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Cercasi leader credibili per un nuovo ordine mondiale @DomaniGiornale

Troppi si sono già dimenticati, oppure, forse non hanno mai realizzato, che l’ordine mondiale del dopoguerra, che non fu mai del tutto “liberale”, è stato il prodotto di due fattori. Da un lato, il ruolo, questo sì effettivamente liberale, svolto dagli Stati Uniti da Bretton Woods in poi nelle grandi organizzazioni internazionali, in particolare quella per il Commercio e nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale. Dall’altro, quel tanto di ordine internazionale che ha caratterizzato il dopoguerra fino al 1989 dipese, lo scriverò con l’enfasi degli studiosi che lo battezzarono, descrivendolo e monitorandolo, dall’equilibrio del terrore (nucleare) fra USA e URSS. Il meritato disfacimento dell’URSS ha creato una situazione nella quale gli USA si sono ritrovati superpotenza solitaria, ma, in parte restia in parte incapace, di costruire un nuovo ordine internazionale. La guerra del Golfo nel 1991 comunicò comunque che la creazione di una ampia coalizione con obiettivi condivisi è una soluzione possibile, forse la soluzione anche auspicabile. Nel frattempo, però, alcuni Stati, cresciuti grazie all’ordine che era esistito, hanno cercato di imporsi sulla scena internazionale con l’obiettivo, talvolta meritorio, di raddrizzare qualche squilibrio. Impropriamente, li chiamerò un po’ tutti Brics, consapevole, ovviamente, che Russia e Cina giocano anche un’altra partita e su tavoli diversi.

L’operazione militare speciale di Putin, vale a dire la brutale aggressione all’Ucraina, non è stata lanciata perché la Nato abbaiava (però, senza mordere) ai confini della Russia, ma perché il capo del Cremlino sta tentando di arrestare il declino, in buona parte già avvenuto e irreversibile, del suo paese. La ricca Ucraina rimane una preda ambita, anche se sarà quasi impossibile rilanciare il prestigio della Russia il cui potere militare sembra attualmente dipendere dalle armi, e persino dai soldati, provenienti dalla Corea del Nord.

In altri tempi, il Presidente degli USA avrebbe probabilmente cercato di contrapporre all’aggressore una coalizione, includendovi, per esempio, l’Unione Europea, non, come ha fatto Trump, prima con una specie di ammuina a Putin, poi facendo la faccia feroce e lanciando ultimatum: cessate il fuoco entro 50 giorni. La assoluta necessità di una coalizione capace di imporre la fine del conflitto Hamas-Israele è lampante. Anche in questo drammatico contesto le dichiarazioni di Trump sembrano non sortire alcun effetto con Netanyahu che continua arrogante e imperterrito a perseguire obiettivi che sono anche suoi personali.

Nessuno degli studiosi delle relazioni internazionali ha mai scritto che potenza e prestigio dipendono esclusivamente dalle condizioni economiche di un paese. Tutti o quasi gli studiosi di economia sostengono che il libero commercio è fattore di crescita, nazionale e internazionale. Qualcuno aggiunge che il commercio riduce le tensioni e agevola comportamenti di collaborazione, pacifici. Dazi e protezionismo non fanno diventare grande proprio nessuno. Le guerre commerciali finiscono sempre male, più o meno. Sicuramente le guerre commerciali non servono a ristrutturare le modalità di commercio mondiale che, sostiene Trump, risultano in svantaggi consistenti e persistenti per le imprese e gli operatori economici USA. Dei consumatori il Presidente non sembra curarsi. Anche in questo caso le sue dichiarazioni sono roboanti, talvolta offensive, e gli ultimatum quasi perentori.

Il Presidente Trump ha già perso molta credibilità, e i sondaggi USA lo rilevano e rivelano senza eccezione alcuna. Un Presidente non credibile con comportamenti erratici e non prevedibili non ha nessuna possibilità di (contribuire a) costruire un nuovo ordine internazionale. Anzi, la continuazione del disordine è assicurata dalla crescita, anche, come ambizioni, della Cina della cui visione di ordine internazionale è legittimo essere preventivamente preoccupati. Please, Unione Europea, batti un colpo, anche due.

Pubblicato il 16 luglio 2025 su Domani

Rileggete Huntington. Segnalò rischi reali @La_Lettura #vivalaLettura

A circa un quarto di secolo dalla sua pubblicazione qual è la validità della tesi di Samuel P. Huntington contenuta nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 1997)? Per rispondere correttamente bisogna preliminarmente chiarire qual’era effettivamente la tesi del grande politologo di Harvard scomparso ottantunenne nel 2018. Infatti, la maggior parte dei molti, spesso faziosi, critici di Huntington sembra essersi fermata alla prima parte del titolo e non avere mai letto la seconda. Per di più, molti di loro hanno fatto di Huntington una specie di sostenitore e cantore della necessità dello scontro fra le civiltà, non solo inevitabile, ma addirittura auspicabile. Al contrario, Huntington intendeva mettere in rilievo gli elementi e gli sviluppi che sembravano portare a un possibile scontro fra le civiltà proprio affinché i policy makers, con i quali aveva avuto frequenti e controversi rapporti nella sua attività accademica e di consulente, ne fossero consapevoli e approntassero opportuni rimedi. Come per l’altrettanto giustamente famoso libro del suo allievo Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1991, trad. it. 1992), ugualmente letto male e peggio interpretato, è il crollo del muro di Berlino e del comunismo a stare a fondamento dell’interrogativo/obiettivo che si pone Huntington. La ricostruzione di un ordine mondiale sarebbe stata resa più facile dalla fine dello “scontro” fra le liberal-democrazie contro i comunismi realizzati e dalla vittoria delle prime? “Il futuro non sarà più dedito ai grandi, vivificanti scontri di ideologie, ma piuttosto a risolvere concreti problemi economici e tecnici”, che è la sintesi del libro di Fukuyama proposta da Huntington (p. 29), oppure altro si affacciava all’orizzonte e le sue premesse erano già visibili a chi disponeva di adeguati strumenti conoscitivi?

