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Meglio non sballottare il voto francese @formichenews

Sconsiglio gli esercizi di comparazione con la situazione italiana fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno, e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Le notizie su Emmanuel Macron “sorpassato” da Marine Le Pen si sono rivelate largamente esagerate, cioè sbagliate. Le già non elevate probabilità che il Rassemblement National, almeno apparentemente diventato meno sovranista e anti-Unione Europea, riesca a portare all’Eliseo la sua leader sono chiaramente diminuite. I numeri, direbbero i francesi, cantano. Possiamo ascoltare più di una canzone. La prima è rimasta sottovoce. Quando vanno a votare quasi il 75 per cento dei francesi, tre su quattro, intonare la ripetitiva melodia sull’aumento dell’astensionismo significa, chiaramente, “steccare”. Dopodiché, ovviamente, al ballottaggio la partecipazione elettorale diminuirà poiché un certo numero di francesi, avendo perso il loro candidato/a preferito/a si asterrà- Macron/Le Pen? ça m’est égal! La seconda canzone viene proprio dai numeri. Nel pur molto affollato campo dei concorrenti il Presidente Macron aumenta i suoi voti di quasi un milione rispetto al 2017, mentre l’aumento di Marine Le Pen è di circa 500 mila. A sua volta anche Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto mezzo milione di voti in più rispetto a cinque anni fa. Tutti gli altri candidati, a cominciare dal destro Eric Zemmour, sono chiaramente perdenti, talvolta come la repubblicana gollista Pécresse e la socialista Hidalgo, in maniera umiliante più che imbarazzante.

   Registrato il non troppo ammirevole affanno con il quale i commentatori italiani tentano di trarre qualche lezione francese, risulta opportuno segnalare che domenica 10 aprile si è svolto il primo turno dell’elezione popolare diretta in una repubblica semi-presidenziale. Gli elettori hanno votato, come sanno gli studiosi, in maniera “sincera”, senza nessun calcolo specifico scegliendo il candidato/a preferito/a. Al ballottaggio, invece, una parte tutt’altro che piccola di loro, addirittura quasi la metà, sarà costretta a votare “strategicamente”, in buona misura contro il candidato/a meno sgradito/a. Rimanendo nel campo musicale, il “là” lo ha già dato Mélenchon: “mai la destra”. Naturalmente, nient’affatto tutti i suoi 7 milioni e seicentomila elettori torneranno alle urne. Tuttavia, è molto improbabile che coloro che lo hanno votato perché “anti-sistema” ritengano gradevole che il sistema venga fatto cadere sotto i colpi della destra lepenista.

   Non c’è quasi nulla di cui le destre italiane abbiano di che rallegrarsi. Certamente, Meloni potrebbe sostenere che con il presidenzialismo, che i suoi titubanti alleandi (Salvini e Bersluconi) non le hanno sostenuto, la sua leadership apparirebbe molto visibile (ma poi improbabilmente vincente). Non so quanto Fratoianni, sicuro anti-semipresidenzialista, voglia e possa godersi il voto conquistato da Mélenchon. Sono sicuro che Letta può tirare un sospiro di sollievo, ma saggiamente sa che, guardando oltre il ballottaggio, conteranno i voti per le elezioni legislative francesi che con molta probabilità confermeranno una maggioranza operativa per un vittorioso Macron.

In conclusione, tuttavia, sconsiglio questi esercizi di comparazione fino all’esito del secondo turno delle legislative, 19 giugno (che, forse, Formiche mi inviterà a commentare) e ancora più fortemente scoraggerei chiunque dal trarne indicazioni sulla stabilità e la durata del governo Draghi. “Mogli e voti di casa tua” (antico detto provenzale).

Pubblicato il 11 aprile 2022 su Formiche.net

Francia, Pasquino: “Rivincerà Macron. Boom antipolitico? Fa bene a Fratoianni” #intervista @Affaritaliani

Intervista al professore emerito di Scienza politica: “Se ci saranno scossoni per il governo, non verranno certo dalla Francia” di Paola Alagia

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica: “Nessuna influenza sui partiti di destra in Italia perché Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”

I francesi hanno archiviato il primo turno delle presidenziali. L’esito della sfida tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen è rimandato ai ballottaggi tra due settimane. E’ vero che l’attuale inquilino dell’Eliseo è in vantaggio, ma è altrettanto evidente che il consenso raccolto dal fronte dei partiti antisistema, da Le Pen all’estrema destra di Eric Zemmour, alla sinistra di Jean-Luc Mélenchon, sommati agli altri meno rappresentativi, ha superato la soglia del 50%. Quanto basta, soprattutto dopo la vittoria di Orban in Ungheria, per ringalluzzire i partiti di destra in Italia, a cominciare dalla Lega di Salvini? Affaritaliani.it lo ha chiesto a Gianfranco Pasquino. Il professore emerito di Scienza politica non ha dubbi al riguardo: “Nessuna influenza perché sostanzialmente Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”.

