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Monchi e orbi #UnioneEuropea
Monchi i commenti su quel che fa l’Unione Europea e orbi i commentatori. La loro “narrazione” è sempre centrata su quel che manca, sui dissidi, sulle lentezze. Non coglie quasi mai con lo stessa intensità quello che, certo a fatica e con lunghi e complessi negoziati, ventisette capi di governo riescono a fare: sei cicli di sanzioni alla Russia dell’aggressore Putin, politiche condivise su petrolio e gas russo, transizione energetica. Due Stati membri, Svezia e Finlandia, che entrano nella Nato. Concessione dello status di paese candidato all’Ucraina con Albania e Macedonia del Nord che avanzano. Eppur, l’UE si muove.
Interesse nazionale: nella Nato, nella UE, mai con i nemici della democrazia @formichenews

Solo i sovranisti disinvolti e superficiali possono credere, illudendosi, che, andando da soli, meglio e più proteggerebbero l’interesse nazionale, della patria. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica
Un grande (sic) paese ha, comunque, in maniera lungimirante una sola politica estera condivisa fra governo e opposizione e, naturalmente, soprattutto all’interno del governo. Le più o meno acrobatiche prese di distanza diversamente effettuate da Conte e da Salvini sono deplorevoli. Altrettanto deplorevoli sono le dichiarazioni intrinsecamente pro Putin di Silvio Berlusconi: dal sen sfuggite poi capovolte e, poiché personalmente sono un commentatore sobrio e austero, non mi chiederò cos’altro sta nel sen di Berlusconi. La politica estera di un paese, più o meno grande, deve, come scrisse e argomentò il tedesco Hans Morgenthau (1904-1980, esule negli USA, uno dei maggiori studiosi di sempre di Relazioni internazionali, costantemente ispirarsi all’interesse nazionale. Naturalmente, quell’interesse deve essere definito chiaramente, condiviso politicamente e interpretato ogni volta che entra in contatto con la realtà effettuale (l’aggettivo è di Machiavelli, maestro del realismo in politica).
Quell’interesse può essere proposto, protetto e promosso attraverso alleanze, come la Nato, e organizzazioni, come l’Unione Europea. Solo i sovranisti disinvolti e superficiali possono credere, illudendosi, che, andando da soli, meglio e più proteggerebbero l’interesse nazionale, della patria. Comprensibilmente, ogniqualvolta scatta la necessità di proteggere l’interesse nazionale all’interno di organizzazioni sovranazionali è possibile che ciascuna delle nazioni che ne fanno parte esprima preferenze relativamente diverse, mai divergenti. Organizzazioni democratiche al loro interno hanno le capacità e sanno come ricomporre una pluralità di interessi a cominciare da quello, nettamente prioritario e sovrastante, della difesa, della sopravvivenza.
Che questo interesse sia essenziale nell’attuale fase di aggressione russa all’Ucraina è stato prontamente compreso da Finlandia e Svezia che lo hanno tradotto nella richiesta di adesione alla Nato. Pur esercitandosi in qualche, piccolo e sgraziato, ma, presumibilmente, solo estemporaneo, giretto di valzer, anche i Cinque Stelle e la Lega, capiscono che la Nato è l’organizzazione che garantisce la miglior protezione dell’interesse nazionale. Le loro accennate differenze di opinione con il governo “Draghi-Di Maio” sono, però, fastidiose punture di spillo non giustificabili neppure con riferimento a incomprimibili (per Salvini permanenti) pulsioni elettoralistiche.
In definitiva, credo che tutti coloro che auspicano la fine dell’aggressione russa all’Ucraina e l’autodeterminazione dei popoli, stiano acquisendo due consapevolezze. La prima è che qualsiasi cedimento a Putin non lo incoraggerà ad accettare le trattative. La seconda, ancora più importante, a mio papere decisiva, è che è nell’interesse nazionale dei paesi democratici promuovere, non sulla punta delle baionette e sulle rampe di lancio dei missili (in che modo lo scriverò un’altra volta), la democrazia. Da Immanuel Kant sappiamo che sono le federazioni fra le repubbliche (per Kant il termine che identifica i sistemi politici che operano a favore della res publica, il benessere collettivo) a porre fine ai conflitti, non i regimi autoritari e i loro leader con i quali i democratici possono, perseguendo l’interesse nazionale, trattare, ma per i quali non possono mai sentire “amicizia”.
Pubblicato il 22 maggio 2022 su Formiche.net
Lo zar piace a una destra che non capisce la democrazia @DomaniGiornale


La triste delusione nei confronti di Putin dei due principali esponenti del centro-destra italiano è facilmente spiegabile. Pur continuando a controllare e punire la stampa e le giornaliste, avendo chiaramente ottenuto la sottomissione della magistratura che ha regolarmente fatto il suo “dovere” (sic), di recente condannando Alexei Navalny, l’aggressione del leader russo all’Ucraina non è riuscito a fornire la prova cruciale che il suo è un governo/regime di successo. Adesso Salvini spera di evitare ulteriori delusioni chiedendo la fine dell’invio di armi agli ucraini che si difendono. Invece, Berlusconi non riesce a nascondere la sua amarezza. L’amico Putin gli era apparso “un uomo di grande buonsenso, di democrazia, di pace”. Forse, ma questa è una mia aggiunta personale che, però, spero condivisa, Putin non ha mai neppure voluto, come Berlusconi, lanciare una grande rivoluzione liberale. Che errore!