Il contenuto del libro di Huntington richiede ai lettori, ai critici, agli “interpreti” la capacità di combinare elementi di cultura politica in senso lato (cultura è una traduzione migliore di “civiltà”) con conoscenze di relazioni internazionali. Non può stupire che la recensione del libro di Huntington pubblicata sulla prestigiosa “American Political Science Review” (16 mila abbonati in tutto il mondo) fu affidata a un prestigioso studioso di Relazioni Internazionali , Richard Rosecrance. Infatti, Huntington non è interessato alle “civiltà” (o culture politiche) in quanto tali, ma al loro impatto sulla (ri)costruzione di un ordine mondiale. “Finita la storia” della Guerra Fredda durante la quale l’ordine mondiale, seppure con molte anche sanguinose slabbrature, era stato mantenuto dal bipolarismo USA/URSS, in che modo e da chi e che cosa sarebbe emerso un nuovo ordine mondiale? È in atto un’intensa discussione sull’esistenza durante la Guerra Fredda, di un ordine politico internazionale liberale fatto da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale, le Nazioni Unite, con regole e procedure comunque rispettate fino a tempi recenti, ma che il presunto, reale, relativo declino degli USA non riuscirebbe più a garantire.

Le distinzioni che contavano negli anni Novanta non erano già più quelle su basi ideologiche, ma, per l’appunto culturali. Le liberaldemocrazie potevano anche avere vinto la Guerra Fredda, ma nel frattempo avevano fatto la loro comparsa i fondamentalismi e nella visione di Huntington alcune grandi religioni stavano a fondamento delle civiltà che prendevano coscienza delle loro peculiari identità per organizzarsi. Intese come “ampie entità culturali”, secondo Huntington esistono nel mondo contemporaneo sette civiltà (l’ordine è mio): occidentale, latino-americana, giapponese, indù, islamica, cinese (confuciana), africana. Molti critici si sono esercitati a smentire l’esistenza delle “civiltà” come definite da Huntington e, comunque, a negarne l’unitarietà, preferendo sottolinearne le differenziazioni interne. Huntington non nega le possibili differenze, ma il suo punto è che, a ogni buon conto, le differenze fra le civiltà sono molto più grandi e più rilevanti delle differenze all’interno delle stesse civiltà. A proposito dei critici (ai quali la più brillante risposta è contenuta nel densissimo articolo di Francesco Tuccari, “il Mulino”, n. 3/2015, pp. 588-594), è interessante notare che sostanzialmente ciascuno di loro è uno specialista, conoscitore di una civiltà, come i francesi studiosi dell’Islam, come Amartya Sen e la sua India, come l’orientalista di origine palestinese Edward Said, come alcuni intellettuali latino-americani, e le loro obiezioni sono tutte particolaristiche. Praticamente nessuno guarda, come direbbero gli anglosassoni, alla “big picture”.

Le critiche più severe, qualche volta addirittura violente, riguardarono il trattamento, certamente tutt’altro che ossequioso, che Huntington fa dell’Islam e della sua civiltà. Due furono le obiezioni rivoltegli. Primo, l’Islam non è monolitico; secondo, lo scontro di civiltà è talvolta interno proprio ai paesi islamici. Sono entrambe obiezioni malposte poiché Huntington riconosce le differenziazioni all’interno di tutte le civiltà e la possibilità di scontri. Nel caso del mondo islamico la mancanza più preoccupante è quella di una potenza egemonica (core) in grado di imporre l’ordine e di diventare guida. I tentativi di Al Quaeda e dell’Isis sembrano falliti così come le primavere arabe. Nel mondo islamico stanno tutti i fattori di rischio per la costruzione e stabilizzazione di un ordine mondiale, in particolare, le guerre civili in Siria, Libia, Yemen. Né si vede come, nella latitanza egoistica della leadership autoritaria, compromessa e corrotta dell’Arabia Saudita, possa fare la sua comparsa una potenza egemone riconosciuta e accettata come tale.

Da qualche tempo, ha fatto la sua comparsa, inquietante, ma inevitabile, per ragioni territoriali, demografiche, di coesione intorno al confucianesimo e grazie alla possente guida del Partito Unico, la Cina Comunista. Ha potenzialità enormi e persino la pazienza di attendere che maturino le condizioni per una sua espansione comunque già in atto. In maniera premonitrice, poiché da un’analisi solida conseguono previsioni non campate in aria, Huntington scrisse che “gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica” (cinese, p. 265). Quegli scontri, surrogati da episodi violenti di vario genere, sono tuttora un’eventualità, mentre il nuovo ordine mondiale è molto di là da venire.

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