Professore, la partita comunque rimane aperta e il dato dell’elettorato antisistema significherà qualcosa. Che ne pensa?
E invece no. La partita non è aperta. È assolutamente poco aperta, direi quasi chiusa. A favore di Macron.

Spostiamoci in Italia. Lei, dunque, guardando al governo Draghi escluderebbe fibrillazioni come riflesso del voto francese? Mi riferisco alla tentazione del voto per esempio da parte della Lega che potrebbe portare Salvini ad abbandonare la maggioranza.
Non possiamo trascurare un elemento saliente e cioè che l’elettore è sufficientemente intelligente da capire che vota per il Parlamento italiano e quindi guarda i dati francesi con sufficienza. Da noi i cittadini, questo sì, sarebbero molto più preoccupati se Le Pen fosse in testa e Zemmour fosse andato molto bene. Comunque, i voti francesi sono francesi, punto. E quando voteremo a febbraio-marzo del 2023 saranno ampiamenti dimenticati.

Conclusione: nessuno scossone. E’ così?
Gli scossoni non vengono dalla Francia. Se ci saranno è perché ce li daremo noi da soli.

Soffermiamoci un attimo su Giorgia Meloni e Marine Le Pen. E’ vero che la leader di FdI non ha voluto un gruppo unico con quello di Salvini e Le Pen. Tuttavia, c’è qualche similitudine nella parabole di queste due donne?
La prima similitudine è appunto che sono due donne, la seconda è che sono due donne di destra che si sono fatte in qualche modo da sé, anche se Le Pen ha avuto un vantaggio, suo padre, rispetto a Giorgia Meloni. Dopodiché rappresentano due tipi di nazionalismo, ma quello francese è sempre stato molto aggressivo. A eccezione dell’aggressività ai tempi del fascismo, invece, Meloni ha saputo distaccarsene, ha usato anche le parole giuste, patriota invece che nazionalista. E comunque poi a fare la differenza è il sistema elettorale: nella Repubblica semipresidenziale francese, infatti, Le Pen convoglia i consensi su di sé.

Nel campo del centrosinistra italiano, da un lato c’è il segretario del Pd Enrico Letta che ha parlato apertamente di rischio terremoto per l’Europa e impatto sull’Italia, in caso di vittoria di Marine Le Pen. Dall’altro c’è il leader del M5s Giuseppe Conte che, invece, al netto delle differenti visioni ha sottolineato la vicinanza rispetto ad alcuni temi posti. Cosa raccontano queste sfumature?
Conte non conosce abbastanza la politica e quindi quando si esprime su argomenti che non conosce dice cose che sono sbagliate. Tutto qui.

E’ vero pure che la questione del potere d’acquisto è sentita anche in Italia. Così come è abbastanza conclamata una distanza tra i partiti di sinistra e il loro storico elettorato, non le pare?
La sinistra che non ottiene i consensi a sinistra? Non lo so. Qui il problema è a monte: dovremmo definire bene cosa sia la sinistra. Quali sono i suoi temi? Le classi popolari non hanno solo problemi economici, ma anche culturali, a cominciare dall’accoglienza, che prescinde da quella dei profughi ucraini. Una questione, appunto, che la sinistra ha affrontato malamente. C’è un multiculturalismo inadeguato e questo ha allontanato alcuni elettori.

Pubblicato il 11 aprile 2022 su Affaritaliani.it

Le due anime dell’America #Presidenziali2020 @C_dellaCultura

Molto probabilmente Trump non sarà rieletto il 3 novembre. Quasi sicuramente otterrà molti meno voti di Biden. Già Hillary Clinton conquistò tre milioni di voti più di lui. Trump ha già annunciato che tenterà comunque di mettere in questione l’esito del voto senza curarsi delle gravi conseguenze che il suo tentativo potrà avere per la democrazia USA. Lo farà nella convinzione che, se dovesse essere chiamata in causa, la Corte Suprema troverà il modo di dargli ragione come nel dicembre del 2000 quando con 5 voti dei giudici nominati dai repubblicani a 4 consegnò la Presidenza a George Bush e non al democratico Al Gore. Quel voto cambiò la storia del mondo, a cominciare da quella dell’Iraq.

