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I nodi dell’epoca post-materialista @La_Lettura @Corriere #6febbraio

Gianfranco Pasquino (1942), torinese, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, è professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e socio dell’Accademia nazionale dei lincei. È autore di numerosi libri, i più recenti dei quali sono Minima politica. Sei lezioni di democrazia (2019) e Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (2021), entrambi UTET. A marzo arriverà in libreria Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).

What is Left? All’incirca all’inizio degli anni novanta del XX secolo con persino troppo grande pensosità e delusione, gli intellettuali di sinistra di qua e di là dell’Atlantico si interrogavano dolorosamente sullo stato di salute dei loro punti di riferimento partitici e politici. L’intraducibile gioco di parole, in inglese left è sia “sinistra” sia “rimasto”, prendeva le mosse da molte sconfitte elettorali, a cominciare dall’ennesima subita dai laburisti nel 1992 e a continuare con quella inflitta da Berlusconi nel 1994 a quel che, appunto, era rimasto della sinistra italiana. Già allora, alquanto insofferente alle autoflagellazioni senza attenzione comparata alla “realtà effettuale”, replicai in varie sedi che c’era ancora molto di sinistra nel mondo, in Europa (e negli USA). Infatti, erano “rimasti” numerosi milioni di elettori, centinaia di migliaia di eletti dai comuni ai Parlamenti, decine di partiti di sinistra. Successivamente, mentre commentatori e studiosi si attardavano e crogiolavano pigramente nelle loro superficiali analisi, in pochi anni, già nella seconda metà degli anni novanta, la situazione si era, se non totalmente ribaltata, significativamente trasformata.

   Nel 1996 l’Ulivo, almeno in parte costituito da pezzi di sinistra, vinse le elezioni italiane. Nel 1997 il New Labour di Tony Blair tornò in forza al governo del Regno Unito dal quale mancava dal lontano 1979. Nel 1998 la coalizione socialdemocratici-verdi guidata da Gerhard Schröder (e Joschka Fischer) pose termine alla più lunga esperienza di governo della Germania del dopoguerra: 16 anni del democristiano Helmut Kohl. Fra i grandi paesi europei mancava all’appello soltanto la Francia dopo quattordici lunghi anni, tuttora il record probabilmente insuperabile, della Presidenza di François Mitterrand (1981-1995). Altrove, in particolare nei paesi scandinavi, socialdemocratici e laburisti continuavano a essere partiti capaci di andare al governo. Insomma molto di sinistra era rimasto, risultava competitivo, vinceva e, come avviene nei regimi democratici, talvolta perdeva le elezioni a quel punto garantendo una opposizione in grado di controllare i governi in carica e di presentarsi come alternativa credibile all’elettorato che variamente premiava partiti e leader di sinistra.

   Non c’è nessun dubbio, però, che quello che il grande sociologo liberale tedesco Ralf Dahrendorf aveva definito il “secolo socialdemocratico” si era chiuso. La sinistra, socialdemocratici e laburisti, rimase competitiva. Altre vittorie elettorali sarebbero arrivate. Altri governi sarebbero stati formati, in Germania, addirittura due Grandi Coalizioni a guida democristiana 2005-2009 e 2017-2021 con indispensabile partecipazione socialdemocratica. Negli USA la clamorosa epocale affermazione di Obama (2008) sembrò avere aperto la strada ad un altro New Deal. Non è stato così, ma non mi spingerei a sostenere che, invece, lastricò la strada per Trump. Nel mondo in senso lato di sinistra qualcosa era, però, davvero finito. I due grandi pilastri economico e sociale costruiti dai socialdemocratici e da loro sperimentati e tradotti in scelte concrete quando andavano, erano e rimanevano al governo: il keynesismo e le politiche di welfare, furono attaccati e, il keynesismo, relegato ai margini. In qualsiasi modo si definissero e qualsiasi ruolo svolgessero, neo-(vetero)liberisti e neo-conservatori si misero alacremente all’opera per smantellare il secolo socialdemocratico. Non era più questione di numeri, ma di cultura economica e ancor più di cultura politica, di visione del mondo.

   Quando liberismo e “revisione” (è un eufemismo) del welfare si affermarono anche a livello dell’Unione Europea, inevitabilmente, poiché sostenuti e proposti dalla maggioranza dei governi degli stati-membri, la situazione complessiva di salute dei socialdemocratici, della sinistra europea sembrò ancora più grave di quella dell’inizio degli anni novanta. La riflessione sui motivi di quello che appariva un declino gravissimo tardarono. Nessuno può dubitare che il welfare e il keynesismo abbiano cambiato per il meglio la vita di centinaia di milioni di europei, in maniera in larga parte irreversibile. Sentendosi più sicuri nel quotidiano e più fiduciosi per il loro futuro milioni di cittadini hanno pensato di potere fare a meno della protezione economica e promozione sociale che veniva loro offerta e garantita dai partiti di sinistra. La comparsa di quelli che in una illuminante ricerca comparata su molte nazioni occidentali, il docente di Scienza politica Ronald Inglehart definì cittadini post-materialisti, stava cambiando o aveva già cambiato in maniera irreversibile aspettative e pratiche. Interessati alla loro autorealizzazione personale molto più che alla collaborazione e alla solidarietà collettiva e convinti non solo di potere fare a meno della politica, ma che la politica e lo Stato siano ostacoli di cui sbarazzarsi, i cittadini post-materialisti con il loro fare da soli indebolivano in special modo tutti i partiti socialdemocratici, vecchi e nuovi, vale a dire, quelli dei paesi di recente accesso alla democrazia. Di più, interessati ai temi etici e portatori di soluzioni spesso controverse in termini di libertà di scelta e opposte al conservatorismo sociale di non pochi settori delle classi popolari, i post-materialisti hanno creato tensioni nell’elettorato potenzialmente socialdemocratico (dal quale molti di loro provengono) tanto sulle priorità quanto sulla combinabilità dei temi etici con le politiche più propriamente sociali e economiche.

