Home » Posts tagged 'Palmiro Togliatti'

Tag Archives: Palmiro Togliatti

#Democrazia Futura Dopo il socialismo. Metodo e sostanza @Key4biz

Il valore 45 anni dopo della raccolta di cinque saggi sui rapporti fra democrazia e socialismo

Gianfranco Pasquino rilegge Quale socialismo? di Norberto Bobbio


Alla metà degli anni settanta Norberto Bobbio raccolse in un volumetto: Quale socialismo? Discussione di un’alternativa[1] cinque suoi scritti dedicati ad una riflessione sui rapporti fra democrazia e socialismo. La raccolta di articoli omogenei era il suo modo preferito di confezionare libri e derivava dal suo essere richiestissimo per conferenze un po’ dappertutto che gli consentivano/imponevano la preparazione di testi, mai peraltro occasionali. Il tema dei rapporti fra socialismo e democrazia lo aveva sempre interessato. Oltre che i socialisti del Partito Socialista Italiano ai quali si sentiva molto vicino, i suoi interlocutori erano i comunisti. Fu molto criticato per questa interlocuzione che, peraltro, non si tradusse mai in nessuna concessione né al Pci né al marxismo. In senso più lato, scrisse nella Premessa a Il futuro della democrazia[2] della necessità di dialogare con “coloro che questa nostra democrazia, sempre fragile, sempre vulnerabile, corrompibile e spesso corrotta, vorrebbero distruggerla per renderla perfetta” mai disperando “nella forza delle buone ragioni”[3].

Perfezionisti non erano e non furono soltanto i comunisti, ma, in quanto rappresentativi per quarant’anni di un quarto, poco meno di un terzo dell’elettorato italiano, meritavano certamente il massimo di attenzione. Il futuro della democrazia italiana dipendeva anche dalla loro evoluzione. Bobbio ne aveva già messo alla prova le loro credenziali democratiche con riferimento alla libertà, della cultura, della critica, degli intellettuali, in un libro che, non un best-seller (come molti anni dopo, nel 1994 sarebbe stato Destra e sinistra[4]), fu un long-seller: Politica e cultura[5], uscito nel1955 e più volte ristampato. Suoi interlocutori in un confronto duro senza diplomazie e senza concessioni erano stati alcuni intellettuali comunisti “di punta” e persino lo stesso segretario del partito, Palmiro Togliatti. Pure apprezzando l’occasione del confronto, Bobbio non era stato soddisfatto del suo esito: troppe le ambiguità di quegli intellettuali che in parte esprimevano in parte riflettevano le posizioni ufficiali del PCI (non molto distanti e non molto diverse da quelle del Partito comunista dell’Unione Sovietica). Molta acqua era passata sotto i ponti nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione di quel testo. Superato il doppio trauma (denuncia dei crimini di Iosif Stalin, invasione sovietica dell’Ungheria) dell’indimenticabile 1956 (l’aggettivo è di Pietro Ingrao, allora direttore de l’Unità), il Pci aveva iniziato una sua sicuramente troppo lenta e troppa cauta, in sostanza inadeguata, revisione che, pur facendo riferimento a Antonio Gramsci, poco riguardava il marxismo. La lettura/lezione di Gramsci, anche se assolutamente necessaria per contrastare il leninismo, non poteva guidare il Partito nella traiettoria da intraprendere in una democrazia nella quale bisognava costruire le condizioni politiche per l’alternanza al governo.