Per un insieme di circostanze e di convenienze la Corte Suprema è diventata una protagonista assoluta nella politica della Repubblica presidenziale USA. Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca Trump ha goduto della opportunità inusitata di riuscire a nominare addirittura tre giudici e di vederli rapidamente confermati dalla maggioranza repubblicana al Senato. Anticipo il verdetto positivo su Amy Coney Barrett (nella speranza di essere smentito) con la cui probabile conferma la Corte sarà composta da sei giudici nominati dai repubblicani e tre dai progressisti. È interessante sottolineare che cinque di quei giudici sono stati sponsorizzati dalla potente associazione conservatrice “The Federalist Society” che sostiene un’interpretazione “letterale” della Costituzione come fu scritta senza nessun riguardo per tempi e luoghi notevolmente cambiati a fronte di coloro che rivendicano la necessità di tenere conto delle trasformazioni sociali, culturali, di sensibilità intervenute nei secoli.

   Poiché I giudici rimangono in carica a vita, Trump ha la garanzia che per i prossimi trent’annni la maggioranza non cambierà. Infatti, i giudici da lui nominati che hanno rispettivamente Gorsuch 53 anni, Kavanaugh 55 e Barrett 48 non lasceranno certamente la loro carica. Potranno procedere all’abolizione totale, imperiosa richiesta, finora frustrata, dei repubblicani, della riforma sanitaria di Obama. Potranno anche restringere ulteriormente i criteri per consentire l’interruzione della gravidanza. Sono entrambe tematiche importantissime sulle quali Coney Barrett è stata oltremodo elusiva nelle sue audizioni al Senato. Certamente, “i giudici di Trump” non si preoccuperanno in nessun modo di garantire il diritto al voto che la maggioranza delle 35 assemblee legislative degli Stati controllati dai repubblicani manipolano e fortemente limitano. I mass media USA scrivono addirittura di voter suppression. Sono trucchi e talvolta veri e propri brogli che qualsiasi Commissione elettorale dichiarerebbe illegali.

Insomma, quello che non ha potuto/saputo fare la politica (di Trump) la Corte Suprema riuscirebbe a conseguire anche in tempi relativamente brevi. Questa regressione culturale e sociale è molto temuta dai Democratici i quali sono del tutto consapevoli che al loro eventuale Presidente non spetterà nessuna nomina per molti anni. Pertanto, la Speaker della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi ha già reso pubblica l’intenzione di aumentare il numero dei giudici della Corte Suprema portandolo da 9 a 11. In questo modo, l’eventuale probabile presidente avrà la possibilità di nominare subito due giudici. I democratici vorrebbero anche ridurre la durata della carica a diciotto anni, Tutto questo è giuridicamente accettabile poiché numero dei giudici e la loro durata non sono inscritti nella Costituzione, ma si trovano in un legge approvata circa un secolo fa dal Congresso e che, quindi, dal Congresso può essere riformulata. Politicamente, però, i Democratici hanno assoluto bisogno di conquistare la maggioranza al Senato. Anche per questa ragione, le elezioni del 3 novembre, nelle quali si rinnoverà un terzo dei senatori (35) sono particolarmente importanti, sostanzialmente cruciali per la qualità della democrazia USA.

In maniera che qualcuno considera esagerata, si diffonde l’idea che in questa elezione presidenziale sia in palio l’anima dell’America: Da una parte i suprematisti bianchi, i Proud Boys con le loro armi e le loro propensioni razziste, coloro per i quali la grandezza dell’America sta nel suo contrapporsi alla Cina e al resto del Mondo; dall’altra coloro che vogliono ridurre le diseguaglianze (che Trump definisce spregiativamente “socialisti”), che accettano e esaltano (forse fin troppo) il multiculturalismo e che spesso cadono negli eccessi del politically correct. Il paradosso di questa contrapposizione è che i suoi rappresentanti sono entrambi uomini bianchi ultrasettantenni della Costa Atlantica. Credo che Obama non si avventurerebbe a dire che “the best is yet to come”. Purché non arrivi dopo avere toccato il fondo.