   Da alcuni anni, prima la crisi economica, poi la pandemia sembrano avere almeno in una (in)certa misura cambiato il vento delle aspettative e delle emozioni, ma gli spezzoni di nuove culture progressiste, il neo-femminismo e l’ambientalismo, non hanno dato vita a nessun rilancio consistente e duraturo della sinistra e delle sue politiche. Anzi, si sono spesso rivelati sfidanti e trasformati in temibili concorrenti elettorali. In verità, indebolitosi e molto screditatosi il liberismo nelle sue varie manifestazioni e applicazioni, anche gli sfidanti della sinistra si trovano in difficoltà e ricorrono a tematiche “negative”, in senso lato “nazional-culturali”, in particolare esprimendosi contro l’immigrazione e contro l’Europa, ruotanti intorno ad una non sempre modica dose di populismo. Ne sono derivati partiti come i Democratici svedesi, i Veri finlandesi, patrioti di varia estrazione, sedicenti democratici orgogliosamente “illiberali” che fanno tutti appello, con qualche successo, ai settori popolari altrimenti elettorato potenziale delle sinistre.

   Avendo saputo accogliere e talvolta significativamente promuovere le donne e le loro tematiche, molti partiti di sinistra con alla testa socialdemocratici e laburisti norvegesi, svedesi, finlandesi e danesi si trovano attualmente al governo. Comunque, si presentano sempre in grado di essere considerati affidabili partiti di governo. Nel resto del continente, socialisti spagnoli e portoghesi hanno saputo dare vita a pur complicate e complesse coalizioni di governo [con la sua clamorosa affermazione elettorale del 30 gennaio 2022, il Partito Socialista Portoghese di Antonio Costa potrebbe anche farne a meno], mentre avvenimento molto rilevante è la riconquista nel 2021 della cancelleria ad opera dei socialdemocratici tedeschi pure lontani dai loro esiti elettorali migliori. In questo panorama, i punti deboli, anzi, debolissimi sono rappresentati da Italia e Francia, sistemi politici nei quali i socialisti sono sostanzialmente assenti oppure ridotti a percentuali irrilevanti, privi, affermerebbe Giovanni Sartori, di qualsiasi potenziale di coalizione. Sullo sfondo si affacciano, più per errori e comportamenti inadeguati dei conservatori, i laburisti inglesi che stanno all’opposizione oramai da dodici anni, ma senza avere finora saputo individuare tematiche e modalità di rinnovamento della loro offerta programmatica post-Brexit (sulla quale hanno pagato il prezzo della ambiguità).

    Una rapida panoramica rivela che i partiti socialisti europei, molti dei quali debbono fare i conti con concorrenti che si situano alla loro sinistra, non riescono più ad andare oltre il 30 per cento dei voti, tranne per l’appunto in Portogallo. Le loro percentuali elettorali oscillano dal 24-28 per cento dei voti, nell’ordine Austria, Danimarca, Norvegia, Spagna e Svezia, spesso sufficienti, però, a farne una componente dei governi dei rispettivi sistemi politici, quando non addirittura il partito del capo del governo. Tuttavia, le loro politiche devono essere costantemente negoziate con gli alleati prevalentemente centristi. Manca cioè la possibilità di imporre una impronta effettivamente e visibilmente “socialista” alle politiche di governo e manca anche il tempo per tentare un’ambiziosa operazione di elaborazione e formulazione di una cultura progressista per il XXI secolo. Soprattutto o semplicemente in aggiunta, si manifesta con grande evidenza l’assenza di leadership attraenti e affascinanti come furono il tedesco Willy Brandt, il portoghese Mario Soares, lo spagnolo González, lo svedese Olof Palme, l’inglese Tony Blair (e persino di intellettuali come è stato il sociologo politico Anthony Giddens, influentissimo teorico della Terza Via). L’ultimo leader che è riuscito ad “appassionare” in qualche modo la sinistra, non strettamente socialista, europea è stato il giovane greco Alexis Tsipras alla guida della coalizione chiamata Syriza (sinistra, movimenti, ecologia), attualmente con più del 30 per cento dei voti, peraltro non vista con grande simpatia dai socialdemocratici/laburisti europei.

  In definitiva, è rimasto ancora molto di sinistra nel continente europeo, anche, ma scarsissima presenza a livello di governo, nei paesi dell’Europa centro-orientale. I problemi da affrontare sono quelli delle società contemporanee avanzate. In estrema sintesi, solo in parte, data la difficoltà del compito, sorprende, anche se può preoccupare, che non si intraveda nell’ambito della sinistra una visione nuova e trascinante, un cultura politica che sappia dare risposte europeiste anche al tema, più che emergente, delle diseguaglianze sociali, culturali prima e più di quelle economiche (alle quali i populisti offrono risposte viscerali tremendamente semplificatrici spesso di fluttuante successo), che siano in grado di dettare le politiche nel futuro prossimo. Hic Europa hic salta.

Da La Lettura del Corriere della Sera 6 febbraio 2022

Il filosofo vuole cambiare partito

Cambiare il Partito Democratico? Si può, sostiene Roberto Esposito su “Repubblica” (24 agosto). È facile. Però, bisogna che gli intellettuali che criticano il PD si iscrivano al partito. Lo cambieranno da dentro. Come mai non ci (mi metto, non abusivamente, fra gli intellettuali critici) abbiamo pensato prima? Per fortuna che, adesso, grazie ad Esposito, i filosofi non si limitano più a studiare il mondo, ma cercano di cambiarlo. Non so quanto mondo conosca il filosofo Esposito. Sono, invece, sicuro che non conosce i partiti politici e, meno che mai, il PD (come partito, non come dirigenti). Lascio da parte che, anche se, nel peggiore dei casi, il PD avesse circa 300 mila iscritti, sarebbe difficile per gli intellettuali di sinistra vincere numericamente qualsiasi battaglia interna a qualsivoglia organismo di partito. Riuscirebbero mai ad ottenere la maggioranza in un circolo del PD? A Bologna certamente no. Lì hanno vinto coloro che volevano candidare Pierferdinando Casini al Senato e poi l’hanno anche fatto votare (e votato davvero!). Altrove, bisognerebbe fare un’analisi circolo per circolo, ma ho regolarmente assistito a votazioni nelle quali facevano la loro comparsa truppe cammellate di iscritti tempestivamente invitate per l’ora nella quale si sarebbe tenuta la votazione. Grazie a interventi “sapientemente” misurati, la votazione aveva luogo quando gli oppositori si erano stancati e i cammellati erano arrivati.