L’incantamento per Putin dei due alleati del centro-destra italiano si accompagna alle critiche agli USA, alla Nato, all’Unione Europea, che provengono da alcuni, minori, ma non troppo, settori della sinistra. Queste critiche sono facilmente spiegabili: un irreprimibile anti-americanismo che sta nelle loro viscere profonde e al quale non riescono ad opporre nessun ragionamento e, magari, lo dirò da professore, nessuna lettura di storia, di relazioni internazionali, di scienza politica. Senza esagerare con la retorica, quello che manca ai Berlusconi e ai Salvini, ma anche ad alcuni esponenti di sinistra e delle Cinque Stelle, è una concezione decente della democrazia. Qui sta la radice dell’illusione berlusconiana (e salviniana) con Putin.
Nessun “sincero” democratico avrebbe mai espresso apprezzamento e addirittura amicizia per un capo di Stato e di governo autoritario, repressivo, persecutore del dissenso, silenziatore dell’opposizione. Su questo terreno, più precisamente, il funzionamento di un sistema politico e lo spazio della società civile, Berlusconi (con Salvini) dovrebbero interrogarsi. Non basterà loro chiamare come testimoni a discarico quei filosofi e storici di sinistra per i quali le democrazie hanno fallito. Alcuni di costoro riescono addirittura a esercitarsi con concetti screditati da molti decenni, come democrazia autoritaria, e fatti rivivere da dirigenti politici di dubbia democraticità nell’esercizio del potere con modalità e strumenti di natura illiberale.
Magari un giorno ascolteremo gli amici del capo del Cremlino sostenere che Putin ha fatto anche qualcosa di buono. Vorrà soltanto dire che troppi non avranno ancora capito quale grande conquista è la democrazia anche con le sue inevitabili, ma superabili, inadeguatezze. In nessun modo significherà che è accettabile essere amici e estimatori di coloro che la democrazia la ignorano e mirano a calpestarla.
Pubblicato il 18 maggio 2022 su Domani
Né ipse dixit né parole in libera (remunerata) uscita @DomaniGiornale


Trovo quasi sempre abbastanza interessante seguire, mantenendo qualche distanza, il dibattitto pubblico su tematiche importanti fra studiosi e intellettuali. So che esistono intellettuali e “professoroni” che si fanno pagare interviste e comparsate. Poiché a me, di persona personalmente non è mai capitato mi sono venuti alcuni dubbi sulla mia doppia appartenenza. Qualche indagine suppletiva potrebbe essere utile, si chiama trasparenza. Non nego che ascoltare opinioni diverse sia sempre una buona idea. Da qualunque punto di vista, democratico, il pluralismo è un valore in sé oltre a poter servire ad una miglior comprensione del problema e persino alla prospettazione di soluzioni. Credo che di soluzioni ce ne sia sempre più di una con i loro specifici tempi, vantaggi, costi. Infine, qui termina la mia premessa culturale e metodologica, auspico che anche le opinioni degli intellettuali e dei professori siano sottoposte al fact-checking. Più precisamente, le parole in libertà debbono essere ritenute tali, e basta.
Quello che, invece, fermamente rifiuto e costantemente suggerisco di evitare è che nell’indispensabile contraddittorio, da un lato, vi sia necessariamente un interlocutore privilegiato. Allora meglio se il formato è quello di una intervista, naturalmente purché l’intervistatrice/tore abbia autorevolezza e preparazione adeguata. Dall’altro, che si eviti il richiamo risolutorio all’ipse dixit, ovvero della citazione che taglia la testa al toro perché è di uno studioso messo al disopra di tutto/tutti. Ne faccio un esempio solo, la dichiarazione di Noam Chomsky a Pressenza, la International Press Agency, pubblicata il 20 marzo 2022: “dovremmo assodare alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un crimine di guerra maggiore, paragonabile all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e all’invasione della Polonia da parte di Hitler e Stalin nel settembre 1939”.
Credo che tutti abbiamo diritto di chiedere a Chomsky quale è la sua definizione di crimini di guerra e quali sono i suoi criteri di valutazione. Questa è la procedura che dovrebbe guidare e impregnare il dibattito, si parva licet, anche quando ascoltiamo, senza prevenzioni, quanto Alessandro Orsini asserisce in interventi/eventi remunerati. In questa chiave, sento di potere respingere la dichiarazione di Chomsky nell’intervista già citata: “Non c’è commento da fare sul tentativo di Putin di offrire giustificazioni legali per la sua aggressione, tranne che vale zero”. Al contrario, quelle giustificazioni vanno prese sul serio e sottoposte a verifiche fattuali. Proprio come le affermazioni di coloro che vedono nell’aggressione russa all’Ucraina, mi correggo nella “operazione militare speciale”, il fattore scatenante e quelli che al contrario sostengono l’esistenza di prove dell’ambizione espansiva della NATO e, addirittura, delle ambizioni imperialiste di Biden (mi viene da sorridere poiché l’imperialismo intrattenuto dagli ottantenni mi pare, come minimo, piuttosto infrequente).