Quell’antico monito di Bobbio

“Testimonianze”, LUGLIO-AGOSTO 2018, n. 520, pp. 64-68

È arrivata l’ora dell’autocritica non come vezzo degli intellettuali radical-chic, della sinistra al caviale o altre piacevolezze, ma perché una autocritica condotta a fondo è un esercizio pedagogico decisivo. Dagli errori si impara e diventa possibile andare oltre. Se è emersa una crisi della rappresentanza, se è cresciuto il divario fra società e politica, se i populisti attaccano con qualche successo l’establishment, se l’euroscetticismo è diventato più diffuso dell’accettazione, peraltro mai entusiastica, dell’Unione Europea, se sono comparse nuove diseguaglianze, quanti di questi fenomeni gli studiosi avevano previsto, quanti sono giunti del tutto inaspettati, come è possibile cercare di porvi rimedio?

Tre fenomeni di grande respiro e di enorme impatto hanno ridisegnato la storia dell’Europa e del mondo negli ultimi trent’anni: primo, crollo del comunismo che sembrava realizzato nell’Europa centro-orientale e in Unione Sovietica e fine del richiamo della sua ideologia, ma, come Norberto Bobbio mise immediatamente in rilievo, nessuna scomparsa dei problemi e delle ingiustizie alle quali il comunismo aveva inteso porre rimedio, e, oggi sappiamo, ritorno alla superficie di nazionalismi beceri; secondo, allargamento e approfondimento (con qualche limite) del processo di unificazione politica dell’Europa; terzo, affermazione in ogni angolo del mondo, seppure con qualche differenza di intensità, della globalizzazione. Non è facile tenere insieme questi tre fenomeni e offrirne un’analisi e una spiegazione unitari, ma è importante individuare le connessioni e, di volta in volta, gli errori interpretativi. Consapevole della difficoltà di una precisa datazione, comincerò dalla globalizzazione poiché, praticamente per definizione, è il fenomeno più comprensivo.

Fin dall’inizio, vale a dire, dal momento che emerse la consapevolezza che determinati processi, in particolare, economico-finanziari, penetravano sostanzialmente non filtrati e non controllati in tutti i sistemi politici del mondo e altri processi, quelli relativi alla comunicazione, non solo politica, acuivano la sensibilità di governanti e cittadini e accrescevano le informazioni disponibili, seppure in maniera differenziata, un po’ a tutti i protagonisti, la globalizzazione ebbe suoi numerosi. Erano e sono rimasti un gruppo molto composito nel quale sembrano tuttora predominare i protezionisti e i comunitaristi. Le motivazioni dei primi riguardano soprattutto la sfida alle attività economiche del loro paese, alle industrie, all’agricoltura, ai lavoratori dipendenti. Si sono tradotte nell’opposizione al libero commercio che, invece, è considerato dalla maggior parte degli economisti come uno dei motori fra i più potenti della crescita economica. Certo, il libero commercio associato alla globalizzazione ha avuto conseguenze distruttive per alcune attività e creato forti tensioni sociali. I dati mondiali, dal canto loro, rilevano e rivelano una maggiore disponibilità di risorse, ma, solo di recente hanno messo in rilievo che la ricchezza complessiva si è accompagnata alla crescita delle diseguaglianze anche sociali all’interno di molti paesi.

Quanto ai comunitari, quasi tutti loro associano, in larga misura correttamente, la globalizzazione al multiculturalismo, opponendosi ad entrambi. Vogliono proteggere stili e modalità di vita, culture specifiche, identità dei più vari generi. Ne sottolineano l’importanza e, di conseguenza, contrastano visioni e prospettive multiculturali acritiche. No, multiculturalismo non è bello. Anzi, secondo i comunitari il multiculturalismo è una sfida portatrice di tensioni e di conflitti, foriera di perdita di identità e di sfaldamento di comunità che lasceranno/lascerebbero tutti, nient’affatto arricchiti dalle diversità, ma culturalmente più poveri e “spaesati”. A questa sfida, al tempo stesso economica e identitaria, in alcuni paesi coinvolti forse più di molti altri nel processo di globalizzazione poiché vere e proprie società aperte, come la Svezia, come la Gran Bretagna, come gli USA, hanno fatto seguito reazioni sconcertanti. Ne sono testimonianza possente e inquietante il successo elettorale dei Democratici Svedesi, partito sicuramente xenofobo e identitario, la Brexit prodotta dal referendum del giugno 2016, la conquista della Presidenza di Donald Trump nel novembre 2016 all’insegna del motto “America First”.