Peraltro, il problema per l’iscrizione di massa degli intellettuali comincerebbe proprio dalla richiesta della fatidica tessera. Infatti, qualsiasi domanda di iscrizione può essere respinta dal direttivo di qualsiasi circolo. Le motivazioni del respingimento sarebbero tutte molto plausibili. Come si fa a dare la tessera a quello lì che ci critica da anni oppure a quello lì che si è opposto alle riforme costituzionali oppure a quell’altro che ha votato LeU, l’ha detto pubblicamente, se n’è vantato? Non siamo affatto convinti che l’aspirante condivida, minimo, il programma del partito, e così via.  Iscrizione a rischio, spesse volte lasciata ad libitum dei dirigenti del partito locale i quali, ovviamente, hanno i voti e sono in grado di respingere persino gli eventuali simpatizzanti di un altro leader locale che sia in minoranza. No, il filosofo Esposito non conosce il Partito Democratico e le sue dinamiche. Sembra che non conosca neanche il funzionamento dei partiti in generale. Avrebbe, forse, potuto (dovuto) rafforzare il suo bizzarro invito all’iscrizione di massa degli intellettuali con qualche esempio di successo tratto da sistemi politici nei quali la trasformazione di uno o più partiti è avvenuta con la procedura da lui suggerita.

La un tempo famosissima Bad Godesberg (1959) grazie alla quale la SPD riuscì a accreditarsi come partito non a vocazione maggioritaria, ma governativa, avvenne in seguito all’iscrizione di massa degli intellettuali tedeschi a quel partito? La creazione del Parti Socialiste in Francia nel 1971 fu il prodotto di spostamenti di masse di intellettuali al seguito di François Mitterrand oppure di una lunga elaborazione culturale e politica in club nei quali si trovavano settori della società civile, borghesia progressista, imprenditori, alti funzionari statali, laureati della Grandi Scuole d’Amministrazione (non ricordo la presenza di filosofi), ma soprattutto della leadership politica? La trasformazione del Labour Party in New Labour all’inizio degli anni novanta del secolo fu il seguito di un boom di iscrizioni di intellettuali oppure di un cambio generazionale e di una consapevole lotta politica condotta da Tony Blair, Gordon Brown e alcuni esperti di comunicazione politica? Qualcuno potrebbe anche voler chiedere a Esposito in quale conto i fondatori del Partito Democratico hanno dato prova di tenere gli intellettuali nel 2007 e poi, ad esempio, nel 2018 per le candidature al Parlamento.

Nessuna iscrizione di massa al PD è possibile a meno che i non meglio definiti intellettuali critici del partito si organizzino come falange compatta (non proprio la modalità organizzativa preferita e praticata dagli intellettuali chiunque siano) prima di qualsiasi azione nei confronti del PD. Altrimenti, quasi sicuramente sarebbero risucchiati nelle logiche di funzionamento interno di un partito organizzato in piccole, settarie oligarchie. Soprattutto, una volta ufficialmente iscritti, troveranno molti ostacoli all’espressione del loro dissenso. Forse, però, è questo l’obiettivo di Esposito: fare risucchiare gli intellettuali critici e, mentre lui continuerà a scrivere su “Repubblica”, sostanzialmente silenziarli.

Pubblicato il 25 agosto 2018

Karl Marx duecento anni dopo #KarlMarx #Marx200 #Marx2018 VIDEO @FondCorriere

Il marxismo è (stato) una ideologia nel senso migliore della parola: una visione del mondo, una prospettiva sul futuro. Ha creato una cultura politica anche nel dibattito/scontro “rivoluzione vs riforme”. Grandi partiti di sinistra si sono formati nella riflessione e nel superamento di quella antinomia, anche senza, inconveniente grave, elaborare una teoria dello Stato. Scomparso il marxismo su quali basi si ricostruisce una cultura politica? È lecito sostenere che il declino dei partiti di sinistra si accompagna, ma forse è anche la conseguenza, della scomparsa della loro cultura politica, e viceversa?

Sala Buzzati
via Balzan 3, Milano
Giovedì 3 maggio 2018

In occasione della presentazione di
Karl Marx vivo o morto?
Il profeta del comunismo duecento anni dopo,
a cura di Antonio Carioti, Solferino – I libri del Corriere della Sera

 

Non c’è traccia di populismo in nessuna variante del marxismo. Non il popolo, non la nazione, ma la classe e il proletariato internazionale occupano il centro del pensiero dei marxisti. Laddove i populisti vogliono dividere il popolo buono e puro, che li sostiene, dai traditori del popolo, ovvero chiunque rappresenta altre preferenze e si oppone a loro, il marxismo vuole offrire ai proletari l’opportunità di liberarsi delle sue catene guardando oltre e fuori i confini delle nazioni. Il populismo non libera nessuno.

La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia* #KarlMarx #Marx200 #Marx2018

*La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia, in A. Carioti (a cura di), Karl Marx. Vivo o morto? Il profeta del comunismo duecento anni dopo, Milano, Solferino, pp. 175-185
Presentazione 3 maggo 2018 ore 18 Fondazione Corriere, Sala Buzzati via Balzan 3 Milano

 

Il pensiero e gli scritti di Karl Marx, la sua analisi del capitalismo, dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori, la prospettiva del superamento dello stadio nel quale la borghesia era/è stata la classe dominante fino alla situazione nella quale non sarebbe più esistito il governo degli uomini sugli uomini in quanto sostituito dall’amministrazione delle cose hanno costituito il patrimonio iniziale di tutti, o quasi, i partiti che si definivano socialdemocratici. Tuttavia, fin dall’inizio delle esperienze socialdemocratiche, già ai tempi di Marx e Engels, si sono prodotti contrasti di non poco conto sulle modalità con le quali fare transitare la teoria di Marx all’azione nella concretezza della lotta politica per conseguire obiettivi che non tutti i socialdemocratici condividevano a cominciare dall’alternativa, a lungo protrattasi, fra riforme e rivoluzione. Se le riforme “di struttura” portassero ad esiti rivoluzionari oppure addirittura rafforzassero il capitalismo in sostanza rimandando e impedendo l’emergere della società socialista è un dilemma che ha attraversato i socialdemocratici in tutti i luoghi fino a tempi relativamente recenti. La rottura più profonda e duratura nel mondo delle socialdemocrazie avvenne quando nel Secondo Congresso della Terza Internazionale Lenin impose ai partiti socialdemocratici e socialisti di accettare 21 condizioni che li avrebbero trasformati in comunisti. Da allora il marxismo fu per molti decenni l’ideologia al tempo stesso sia del maggior numero dei partiti socialdemocratici sia di tutti i partiti comunisti dell’Occidente. Le loro strade si divaricavano, ma per lungo tempo il riferimento a Marx non venne meno né, faccio due soli esempi, per i socialisti italiani guidati da Turati né per i cosiddetti austromarxisti. Nella pure tragica contrapposizione durante la Repubblica di Weimar (1919-1933) fra i socialdemocratici e i comunisti, il marxismo come ideologia e teoria non fu messo in discussione dai primi pure tacciati dai comunisti staliniani di essere diventati socialfascisti.

