favorita dalla stabilità di quel governo, sarebbe stato utile individuare meccanismi di stabilizzazione di cui, peraltro, il governo Renzi non ha bisogno essendo già giunto oltre i mille giorni di durata. Era possibile semplicemente importare il voto di sfiducia costruttivo tedesco, già acquisito con successo dagli spagnoli. Per sostituire un governo bisogna sconfiggerlo in Parlamento a maggioranza assoluta la quale entro quarantotto ore dovrà dare la fiducia a un nuovo governo: potente deterrente di qualsiasi crisi al buio. Non se n’è neppure parlato poiché Renzi affida durata e forza del suo governo alla legge elettorale e al cospicuo premio in seggi.

I sostenitori del NO credono che le riforme fatte, confuse e episodiche, non siano “meglio che niente”. Al contrario, creando incertezza, tensioni e conflitti, peggioreranno l’esistente. La vittoria del NO non significa affatto “ritorno al passato”, ma mantenimento della Costituzione esistente e, se tutti abbiamo imparato qualcosa (esistono non pochi punti di convergenza, anche la possibilità di fare rapidamente alcune riforme necessarie e condivise.

Pubblicato AGL il 2 dicembre 2016

Serve un No Positivo 14ottobre ore 21 a Guastalla #ReggioEmilia

Per una buona riforma. Per migliorare la qualità della politica e della vita

NO POSITIVO

14 ottobre ore 21

Centro sociale 1° Maggio

viale Di Vittorio 2/A

Guastalla 

guastalla

NO positivo Per la Costituzione Per buone riforme Per migliorare la politica e la vita

NO positivo Per la Costituzione Per buone riforme Per migliorare la politica e la vita (edizioni epoké)

NO positivo Per la Costituzione Per buone riforme Per migliorare la politica e la vita (edizioni epoké)

indice

indice-2

 

edizioni epoké 2016

INTRODUZIONE
Storia, memoria, Scienza Politica, Costituzione

Da più parti mi hanno detto che, finito il persino troppo lungo intervallo nel quale molti si vantavano delle riforme del governo o le deprecavano soltanto in base alla loro posizione/preferenza politica, è diventato possibile cominciare una vigorosa discussione sul merito delle riforme. D’altronde, è da sempre che noi italiani siamo famosi per discutere pragmaticamente su fatti e cifre, non fumosamente su cosiddetti pii desideri e complotti immaginari. Ha cominciato Matteo Renzi a dire che queste non sono le sue riforme. Ha chiarito che le riforme sono sue e di Giorgio Napolitano. Il messaggio non è ancora giunto al Ministro Boschi che sostiene che queste sono le riforme del governo approvate dopo faticose discussioni dal Parlamento, ma criticate da coloro, oscurantisti che vengono dal Medioevo, che non rispettano il lavoro del Parlamento e che vorrebbero addirittura farle cadere con il referendum, lo strumento opportunamente previsto dai Costituenti affinché i cittadini valutino l’operato del Parlamento. Neanche questa, però, sembra essere lontanamente una critica sul merito. Inoltre, al Ministro sfugge la differenza, non proprio marginale, che non è stato il Parlamento in quanto tale a fare le riforme, ma una maggioranza neanche troppo convinta di sé.

Sempre fuori merito e anche fuori misura sono arrivati tre diversamente noti sostenitori del “sì”. È arrivata la bordata, assolutamente sul merito, dell’economista Salvati, «chi vota contro le riforme vota contro il paese». Questa meritoria posizione era stata anticipata dal filosofo Massimo Cacciari che voterà sì anche se le riforme non gli piacciono, motivato da «sensibilità repubblicana». Almeno temporaneamente al coro possente di questi sì derivanti da pensose riflessioni sul merito si è accodato il sociologo Arturo Parisi. Voterà sì perché quelle del Renzi e della Boschi sono le riforme dell’Ulivo, meglio le riforme che l’Ulivo non ha fatto e, per quel che si ricorda, che nessuno degli ulivisti ha effettivamente provato a fare. Anzi, gli ultimi rimasti fra i dalemiani potrebbero persino sostenere che Prodi e i suoi collaboratori non furono certo i più agguerriti sostenitori della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali (1997-1998).