L’elemento che accomuna queste esperienze è costituito dalla mobilitazione non organizzata di coloro che potrebbero essere definiti i perdenti della globalizzazione o che si ritengono tali. Che i voti decisivi siano venuti da uomini bianchi del Nord dell’Inghilterra, Liverpool, Manchester, Newcastle, mentre Londra ha votato con elevate percentuali per restare nell’Unione Europea; che siano stati migliaia di operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, del Wisconsin, malauguratamente, ma in maniera rivelatrice, definiti deplorable dalla candidata Hillary Clinton; che nella Svezia, da molti giustamente considerata una (social)democrazia di grande successo, più del 10 per cento di elettori dia il suo voto ad un partito deliberatamente anti-europeo e xenofobo non sono accadimenti che possono essere liquidati scrollando le spalle e, nei due casi anglosassoni, sostenendo che quegli elettori hanno semplicemente sbagliato e se ne accorgeranno. Forse se ne accorgeranno, ma a fondamento del loro voto stanno motivazioni che non sono affatto deplorevoli e transeunti.

Non sarà il miglioramento, peraltro non facile e non scontato, delle loro condizioni di vita a produrre il cambiamento delle loro opzioni di voto. Né il cambiamento del voto risolverà problemi che sono identitari e culturali. Nel caso degli USA la capacità di mettere insieme le minoranze, afro-americani, latinos, donne (sic), potrà servire ai Democratici per vincere qualche elezione, persino per tornare alla Presidenza, ma non migliorerà la politica e neppure la società. Il grido Black Lives Matter non perderà il suo significato contro il razzismo persistente e strisciante. La preoccupazione per la crescente presenza di latinos con i loro stili di vita, la lingua, il tipo di legami familiari, non verrà meno. Le varie diseguaglianze, che non hanno soltanto una, importantissima, componente economica, ma che si traducono in una visione di società, non saranno neppure affrontate se non si approntino le politiche opportune. Non saranno certamente i banchieri della City di Londra e i brokers di Wall Street, i signori della tecnologia della Silicon Valley e le donne e gli uomini dell’establishment della East Coast a presentarsi credibilmente come coloro in grado di rappresentare quei settori sociali, di proteggere le identità e di operare per contenere e ridurre le diseguaglianze.

Nessuno riuscirà a sostenere convincentemente la tesi che bisogna dare risposte che riguardano i diritti, di ogni tipo, in particolare quelli riguardanti gli orientamenti sessuali, sottovalutando le diseguaglianze in termini di riconoscimento e di opportunità, di sostenere che prima vengono le diversità, poi le ricompense, di considerare che lo ius soli è più importante e più qualificante del diritto al lavoro. La sinistra che non agisce prioritariamente per ridurre le diseguaglianze ha perduto, sosterrebbe Norberto Bobbio, la sua ragion d’essere, la sua anima. La sinistra continuerà anche a perdere consistenza e rilevanza politica a fronte delle sfide diversamente populiste che hanno fatto la loro comparsa un po’ dappertutto in Europa (e altrove). È fra gli Stati-membri dell’Unione Europea che, a sessant’anni dal Trattato di Roma, i populismi sembrano avere trovato accoglienza migliore e spazi più ampi.

I populisti vanno alla ricerca e alla conquista di coloro che ritengono sia più importante preservare e celebrare l’identità nazionale, se non addirittura quella locale, piuttosto che ottenere quei vantaggi economici, la cui esistenza peraltro negano, che derivano dall’apertura alla globalizzazione e al libero commercio. I populisti mobilitano quello che considerano il “loro” popolo, mai tutto il popolo, contro l’establishment. Lo definiscono e lo ridefiniscono sostenendo di essere i soli in grado di rappresentarlo contro l’Europa dei banchieri e dei tecnocrati. Vogliono offrirgli protezione contro le ondate di migranti che non solo potrebbero rubargli il lavoro, ma che minacciano i loro stili di vita, le loro credenze religiose, le prospettive della loro prole. È stato profondamente sbagliato sottovalutare questi sentimenti, ritenendoli un retaggio del passato in via di superamento e, peggio, criticandoli come segno di arretratezza e deridendoli.

In qualche convegno a Davos, in riunioni ristrette a Bruxelles, a un vernissage parigino, nel foyer di un teatro londinese, ad una prima della Scala, forse anche alla Freie Universität di Berlino è molto facile trovarsi d’accordo sul fatto che l’Unione Europea è un grande progetto di unificazione politica che sta mettendo insieme una pluralità di culture a partire da una base che si dice essere comune (ma, talvolta, mi chiedo che cosa unisca Dante e Shakespeare, Leonardo e Picasso, Miguel de Cervantes e Franz Kafka, Thomas Mann e Albert Camus), da una storia condivisa, ma intessuta di conflitti e di guerre civili, da prospettive ancora adesso nient’affatto precisamente definite. A fronte delle molte irrisolte problematiche economiche, di creazione e di distribuzione della ricchezza che non hanno ridotto vecchie diseguaglianze e ne hanno prodotte di nuove, la risposta in termini di cultura non è finora sembrata adeguata. Ha aperto spazi ai sovranisti che non sono stati contrastati convincentemente facendo notare che è molto improbabile che qualsiasi singolo Stato europeo riesca da solo a risolvere i problemi prima e meglio di quanto faccia l’Unione Europea. È una lezione che persino la pur grande e efficiente Gran Bretagna sta imparando a sue spese, che non saranno controbilanciate in toto dall’accentuazione tutta “culturale” dell’identità: la Britishness.

