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Cosa si guadagna a cosa si perde con il semipresidenzialismo @DomaniGiornale


Il semipresidenzialismo è una forma di governo a se stante. Non è un misto, una combinazione variabile di parlamentarismo e presidenzialismo. Tuttavia, ce ne eravamo accorti per tempo (Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, il Mulino, 1997) nel suo funzionamento può, di volta in volta, vedere grande potere per il Presidente, comunque, non “iperpresidenzialismo” oppure il potere di governo quasi tutto nelle mani del Primo ministro e della sua maggioranza parlamentare, comunque non “parlamentarismo” poiché il Presidente è più che un freno e un contrappeso. Il Presidente è eletto con voto popolare separatamente dal Parlamento. Ha poteri esecutivi e soprattutto può, entro certi limiti, decidere se e quando sciogliere il Parlamento. Nomina il Primo ministro che deve godere della fiducia del Parlamento e che, dunque, è il capo della maggioranza parlamentare che, talvolta, non coincide con la maggioranza che ha eletto il Presidente.
A loro insaputa, i grandi giuristi, fra i quali Hugo Preuss, e politici che nel 1919 scrissero la Costituzione tedesca disegnarono una forma di governo semipresidenziale ante-litteram. Dovendo sostituire un imperatore la cui legittimità discendeva dalla tradizione e dalla storia, decisero di investire il Presidente della Repubblica, poi nota come Weimar, con la legittimità derivante dall’elezione popolare diretta. Notevoli poteri di governo furono riconfermati nel Cancelliere di Weimar. Quello che cambiò profondamente fu la competizione fra i partiti, del tutto democratica grazie anche ad una legge elettorale proporzionale. Weimar crollò, ma la causa non fu certamente la proporzionale e neppure il tanto vituperato articolo 48 che concedeva poteri eccezionali in stato di emergenza al Presidente della Repubblica. La causa incontrollabile fu la polarizzazione estrema fra due partiti antisistema: il Nazionalsocialista e il Partito comunista staliniano.
Non immediatamente compreso nella sua complessità e nella sua strutturazione, il semipresidenzialismo fece la sua ricomparsa dopo il crollo della Quarta Repubblica francese (1946-1958), forma di governo parlamentare debole e inefficiente, fin dall’inizio duramente contrastata e delegittimata da de Gaulle che le aveva subito contrapposto le sue idee costituzionali formulate nel discorso pronunciato nel giugno 1946 a Bayeux. Per uscire dalla “eterna palude”, definizione da lui data della politica nella Quarta Repubblica, Maurice Duverger, noto studioso di Diritto Costituzionale e Scienza politica, nelle pagine del quotidiano “Le Monde”, proponeva l’elezione popolare diretta del Primo Ministro (poi goffamente ripresa da alcuni italiani anche nostri contemporanei). Tenendo conto delle preferenze espresse dal Generale, i consiglieri costituzionali di de Gaulle procedettero nel senso della concessione di notevoli poteri esecutivi al Presidente della Repubblica inizialmente nel 1958 eletto dall’Assemblea Nazionale, poi, dal 1965, direttamente dal popolo: legittimità democratica ineccepibile accompagnata da un mandato settennale per porlo al di sopra dell’Assemblea nazionale e dei rappresentanti eletti per cinque anni.
Contro le régime des partis, quei partiti responsabili della palude della Quarta Repubblica, de Gaulle volle una legge elettorale maggioritaria in collegi uninominali con una soglia di passaggio al secondo turno per i candidati del 5, poi 10, poi 12.5 per cento degli aventi diritti. L’intento, chiaramente riuscito, era quello di rendere ininfluenti i piccoli partiti, i cui ricatti avevano prodotto molti governi instabili, e di spostare l’attenzione degli elettori sui candidati, su una nuova classe dirigente che i gaullisti in primis dimostrarono di saper selezionare. Per 23 anni, metà dei quali, senza de Gaulle, nel sistema politico francese non ci fu alternanza, ma notevole competizione politica sì e la nascita del Parti Socialiste. La vittoria di François Mitterrand nel 1981 fu il primo test di un fenomeno/rischio forse neppure immaginato da de Gaulle e dai suoi consiglieri: una maggioranza parlamentare di un colore, centro-destra vittorioso nel 1978, e Presidente del colore opposto, ma dotato del potere di sciogliere l’Assemblea Nazionale purché avesse almeno un anno di vita. Richiamati alle urne subito gli elettori affidarono al Presidente Mitterrand la maggioranza che desiderava e che era essenziale per governare. Ma nel 1986 nuovamente gollisti e Repubblicani indipendenti conquistarono la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale nonostante Mitterrand avesse introdotto una legge PR che, fenomeno di enorme impatto, consentì l’affermazione di 35 esponenti lepenisti, loro capo compreso.