La memoria degli italiani non è mai lunga tranne quando si tratta di regolare dei conti. La conoscenza della storia, neppure di quella recente, non è mai approfondita. In questo piccolo libro ho raccolto articoli scritti nell’arco di sei mesi, pubblicati in sedi diverse, che ringrazio, che mirano a sollecitare la memoria anche rammentando, in maniera non pedante, un po’ di storia. Non intendo certo scrivere la mia storia di “riformatore istituzionale”, ma neanche cancellarla e fare finta che sono un parvenu. Al contrario, sono orgoglioso di ricordare una traiettoria coerente che va da Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale (Laterza 1985), passa attraverso Le istituzioni di Arlecchino (Napoli, ScriptaWeb, 2008, 5° ed.) e approda temporaneamente a Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Egea-UniBocconi 2015). Molto, come si conviene ad un dibattito sul merito, che personalmente ho preso molto sul serio, si trova lì.

Qui, invece, gli articoli raccolti si situano sul piano della critica, anche della polemica, politica, augurabilmente utile, talvolta più che doverosa, mai dimentica di quello che ho imparato e che, come studioso di scienza politica, posso orgogliosamente affermare di sapere. Aggiungo e chiudo che il sapere della scienza politica, come ha ripetutamente scritto Giovanni Sartori, è un sapere applicabile. Facendo tesoro di questo insegnamento che, purtroppo nella scienza politica italiana è stato recepito poco e molto male, non ho rinunciato, tutte le volte che mi pareva potesse servire, a introdurre e spiegare le alternative praticabili alle riforme del governo e del Partito Democratico. Con l’immobilismo istituzionale il mio “no” non ha proprio nulla a che vedere. È un “no” a riforme da cancellare per fare riforme buone che migliorano il funzionamento del sistema politico italiano e, con un po’ di sana retorica, anche la vita, non dei governanti e rappresentanti, non della classe politica, ma dei miei concittadini.

Bologna, un giorno del tranquillo agosto 2016

Il Ministro dell’Agricoltura Martina e le colture politiche

La terza Repubblica

L’allungarsi della campagna referendaria rischia di logorare i sostenitori del sì che ne hanno già dette di cotte e di crude e che, per fare punti agli occhi di Renzi (e Lotti), sono costretti ad inventarsi un po’ di tutto. In verità, che la riforma non è “la più bella”, non c’era proprio bisogno che ce lo dicesse il ministro Maurizio Martina (Corriere della Sera, 5 settembre, p. 13). Sarebbe stato preferibile che ci spiegasse perché è “la più utile”. Quali “più utili” obiettivi conseguirebbe? La semplificazione legislativa sicuramente no, visto che sarebbero almeno tre o quattro i procedimenti legislativi, invece di uno, quello attuale che, forse Martina non lo sa, consente al bicameralismo italiano di fare più leggi degli altri bicameralismi europei e al governo di ottenere, in un modo, i decreti, o nell’altro, la fiducia, quello che vuole, persino nei tempi che vuole, a condizione che sappia cosa vuole e entro quando. Per documentazione, Martina potrebbe rivolgersi agli uffici della Camera che hanno pubblicato un prezioso libretto, Insomma, sul merito Martina dice poco di nuovo e quel poco continua a essere sbagliato. Poi, però, seguendo una moda inaugurata, voglio farle onore, dal Ministro Boschi, ci dà qualche lezione di storia costituzionale.

I sostenitori del sì hanno tirato in ballo sia i Costituenti, che volevano cambiare il bicameralismo prima ancora di approvarlo oppure un minuto dopo la sua approvazione. Gli Atti della Costituenti non danno grande sostegno a queste fantasiose tesi mettendo, piuttosto, in rilievo che, inevitabilmente, nessuno dei Costituenti vinceva sempre. Poi sono stati chiamati in causa i comunisti: Enrico Berlinguer, Nilde Iotti, Pietro Ingrao, tutti impertinenti sostenitori ante litteram della riforma fatta da questo governo, ma non dagli esponenti di sinistra, altrimenti non si capirebbe perché il Comitato di Martina si chiami “Sinistra per il Sì”. Nessuno dei tre dirigenti del PCI può difendersi, ma come si fa a pensare che: 1) l’abolizione del bicameralismo abbia qualche attinenza con la riforma Renzi-Boschi?; come si fa a credere che 2) avendo tutt’e tre in maniera diversa espresso l’opinione che il bicameralismo italiano poteva essere riformato l’avrebbero fatto, qui sta, enorme, il discorso/confronto sul merito, allo stesso modo di quel che ha fatto il governo attuale? Infatti, punto che sfugge a tutti i sostenitori del sì, Berlinguer, Iotti e, soprattutto, Ingrao avrebbero guardato al contesto. Non avrebbero fatto riforme spezzatino.