Ieri. L’abbandono del marxismo da parte dei socialdemocratici tedeschi fu effettuato più di un decennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nel Congresso di Bad Godesberg nel 1959. Quella decisione ebbe un impatto enorme. Aprì la strada ad una molteplicità di richieste, talvolta intimazioni, indirizzate soprattutto ai comunisti, in particolare quelli italiani, di “andare a Bad Godesberg” (ridente cittadina termale) e procedere ad un lavacro di tipo revisionista. Sette anni dopo i socialdemocratici tedeschi arrivarono al governo della allora Germania Ovest, la Repubblica Federale Tedesca, in una Grande Coalizione, per rimanervi poi con i Liberali fino al 1982. Per l’importanza della Germania e della SPD stessa e per le conseguenze politiche irreversibili che Bad Godesberg ebbe, l’avvenimento ha segnato uno spartiacque nella storia delle socialdemocrazie. Tuttavia, i percorsi dei vari partiti socialdemocratici e socialisti europei, dopo Marx, dopo la rivoluzione bolscevica, dopo il fascismo e il nazismo erano già stati molto differenziati. Oserei applicare a tutti quei partiti una famosa frase di Marx sostituendo la parola uomini appunto con partiti, come segue: “i partiti fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”. Anche se già nel 1951 fu fondata l’Internazionale Socialista, che oggi conta circa 150 partiti aderenti, soltanto i pure molto importanti principi generali sono condivisi. Non solo le tattiche politiche contingenti, ma le strategie di lungo periodo dei diversi partiti sono fortemente condizionate dallo stato dei paesi e delle società in cui operano, dalle loro tradizioni e dal contesto partitico stesso.

Per cominciare con il caso in qualche modo ai margini delle socialdemocrazie continentali, più che alla lunga operosa presenza di Marx a Londra, città nella quale morì (nel 1883) ed è sepolto, la storia del laburismo inglese è debitrice di fatti e tradizioni specifiche della Gran Bretagna, della forza del pur variegato e frammentato movimento sindacale, dell’eredità del pensiero illuminista scozzese e liberale, degli intellettuali della Fabian Society e della dinamica complessiva del sistema politico a cominciare dall’estensione graduale, ma significativa, del diritto di voto. Tutto questo plasmò un partito laburista nel quale i marxisti furono sempre una piccola e non influente minoranza, e nel quale la cifra dell’azione politica fu regolarmente il riformismo senza nessuna ambizione rivoluzionaria. Sicuramente i Laburisti britannici debbono essere considerati parte integrante delle socialdemocrazie europee, ma le loro specificità hanno continuato a contare nel corso del tempo e nelle numerose esperienze di governo. Sono state trasferite ovvero recepite e nutrite anche in alcuni paesi della diaspora anglosassone come Australia e Nuova Zelanda dove i partiti laburisti hanno spesso governato dando rappresentanza e potere alle classi popolari.

Sul continente è possibile rilevare tre, forse quattro varianti di socialismi. Le prime due varianti sono relativamente facili da individuare e definire. Sono, rispettivamente, quelle dei partiti – laburisti, socialisti, dei lavoratori – dei paesi nordici e quelle dell’Europa meridionale, più precisamente, della Francia e dell’Italia. Nei paesi nordici i socialisti non hanno dovuto, con l’eccezione parziale della Finlandia, affrontare la sfida di un forte partito comunista alla loro sinistra. Hanno a lungo goduto dell’appoggio ovvero di una relazione stretta e fondamentalmente collaborativa con un forte sindacato unitario. Giunsero al governo del loro paese, in special modo, il Partito Socialista dei Lavoratori svedese, già all’inizio degli anni trenta. Hanno plasmato in maniera indelebile, “nelle circostanze che trova(ro)no immediatamente davanti a sé”, la vita politica, sociale e economica come non è stato possibile in nessun altro sistema politico. Lo hanno fatto procedendo alla virtuosa combinazione fra una politica economica all’insegna del keynesismo e una politica sociale improntata al welfare. Hanno formulato e spesso attuato accordi e addirittura assetti definiti neo-corporativismo basati sulla solida relazione tripartitica fra un governo di sinistra (sorretto dal partito socialdemocratico), il sindacato unitario e le organizzazioni imprenditoriali, sorretta dalla fiducia reciproca che gli impegni presi saranno mantenuti e attuati. Non può suscitare nessuna sorpresa che, come direbbero gli inglesi, at the end of the day, tutte le classifiche internazionali, a cominciare da quella autorevole dell’Indice dello Sviluppo Umano (reddito, livello di istruzione, stato di salute) vedano regolarmente ai primi posti Norvegia e Svezia, Danimarca e Finlandia.

Le esperienze socialdemocratiche di governo nei paesi nordici sono spesso state giudicate in maniera molto severa, comunque considerate non meritevoli di imitazione nei due maggiori paesi latini, vale a dire Francia e Italia. Sia i politici socialisti e, con maggiore acrimonia, comunisti sia i loro intellettuali di riferimento hanno rimproverato a quei socialdemocratici di non avere saputo cambiare, sconfiggere, superare il capitalismo quanto, piuttosto, di averlo “salvato”, rendendolo persino più efficiente e più forte. In seguito, quei politici e quegli intellettuali hanno sostenuto che le esperienze socialdemocratiche si erano logorate ed erano entrate in crisi. Dunque, non valeva la pena né studiarle né, tantomeno, imitarle. Certamente non entrarono in crisi le esperienze socialdemocratiche in Francia e in Italia poiché in Francia non ebbero mai modo di prodursi tranne che, in parte, con la prima presidenza di François Mitterrand (1981-1988), in Italia sostanzialmente mai anche se, forzando un po’ la valutazione e gli esiti, il primo centro-sinistra italiano (1962-1964) costituì una fase di significativo riformismo. La debolezza dei partiti socialisti francese e, soprattutto, italiano a fronte della solidità dei corrispondenti partiti comunisti e della loro rappresentatività della classe operaia costituì l’ostacolo maggiore, ancorché non l’unico (vi si deve aggiungere quantomeno la divisione della rappresentanza sindacale), alla conquista del governo in un paese occidentale nel periodo della Guerra Fredda. La divisione a sinistra e il conflitto socialisti/comunisti hanno finito per rendere impossibile qualsiasi costruzione di un attore partitico unitario in grado di proporre politiche riformiste di stampo socialdemocratico. In nessuno dei due paesi, praticamente scomparsi i partiti che potrebbero richiamarsi alla socialdemocrazia, è ragionevolmente possibile ipotizzare una qualche ripresa di politiche riformiste, rese per di più ancora più difficile dalla dinamica complessiva della globalizzazione e dallo spirito del tempo.

