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Le gambe corte dei sovranisti dello stivale @EURACTIVItalia
Il sovranismo è poca dottrina e molta pratica deludente. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sostengono che l’Italia ha colpevolmente ceduto parte della sua sovranità oppure che, altrettanto colpevolmente, se n’è fatta espropriare dai burocrati e dagli eurocrati di Bruxelles. Su queste affermazioni senza fondamento hanno conquistato voti, ma non sono in grado di elaborare una dottrina. “Prima gli italiani” è affermazione vaga e propagandistica. Contiene di tutto un po’ tranne che un progetto. Nella pratica va subito a cozzare con “Prima gli Ungheresi”, “Prima i Polacchi” e, naturalmente, “America, first”. Però, l’America è lontana, molto più lontana della Russia di Putin, amico e, forse, in qualche modo, finanziatore della Lega. Invece, ungheresi e polacchi, i “veri” finlandesi, i “democratici” svedesi, i “fortunosi” olandesi e via via tutti i sovranpopulisti dell’Europa contemporanea non sono amici. Inevitabilmente, costitutivamente, i sovranisti non possono trovare alleati a livello sovranazionale se non in chiave negativa: contro, per l’appunto, coloro che perseguono politiche di coordinamento e collaborazione che tentano di combinare interessi e preferenze, valori e obiettivi in partenza “nazionalmente” diversi.
Salvini e Meloni queste modalità di accordi con le loro controparti sovraniste non le hanno trovate, e non soltanto per loro personale incapacità. Con la sua Forza Italia, Berlusconi si era trovato regolarmente in contrasto con i Popolari Europei, del cui gruppo nel Parlamento europeo pure faceva parte (grazie ai suoi molti “numeri”, ma mi concedo di non essere più preciso…). Nei suoi non luminosissimi anni di governo, Berlusconi si era spessissimo trovato in contrasto con la Commissione Europea, in chiara minoranza nel Consiglio Europeo, critico delle scelte che venivano fatte fino ad attribuire la sua fuoruscita dal governo nel 2011 ad un complotto metà “europeo” metà ordito dal Presidente francese Nicholas Sarkozy e dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel. Da qualche tempo, non saprei con quale credibilità, Berlusconi sembra essere diventato l’anima europeista del centro-destra italiano. In una certa misura questa (ri)conversione è dovuta ad Antonio Tajani. Infatti, come potrebbe l’ex-Presidente del Parlamento europeo manifestare atteggiamenti anti-europeisti? Con quale coerenza politica e personale potrebbe schierarsi contro scelte e politiche che i Popolari europei (a cominciare dalla democristiana Ursula von der Leyen) formulano, appoggiano e approvano, contribuiscono ad attuare? Berlusconi deve anche avere pensato che con la sua posizione di europeista può attirare voti di elettori italiani conservatori, ma non anti-europei. Anche a Forza Italia manca, però, una qualsiasi elaborazione culturale relativa all’Europa che vogliono.
Ciò detto, è la dura lezione dei fatti che si è abbattuta, attraverso il Coronavirus, sulla Lega e su Fratelli d’Italia nonché, naturalmente e giustamente, anche sugli altri sovranisti del continente. Da solo, nessun paese si risolleverà facilmente, meno che mai, anche perché più pesantemente colpita, l’Italia. Salvini e Meloni hanno un bel dire che l’Unione Europea deve fare di più, dare di più, impegnarsi di più, ma il fatto rimane che l’Unione Europea sta facendo qualcosa che nessuno Stato-membro riuscirebbe a fare da solo. Sta concedendo fondi non nella disponibilità di qualsiasi singolo Stato. Sta proiettandosi anche nel futuro con impegni che nessun sovranista può assumere e il cui adempimento non sarebbe comunque in grado di garantire. In ultima istanza, il sovranismo è “bellum omnium contra omnes” sul campo di battaglia europeo (e poi, Trump volendo, mondiale: distruzione di quel che rimaneva dell’ordine internazionale liberale). L’Unione Europea è condivisione, collaborazione, trasformazione. Allora, i sovranisti del nostro stivale debbono alzare la voce per coprire il silenzio delle loro non-proposte e le loro contraddizioni. Continueranno a farlo fino all’afonia.