In via di principio, poiché, bontà sua, afferma che “studiare la storia ha sempre senso”, Martina dovrebbe essere d’accordo sulla rilevanza del contesto. Avendola presumibilmente studiata, sostiene che “il passaggio fondamentale che abbiamo davanti ci spinge a rivedere cosa dicevano i costituenti, le grandi culture politiche del passato, Dossetti, Calamandrei” . Qualcuno più purista di me si chiederebbe se, oltre ai due citati, che rappresentano l’uno la cultura del cattolicesimo democratico, l’altro quella dell’azionismo liberale, la “Sinistra per il Sì” non dovesse citare, per esempio, il socialista di sinistra Lelio Basso e anche alcuni di quegli estremisti “costituzionali” dei comunisti. Però, il quesito lancinante è: dovremmo andare adesso subito a rivedere che cosa hanno detto quei Costituenti, a re-interpretare quelle culture politiche e costituzionali? Non era il caso di farlo prima di scrivere le riforme? Comunque, ci sono fior fiore di studiosi, per rimanere agli esempi citati da Martina, che potrebbero dirci senz’ombra di dubbio che cosa hanno fatto Dossetti e Calamandrei e quali metri di giudizio applicherebbero alle riforme renzian-boschiane. Quanto alle culture politiche, sarebbe interessante ascoltare da Martina, quando si rialza dallo studio della storia, qual’è la cultura politica istituzionale moderna che sorregge, uhm, meglio puntella, le riforme sottoposte a referendum. Quali sono i sistemi politici con i quali l’Italia dovrebbe confrontarsi, quali sono gli autori di riferimento, ad esempio, sulla democrazia deliberativa, sul ruolo delle autonomie, sui compiti e sui poteri dei cittadini: John Rawls (una teoria della giustizia), Ronald Dworkin (i diritti presi sul serio), Jürgen Habermas (il patriottismo costituzionale), Jon Elster (lo studio delle costituzioni e delle società) oppure Woody Allen di “Provaci ancora Sam”?

Pubblicato il 6 settembre 2016 su La Terza Repubblica

Galeotto è il Centotrentotto. Referendum o plebiscito? Risponde Gianfranco Pasquino

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Professor Pasquino, lei ha provocato un confronto intenso e aspro con un tweet in cui sostiene che il referendum costituzionale che Renzi ha ribadito di volere chiedere è in realtà un plebiscito. Vuole spiegare la differenza che a molti, evidentemente, sfugge?

Secondo l’art. 138 il referendum su modifiche costituzionali può, non deve, essere richiesto da un quinto dei parlamentari oppure da cinque consigli regionali oppure da 500 mila elettori. Non può essere chiesto se in seconda lettura le due Camere hanno approvato le modifiche con la maggioranza dei due terzi. Di governo non si parla. I governi e i loro capi non chiedono il referendum che, incidentalmente, non deve essere definito “confermativo”, ma “oppositivo”. Infatti, l’aspettativa dei Costituenti era che si attivassero essenzialmente gli oppositori delle modifiche. Invece, sia il Ministro Boschi sia il capo del governo Renzi hanno ripetutamente rassicurato o minacciato che alla fine del percorso chiederanno il referendum. Da ultimo, nella conferenza stampa di fine d’anno, Renzi ha detto chiaramente che se perdesse se ne andrebbe. Dunque, chiede un plebiscito ‘sì’-‘no’ praticamente sulla sua persona.

Le è stato obiettato che anche in passato alcuni referendum, quello sul divorzio 1974 e quella sulla scala mobile 1985, finirono sostanzialmente per diventare plebisciti, ovvero giudizi su persone, rispettivamente Fanfani e Craxi.

Obiezione sbagliata sul metodo e sul merito. Infatti, non furono né Fanfani né Craxi a chiedere i referendum, ma, nel primo caso, milioni di cattolici e, nel secondo caso, il PCI di Berlinguer e buona parte della CGIL. Inoltre, in gioco erano due leggi ordinarie da abrogare. Fra l’altro, la legge per regolamentare il referendum fu il prodotto di uno scambio alla luce del sole, pardon, del Parlamento. La vollero i democristiani che non fecero ostruzionismo contro l’approvazione del divorzio. Infine, Fanfani non era capo del governo né quando il divorzio fu approvato né quando si tenne la campagna referendaria alla quale partecipò attivamente con grande gusto. L’inutile referendum voluto dal centro-sinistra nel 2001, che già allora criticai frontalmente, costituisce un pessimo precedente, ma almeno non era in gioco nessuna carriera personale. Non fu un plebiscito, ma una grossa stupidaggine costituzionale e un brutto precedente da non ripetere. C’è, poi, anche un’altra ragione per opporsi al referendum renziano.