In realtà, il dibattito che seguì la pubblicazione del libro di Bobbio si focalizzò soprattutto sull’esistenza o meno di “una dottrina marxistica dello Stato”. In estrema sintesi, il leninismo aveva dimostrato di sapere come fare per conquistare lo Stato (quello russo nel 1917 non era neppure uno Stato “borghese”), ma come costruire uno Stato socialista e come governarlo furono certamente problemi per i quali la dottrina “marxistica” non offriva, secondo Bobbio, nessuna soluzione. Con le sue parole: “Mi domando quale sia il beneficio che possiamo trarre per la soluzione dei problemi del nostro tempo dall’ennesima chiosa … a Marx … e se non sia oggi assai più utile applicarsi agli studi di scienza politica e sociale così poco progrediti nel nostro paese in confronto a quelli di marxologia [6]. Ad onor del vero, la critica incisiva e puntuale alla mancanza di adeguate riflessioni di Marx sullo Stato era già stata potentemente formulata nel 1957 proprio dal più importante professore italiano di Scienza politica, Giovanni Sartori, nel suo Democrazia e definizioni[7]. Inoltre, Bobbio era sicuramente a conoscenza della devastante critica del Partito Comunista Francese e degli intellettuali che ruotavano nella sua orbita scritta dal grande studioso liberale Raymond Aron, L’opium des intellectuels[8]. La risposta stalinista, ovvero lo Stato come dittatura sul proletariato, praticata per più di trent’anni in Unione Sovietica non poteva certamente costituire il riferimento teorico né la soluzione attuabile.

Nessuno ricorda oggi le numerose risposte degli intellettuali comunisti per i quali discutere con Bobbio e contraddirlo era naturalmente un segno di grande distinzione. Semplicemente, rimanevano tutti imprigionati nella gabbia che, utilizzando l’appropriata parola di Bobbio, definirò della chiosa. Qualche anno dopo sarebbero anche finite le chiose e dopo il 1989 in Italia è letteralmente scomparsa qualsiasi variante di cultura marxista (e aggiungerei di cultura socialista).

In maniera assolutamente anticipatrice, nel libro Bobbio si (pre)occupa anche di quello che chiama “il feticcio della democrazia diretta” per Karl Marx esistita esclusivamente nella breve esperienza della Comune di Parigi (1871). Ricomparsa poi brevemente dopo la rivoluzione del 1917 sotto forma di Soviet di contadini e operai. Comunque, Bobbio sottolinea che nel pensiero marxistica “ciò che caratterizza la democrazia diretta sarebbe l’istituto del mandato imperativo, che implica la possibilità della revoca del mandato[9]. Naturalmente, nessuno dei comunisti italiani poneva all’ordine del giorno qualsivoglia variante di democrazia diretta che, come sappiamo, ha fatto la sua recente ricomparsa con il Movimento 5 Stelle, evidenziando tutte le sue contraddizioni insite. Le obiezioni di Bobbio alla democrazia diretta d’antan valgono anche per i brandelli di democrazia diretta oggi. Quelle obiezioni non hanno finora trovato risposta forse perché risposta non c’è, forse perché a un problema politico di incommensurabile rilevanza non è neppure pensabile che si possa offrire una risposta tecnologica, telematica. Anche il più innovativo e efficace utilizzo della rete costituisce un mezzo, necessario, ma non sufficiente. Abbiamo visto che il socialismo non è, nelle pur memorabili parole di Lenin, “Soviet più elettrificazione”. La democrazia diretta non è “piattaforma telematica più vincolo di mandato”.

Il libro contiene un capitolo scritto nel 1973, due capitoli scritti nel 1975 e due nel 1976 insieme con la prefazione alla quale è apposta la data settembre 1976. Curiosamente, Bobbio non fa nessun riferimento alla proposta di compromesso storico formulata da Enrico Berlinguer in tre articoli pubblicati da Rinascita, la rivista settimanale del PCI, nel settembre-ottobre 1973.

Altro argomento che rimane in ombra è quello del significato di alternanza, da sempre un fenomeno importante per il buon funzionamento della democrazia, ancorché non essenziale per la sua definizione. La concezione di democrazia di Bobbio non lo poteva rendere accondiscendente di fronte al compromesso storico. Per la sua ambizione di durata indefinita/non definita nel tempo, il compromesso storico fra le grandi masse popolari cattoliche e comuniste [ho estesamente trattato l’argomento nel capitolo “Compromesso storico, alternativa, alternanza” nel mio libro Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana [10] che ha la pretesa di proseguire il Profilo ideologico del Novecento italiano pubblicato da Bobbio nel nono volume della Storia della letteratura italiana nel 1969[11] poi in volume a sé stante nel 1986[12]] non soltanto avrebbe reso ininfluente la competizione politico-elettorale che il “filosofo delle regole” considera cruciale per la democrazia, ma avrebbe messo in soffitta qualsiasi prospettiva di alternanza.