Pubblicato il 4 giugno 2020 su euractiv.it
Qual è il Parlamento più produttivo? I numeri della produzione legislativa dei Parlamenti democratici
È ora di uscire da un confuso e manipolato dibattito sull’improduttivo bicameralismo paritario italiano e di dare i numeri sulla produttività di alcuni Parlamenti democratici. Naturalmente, sappiamo da tempo che i Parlamenti, oltre ad approvare le leggi, svolgono anche diversi molto importanti compiti: rappresentano le preferenze degli elettori, controllano l’operato del governo, consentono all’opposizione di fare sentire la sua voce e le sue proposte, riconciliano una varietà di interessi. Sono tutti compiti difficili da tradurre in cifre, ma assolutamente da non sottovalutare per una migliore comprensione del ruolo dei Parlamenti nelle democrazie parlamentari, nelle Repubbliche presidenziali e in quelle semipresidenziali. Qui ci limitiamo alle cifre sulla produzione legislativa poiché una delle motivazioni della riforma del Senato italiano, in aggiunta alla riduzione del numero dei parlamentari e al conseguente, seppur limitatissimo, contenimento dei costi della politica, consiste nel consentire al governo di legiferare in maniera più disinvolta, di fare più leggi più in fretta. È un obiettivo non considerato particolarmente importante dalla maggioranza degli studiosi.
La produzione di leggi ad opera di un Parlamento dipende da una pluralità di fattori, fra i quali tanto la forma di governo quanto l’obbligo di ricorrere alle leggi per dare regolamentazione ad un insieme di fenomeni, attività, comportamenti. Pertanto, i dati concernenti forme di governo molto diverse fra loro sono inevitabilmente non perfettamente comparabili, ma sono sicuramente molto suggestivi. I dati sulla Germania riguardano la legislatura 2005-2009 che ebbe un governo di Grande Coalizione CDU/SPD e quella successiva nella quale ci fu una “normale” coalizione CDU/FDP. Dal 2007 al 2012 la Francia semipresidenziale ebbe un governo gollista con la Presidenza della Repubblica nelle mani di Nicholas Sarkozy. Dal 2010 al 2015 la Gran Bretagna fu governata da una inusitata coalizione fra Conservatori e Liberaldemocratici. La prima presidenza Obama (2008-2012) fu per metà del periodo segnata dal governo diviso ovvero con i Repubblicani in controllo del Congresso. Ricordiamo che negli USA l’iniziativa legislativa appartiene al Congresso, ma il Presidente può porre il veto, raramente superabile, su tutti i bills approvati dal Congresso. Per l’Italia abbiamo scelto tre periodi: 1996-2001, con diversi governi di centro/sinistra; 2001-2006, governi di centro-destra con cospicua maggioranza parlamentare; 2008-2013, prima un lungo governo di centro-destra che si sgretolò gradualmente, poi dal 2011 un governo non partitico guidato da Mario Monti. Questi due elementi spiegano perché la legislatura 2008-2013 abbia prodotto meno leggi delle due che l’hanno preceduta.
Complessivamente, però, i dati indicano chiaramente che il bicameralismo italiano paritario non ha nulla da invidiare ai bicameralismi differenziati sia per quello che riguarda la produzione legislativa sia per quello che riguarda la durata dell’iter legislativo. I dati presentati nella tabella mostrano come la quantità di produzione legislativa del Parlamento Italiano sia in linea con la produzione legislativa della maggiori democrazie occidentali, se non, in qualche caso, addirittura superiore. Una considerazione analoga può essere fatta per i tempi di approvazione. Nei Parlamenti e nelle legislature esaminate, l’approvazione di una legge richiede in media circa dodici mesi, nove negli Stati Uniti, e otto mesi o poco più nel caso italiano. Il Parlamento italiano quindi fa molte leggi e le fa in tempi piuttosto celeri.
Gianfranco Pasquino e Riccardo Pelizzo
Pubblicato i 3 giugno 2016