Nei paesi più propriamente mediterranei come Grecia, Portogallo, Spagna, dopo il crollo dei rispettivi autoritarismi, il compito dei partiti socialisti è consistito soprattutto nel creare e mantenere le condizioni di un regime democratico dando rappresentanza ai ceti popolari e guidando lo sviluppo dell’economia ed è stato coronato da sostanziale successo. La democrazia si è consolidata. Non era da quei partiti e da quei paesi che ci si potessero aspettare innovazioni di rilievo nelle politiche socialiste. L’abbandono del marxismo come ideologia e come guida alla prassi fu logica conseguenza dei tempi e, tranne che brevemente per il Partito Socialista Operaio Spagnolo, non implicò nessuna difficoltà né, tantomeno, traumi. Più complessa la situazione prodottasi nei sistemi politici dell’Europa centro-orientale dopo il 1989. Ridotto il marxismo a mero rituale, a ideologia imbalsamata, a catechismo per gli aspiranti a far parte della nomenclatura, il fallimento dei regimi comunisti ha svelato il vuoto di cultura politica. Non poteva che essere bassa o nulla la credibilità dei partiti comunisti che trasformavano il loro nome in socialisti e i cui ceti politici traslocavano armi e bagagli nella neppur troppo nuova botte socialista che avevano in passato largamente screditato. La reazione profonda e di entità inattesa contro il comunismo “realizzato” ha chiuso ogni spazio a eventuali apparizioni di compagini socialiste che, infatti, tuttora, quasi vent’anni dopo la transizione, non esistono, con conseguenze gravi sullo spirito civico e sulla qualità della democrazia di ciascun paese. Non erano, forse, solo i partiti comunisti dominanti l’impedimento alla formulazione e attuazione di politiche riformiste neppure quelle vagamente di stampo socialdemocratico.

La caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 cambiò ancora una volta “le circostanze” nelle quali si trovavano ad operare i partiti (e i governi) socialdemocratici. In verità, nell’Europa occidentale quelle circostanze erano già cambiate molto significativamente grazie alla prosperità economica diffusasi nel dopoguerra e soprattutto a mutamenti culturali più irreversibili di qualsiasi benessere economico. Quei vantaggi economici, di lavoro e di guadagno, che l’azione organizzata in partiti e in sindacati aveva consentito di conseguire a milioni di cittadini e che i partiti e i governi socialdemocratici avevano cercato di distribuire in maniera equa, semmai più favorevole ai ceti popolari, potevano oramai, almeno così sembrò ai figli e alle figlie di quei lavoratori, essere conseguiti individualmente, di persona attraverso il perseguimento dell’autorealizzazione (Inglehart 1977). I valori post-materialisti e i loro (giovani) portatori fecero irruzione sulla scena politica scompaginando in particolare la sinistra, le variegate organizzazioni socialdemocratiche nelle quali convivevano padri “materialisti” e figli e figlie che, proprio grazie ai loro genitori, potevano permettersi di avere e applicare valori post-materialisti. Naturalmente, alcuni paesi erano più avanzati sulla scala del post-materialismo e in questi paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche i paesi nordici, l’onda del post-materialismo colpì in misura considerevole le socialdemocrazie esistenti e governanti.

Oggi. Curiosamente, nello stesso anno, 1994, in cui Bobbio insisteva sulle ragioni della persistenza di ben distinte posizioni di destra e di sinistra, il sociologo inglese Anthony Giddens argomentava e spiegava perché fosse indispensabile andare Oltre la destra e la sinistra. I tumultuosi anni di governo dei conservatori, Thatcher (1979-1990) e Major (1990-1997), favoriti dalla scissione dei socialdemocratici nel 1981, avevano imposto ai laburisti un agonizing reappraisal (dolorosissima rivalutazione) della loro strategia, della loro stessa visione della Gran Bretagna. Più di altri Giddens contribuì alla formulazione della Terza Via (il sottotitolo inglese del libro omonimo pubblicato nel 1998 è The Renewal of Social Democracy) che divenne la formula con la quale il New Labour di Tony Blair approdò al governo nel 1997. Tra il liberismo estremo dei conservatori e il laburismo obsoleto, Blair e Brown si aprirono una Terza Via che doveva riformare il partito, le modalità di governo, le politiche, la stessa società britannica. È una Via nella quale neppure credono più la maggioranza dei dirigenti laburisti e i loro elettori che premiano il più tradizionale, classico, forse effettivamente socialdemocratico Jeremy Corbyn.

Non credo si possa collocare nella Terza Via l’Ulivo fortunosamente vittorioso alle urne nell’aprile 1996 anche se, indubbiamente, fra le motivazioni di alcuni protagonisti si trovava quella del superamento della socialdemocrazia classica (peraltro, mai concretamente comparsa nel contesto italiano). Con qualche forzatura fu inserita nella Terza Via l’esperienza del governo presidenziale del democratico Bill Clinton (1992-2000). Molto più appropriato è il riconoscimento che quanto volle fare il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (1998-2005), ovvero plasmare e ridefinire un nuovo centro (Die Neue Mitte), rappresentò effettivamente la Terza Via secondo modalità tedesche. Tuttavia, da allora è cominciato un significativo e persistente declino elettorale della SPD che, peraltro, è rimasta politicamente la migliore alleata di governo della Democrazia Cristiana tedesca (2005-2009; 2013-2017; ????-????). Infine, l’esperimento iniziato in Italia nel 2007 con la formazione del Partito Democratico è, comunque lo si valuti, la fuoriuscita da qualsiasi possibilità di recupero, di rilancio, di rielaborazione di un esperimento socialdemocratico. Nella vicina Francia, la clamorosa vittoria presidenziale (2017) di Emmanuel Macron ha con tutta probabilità posto fine a quel poco che era rimasto di socialdemocrazia francese trascendendo Parti Socialiste e Rèpublicains gollisti con lo slogan sia destra sia sinistra e relegandoli in un passato che non potrà tornare. Solo nei sistemi politici scandinavi le socialdemocrazie hanno lasciato tracce tanto profonde quanto positive, ma i duri dati elettorali dicono che, sì, potranno, nella logica delle democrazie dell’alternanza, tornare al governo, ma all’orizzonte non si vede nessun rilancio di un’età d’oro socialdemocratica.