Pur potendo, Mitterrand preferì non sciogliere l’Assemblea nazionale in attesa della riconferma, che ottenne, alla Presidenza nel 1988. La coabitazione successiva ebbe luogo dal 1993 al 1995 quando, vecchio e malato, il Presidente preferì completare il suo mandato senza nessuno scioglimento. Un enorme errore, ovvero una scommessa rischiosa del Presidente Chirac che sciolse l’Assemblea nella quale godeva di una sostanziosa maggioranza, portò alla più lunga delle coabitazioni, 1997-2002, fra Chirac e il socialista Jospin e pose le premesse per una riforma costituzionale di notevole importanza che, ritengo, de Gaulle non avrebbe assolutamente gradito. Riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, elezioni presidenziali da svolgersi prima di quelle parlamentari, con il Presidente eletto in grado di esercitare un effetto di trascinamento a favore dei candidati al parlamento del suo schieramento. Così è finora stato. Mi sono dilungato sul modello capostipite, ma la storia politico-costituzionale del semipresidenzialismo in Portogallo offre un esempio di successo con non poche coabitazioni, una attualmente in corso: governo di sinistra, Presidente del centro-destra.
La temuta e inizialmente molto criticata coabitazione non è in nessun modo assimilabile al governo diviso nel presidenzialismo USA. Nella coabitazione c’è sempre chi governa: il Presidente se ha la maggioranza nell’Assemblea oppure il Primo ministro che diventa e rimane tale proprio perché ha e fintantoché mantiene la maggioranza che ha tutto l’interesse a rimanere compatta e a mostrare efficienza per rendere quasi impossibile/ingiustificabile lo scioglimento ad opera del Presidente. Negli USA, quando compare il “governo diviso”: Presidente di un partito, almeno una camera con maggioranza assoluta dell’altro partito, nessuno governa. Ne conseguono stallo decisionale e pratiche diffuse di scaricabarile, buckpassing, che impediscono all’elettore di valutare le responsabilità politiche, sempre evidenti nella coabitazione del semipresidenzialismo.
Nel corso del tempo, il semipresidenzialismo è stato importato e fatto funzionare in non pochi sistemi politici: del Portogallo nel 1975 ho detto; in buona parte delle ex-colonie africane francofone e sorprendentemente a Taiwan (Semi-presidentialism outside Europe, a cura di Robert Elgie e Sophia Moestrup, Londra e New York, Routledge, 2007); in diversi sistemi politici post-comunisti: Polonia, Romania, Bulgaria, Ucraina (Angelo Rinella, La forma di governo semipresidenziale. Profili metodologici e “circolazione” del modello francese in Europa centro-orientale, Torino, Giappichelli, 1997).
La transizione da una Repubblica parlamentare, come quella italiana, a una Repubblica semipresidenziale, richiede anzitutto una discussione non allarmistica e non apodittica, ma anche la presentazione non apologetica e non esagerata dell’esito finale come se potesse risolvere tutti i problemi politici italiani, molti dei quali non dipendono affatto dalle istituzioni. L’esperienza francese, ma non solo, è decisamente positiva. Ricca di insegnamenti, rivela che il semipresidenzialismo presenta qualche inconveniente, ma è certamente in grado di offrire notevoli opportunità istituzionali e politiche.
Pubblicato il 18 marzo 2023 su Domani
Sul semipresidenzialismo: un dialoghetto urgente e pressante @C_dellaCultura


Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore
Apprendista: Come un fulmine nel ciel sereno (sic) della politica italiana, il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha evocato il “semipresidenzialismo de facto”. Nel profluvio di interpretazioni, che mi sono per lo più parse piuttosto disinformate, mi piacerebbe sentire la sua.