Il senso complessivo della mia riflessione su globalizzazione, Unione Europea e diseguaglianze può essere condensato in due considerazioni e due conclusioni. La prima considerazione contiene anche una personale autocritica. Ho creduto che tanto la globalizzazione quanto l’Unione Europea fossero processi in grado di produrre e offrire maggiori opportunità senza lasciare indietro nessuno, tranne per poco tempo, che i costi di entrambe sarebbero stati distribuiti in maniera relativamente equilibrata fra tutti i settori sociali, pur implicando vantaggi, sperabilmente non eccessivi, per coloro che già sono privilegiati. Non è stato così. La seconda considerazione ugualmente da accompagnarsi con una modica dose di necessaria autocritica è che, affidate le problematiche economiche alla competitività e al mercato della globalizzazione e dell’Unione Europea, ho creduto che tutti gli aspetti di cultura e di identità fossero, per così dire, da un lato, “privatizzabili”, vale a dire, risolvibili in proprio dai vari gruppi oppure, questo, sicuramente, errore più grave, superabili con l’ascesa del repubblicanesimo delle regole e dei diritti delle persone. Non soltanto alcune delle tematiche identitarie si sono dimostrate irriducibili, ma sono anche risultate non negoziabili e i loro portatori non saranno, almeno nel loro e nel nostro tempo di vita, soddisfatti da nessuno scambio: “più risorse economiche meno accento su identità”, meno che mai se riguarda le loro famiglie e i loro figli.

La prima delle due code riguarda direttamente le elaborazioni e le attuazioni della sinistra ovvero il suo lento graduale, ma apparentemente inarrestabile scivolamento verso posizioni incapaci di comprendere quanto nella vita delle persone contino gli elementi di comunità in senso lato: con chi si vive, con chi si lavora, quali nostalgie legittime si hanno per il passato, quali aspettative di cambiamento prevedibile per il futuro, ma anche quali siano le distanze sociali e le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione. La seconda coda è data dalla constatazione che non sono emerse personalità in grado di elaborare una narrativa di ampio respiro e di profondità della globalizzazione e di svolgere il compito di leadership a livello europeo. La mancanza nelle democrazie europee e negli USA di leadership dinamiche e capaci di disegnare il futuro, innovative e empatiche, è un vero e proprio dramma contemporaneo. Non sono alla ricerca di personalità carismatiche, ma di predicatori appassionati, credibili, capaci di delineare un percorso condiviso per popoli e per persone. Consapevole che quanto ho qui scritto è poco più di un insieme di spunti schematici, suscettibili di una molteplicità di approfondimenti, mi auguro che siano degni di attenzione e mi ripropongo di rivisitarli e ampliarli.