Bilancio per il domani. Abbiamo appreso dai bolscevichi la dura lezione della storia che il socialismo in un solo paese non può essere costruito. Non è possibile dimenticare che uno dei cardini del pensiero di Marx era l’internazionalismo sotto forma di solidarietà del proletariato di tutti i paesi: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Invece, ciascuno e tutti i partiti socialdemocratici hanno a partire dagli anni Trenta, ma ancor più nel secondo dopoguerra intrapreso e percorso, con maggiore o minore successo, le loro vie nazionali. Dappertutto c’è da qualche tempo ormai la consapevolezza che nessuna di quelle vie nazionali porta ai traguardi/esiti di mantenimento della prosperità e di riduzione delle diseguaglianze che le socialdemocrazie continuano a ritenere degni di essere perseguiti. Anzi, almeno per quel che riguarda la prosperità la sfida della globalizzazione può essere meglio affrontata in chiave sovranazionale nel quadro offerto dall’Unione Europea. Che le sfide della globalizzazione, del governo dell’economia, delle migrazioni possano essere vinte dai governi nazionali che operino senza accordi reciproci e senza cooperazione è l’illusione dei sovranisti. Che possa riaprirsi quella che, brillantemente analizzando le esperienze scandinave, Esping Andersen (1985) definì La via socialdemocratica al potere caratterizzata dalla capacità della politica di contrapporsi vittoriosamente ai mercati appare piuttosto improbabile.

I primi due punti di quello che circa centocinquant’anni fa era il Programma socialdemocratico minimo: 1. Rimuovere gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo; 2. Ampliare le libertà borghesi, democrazia e diritti civili, soprattutto il suffragio, sono stati conseguiti. Il punto 3. Accrescere il ruolo del proletariato industriale di fabbrica deve essere ridefinito con riferimento al ruolo dei lavoratori in un mercato del lavoro caratterizzato da enormi variazioni e squilibri. Il punto 4. Lottare contro i bastioni internazionali della reazione (la Russia zarista) mantiene la sua validità, ma i bastioni della reazione non si trovano all’interno di un solo Stato. Anche se l’Unione Europea non è in alcun modo definibile come socialdemocratica, la lotta contro la reazione non può che partire dalle sue istituzioni che delimitano il più grande spazio di libertà e diritti mai conosciuto. Quest’ultima affermazione mi consente di ricordare le parole di Bobbio che qualche decennio fa (per la precisione nel 1976) concludeva la sua splendidamente sintetica voce Marxismo del Dizionario di politica UTET sottolineando che la socialdemocrazia “ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato (borghese) dall’interno”, mentre il marxismo afferma la necessità della distruzione dello Stato borghese affinché lo Stato stesso si estingua. Le esperienze dei comunismi realizzati hanno contraddetto l’imperativo marxista riguardante l’estinzione dello Stato potenziandolo e rendendolo totalitario. Le socialdemocrazie hanno di tanto in tanto conquistato non lo Stato, ma il governo di numerosi paesi trasformando in meglio il funzionamento e il rendimento complessivo dei sistemi politici nei quali hanno avuto ruoli importanti. All'”amministrazione delle cose” profetizzata da Marx le socialdemocrazie non sono pervenute, ma, è opinione diffusa che i loro governi hanno avuto successo. Eppure, è il paradosso, sono diventati meno probabili e meno frequenti. In Europa non si aggira lo spettro della socialdemocrazia.

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Riferimenti bibliografici
Bartolini, S. (2000) The Political Mobilization of the European Left, 1860-1980: The Class Cleavage, Cambridge: Cambridge University Press
Bobbio, N. (2016) Marxismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Novara, De Agostini, pp. 556-562.
De Waele, J.-M., Escalona, F., Vieira, M. (a cura di) (2013) The Palgrave Handbook of Social Democracy in the European Union, New York, Palgrave-Macmillan.
Esping-Andersen, G. (1985) Politics against Markets. The Social Democratic Road to Power, Princeton, Princeton University Press.
Giddens, A. (1994) Oltre la destra e la sinistra, Bologna, Il Mulino.
Giddens, A. (2001) La terza via, Milano, Il Saggiatore.
Inglehart, R. (1977) The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press.

La leadership della rottamazione

Larivistailmulino

“E’ un’illusione -tanto pericolosa quanto diffusa- che nelle democrazie contemporanee quanto più un leader domina il suo partito e il governo tanto più è grande” *

Articolo pubblicato da La rivista il Mulino,

fascicolo n. 478, 2/2015 (pp. 254-259)

A fior di pelle, l’emergere di un leader mini-populista nel corpo affaticato del Partito Democratico, appesantito dalle resistenze, per lo più verbali e poco contro-propositive, degli epigoni del PCI e della DC, è un fenomeno interessante. Per il momento, lascio la descrizione della rapida sequenza degli avvenimenti alle cure degli storici contemporanei (anche perché ce ne siamo già variamente occupati nei saggi curati da G. Pasquino e F. Venturino, Il Partito Democratico secondo Matteo, Bononia University Press 2014). In questa sede, intendo valutare come il nuovo leader del PD si è finora espresso, in quali direzioni sta andando, con quali risultati. Salvati suggerisce due ambiti sui quali concentrare l’attenzione: l’innovazione mediatico-organizzativa e l’innovazione politico-ideologica. Mi pare che le due presunte innovazioni si intersechino e si sovrappongano. Pertanto, pur facendovi riferimento, più o meno indiretto, non le terrò distinte. Per capire il renzismo bisogna inserirlo nel quadro più ampio della transizione politico-istituzionale del sistema politico italiano iniziata nel 1994 e mai chiusa da Silvio Berlusconi, leader inizialmente carismatico, poi più semplicemente personalista, provatosi incapace di istituzionalizzare il suo carisma e di preparare la sua successione. Sembrò a molti che sarebbe toccato al Partito Democratico guidato da Bersani di chiudere la transizione anche se con l’espressione troppo spesso ripetuta: “la Costituzione più bella del mondo”, alcune delle necessarie riforme non avrebbero comunque mai visto la luce. La non-vittoria elettorale di Bersani e la sua cattiva gestione del partito portarono, invece, ad una rielezione senza precedenti del Presidente della Repubblica. Imposero la formazione di un altro governo di transizione, incidentalmente, un altro esemplare di “governo del Presidente”. Produssero l’ennesima crisi interna al Partito Democratico della quale Renzi seppe trarre profitto incassando con gli interessi il suo investimento personale, politico, organizzativo effettuato fin dalle primarie del novembre-dicembre 2012 concessegli con fin troppa generosità (o eccesso di sicurezza) da Bersani.