Peraltro, mi affretto ad aggiungere che non è tanto la realizzazione concreta dell’alternanza che conta, è opinione anche di Sartori, quanto piuttosto la possibilità, agli occhi degli elettori, degli operatori dei mass media, dei politici al governo e di quelli all’opposizione, che possa avvenire. Questa possibilità influisce sui comportamenti di tutti e li rende più responsabili. Se mai il compromesso storico si fosse realizzato, la sua maggioranza extra-large non avrebbe dovuto temere nessuna opposizione. Praticamente non sarebbe stato possibile per nessuna opposizione “controllarla”. Gli eventuali governi di compromesso storico sarebbero stati politicamente irresponsabili. La stessa proposta del compromesso storico rivelava da parte dei comunisti sia la loro non piena comprensione delle caratteristiche fondamentali della democrazia sia la loro convinzione che, una volta, andati/tornati al governo certo non l’avrebbero abbandonato. Questo è uno degli elementi che, secondo Sartori, facevano del Partito Comunista Italiano un partito “antisistema”: potendo i comunisti avrebbero rovesciato e cambiato il sistema.

Al proposito, Bobbio ritiene sia lecito affermare che “il rapporto fra democrazia e socialismo è configurato come un rapporto fra mezzo e fine, dove la democrazia svolge la parte del mezzo e il socialismo del fine[13]. Ma, se la democrazia che conosciamo è il mezzo, qual è lo scopo, ovvero, proprio “quale socialismo?” A questa domanda i comunisti italiano non seppero mai rispondere se non in maniera confusa e evasiva. A Giorgio Amendola (e a molti altri) che asseriva la possibilità di una “terza via” fra la socialdemocrazia e il comunismo, Bobbio rispose senza mezzi termini: “La terza via non esiste”[14]. Suggerì anche di “rafforzare le organizzazioni del movimento operaio per continuare la via democratica al socialismo, che è dappertutto una sola[15].

Venti anni dopo fece irruzione nel dibattito politico europeo una riformulazione della Terza Via ad opera del sociologo Anthony Giddens e di Tony Blair che sarebbe diventato Primo Ministro nel 1997 fino al 2007. La terza via di Giddens[16], che nell’originaria edizione inglese ha il sottotitolo The Renewal of Social Democracy[17], doveva insinuarsi fra il vecchio Labour Party e il neo-liberismo rappresentato da Margaret Thatcher (1979-1990) e da Ronald Reagan (1980-1988) con l’ambizione di andare Oltre la destra e la sinistra[18]. Bobbio non seguì queste vicissitudini politico-intellettuali. D’altronde, il dibattito pubblico italiano non approdò a nulla di specialmente interessante tranne le affermazioni sulla fine della sinistra espresse da alcuni intellettuali di sinistra con il duplice obiettivo di épater les bourgeois e di ottenere visibilità sui mass media. Bobbio aveva già risposto con il libro Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica[19], sottolineando con forza che il perseguimento della giustizia sociale costituisce la stella polare della sinistra[20].

Nel corso del tempo, nella letteratura internazionale il termine socialismo, forse perché troppo identificato con i regimi comunisti dell’Europa orientale (e talvolta con alcuni populismi “progressisti” latino-americani) è stato sostanzialmente sostituito dal termine sinistra. Giustamente, oggi ci chiederemmo non “Quale socialismo?”, ma “Quale sinistra?” (rimando ad un’analisi comparata di grande interesse: Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism[21] dedicata al Partito Democratico negli Stati Uniti, al Partito Socialista dei Lavoratori svedese e alla SPD. Sarebbe bello se qualcuno esplorasse i casi italiano, francese, spagnolo e portoghese). La risposta di Bobbio, in parte la immagino in parte la deduco da quanto ha scritto, sarebbe: quella sinistra che si adopera per contenere e ridurre le diseguaglianze; quella sinistra che cerca di risolvere “i problemi che hanno generato lo scontro tra capitalismo democratico e comunismo autoritario” e che “non sono stati certamente risolti dal totale fallimento di quest’ultimo, né nel mondo avanzato, né nel mondo in generale[22], citando un suo memorabile articolo su La Stampa del 9 giugno 1989 pubblicato dopo l’eccidio di Tien an Men, a Pechino.