Il succo è che il dibattito deve essere impostato sull’apertura a una pluralità di opinioni, sulla verifica della loro validità, sul rifiuto dell’eccellenza di una qualunque di loro e, last, ma tutt’altro che least, sul valore di una convivenza giusta che non esclude, tutt’altro, che i responsabili delle operazioni militari, più o meno speciali, vengano chiamati a risponderne, politicamente e penalmente.
Pubblicato il 10 aprile 2022 su Domani
Come evitare che la tregua sia la vittoria dell’invasore @DomaniGiornale


Gli strateghi da scrivania, comitiva alla quale, seppur con grande riluttanza, finisco per appartenere anch’io, hanno detto e scritto di tutto sull’aggressione di Putin all’Ucraina. I peggiori fra loro hanno anche, da un lato, negato che si tratti di un’aggressione, dall’altro, suggerito agli ucraini di cessare i combattimenti per il loro bene. Troppi fra quegli strateghi sembrano non volere tenere in conto alcuni dati duri della situazione. L’Ucraina è uno stato democratico e i suoi cittadini hanno diritto a difendere la vita, la libertà e la proprietà (sono parole di John Locke per definire i diritti liberali).
La Russia è un regime autoritario con al vertice un autocrate sostenuto da una rete di oligarchi. L’autocrate non può avere ritenuto che l’Ucraina di Zelensky rappresentasse una minaccia militare alla Russia, neppure se fosse entrata nella Nato. Invece, ha sicuramente pensato che il pericolo oggettivamente posto fosse quello del contagio democratico, a favore dell’opposizione russa, non tutta incarcerata, e a scapito dei suoi vassalli, a cominciare dal Lukashenko della Bielorussia.
Sappiamo che spesso gli autocrati ritengono che il modo migliore per uscire dalle loro contraddizione è una sorta di transfert. Cercare in un successo militare, facile e esaltabile, il consenso popolare che sta sfuggendo. Aiutare gli ucraini a difendersi, dovere morale di tutte le democrazie, significa, quindi, non solo rendere difficile e costosa la vittoria militare dell’autocrate, ma impedire che riesca a godere del “dividendo” politico da usare per puntellare il suo potere all’interno della Russia.
Le sanzioni, che sono tutt’altra cosa rispetto a quelle comminate dagli USA a Cuba e al Venezuela, paragone improponibile, forse anche stupido, mirano a colpire la potente rete di oligarchi che sostiene Putin. Abituati agli agi e ai fasti, costoro probabilmente, ma lo vedremo, hanno un basso limite di sopportazione e, dunque, potrebbero “consigliare” a Putin di cessare la sua politica sconsiderata che, comunque, anche se vincente, non promette nessun arricchimento plausibile.
Pur sapendo perfettamente che la priorità è la cessazione dell’aggressione, una tregua immediata, l’attuazione di tutti gli interventi umanitari possibili, la costruzione della pace richiede non solo “semplicemente” la fine dei bombardamenti, ma negoziati complessi sul futuro dell’Ucraina.
Ha fatto benissimo Zelensky a dichiarare che rinuncia a qualsiasi ingresso nella Nato. Così come ha fatto benissimo il Parlamento europeo a votare a favore dell’apertura dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Troppi dimenticano che l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo ed è altresì luogo di pace e prosperità. Delle difficoltà e delle contraddizioni, sanabili e regolarmente sanate, discuteremo un’altra volta.
Con e nell’Unione Europea l’Ucraina potrà ricostruirsi e riprendere il cammino democratico. Fra le conseguenze politiche della pace, i negoziatori dovranno cercare quelle relative a cambiamenti significativi nella politica della Russia. Certo, è meglio che nessuno affermi ad alta voce “regime change”, ma la sospensione delle sanzioni economiche dovrà essere collegata alle libertà da garantire agli oppositori russi. Insomma, l’aggressore deve pagare un prezzo. A chiederlo saranno soprattutto tutti i pacifisti che si sono attivati in questo periodo che finalmente collegheranno l’assenza di attività militari con il riconoscimento dei diritti e, forse, addirittura con la giustizia sociale, anche in Russia.
Pubblicato il 17 marzo 2022 su Domani
Perché tocca all’Ue guidare le trattative tra Mosca e Kiev @DomaniGiornale


Non deve essere Macron e non deve essere Draghi. Non tocca a Boris Johnson e neppure alla pensionata Angela Merkel. Negoziare con la Russia, intermediare fra Putin e Zelensky è compito esclusivo e urgente dell’Unione Europea. Pertanto, le due autorità che hanno l’obbligo politico e etico di attivarsi sono la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Josep Borrell. Condurre ad una tregua immediata e riportare ad una situazione nella quale le armi cedano ai negoziati sarà più probabile, anche se non facile, grazie al fatto importantissimo che l’Unione Europea ha dimostrato non soltanto la sua compattezza politica, ma anche la sua volontà univoca di potenza di pace per la pace.