Professore: Rispondo, anzitutto, sul “de facto” poiché purtroppo ho fatto un frettoloso tweet definendo l’idea del presidenzialismo de facto “abbastanza eversiva”. Uscire dalla democrazia parlamentare italiana per praticare un semipresidenzialismo non tradotto in norme costituzionali è, tecnicamente, una “eversione” della nostra Costituzione. A mente più fredda, sono giunto alla conclusione che Giorgetti non suggeriva l’eversione, ma indicava una soluzione secondo lui possibile e auspicabile: Draghi Presidente della Repubblica che si nomina un Primo ministro suo agente in Parlamento. Può succedere, fermo restando che il Parlamento manterrebbe il potere di sfiduciare il capo del governo e il Presidente quello di sciogliere il Parlamento, anzi, addirittura di minacciarne anticipatamente lo scioglimento. Nel circuito istituzionale del semipresidenzialismo tutto questo è possibile. Legittimo. Produttivo di conseguenze democratiche. Poi, per il semipresidenzialismo de jure ci vorrebbe, ovviamente, una seria e complessa riforma della Costituzione.
A: Poiché ho letto “attribuzioni” di paternità che non mi sono parse convincenti, ricominciamo da capo. Chi ha dato vita alla parola e alla pratica del semipresidenzialismo?
P: Padri della terminologia, non sono stati, come hanno scritto troppi commentatori, né il Gen. De Gaulle né il giurista Maurice Duverger. Il fondatore della Quinta Repubblica era interessato ad un regime che si basasse sul potere costituzionale del Presidente della Repubblica a scapito di quello politico dei partiti. Duverger combattè e perse la sua battaglia a favore dell’elezione popolare diretta del Primo ministro (sì, se le suona qualcosa in testa è giusto così). Solo diversi anni dopo giunse a teorizzarne la validità e l’efficacia (A New Political System Model: Semi-Presidential Government, giugno 1980). In effetti, il termine fu coniato in un articolo pubblicato l’8 gennaio 1959 da Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano “Le Monde”, che voleva criticare l’accentramento di potere nelle mani del Presidente (de Gaulle). In parte, Beuve-Méry aveva ragione, ma era proprio quell’accentramento che de Gaulle voleva e aveva chiesto ai suoi consiglieri giuridici a cominciare da Michel Debré che diventò il primo Primo Ministro della Quinta Repubblica. Lo ottenne. Poi si riscontrò che il semipresidenzialismo gode anche di una buona dose di flessibilità.
A: È vero che esisteva un precedente esempio di semipresidenzialismo finito tragicamente e quindi non menzionabile?
P: Verissimo. La Costituzione della Repubblica di Weimar (1919-1933) aveva disegnato proprio una forma di governo semipresidenziale. Non è inconcepibile che i giuristi intorno a de Gaulle e il grande sociologo Raymond Aron che avevano studiato in Germania in quegli anni ne siano stati più o meno inconsapevolmente influenzati. Solo molto tempo dopo una studiosa USA, Cindy Skach, ha scritto un bel libro mettendo convincentemente le istituzioni di Weimar in collegamento con quelle della Quinta Repubblica (Borrowing Constitutional Designs: Constitutional Law in Weimar Germany and the French Fifth Republic, Princeton University Press, 2005). La vera grande differenza fra Weimar e la Quinta Repubblica è che nella prima fu utilizzata una legge elettorale proporzionale che consentiva/facilitava la frammentazione del sistema dei partiti, mentre in Francia funziona un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che premia le posizioni moderate e incentiva la formazione di coalizioni.
A: Forse è il momento per definire esattamente cos’è una forma di governo semipresidenziale.
P: Fermo restando, naturalmente, che saprei proporre una definizione con parole mie, ubi maior minor cessat. Quindi, cedo la parola a Giovanni Sartori che individua cinque caratteristiche:
i) il capo dello Stato (il presidente) è eletto con voto popolare –direttamente o indirettamente—per un periodo prestabilito;
ii) il capo dello Stato condivide il potere esecutivo con un primo ministro, entrando così a far parte di una struttura ad autorità duale i cui tre criteri definitori sono:
iii) il presidente è indipendente dal Parlamento, ma non gli è concesso di governare da solo o direttamente; le sue direttive devono pertanto essere accolte e mediate dal suo governo;
iv) specularmente, il primo ministro e il suo gabinetto sono indipendenti nella misura nella quale sono dipendenti dal parlamento e cioè in quanto sono soggetti sia alla fiducia sia alla sfiducia parlamentare (o a entrambe), e in quanto necessitano del sostegno di una maggioranza parlamentare;
v) la struttura ad autorità duale del semi-presidenzialismo consente diversi equilibri e anche mutevoli assetti di potere all’interno dell’esecutivo, purché sussista sempre l’ “autonomia potenziale” di ciascuna unità o componente dell’esecutivo. (Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino 2000, pp. 146-147)
Farei un’unica, importante aggiunta: il Presidente può sciogliere il Parlamento quasi a suo piacere (in generale lo motiva con la necessità del buon funzionamento degli organismi costituzionali, ma la tipologia degli scioglimenti può essere alquanto varia e variegata) purché quel Parlamento abbia almeno un anno di vita.