Ce n’è ovviamente abbastanza per procedere more Bobbio ad una serie di interrogativi. La sinistra che esiste attualmente e che si manifesta in molti paesi come definisce l’uguaglianza: “Quale eguaglianza?” Anche se, certamente, si pone il problema delle diseguaglianze di reddito, quali altre diseguaglianze preoccupano e debbono preoccupare la sinistra? E se la risposta, alla quale aderisco convintamente, è che la sinistra deve offrire eguaglianza di opportunità, allora l’interrogativo è “Quali opportunità?” La filosofia classicamente socialdemocratica: protezione “dalla culla alla tomba”, comunque sempre difficilissima da garantire e oggi costosissima, non sembra più soddisfare neppure molti esponenti (e cittadini-elettori) che si collocano a sinistra. Certamente, non sembra possa essere sufficiente offrire uguaglianza di opportunità all’inizio di un percorso, per lo più quello scolastico, e affidare il resto ai singoli e alle loro capacità. Bisognerebbe intervenire flessibilmente nella vita, non solo lavorativa, per dare e ridare eguali opportunità. Di qui, la necessaria riforma dello Stato del welfare, con continui chirurgici aggiustamenti che significa sapere dove tagliare e dove e come ricucire, operazioni che nessun mercato competitivo può mai effettuare.

   Sono anche convito che fra gli interrogativi da porre alla sinistra Bobbio introdurrebbe le modalità con le quali riconoscere e premiare il merito. Anche se può apparire troppo brusco e ruvido, l’interrogativo, per chi non crede che la sinistra possa mai essere soltanto livellatrice, è: “Quale meritocrazia?” Quasi non ho bisogno di giustificare il prossimo interrogativo, ma la sinistra di Bobbio (e gli scritti di Bobbio) non possono in nessun modo escludere (e, infatti, Quale socialismo? non lo ha escluso) l’interrogativo “Quale democrazia?” La sinistra si è sempre impegnata, non soltanto perché serviva i suoi interessi e scopi politico-elettorali, a cercare di ampliare la partecipazione politica. La sinistra apprezza e incoraggia il cittadino/la cittadina partecipante anche se spesso non li premia adeguatamente. La sinistra ha anche mirato, non sempre con impegno e vigore adeguati, ad accrescere l’educazione politica dei cittadini, ovviamente non indottrinarli. Non da ultimo, fra gli interrogativi contemporanei che Bobbio solleverebbe non sta più semplicemente la democrazia diretta, ma “Quale democrazia deliberativa?” ovvero con quali modalità disponibili grazie alle nuove conoscenze e alla rete è possibile potenziare ed estendere la democrazia. Certamente, Bobbio apprezzerebbe quanto scritto in materia senza nessun cedimento “fondamentalista”, ma con motivazioni e giustificazioni fondate su ricerche e applicazioni anche nel contesto italiano da Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genesi e principi [23].

Grazie a Bobbio e con Bobbio è regolarmente stato possibile entrare in dibattiti importanti, certo riservati ad uno strato sociale di intellettuali, politici, operatori dei mass media, abbastanza ristretto, raggiungendo anche un’opinione pubblica interessata. Bobbio, editorialista de La Stampa, anche più di Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera (spesso presente nei salotti televisivi), è stato un grande intellettuale pubblico. Oggi, per una molteplicità di ragioni, non esistono più intellettuali pubblici della sua statura e della sua influenza etica e di pensiero molto più che politico. Nessuno più che voglia e sappia suscitare un dibattito sui grandi temi che riguardano l’Italia e gli italiani, l’Europa e gli Europei (questa è una mancanza clamorosa), il mondo. L’ultimo interrogativo discende inevitabilmente dalla considerazione che ho appena formulato, ma ha più rami: “Quali tematiche?” “Quali opinioni pubbliche?” “Quale cultura politica nella globalizzazione?” Infine, “Quale società giusta?”