Avendo stabilito una pluralità di pesanti sanzioni economiche nei confronti della Russia, del suo leader, degli oligarchi, e potendo, in assenza di accordi, estenderle e inasprirle, l’Unione va al tavolo delle trattative con risorse di cui può fare uso efficace, scambiandole in maniera appropriata. Abbiamo giustamente plaudito alla inaspettata coesione fra gli Stati-membri e alle loro solidarietà in azione. Abbiamo notato che, con pochissime e limitate eccezioni, le opinioni pubbliche europee sostengono le posizioni dei loro governi. Questo significa che l’azione diplomatica dell’Unione può partire con il piede giusto e con il vigore che le democrazie hanno regolarmente saputo dimostrare nelle ore più buie. Avendo già accettato di prendere in considerazione la domanda di adesione dell’Ucraina all’Unione, il Parlamento Europeo ha segnalato al legittimo governo ucraino che gli garantirà tutti i vantaggi, che sono molti, che derivano dal diventare Stato-membro.
Poiché l’Unione è stata provatamente in grado di produrre e di mantenere la pace al suo interno dal momento della sua formazione ad oggi, la sua credibilità non dovrebbe sfuggire nemmeno a Putin. Nessun europeo pensa che l’Ucraina nella UE possa diventare una testa di ponte per attacchi alla sicurezza della Russia, una spina nel fianco. Questo implica che l’Ucraina rinuncerà a un suo eventuale, ventilato inserimento nella Nato. Non ne avrebbe, comunque, più nessuna necessità dopo un accordo chiaro fra Unione Europea e Russia. Non abbiamo modo di fare cadere i sospetti dell’autocrate russo sui possibili rischi di contagio democratico. Sul tavolo del negoziato, però, von der Leyen e Borrell non dovranno in nessun modo porre le questioni interne al regime russo. Il Parlamento europeo si è già ripetutamente e giustamente espresso a favore dei diritti degli oppositori. Lì si deve fermare. Infine, potremo continuare a auspicare che le opposizioni a Putin non siano né oppresse né represse, ma questa è un’altra storia (per un’altra volta).
Pubblicato il 9 marzo 2022 su Domani
L’occupazione ha fatto emergere anche una società civile afghana @DomaniGiornale

In Afghanistan c’erano le truppe americane, ma anche quelle della NATO nonché i soldati italiani che, notoriamente, svolgono solo missioni umanitarie (sic). Prima, con nessun successo ci furono anche i sovietici, sonoramente costretti a ritirarsi dopo alcuni anni di guerra perdente. In Afghanistan gli USA non andarono per esportare la democrazia (il tentativo fu abbozzato in Iraq un paio d’anni dopo), ma per colpire i terroristi di Al Quaeda e distruggerne i santuari. Ci sono riusciti. La maggior parte del tempo e la maggior parte delle risorse, certo, inopinatamente ingenti, furono destinate a compiti definibili di nation-building, di costruzione di strutture in grado di produrre e mantenere l’ordine politico e sociale. Pur avendo rotto i rapporti (o forse proprio per questo) con i suoi colleghi al Dipartimento di Stato, Fukuyama indicò chiaramente gli obiettivi nel libro da lui curato Nation-Building. Beyond Afghanistan and Iraq (2006): addestrare e equipaggiare le Forze Armate, dotare le principali città di forze di polizia efficienti, dare vita a una burocrazia statale capace di fornire i servizi essenziali e di attuare le decisioni del potere politico, costruire ospedali e scuole, garantire il diritto a libere elezioni. Ma, come ha tanto intelligentemente quanto sarcasticamente scritto uno studioso argentino, Fabián Calle, “il potere del voto non potrà mai essere alla stessa altezza del potere dei messaggeri della volontà di Dio”.
Quella americana non era, dunque, una “semplice” e criticabile, in effetti talvolta criticata (da chi?), occupazione militare. Non aveva inspiegabili obiettivi territoriali quanto, piuttosto, l’obiettivo, idealistico (proprio così) di fare emergere una società civile, a cominciare dalla libertà per le donne e da un loro ruolo, in uno dei luoghi più impervi al mondo. Parte di questi obiettivi, come rivelano le molti voci di donne terrorizzate dalla prospettiva di ripiombare nella sottomissione violenta ai talebani, erano stati conseguiti. Certo, è giusto andare alla ricerca di una spiegazione del collasso degli apparati statali afghani. Non so se tutta la risposta sta nella enorme corruzione soprattutto dei vertici, ma credo che una nazione e i suoi apparati non siano mai facilmente costruibili laddove i gruppi etnici, a cominciare dai Pashtun ai quali appartengono i talebani, non abbiano nessuna intenzione di giungere a compromessi.