La paura non si batte con le parole

Immagino che molti lettori siano infastiditi da affermazioni sul pericolo del terrorismo pappagallescamente ripetute che suonano vuote e ipocrite. Credo che ciascun lettore desideri informazioni precise e indicazioni convincenti. Mi ci provo. Primo, sì, dobbiamo avere paura. I terroristi islamici, tali poiché professano quella religione e in nome del loro Dio uccidono, hanno dimostrato di sapere colpire dovunque. Volendo fare stragi eclatanti scelgono luoghi dove le persone si affollano: stazioni ferroviarie, metropolitane, sale da ballo, aeroporti e stadi (anche se a Parigi, in questo caso, non hanno avuto successo). Chiunque frequenti quei luoghi, ed è evidente che un po’ tutti noi in quei luoghi ci siamo stati e ci ritorneremo, deve essere consapevole del rischio e deve, ovvero, può avere paura. Consapevoli dei rischi sarebbe opportuno che ci comportassimo con grande cautela e seguissimo l’indicazione che ho visto nella metropolitana di Washington, D.C.: see something say something. Traduco liberamente: chi vede qualcosa dica qualcosa.
Naturalmente, sappiamo per certo che ci vuole molto altro per evitare gli attentati e le stragi. Dovremmo anche sapere che criticare i servizi segreti, di ogni paese, la loro eventuale inadeguatezza, la loro mancanza di coordinamento serve esclusivamente qualora le proposte per risolvere i problemi siano rapidamente operative. Dovremmo anche sapere che qualsiasi servizio segreto efficiente non si vanterà mai di avere sventato una strage, evitato un attentato, catturato i presunti kamikaze poiché mira, giustamente, a tenere coperte le sue fonti, a salvaguardare i suoi informatori, a non svelare nulla del suo modus operandi. Rimane verissimo che la cooperazione, la condivisione e la prevenzione sono essenziali, ma è altrettanto vero che, salvo deplorevoli casi di gelosie professionali o, peggio, nazionalistiche, non pochi servizi segreti si scambiano già da tempo una pluralità di informazioni. Se ci sono falle, oltre al chiedere conto agli operatori dei servizi segreti, la responsabilità va attribuita ai ministri e ai sottosegretari che a quei servizi sono predisposti.
Non serve a niente colpevolizzare l’Europa e gli europei per il loro colonialismo, per il capitalismo predatore, per politiche gravemente sbagliate: dall’intervento in Iraq alla defenestrazione di Gheddafi all’inazione in Siria. Non è ragionevolmente possibile tornare indietro e riparare a errori e a crimini. Imparata la lezione (temo non da tutti), non ne consegue affatto che diventa possibile pensare che la sfida dei terroristi kamikaze armati di tutto quel che serve, con sostegno finanziario e logistico, sia risolvibile con parole di pace. Uno dei due responsabili, forse il maggiore, dell’intervento in Iraq, che ha sollevato il coperchio del vaso di Pandora di tutte le contraddizioni, le rivalità, le tensioni anche religiose nel mondo mediorientale, Tony Blair, sostiene che è necessario ricorrere a un “centrismo muscolare”. Insomma, non si può rinunciare all’uso delle armi sia per difendersi sia per dare aiuto a coloro, non sembra che siano la maggioranza, che tentano di (ri)costruire stati in grado di garantire, se non una, al momento impossibile, democrazia, almeno ordine politico e sicurezza personale.
Un giorno, magari, si dovrà anche usare la ragione per discutere del multiculturalismo, del suo fallimento, della sua pessima attuazione (“fate quel che vi dettano i vostri costumi”), della sua ridefinizione. Nel frattempo, però, gli europei e, più in generale, gli occidentali hanno il dovere morale e politico di rispettare e attuare i valori sui quali hanno costruito le loro comunità e l’Unione Europea e di esserne orgogliosi. Sono anche autorizzati a chiedere a chiunque voglia venire a vivere in Europa e crescervi i suoi figli e le sue figlie di rispettare quei valori. Quando gli europei avranno eletto Presidente della Commissione un islamico, quel Presidente dovrà dichiarare che riconosce la separazione fra le Chiese, al plurale, compresa la sua, e lo Stato, e che la sharia nella “sua” Europa è fuorilegge.
Pubblicato AGL 25 marzo 2016

Pasquino intervista Huntington

La terza RepubblicaIntervista immaginaria a Samuel Huntington sugli attentati di Parigi

 

Samuel P. Huntington (1927-2008) è stato Professore di Government a Harvard per più di quarant’anni. Ha scritto libri fondamentali sul ruolo politico dei militari The Soldier and the State (1957), sulla politica degli USA, sulla democratizzazione The Third Wave (1993) e il più brillante, il più letto e il più citato libro sullo sviluppo politico Political Order in Changing Societies (1968, ristampato ripetutamente fino al 2006 con una presentazione ad opera di Francis Fukuyama). Ha acquisito fama mondiale con il saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996).

A vent’anni dalla pubblicazione del suo tanto criticato libro, possiamo, dunque, dire, Professor Huntington, che aveva ragione lei: è in corso uno scontro di civiltà?

Non ho mai avuto dubbi sulle probabilità che uno scontro di civiltà si stesse preparando. Credo sia giusto ricordare ai lettori che ho collegato quel probabile scontro alla ristrutturazione di un “ordine politico mondiale”. Lo scontro è in atto, ma del nuovo ordine mondiale non vedo nessuna traccia. Aggiungo che, contrariamente a quello che hanno scritto fin troppi critici, anche italiani, del mio libro, spesso senza avere neanche letto il titolo nella sua interezza, non ho mai auspicato lo scontro di civiltà. Intendevo mettere in guardia i decisori politici e altri eventuali protagonisti.