Concludendo. Bobbio non rinunciò mai a porre gli interrogativi rilevanti che, lo sappiamo, contenevano regolarmente sia un principio di risposta basato sulla storia del concetto problematizzato e dell’uso che ne era stato fino ad allora fatto sia un’indicazione di metodo con il quale andare alla formulazione di una risposta convincente. Non ricorrerò a nessun trucco dialettico e retorico per affermare che in Italia da almeno vent’anni nessuno ha proceduto come Bobbio e non vedo all’orizzonte studiosi e intellettuali sufficientemente attrezzati. Forse è questo il vero segnale della crisi italiana, il deplorevole stato del dibattito pubblico in assenza del quale non potranno aversi miglioramenti complessivi nella democrazia italiana. Non è alle viste

Bologna, 14 marzo 2021

* professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna, e Socio dell’Accademia dei Lincei


[1] Norberto Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976, XVIII-109. Seconda edizione con prefazione di Michele Salvati: Milano, Rizzoli Corriere della Sera, 2011, 169 p.

[2] Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, XVI-220 p.

[3] “Premessa” a Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, op. cit., p. XIII.

[4] Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994, X-100 p. Nuova edizione riveduta e ampliata: 1995, 141 p. Infine quarta edizione accresciuta, 2007, XVII-221 p.

[5] Norberto Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, 282 p. Oggi nella nuova edizione a cura di Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, 2005, XLiii-273 p.

[6] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 27.

[7] Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1957, XII-331 p.

[8] Raymond Aron, L’opium des intellectuels, Paris, Calmann Lévy, 1955, 337 p. Traduzione italiana: Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, Bologna, Cappelli, 1958, 377 p.

[9] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 60.

[10] Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Milano, UTET, 2021, 224 p.

[11] Norberto Bobbio, “Profilo idrologico del Novecento italiano”, in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno (ed.), Storia della letteratura italiana. Volume nono. Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, 860 p. [pp. 121-128].

[12]Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, 190 p.

[13] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 104.

[14] Norberto Bobbio, Autobiografia. A cura di Alberto Papuzzi, Roma-Bari, Laterza, 1997, 274 p. [il passo citato si trova a p. 124].

[15] Ibidem, p. 125.

[16] Anthony Giddens, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia. Prefazione di Romano Prodi, Milano, Il Saggiatore, 1999, 156 p.

[17] Anthony Giddens, The third Way. The Renewal of Social Democracy, Cambridge, Cambridge Polity Press, 1998, X-166 p.

[18] Anthony Giddens, Oltre la destra e la sinistra, Bologna, il Mulino, 1997, 309 p. Edizione originale inglese: Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics, Cambridge, Cambridge Polity Press, 1994, VII-276 p.

[19] Norberto Bobbio, Destra e sinistra Quarta edizione accresciuta, op.cit .

[20] “Cap. VIII. La stella polare”, in Norberto Bobbio, Destra e sinistra…Quarta edizione accresciuta, ibidem, pp. 145-153.

[21] Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Cambridge Massachusetts – London, Harvard University Press, 2018, XXVII-524 p.

[22] Norberto Bobbio, Destra e sinistra…Quarta edizione, op. cit., p. 147,

[23] Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genesi e principi, Bologna, il Mulino, 2017, 392 p.

L’Assemblea costituente dei migliori

Da qualche tempo, numerose sono le lamentele sulla bassa qualità della classe dirigente italiana, in particolare, della classe politica. Naturalmente, ciascuno dei critici, a sua volta, membro della classe dirigente, esclude se stesso e la maggioranza dei suoi colleghi dalle critiche. Proprio la presenza di Mario Draghi al vertice del governo certifica e accentua l’inesistenza di una classe politica adeguata. Non è sempre stato così. Anzi, una riflessione sui componenti dell’Assemblea costituente offre la possibilità di capire come si possa reclutare una buona classe politica capace di rappresentare al meglio un paese.