Chi critica l’occupazione militare USA non dovrebbe oggi, in maniera assolutamente contraddittoria, lamentare il “tradimento” degli USA che ritirano le loro truppe. Forse il segretario generale della NATO ha preventivamente espresso il suo dissenso rispetto alla decisione di Trump attuata da Biden? Si è levata alta e forte la voce di Macron, di Merkel e di Di Maio/Guerini? Nessuno degli analisti ha pre-visto un crollo tanto rapido e capillare quanto quello che in pochi giorni ha consegnato il paese ai Talebani. A furia di azioni umanitarie, le varie missioni europee non si erano mai preoccupate di quanti e quanto armati fossero i talebani? La delega data agli americani per i colloqui “di pace” ha implicato tappare le orecchie e chiudere gli occhi dei cooperanti, dei dirigenti, degli ambasciatori europei presenti e attivi in Afghanistan? Nessuno può mettere in dubbio che, adesso, salvare le vite e il futuro di chi ha collaborato con gli europei e gli italiani, sia l’obiettivo prioritario da perseguire. Non aggiungerò “senza se e senza ma” perché credo sia opportuno interrogarsi se la fuoruscita di tutti gli Afghani e Afghane che hanno lavorato con gli occidentali per un esito molto diverso non finisca per privare il paese proprio delle energie di cui ha più bisogno: quelle di coloro che vogliono un paese decente per donne e uomini, non schiacciato da un credo religioso e da leggi crudeli.
Pubblicato il 18 agosto 2021 su Domani
La democrazia realista contro quella liberale #vivalaLettura @La_Lettura
L’americano John Mearsheimer attacca il liberalismo progressista che aspira a diffondere i regimi rappresentativi. Così svaluta i meriti delle istituzioni internazionali e si mostra incoerente: sostiene che la pace si può ottenere solo in un mondo in cui l’economia prevalga sulla politica, ma poi, cercando di delineare un’alternativa, punta proprio su strumenti politici.
John J. Mearsheimer, La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo,
LUISS University Press
Bisogna “rendere il mondo un luogo sicuro per la democrazia”, come proclamò nel 1917 Woodrow Wilson, Presidente degli Stati Uniti entrando nella Prima Guerra mondiale, oppure gli Stati debbono perseguire essenzialmente e prioritariamente un’altra/altre finalità? Con Wilson nacque il liberalismo progressista in politica estera che, secondo John Mearsheimer, è causa di tutti i mali possibili, in particolare negli ultimi trent’anni. A prescindere dal colore politico dei Presidenti, Reagan, Bush Sr., Clinton, Bush Jr., e persino Obama, per Trump il verdetto non c’è ancora, ma si annuncia più favorevole, quel liberalismo progressista ha improntato la politica estera USA. Però, argomenta perentoriamente l’autore di questo notevole libro, esiste un’alternativa ed è chiara. Si chiama realismo e si basa su alcuni presupposti semplici e sempre validi. Gli Stati-nazione hanno una preoccupazione prevalente, dominante: la sopravvivenza. Dunque, la loro politica estera deve essere formulata senza troppi fronzoli per perseguire in maniera praticamente esclusiva quell’obiettivo. Del contorno non deve curarsi. Sono i liberali progressisti che, facendosi forti di una generalizzazione largamente accettata, ma che Mearsheimer mette in discussione (non sono, in verità, sicuro che la confuti convincentemente facendo diventare democrazie regimi molto dubbi e guerre conflitti limitati, poco più che scaramucce), “le democrazie non si fanno guerra fra di loro”, cercano di fare spuntare qua e là altre democrazie per ridimensionare le guerre fino a eliminarle del tutto.
Il ragionamento dei liberali progressisti parte dall’affermazione/constatazione dell’esistenza di diritti inalienabili dei cittadini. Le democrazie li garantiscono; i regimi non democratici per lo più li calpestano ad libitum. Quindi, è giusto, persino moralmente doveroso, sostengono i liberali progressisti, intervenire nei paesi non democratici a sostegno dei diritti degli uomini e delle donne ogniqualvolta siano pesantemente violati. Il regime change, proprio quello sbandierato da George W. Bush come obiettivo fondamentale nella sua guerra contro Saddam Hussein, serve ad aprire la strada alla democrazia e quante più democrazie esisteranno maggiore sarà l’esecrazione di regimi non democratici e repressivi. Mearsheimer ha buon gioco a fare notare che nessuna democrazia è emersa dalla vittoria USA in Iraq e che, anzi, un po’ tutto il Medio-Oriente, dall’Egitto alla Sira, dalla Libia allo Yemen, è stato destabilizzato con gravi pericoli e guasti per i diritti umani, a partire dal più importante di loro: il diritto alla vita. Per di più, sottolinea l’autore, un po’ tutti gli interventi armati “liberali” comportano anche rischi e brutte conseguenze all’interno delle democrazie interventiste. I loro governanti mentono su obiettivi e costi della guerra, occultano e manipolano le informazioni, colpiscono e puniscono i loro cittadini dissenzienti, violano grandemente i diritti dei prigionieri, le torture e i detenuti di Guantanamo rappresentando gli esempi più raccapriccianti. Il progressismo liberale in politica estera diventa quasi ineluttabilmente molto illiberale all’interno del proprio paese.