Due volte favorito dal contesto, ma anche due volte capace di sfruttarlo, il renzismo è velocità e opportunismo, Renzi conquistò in rapida, quasi ineluttabile, sequenza il partito e il governo (grazie anche alla non opposizione del Presidente Napolitano e alla sua non-richiesta di formale apertura in Parlamento della crisi del governo Letta)). Questa breve, sintetica, ma corretta, storia, che richiederebbe approfondimenti politici e istituzionali ad ogni passaggio (al fine di evitare errori, non soltanto interpretativi, e di non ripeterli) dell’ascesa dell’ex-sindaco di Firenze mi pare non abbia praticamente nulla in comune con la lunga lotta di Tony Blair e di Gordon Brown, entrambi facilitati dalle riforme introdotte nel corpo del partito dal loro predecessore e mentore John Smith, finalizzata ad ammodernare il partito laburista e farne il New Labour (incidentalmente, sulla scheda elettorale queste due parole non hanno mai fatto la loro comparsa). Non c’è paragone possibile neppure con la conquista del governo che per Blair passa attraverso una convincente vittoria elettorale nel 1997. Lasciando da parte il confronto delle personalità Blair/Renzi, della loro oratoria, dei loro riferimenti, non si deve sottacere che il leader laburista ha alle spalle un tirocinio parlamentare durato 14 anni. Infine, intorno a Blair c’è un gruppo dirigente composto da personalità di alto livello esposta ad un’elaborazione culturale di alto livello (e molto disposta ad accettarla) il cui esponente da noi più noto è un grande sociologo, Anthony Giddens, oggi Lord Giddens, il vero ispiratore e teorico della Terza Via.

Nel ristretto circolo di persone che si dice consiglino Renzi ho cercato invano intellettuali dello spessore di Giddens. Non mi è parso di cogliere nelle varie Leopolde una elaborazione culturale e politica in qualche modo paragonabile a quella dei laburisti e dei think tank che, senza identificarsi con il New Labour, formulavano idee per il rinnovamento del partito e delle sue politiche. Di conseguenza, ho definitivamente abbandonato il paragone Renzi/Blair (e PD/New Labour) ritenendolo sbagliato, fuorviante, improponibile. Il Partito Democratico di Matteo Renzi non ha praticamente nulla in comune con il New Labour di Blair. L’oratoria di Blair non ha mai fatto ricorso a termini come rottamazione, non soltanto perché la tradizione in Gran Bretagna conta, l’esperienza è ritenuta una qualità, le conoscenze si apprendono, e non ha mai fatto riferimento a Peppa Pig o simili. Per quanto brillante e sferzante, come Max Weber sapeva dovessero essere i Primi ministri inglesi, “dittatori del campo di battaglia parlamentare”, campo peraltro frequentato da Blair quasi unicamente nei mercoledì del question time, il Primo ministro inglese non ha mai dimenticato che la più alta carica di governo richiede gravitas. Da parte mia, aggiungo che tutti i grandi capi di governo delle democrazie occidentali (da Churchill a De Gasperi, da de Gaulle a Brandt, da Kohl a Merkel) hanno mostrato questa gravitas e che proprio la levitas (spero che i lettori apprezzino il mio eufemismo) berlusconiana ha costituito un elemento di straordinaria vulnerabilità della sua stagione di governo e, giustamente, della sua statura di leader.

Niente di tutto quello che riguarda il Partito laburista, la conquista della leadership, l’esercizio del potere di governo è, evidentemente, folclore. Fa parte di una cultura politica che segnala quanto imbarazzante è il paragone con quella italiana. Dunque, meglio fuoruscire dal paragone nobilitante e passare sul terreno dell’innovazione organizzativa. L’abbandono del partito di massa, già avvenuto qualche tempo prima dell’anno 1 dell’era di Renzi, non può certamente essere considerato un suo apporto alla modernizzazione. Ci si potrebbe chiedere come è strutturato e come funziona il Partito Democratico di Renzi. E’ una domanda legittima in particolare poiché Renzi e i renziani di tutte le ore occupano attualmente le cariche più importanti nel partito a tutti i livelli. Non importa se sono diminuiti gli iscritti poiché questo è un trend generale in Europa in tutti i partiti grosso modo di sinistra. Un conto, però, è la tendenza di fondo, un conto molto diverso sono, invece, i crolli. Sappiamo che il leader mediatico non ha bisogno di iscritti. Non ha il tempo di andare a cercarli; non incoraggia nessuna campagna di reclutamento per la quale i renziani dovrebbero impegnarsi a parlare di politica con i già iscritti, che vorrebbero andarsene, e con i non iscritti, che desiderano farsi convincere. Forse nell’era dei talk show e di Twitter i voti si conquistano con le nuove tecnologie, ma, direbbe Gramsci (“chi?”), il consenso duraturo e, soprattutto, la formazione di una cultura politica diffusa non passano sul web.

Il fatto è che, altro che innovazione “mediatico-ideologica”!, il Partito Democratico di Renzi è piantato nel contesto del sistema dei partiti italiani. Con appena qualche ritardo (ma soltanto perché Veltroni, incamminatosi, con maggiore consapevolezza, su quella strada, era stato costretto a fermarsi) sta diventando, come hanno notato i migliori analisti, ad esempio, Mauro Calise e Ilvo Diamanti, un partito personalista. Nessuno può sostenere neanche per un momento che, lasciando da parte i partiti in senso lato socialisti di tutta l’Europa, i laburisti inglesi, neppure quando il loro leader era Blair, possano essere definiti “personalisti”. Invece, in Italia, nessuno avrebbe dubbi sull’esistenza di molti partiti personalisti. Anzi, ho già argomentato altrove (Italy: The Triumph of Personalist Parties, in “P&P Politics and Policy”, vol. 42, n. 4, August 2014, pp. 548-566), che tutti i partiti italiani sono personalisti e che i loro effetti sulla qualità della democrazia (che un leader dovrebbe volere e sapere migliorare) risultano assolutamente negativi. Qualcuno obietterà che il PD ha organismi decisionali, strutture e sedi, ma, non soltanto a mio modo di vedere, esibisce anche tutti i tratti caratteristici dei partiti personalisti: a) la presenza di un leader dominante e di un’organizzazione per scelta debolmente istituzionalizzata (dopo gli scandali di Venezia, Milano e Roma, diremmo giustamente anche “permeabile”); b) il dominio da parte del leader della comunicazione televisiva; c) il rapporto privilegiato a tutto campo con gli elettori (anche a scapito del rapporto con gli iscritti); d) il suo totale disinteresse per l’ideologia; e) la sua raccolta diretta di fondi. Al proposito, i più colti fra i politologi richiamerebbero anche la sindrome del partito pigliatutti di Otto Kirchheimer (1965) e avrebbero ragione da vendere. Naturalmente, se questa era/è l’intenzione dei fondatori del Partito Democratico e dei suoi cantori, ne prendo atto, ma soltanto dopo avere evidenziato i punti più significativi.