A: Abitualmente chi parla di semipresidenzialismo si riferisce (quasi) esclusivamente alla Quinta Repubblica francese, spesso, per lo più, in maniera critica e per sostenere che non è appropriato per la Repubblica italiana. Ciononostante, il semipresidenzialismo si è “affacciato” anche in Italia, giusto?
P: Proprio così. Altro che affacciarsi, il semipresidenzialismo irruppe nella Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema quando nel giugno del 1998 i rappresentanti della Lega riuscirono a farlo votare più per affondare la Commissione che per convinzione. Nel dibattito accademico (che non vuole dire soltanto “ininfluente”), Sartori lo appoggiò sempre. Personalmente anch’io sono favorevole, “non da oggi”. Rimando al mio capitolo nel libro che contiene anche capitoli di Stefano Ceccanti e Oreste Massari, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee (il Mulino 1996). Le critiche sono tante, troppe per poterle citare, ripetitive e faziose, per lo più inadeguate dal punto di vista della “verità effettuale”. Insomma, molto si può dire del semipresidenzialismo, ma considerarlo il prodromo di qualche scivolamento irreversibile nell’autoritarismo mi pare francamente improponibile. Qui, poi, si misura anche il provincialismo di molti giuristi italiani e dei commentatori che vi si affidano che sembrano credere che il semipresidenzialismo esista soltanto in Francia.
A: “Provincialismo” è una critica che lei rivolge spesso ai giuristi italiani, ma in questo caso come la sostanzierebbe?
P: Mai domanda fu più facile. In maniera sferzante Sartori rimanderebbe tutti alle bibliografie internazionali che elencano numerosi titoli dedicati alle forme di governo semipresidenziali esistenti in molte parti del mondo: dall’Europa dell’Est a, comprensibilmente, non pochi paesi dell’Africa francofona, a Taiwan che mi pare un caso molto interessante e istruttivo. In estrema sintesi, alcuni studenti taiwanesi a Parigi quando venne creata la Quinta Repubblica ne apprezzarono l’assetto istituzionale e lo importarono in patria. Con notevole successo. Su tutto questo si vedano l volumi curati da Lucio Pegoraro e Angelo Rinella, Semipresidenzialismi, CEDAM 1997, e da Robert Elgie e Sophia Moestrup, Semi-presidentialism outside Europe, Routledge 2007.
A: Insomma, a sentire lei tutto andrebbe splendidamente nel semipresidenzialismo, saremmo nel migliore dei mondi possibili, appropriatamente, insieme al francese Candide. Però, a lungo proprio in Francia vi furono voci critiche e una ventina d’anni fa venne introdotta una riforma piuttosto incisiva Dunque?