“Il liberalismo all’estero conduce all’illiberalismo in patria” (p. 26). Invece, i liberali progressisti preferiscono porre l’accento sul fatto che l’ordine politico internazionale liberale ha per molti decenni costruito e sostenuto tre esiti positivi: una situazione complessiva di pace fra tutte le democrazie; una notevole interdipendenza basata sul libero commercio; il funzionamento di una rete di istituzioni internazionali (Fondo Monetario, Banca Mondiale, NATO). Mearsheimer non ha nessuna difficoltà a mettere in dubbio tutt’e tre gli esiti, rilevandone la fragilità e l’illusorietà. Anzi, per quel che riguarda la NATO, l’autore ha buon gioco nell’esporre le drammatiche conseguenze della sua prospettata espansione alla Georgia e all’Ucraina. Naturalmente, l’esempio per così dire migliore probante che di ordine politico internazionale ce n’è davvero poco è costituito proprio dalla necessità che i policy-makers degli USA di fare ricorso alla guerra. Dal 1989 (caduta del Muro di Berlino e inizio della loro egemonia unipolare), gli Stati Uniti hanno combattuto due anni su tre su sette fronti differenti (p. 26). Non basta certamente la libertà e la realtà degli scambi commerciali a impedire agli Stati di farsi la guerra e la debolezza delle istituzioni internazionali prive di qualsiasi potere coercitivo non è d’aiuto ai costruttori di pace.
Forse un po’ contraddittoriamente, l’autore afferma che la pace si potrà/si potrebbe ottenere in un mondo in cui l’economia abbia il predominio sulla politica (p. 73). Quando, però, necessariamente e volutamente, Mearsheimer perviene a delineare la sua alternativa mette, eccome, l’accento proprio sulla politica. Preliminarmente, nota che all’interno di ciascuno Stato l’elemento più importante, spesso dominante, è il nazionalismo basato sul senso, quando non anche l’orgoglio, di appartenenza a una comunità, ai suoi stili di vita, ai suoi valori più diffusi che rarissimamente contemplano il desiderio di andare in altre parti del mondo per proteggere e promuovere i diritti umani. Nel caso degli USA è evidente una chiara discrepanza fra le preferenze della cittadinanza e quelle delle elite che si occupano di politica estera e che la fanno da decenni implementando i principi del liberalismo progressista. [Fra loro, ovviamente, non troviamo l’autore di questo libro, che, infatti, pure molto apprezzato docente di Relazioni Internazionali all’Università di Chicago, non è ancora stato chiamato a far parte del Chicago Council on Global Affairs. Concludendo, c’è un’unica vera alternativa al liberalismo progressista.] Mearsheimer la delinea brevemente, ma con grande vigore: è il realismo. Comincia con il mettere al primo posto l’America. Continua con lo schivare, tutte le volte che incrocino gli interessi degli USA, le regole delle istituzioni internazionali. Perviene a modalità di rapporti con la Cina e, soprattutto, con Putin che nessun progressista liberale potrebbe giudicare positivamente. Tutto questo si colloca coerentemente nella visione realista delle relazioni internazionali formulata da Mearsheimer: gli Stati che perseguono senza tentennamenti e sbandamenti il loro interesse nazionale non destabilizzeranno il sistema internazionale e salvaguarderanno nella misura del possibile sia la loro sovranità sia la pace. Quanto alle democrazie, conclude l’autore di questa graffiante analisi, invece di impegnarsi in costosi e spesso fallimentari tentativi di esportazione delle loro istituzioni e pratiche, dovrebbero procedere a migliorare la loro qualità fiduciose che altri regimi e altri governanti ne procederanno all’emulazione.
Pubblicato il 27 ottobre 2019 su LA LETTURA 413 Corriere della sera
Governo di non-coalizione: figlio della nuova Europa?
Se l’assenza di un’intesa sufficiente a formare il Governo pare oggi cronicizzarsi, rinviando alla questione – sostanziale – delle premesse esistenti per avviare un dialogo politico, il carattere’istituzionale’ dell’esecutivo assume – o, meglio, rivela – la propria centralità. Nell’ipotesi di un’apertura erga omnes formulata dal Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che preveda la partecipazione di tutti i partiti, il nuovo Governo trarrebbe il proprio impulso da una strategia applicata (evitando, cioè, speculazioni astratte) su “obiettivi condivisi” a partire dagli “obblighi internazionali” che spettano al Paese. Né la Lega, forte della vittoria del Centrodestra in Molise e Friuli, né il M5S sembrano favorevoli alla proposta.
Resta, poi da capire quali potrebbero essere gli obiettivi effettivamente “condivisi” tra le forze politiche. Di certo, gli impegni italiani nell’agenda europea e internazionale (ridefinizione dell’Eurozona, politica migratoria e riforma del ‘Sistema Dublino’, funzione di facilitatorediplomatico nell’ambito dell’Alleanza atlantica, ruolo attivo nel Mediterraneo, nei Paesi africani e nelle organizzazioni internazionali – quest’anno l’Italia ha assunto la Presidenza dell’OSCE) crescono e non potranno essere disattesi dal protrarsi dello stallo interno. Il fatto che l’ordinaria amministrazione prosegua, anche rispetto a questi temi cruciali, riporta alla questione iniziale: la natura di istituzione di un Governo, quale che sia la maggioranza che esprime, non è derogabile.