Un’altra ragione? Quale?

Sono sempre disposto a pagare i costi della democrazia, ma alcuni referendum sono davvero inutili e dispendiosi, non soltanto quanto al costo della loro organizzazione, ma anche in termini di energie e di tempo politicamente meglio utilizzabile. Chi giustifica la riforma del Senato anche perché si risparmieranno dei soldi, ne vuole buttare una barca con un solo reale obiettivo: rafforzare la sua traballante popolarità? Se saranno le opposizioni, come è loro facoltà costituzionale, a chiedere il referendum contro le riforme renziane, valuterò le argomentazioni oppositive, ma vorrò ascoltare anche le loro motivazioni a favore di riforme necessarie, ma migliori.

Insomma si può sapere perché i Costituenti introdussero il referendum costituzionale e a quali condizioni?

Contrariamente ad alcuni uomini e donne politiche di recente conio, i Costituenti ritenevano: primo, di non essere infallibili e, secondo, che le trasformazioni della società e del sistema politico avrebbero potuto rendere necessarie alcune modifiche della Costituzione. Una parte dei parlamentari, per l’appunto, un quinto (frazione facilmente conseguibile dall’opposizione); cinque consigli regionali magari perché schiacciati da un ritorno sotto varie forme al centralismo; 500 mila elettori interessati, informati, partecipanti, organizzati in associazioni, dovevano essere autorizzati ad opporsi a quanto una maggioranza parlamentare aveva (mal)fatto. Se, però, la maggioranza che aveva approvato le modifiche era addirittura dei due terzi, allora, pensarono i Costituenti, non bisognava tenere nessun referendum. Il rischio, che i Costituenti giustamente paventavano, a maggior ragione in un paese nel quale, anche oggi (come si è purtroppo ascoltato nelle male indirizzate critiche al Parlamento che non eleggeva i giudici costituzionali, mentre responsabili erano i capi partito e i capi gruppo della maggioranza) l’antiparlamentarismo è vivo, vitale e vivace, era di una contrapposizione fra Parlamento e popolo con la possibile delegittimazione del Parlamento.

Lo si sente accennare sommessamente, ma è vero che i referendum su materie tanto importanti come le modifiche costituzionali non hanno quorum ovvero per essere validi non richiedono che vada a votare la maggioranza assoluta dei cittadini?

Proprio così, ed è un’altra perla di saggezza dei Costituenti. Non è giusto che coloro che non sono interessati alle modifiche sottoposte al referendum (lasciamo da parte le motivazioni fra le quali comunque c’è sempre una buona dose di apatia) rendano nullo il referendum consentendo che le modifiche restino anche se, faccio un esempio estremo, ha votato il 48 per cento degli elettori e il 40 per cento si è espresso contro. I Costituenti decisero che dovevano contarsi e contare oppositori e sostenitori, vale a dire coloro che sono interessati alle riforme e informati su quanto fatto. Spetta agli oppositori fare opera di informazione e mobilitazione, se vogliono vincere. Ecco perché credo che l’aggettivo più corretto per definire il referendum costituzionale è “oppositivo”.

Situazione brutta e ingarbugliata anche a causa dell’annunciata fuoriuscita di Renzi, se sconfitto. Come se ne esce, professor Pasquino?

Se ne esce applicando la Costituzione. Il capo del governo smette di fare lo sprezzante e di minacciare. Coloro che non vogliono le riforme costituzionali Renzi-Boschi si contano in Parlamento e eventualmente si danno da fare raccogliendo le firme. Magari ne approfittano anche per spiegare, sperando che ne siano capaci e che i mass media non combinino pasticci confezionando talkshow tipo marmellate, il significato di quelle brutte riforme e argomentando le alternative possibili una delle quali non è stare fermi, ma fare riforme migliori.

A.A.