Invece, che cosa è successo?

E’ successo che, da un lato, il Presidente George W. Bush si è buttato in una guerra facile da vincere contro Saddam Hussein, senza nessuna strategia di costruzione di ordine politico in quella zona del mondo; dall’altro, persino negli USA e in Gran Bretagna, ma, soprattutto, in maniera raccapricciante e scandalosa, in alcuni paesi europei, hanno vinto quelli che voi chiamati i “buonisti” (e che Mrs Thatcher chiamerebbe i “wet”, gli umidi, a lei Prof Pasquino di fornire la, peraltro facile, interpretazione). Fintantoché penserete che c’è un Islam buono e che i terroristi, perché in questo modo, con buona pace di Massimo Cacciari, debbono essere chiamati, sono addottrinati e guidati dall’Islam cattivo, non potrete preparare nessuna risposta. Quelle folcloristiche, “Je suis Charlie” e “Je suis Paris”, sono moralmente apprezzabili, ma politicamente del tutto irrilevanti.

Prima di chiederle che cosa bisognerebbe fare, vorrei che lei replicasse anche a coloro che dicono che è in corso anche una guerra dentro l’Islam.

Nella mia analisi dello scontro di civiltà non c’è nulla, proprio nulla che suggerisca o stabilisca che ciascuna delle civiltà sia in grado di mantenere ordine politico al suo interno. Le ricordo che una delle mie frasi che hanno fatto imbestialire i maomettani e scandalizzato i buonisti è “I confini dei paesi arabi grondano di sangue”. Tutti quei confini continuano a grondare di quel sangue, nient’affatto solo del loro, ma anche di quello dei curdi e dei cristiani. L’aggiunta è che il grondar di sangue si è esteso a tutti i territori del Medio-Oriente e del Maghreb. Non abbiamo, però, ascoltato gli imam dell’Islam buono alzare la loro voce e promettere a chi uccide e si uccide per massacrare altri, non un paradiso sessuale, ma la punizione di Allah (un inferno sessuale?).

Fino a quando durerà il terrorismo islamico?

Non c’è nessuna buona ragione per ipotizzare che la sua fine sia vicina. Al contrario. Proprio l’instabilità dei regimi, non la mancanza di democrazia, ma di ordine politico, dalla Siria all’Iraq, dalla Libia all’Egitto, dallo Yemen al Sudan, alimenta conflitti e tensioni con il Califfato, chiamatelo ISIS o Daesh, che mira ad imporsi anche grazie alle sue spettacolari e sanguinarie attività in Europa, dimostrando la proprio potenza di reclutamento e di fuoco. La fine non è in vista.

E fino a quando durerà lo scontro di civiltà.

Lo scontro di civiltà (e dentro l’Islam politico e bellico) durerà fino a quando le altre “civiltà”, a partire da quella che chiamo civiltà occidentale, unitamente a quella russo-ortodossa, non riusciranno a reagire e a prevenire qualsiasi incursione terroristica facendo uso costante e immediato, senza nessuna concessione, dei loro apparati militari e di intelligence, e fino a quando nell’area medio-orientale non emergerà una potenza egemone, che potrebbe essere l’Arabia Saudita, non ricattabile da terroristi di nessun tipo e in grado di imporre e mantenere l’ordine.

Che cosa direbbe agli affannati teorici del multiculturalismo?

Che lo Stato islamico non si combatte e non si debella rinunciando a pezzi rilevanti della cultura e della civiltà europea, condonando tradizioni di oppressione degli uomini sulle donne, accettando che i principi politici siano sottomessi (si, ho visto il libro di Houellebecq, ma avrei preferito leggere altro, per esempio, Raymond Aron) ai dettami delle autorità religiose, consentendo che la sharia venga applicata perché, in fondo, contiene le punizioni stabilite dal Corano. Al multiculturalismo contrappongo nella loro interezza, e spero che lo facciano anche, orgogliosamente, tutti i leader dell’Occidente, le Dichiarazioni dei diritti formulate dalle Nazioni Unite. L’universalismo è la mia stella polare. Fortunatamente la condivido con almeno un paio di miliardi di persone che ritengono il multiculturalismo un dannosissimo cedimento e che pensano che non esista niente di meglio del rispetto e dell’attuazione di diritti universali.

Intervista immaginaria a cura di Gianfranco Pasquino che si vanta di avere conosciuto personalmente Huntington e di avere letto tutti i suoi libri e molti dei suoi numerosi articoli.

Pubblicato il 16 novembre 2015