Anche senza considerare i ‘bioritmi’ dei singoli Ministeri (mentre è stato faticosamente varato il Documento di Economia e Finanza, al G7 di Toronto il Ministro dell’Interno Marco Minniti si è posto attivamente – in coerenza con la linea assunta durante l’intero mandato – come alfiere della lotta all’estremismo terrorista), si potrebbe, in prima battuta, considerare la transitorietà governativa italiana alla luce delle recenti esperienze di altri Paesi europei.
Come è successo in Spagna nel 2016, dove 10 mesi di negoziazioni quadripartite e due legislative hanno preceduto, complice l’astensione ‘imperativa’ di numerosi Socialisti, l’investitura di Mariano Rajoy, l’anno successivo l’Olanda ha visto il liberale Mark Rutte privo, per oltre 200 giorni (dal 5 marzo al 9 ottobre 2017, esattamente come accadde nel 1977), di una maggioranza in Parlamento sufficiente a sostenerlo. Anche la Germania, del resto, ha dovuto attendere fino a marzo di quest’anno per un accordo che, dopo il voto di settembre, portasse alla ‘Grosse Koalition’… Ma Il più eclatante, arretrando nel tempo, resta il caso belga: 544 giorni dalle elezioni del 13 giugno 2010, con la vittoria dei Neo-fiamminghi di Bart De Wever, al 6 dicembre 2011.
Oltre ai tempi lunghi, comune a queste esperienze è la crescita economica: un aumento del 2,7% del Pil nel 2010 (e dell’1,8% nel 2011) per il Belgio e del 3,2% per la Spagna alla fine del 2016 (nel quarto trimestre, si è registrato nel Paese anche un calo della disoccupazione, scesa al 18,6%); nel 2017 l’Olanda è cresciuta del 1,5% rispetto al primo trimestre, con un’impennata rispetto all’anno precedente (3,8%); la Germania, infine, ha registrato un aumento dello 0,6 % nell’ultimo trimestre del 2017, cioè a valle delle elezioni federali.
La logica della ‘felicità senza governo’, evidenziata dal dibattito pubblico nell’accostamento di queste esperienze alle possibili evoluzioni della situazione italiana, solleva diverse questioni. Innanzitutto, limitandoci agli ordinamenti fondati sull’alternanza politica, siamo sicuri di interpretare realisticamente l’ ‘assenza di governo’ e – di conseguenza – cosa lega l’espressione di una maggioranza all’esercizio del potere, anzi: dei diversi poteri che sono espressione di uno Stato?
Ogni Paese, poi, è influenzato dalla costituzione giuridica interna dei suoi territori, in grado di incidere sull’alternanza o la convivenza di forze politiche contrapposte. Citiamo, in questo senso, ancora il Belgio, dove “comunque”, avverte Roberto Toniatti, Ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Trento, “il Governo è un oggetto in mano a due forze. Se lo sono potuti permettere: due Governi regionali, che rappresentano i due gruppi linguistici ai quali l’esecutivo risponde. Ciò non può succedere in Italia, dove non troviamo un dualismo simile e le Regioni non hanno la capacità di governare lo Stato”.
Mentre nell’Eurozona si danno segni di ricrescita, cosa implica per l’Italia, nella sua proiezione internazionale, lo scarto tra attività istituzionale e stallo politico? Risponde Gianfranco Pasquino, Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna
Intervista raccolta da Virgilio Carrara Sutour
Senza un nuovo esecutivo, quali prospettive avrebbe l’Italia restando priva di una coalizione? Questa disfunzione ‘europea’ può essere l’indicatore di un’evoluzione delle future democrazie?
Professor Pasquino, parlando di ‘Governi transitori’ nelle diverse esperienze europee, è possibile capire se si tratta di una transitorietà di carattere ‘strutturale’ della politica contemporanea? Una disfunzione può diventare, a sua volta, ‘funzione’? sull’agenda politica italiana, in particolare estera ed europea?
Nelle democrazie parlamentari, i Governi sono sempre legati a situazioni che possono cambiare da un momento all’altro: sono governi ‘di coalizione’ (pertanto, se un partito decide che non vuole più starci, squilibrerà l’assetto dell’esecutivo). Gli esempi sopra riportati, però, mostrano una difficoltà nel formare un Governo dopo un procedimento elettorale. Questo dipende dal fatto che, nella situazione di cambiamento che l’Europa attraversa oggi, nascono partiti nuovi e i partiti vecchi diminuiscono dal punto di vista del numero dei seggi. Diventa, così, più difficile creare coalizioni di governo sufficientemente stabili.
Fino ad oggi, tuttavia, ciò si è verificato in un numero limitato di democrazie parlamentari – infatti sono stati menzionati 4 casi. Non sono neanche sicuro che l’Italia faccia parte dello stesso gruppo: al momento non lo possiamo ancora dire, il che significa che abbiamo almeno una decina di casi in cui i Governi sono sufficientemente stabili.