Intervista pubblicata il 4 Gennaio 2016

Le pentole e i coperchi dell’Italicum

La secca dichiarazione del Ministro Boschi: “il testo dell’Italicum è corretto e funziona, non c’è la necessità di modifiche” chiude, forse, la parta in faccia anche alle minoranze dialoganti del PD. Non è dato sapere su quali elementi il Ministro basi le sue certezze di “correttezza” e di funzionalità dell’Italicum. Sappiamo, invece, che altri esponenti, altrettanto renziani della Boschi, sostengono una tesi meno perentoria: “nelle condizioni date, l’Italicum è la migliore legge possibile”.

Non è chiaro in base a quali criteri, l’Italicum sia considerato migliore di altre leggi elettorali che le democrazie parlamentari europee hanno da tempo e che si tengono senza nessuna nervosa preoccupazione. Inoltre, è lecito osservare che i riformatori veri sono coloro che non accettano le condizioni date, di qualsiasi tipo siano, ma cercano proprio di creare condizioni migliori. Incidentalmente, le condizioni per una buona riforma sono cresciute nel corso del tempo da quando l’altro contraente del patto del Nazareno, ovvero Silvio Berlusconi, ha perso qualsiasi capacità di condizionamento delle riforme. Tuttavia, nell’Italicum è rimasto un elemento per lui di grandissimo interesse: la possibilità di nominare i suoi prossimi parlamentari poiché Forza Italia non riuscirà a eleggere nessuno in aggiunta ai capilista “bloccati”.

La minoranza del PD ha fatto due conti, o forse qualcuno in più, e si è resa tristemente “conto” che: 1) Renzi nominerà tutti i capilista bloccati, che saranno una falange di 100 (tante sono le circoscrizioni) combattenti per lui e con lui; 2) se non saranno concesse le preferenze, e la Ministra Boschi ha espresso il suo parere negativo, Renzi deciderà anche la graduatoria dei candidati in ciascuna circoscrizione. Potrà, di conseguenza, procedere ad una sorta di paventatissima “pulizia etnica”. Naturalmente, Renzi sarà in grado di mostrare un po’ di generosità non rottamando qualche leader particolarmente visibile, ma l’esito dell’Italicum nella sua struttura attuale è che il PD diventerà davvero e del tutto il Partito Di Renzi. Un’eventuale scissione indebolirà solo marginalmente il PD. Non gli impedirà sicuramente di rimanere il partito più grande dello schieramento attuale. Non lo priverà della vittoria al ballottaggio contro, se i numeri dei sondaggi non sono (e non lo sono) un’opinione, il Movimento Cinque Stelle.

Come tutti i casi precedenti di scissioni nella sinistra italiana, dal PSDI nel 1947 allo PSIUP nel 1964 a Rifondazione Comunista nel 1991, potrà forse fare la sua comparsa un partitino delle minoranze, in una deriva che lo porterà nei pressi della Coalizione sociale di Landini, ma non avrà nessuna influenza sul governo guidato Renzi, sulle sue politiche, sulla sua capacità operativa. Infatti, il premio di maggioranza darà a Renzi tutto il potere che vuole e, fatto non marginale, indebolirà tutti i partiti di opposizione nel centro-destra consegnando il ruolo di alfiere di un’altra politica alle Cinque, incattivite, Stelle.

I riformatori renziani sembrano anche un po’ troppo sicuri che la riforma del Senato giungerà in porto nonostante i dissensi nel PD che dall’Italicum finiranno per trasferirsi anche sulla struttura, sui poteri e soprattutto sulle modalità di selezione dei prossimi Senatori. Forse peccano di presunzione; forse pensano che le minoranze del PD non saranno abbastanza coordinate e coese, come ha suggerito loro, finora inascoltato, D’Alema. Forse, hanno un piano per accontentarne alcune con promesse a futura memoria dei molti seggi che il premio di maggioranza renderà disponibili. Sì, la politica, senza farne troppo scandalo, è anche questo. Non è neppure uno scandalo formulare e difendere una legge elettorale brutta, sicuramente la peggiore nel panorama delle democrazie europee. Però, con buona pace dei renziani e di quelli che si sono fatti abbindolare dalla narrazione del Presidente del Consiglio, le riforme brutte, tagliate su misura di due contraenti, Renzi e Berlusconi, senza tenere conto del loro impatto sistemico, sono un errore. Rischiano di durare poco, come il Porcellum, predecessore dell’Italicum. Qualcuno potrebbe anche concluderne con un proverbio azzeccato: “il diavolo fa le pentole, non i coperchi”.

Pubblicato AGL 14 aprile 2015