Qualche volta i leaders cambiano stile passando dal partito al governo, da alcune costrizioni a notevoli opportunità. Non è certamente questo il caso di Matteo Renzi. Decisionista nel partito, sostenuto da una solidissima maggioranza di renziani di tutte le ore, il capo del governo è riuscito, almeno fino ad ora, a fare credere che il suo è un governo che fa le riforme non fatte mai, almeno negli ultimi trent’anni (nel fascicolo 5/2014 “il Mulino” ha già gentilmente ospitato il mio articolo Un’altra narrazione che smentisce in maniera documentata quanto affermano il capo del governo e i suoi collaboratori). Non è questo il luogo nel quale entrare nei dettagli delle riforme proposte e dello stato della loro attuazione. Suggerisco un criterio semplice da applicare sui due casi da Renzi considerati decisivi. Il testo detto Italicum della riforma elettorale (incidentalmente un sistema proporzionale con premio di maggioranza che quasi nulla ha a che vedere con i sistemi maggioritari, meno che mai, come molto erroneamente scritto nello stesso fascicolo de “il Mulino”, p. 751 e p. 752 con quello francese maggioritario a doppio turno in collegi uninominali) ha una lontana somiglianza con le tre proposte formulate da Renzi nel gennaio 2014. La modifica del Senato approvata in prima lettura presenta non poche differenze rispetto all’iniziale disegno di legge del governo. Insomma, il capo del governo e il suo Ministro per le Riforme rilevano di avere idee poco chiare e convinzioni non forti in materia elettorale e istituzionale.

Più forti, ma non per questo più convincenti, sono le idee di Renzi in materia di rapporti con le parti sociali, più precisamente con i sindacati e altre associazioni di categoria. Sicuramente, Tocqueville non figura in maniera preminente fra le letture del capo del governo. Che vi sia un legame strettissimo fra democrazia e pluralismo dovrebbe essere noto a tutti. Meno noto, forse, è che le difficoltà socio-economiche sono state superate più rapidamente negli anni settanta dai sistemi politici nei quali i rapporti fra governi e parti sociali: sindacati e associazioni industriali, diedero vita ad assetti definiti neo-corporativi. Nei sistemi politici nei quali si hanno scontri fra governi e sindacati l’esito non è mai efficace per il funzionamento dell’economia. Alla fine del decennio thatcheriano (1990), la Gran Bretagna, nella quale Margaret Thatcher aveva messo all’angolo i sindacati negando loro qualsiasi ruolo sociale e di rappresentanza, fu superata dall’Italia del pentapartito nella classifica delle nazioni più industrializzate. All’insegna della disintermediazione, Renzi potrà anche mettere ai margini i sindacati (che, dal canto loro, non sono esattamente le strutture più innovative del paese), ma avrà reso un cattivo servizio a tutta la società e resta da vedere se avrà rilanciato l’economia. Rottamazione della classe politica e disintermediazione della società non sembrano necessariamente le migliori ricette per cambiare la cultura politica, vale a dire le idee, le credenze, le concezioni degli italiani. Anzi, sembrano fatte apposta per coltivare il populismo che serpeggia nell’elettorato italiano, magari accompagnandolo con frequenti e ripetute critiche ai tecnocrati di Bruxelles ai quali i virtuosi governanti italiani imporranno di “cambiare verso”. Infine, che un leader non obietti alla definizione del suo partito come Partito della Nazione non può non destare qualche preoccupazione di scivolamento dal personalistico al solipsistico con venature di blando autoritarismo. Queste preoccupazioni crescono ascoltando il leader che dichiara “l’astensionismo è un problema secondario”.

E’ un segno dei tempi che quel che conta per misurare la leadership sia il metro della popolarità. In effetti, Renzi è molto popolare. Non sorprendentemente, poiché i capi di governo godono quasi sempre di maggior popolarità dei leader dell’opposizione soprattutto in un sistema multipartitico, Renzi risulta tuttora il più popolare dei leader italiani anche se i più recenti dati disponibili indicano la perdita di una decina di punti fra l’estate e l’autunno inoltrato del 2014. Non azzarderò nessun paragone con Churchill e de Gaulle e neppure con Blair e Merkel. La caratura di un leader si misura ex post facto, con riferimento alle sue riforme e allo stato del suo paese quando lo lascia: migliore o peggiore di come l’ha preso? Al momento, nessuno degli indicatori utilizzabili suggerisce che l’Italia stia meglio di poco meno di un anno fa, quando Renzi subentrò a Enrico Letta. Non ho nessuna remora a sospendere il giudizio, ma la sospensione non significa affatto che si debba dare un giudizio positivo sulle qualità di leader di Matteo Renzi. E’ consigliabile attendere che almeno alcune delle riforme siano completate e attuate. Sospendere il giudizio non significa sospendere le critiche, purché siano documentate. Anche se so che è fin troppo facile proiettarsi nel futuro, non posso trattenermi dal ricordare che la prova della pizza sta nel mangiarla. Ma la pizza confezionata da Renzi non è ancora pronta, e, più solennemente, che i grandi leader e gli statisti lasciano un paese in condizioni migliori di quelle in cui l’hanno trovato. Concludo citando una frase tratta da uno dei più importanti studi contemporanei sulla leadership (già citato in apertura): “in generale, l’accumulazione di enorme potere da parte di un singolo leader lastrica la strada per errori importanti nel migliore dei casi e per disastri nei peggiori”

*Archie Brown, The Myth of the Strong Leader. Political Leadership in the Modern Age, Londra, Bodley Head, 2014, p. vi.