In che misura lo stallo governativo può incidere sull’indirizzo e le iniziative di politica estera nazionale?
La politica estera, non dovrebbe essere una ‘cosa di governo’, bensì ‘di sistema’: pertinente al sistema politico. Detto altrimenti, dovrebbe esserci una sostanziale continuità della politica estera, che interpreto in due modi: la politica dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea e quella nei confronti della NATO o, se vogliamo, dell’atlantismo. Tutto questo appare stabile: fatta eccezione per le poche pulsioni a uscire dall’Europa, che sono ridicole, o a fare a meno della NATO – che lo sono ancora di più -, la politica estera italiana è esattamente quella delineata, a partire dal 1949, da Alcide De Gasperi e dai suoi collaboratori e, in seguito, da Altiero Spinelli: stiamo nella NATO e agiamo nell’Europa.
Se mai, il problema è quello della capacità italiana di agire in Europa, perché non tutti sono convinti europeisti o sono europeisti ‘colti’ (cioè: sanno cosa voglia dire farne parte), né sono disposti a svolgere il ruolo di predicatori di un’Europa federale. Questo rende l’Italia sostanzialmente un partner passivo, sul quale si può fare affidamento, ma che non sviluppa nessuna iniziativa.
Pubblicato si L’Indro il 2 maggio 2018
Italy Needs Russian Oil, Gas – and Courts Russians to Buy Its Luxury Goods
Gone are the times when the Italian Communist Party preserved its political and strategic autonomy when competing in domestic politics, but always supported the Soviet Union in international politics. Firmly in the Western camp, all Italian governments were happy enough to be members of the two most important organizations: NATO and the European Union. Traditionally, however, no Italian government and no Italian minister of Foreign Affairs played an especially active role. Membership in any international organization means, for most Italians, to be part of that organization, not necessarily to constantly take part in any of the activities of those organizations. Loyalty was the name of the game played by the Italians, not voice, that is, advocacy and/or dissent. Without questioning any choice, all subsequent (and there were many) Italian governments accepted and shared the decisions made within those two organizations.
More autonomy appeared only when dealing with oil producing countries of the Middle-East. As to Russia, Italy has quickly accepted the fact that it is not a democracy and that it is going to be ruled in an authoritarian manner by Vladimir Putin for some time to come. In this case, realism is the name of the game. But there is more to it. Poor in terms of energy sources, Italy significantly relies on gas produced and exported by Russia and it has been unable to reduce its dependence on this source of energy. While, of course, Italy understands that the conflict going in the Ukraine cannot be easily solved, if forced to choose, it will side with those Ukrainians who stress their national independence and want to keep Russia away from their domestic politics. Nevertheless, one thing are popular sympathies, a different thing is to formulate a specific policy. Fortunately for the Italian government this task may be left to NATO and the European Union. Italy may have not shared the idea of enlarging NATO to the East thus challenging the geo-political security of Russia, but its opposition was neither loud nor unremitting. A slightly different story may be told with reference to European sanctions against Russia.
Generally speaking, Italian governments have never considered sanctions as an instrument capable of producing major changes in the politics of the “sanctioned” country. Sanctions may become and be inevitable, but their rate of success is highly debatable, in any case, substantially limited. In the case of sanctions against Russia, there is no doubt that among the member-States of the European Union, Italy was (and remains) the country that has more to lose. It is not just a matter of gas, though very important. It is a matter of trade of many goods, often high quality and highly priced goods and materials that, for a country whose economy is largely export-oriented, significantly contribute to the Gross National Product. This may explain why, though never renouncing her role to express the official politics of the European Union, Federica Mogherini, the High Representative of the European Union for Foreign Affairs and Security Policy, has always tried to formulate a less rigid position vis-à-vis Russia. Still, it would be wrong to believe that Italy is soft on Russia and condones the behavior of its autocrat Vladimir Putin. However, Putin is aware that Italy needs to have thriving commercial relations with Russia. He also knows that there are supporters of Russia in Italy. For a long time he has had a more than amicable personal (but political as well) relationship with Silvio Berlusconi when he was the Italian Prime Minister (2001-2006; 2006-2011).
Recently, out of his newly acquired “sovereignist” perspective and of his adamant opposition to the European Union, the leader of the Northern League, Matteo Salvini has expressed appreciation for many a Russian activities. Though largely deprived of domestic political power, Berlusconi wants to be and remains Russia’s and, above all, Putin’s best friend in Italy. However, the Russian leader is shrewd enough to know that he cannot just play the “Berlusconi card” in order to put pressure on Italian politicians and governmental office holders. Some propaganda helps, but what counts more for the Italians is trade. It is the possibility to maintain and to enlarge all economic relations with the Russian government and its industrial and financial operators. Once stressed this point, one should by no means come to the unwarranted conclusion that Italy is a sort of soft belly in Southern European countries, available to any kind of Russian penetration, even less so to military penetration. No Italian government will ever renounce or even reduce its role and participation in the two pillars of Italian military security and economic prosperity: NATO and the European Union.
JULY 18, 2017 THE CIPHER BRIEF