P: Credo sia interessante ricordare che il primo cattivissimo critico della Quinta Repubblica, con lui tutta la sinistra, fu François Mitterrand nel suo libro Le coup d’État permanent (1964). Eletto Presidente nel 1981, dichiarò memorabilmente: “Les institutions n’étaient pas faites à mon intention. Mais elles sont bien faites pour moi”. Le critiche più frequenti hanno riguardato il fenomeno della cohabitation: il Presidente di una parte politica, la maggioranza parlamentare di un’altra parte, spesso proprio quella opposta. Sicuramente, de Gaulle non avrebbe gradito, ma lo scioglimento del Parlamento che i Presidenti possono imporre dopo un anno di vita del Parlamento, è lo strumento con il quale tentare di uscire dalla cohabitation. Fu così nel 1981 e nel 1988. Comunque, se quando c’è governo diviso negli USA ne segue uno stallo nel quale non riescono a governare né il Presidente né il Congresso, nei casi di coabitazione governa il Primo ministro (fu così anche nella lunga 1997-2002 coabitazione fra il Presidente gollista Jacques Chirac e il Primo ministro socialista Lionel Jospin) che ha una maggioranza parlamentare consapevole che, creando difficoltà al “suo” Primo ministro, correrebbe il rischio dello scioglimento del Parlamento. Per porre fine all’eventualità della coabitazione Chirac e Jospin si accordarono su una riforma che non sarebbe certamente stata gradita a de Gaulle: riduzione della durata del mandato presidenziale da sette a cinque anni, elezioni presidenziali da tenersi prima di quelle legislative contando sulla propensione dell’elettorato a dare una maggioranza al Presidente appena eletto. Finora ha funzionato con soddisfazione di coloro che credono che la coabitazione è sempre un problema. La mia valutazione è diversa, ma ne discuteremo in altra sede. Mi limito a suggerire di pensare ad una coabitazione fra Draghi Presidente della Repubblica e Meloni Presidente del Consiglio. Meglio, certamente, dell’instabilità dei governi italiani e della creazione di maggioranze extra-large. Ciò detto, il discorso sul semipresidenzialismo non finisce qui, ma mi pare di averne almeno messo in chiaro gli assi portanti.
Pubblicato il 8 novembre 2021 su casadellacultura.it
Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro
Registrazione audio, a cura di Radio Radicale, dell’intervento pronunciato il 15 ottobre 2014 al convegno “Paolo VI, Il Concilio Vaticano II e la terza ondata democratica”. Roma, Università la Sapienza.
Ascolta IL FATTORE RELIGIOSO NELLA TERZA ONDATA DI HUNTINGTON RILETTO 25 ANNI DOPO LA CADUTA DEL MURO qui
http://www.radioradicale.it/swf/fp/flowplayer-3.2.7.swf?30207f&config=http://www.radioradicale.it/scheda/embedcfg/423529/2925293
Si ringrazia Radio radicale. Qui la registrazione integrale del convegno
Paolo VI, Il Concilio Vaticano II e la terza ondata democratica
Convegno
mercoledì 15 ottobre ore 15
Dipartimento di Scienze Politiche, Sala delle Lauree – Università la Sapienza
Piazzale Aldo Moro, 5 Roma
Introduce e presiede Fulco Lanchester, Direttore Dipartimento di Scienze Politiche
Relazione di Gianfranco Pasquino, Università di Bologna
Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro
Discussant: Oreste Massari, Università “La Sapienza”
Relazione di Marco Damilano, L’Espresso
Giovanni Battista Montini-Paolo VI e la Dc nella ricostruzione di Pietro Scoppola
Discussant: Umberto Gentiloni, Università “La Sapienza”
Relazione di Pamela Harris, John Cabot University
Gli influssi giuridici americani sulla libertà religiosa al Concilio Vaticano II e il discorso di Paolo VI all’Onu
Discussant Luca Diotallevi, Università di Roma 3
Relazione di Carlos Garcia de Andoin, Diocesi di Bilbao, Istituto di teologia e pastorale
Le conseguenze dell’opzione preferenziale per la democrazia del Concilio sulla transizione spagnola
Discussant Gianluca Passarelli, Università “La Sapienza”
Con Francesco si ritorna a Montini?
Confronto tra Gianfranco Brunelli, Il Regno, e Luigi Accattoli, Corriere della Sera
Conclusioni Stefano Ceccanti, Università “La Sapienza”.
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Traccia tematica della relazione Il fattore religioso nella Terza Ondata di Huntington riletto 25 anni dopo la caduta del Muro
Il libro di Samuel Huntington del 1993 su “La terza ondata democratica” (in particolare alle pagg. 951/08) segnala che essa è iniziata in Paesi cattolici (Spagna e Portogallo, poi Polonia e Ungheria, per non parlare di Cile, Brasile, Corea del Sud e Filippine) anche per influsso delle acquisizioni del Concilio Vaticano II (opzione preferenziale per la democrazia nella “Gaudium et Spes” e per la libertà religiosa nella “Dignitatis Humanae”). Gianfranco Pasquino, nell’Introduzione all’edizione italiana di due anni dopo, pur condividendo il giudizio, si chiede però se col nuovo pontificato e lo sviluppo concreto delle transizioni non ci sia stata una parziale regressione, una minore fiducia nella democrazie. Cosa dire a quasi vent’anni di distanza?