   In totale i Costituenti furono 556 dei quali soltanto 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque. Anche se non è giusto sostenere che erano tutti uomini e donne di partito, qualifica che sarebbe subito stata respinta dai 30 rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque, i Costituenti erano stati selezionati dai dirigenti dei rispettivi partiti e del Fronte e eletti anche, forse, soprattutto, in quanto rappresentanti di quelle liste. Dunque, vi si trovavano dirigenti di partito: Alcide De Gasperi, Lelio Basso, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, che avrebbero avuto una lunga carriera politica. C’erano molti che avevano combattuto il fascismo, finendo in carcere anche per diversi anni, come Vittorio Foa e Umberto Terracini poi presidente dell’Assemblea Costituente. Altri avevano avuto un ruolo importante nella Resistenza: Ferruccio Parri, Antonio Giolitti, Luigi Longo. Alcuni erano stati esuli come Leo Valiani in Francia e diversi comunisti in Unione Sovietica.

   Le biografiche politiche dei Costituenti segnalano anche che un certo numero di loro, fra i quali Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 incaricata di redigere il testo costituzionale, era stato eletto in Parlamento per alcuni anni prima dell’avvento del fascismo. La componente della Democrazia cristiana era molto variegata. Accanto ai professorini, Fanfani, Lazzati, Dossetti, Moro, alcuni dei quali provenienti dalla Federazione Universitaria Cattolici Italiani, si trovarono esponenti delle professioni, avvocati e banchieri, persino alcuni notabili locali, cioè persone note e apprezzate nelle loro comunità. Poiché bisognava scrivere una Costituzione democratica, tutti i partiti decisero di fare eleggere nelle loro fila autorevoli professori capaci di dare un apporto scientifico altrimenti non disponibile: Piero Calamandrei per il piccolo Partito d’Azione, oltre ai professorini Costantino Mortati indipendente nella Democrazia Cristiana, Concetto Marchesi per il Partito Comunista, Francesco De Martino per il PSI, Tomaso Perassi per il Partito repubblicano.

   Non socialmente rappresentativi, per estrazione sociale, titolo di studio, esperienze di vita, i Costituenti sono un esempio difficilmente imitabile di come si crea una classe politica. Nient’affatto specchio della società italiana, offrirono la migliore rappresentanza politica possibile: indicarono una strada e delinearono come intraprenderla.

Pubblicato AGL il 3 giugno 2021

Lelio Basso, passioni e contraddizioni

Articolo pubblicato in

 FILOSOFIA E SPAZIO PUBBLICO 
viaBorgogna3 il magazine della Casa della Cultura, anno II n 5

Non nutro nessun dubbio sulla grandezza della figura di Lelio Basso nella storia del socialismo italiano e nella politica. Mi rallegro, pertanto, della pubblicazione di due importanti libri (Chiara Giorgi, Un socialista del Novecento. Uguaglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, e Giancarlo Monina, Lelio Basso, leader globale. Un socialista nel secondo Novecento, entrambi pubblicati da Carocci, rispettivamente, 2015, pp. 276, Euro 30,00 e 2016, pp. 439, Euro 39,00) che ricostruiscono in maniera approfondita e simpatetica tutto il lungo, complicato, fecondo percorso personale, culturale, politico di Basso. Rimando i lettori ai dettagli e alla visione d’insieme che troveranno nei due densi testi. Qui, vorrei svolgere un’opera più ristretta e più focalizzata dedicandomi a enucleare quello che ho imparato da Basso facendo riferimento non soltanto ai suoi successi, ma anche alle sue sconfitte, che neppure lui avrebbe trascurato e che sono ricche di insegnamenti, fra contraddizioni e discriminazioni. Lo farò, in maniera irrituale, ripercorrendo i miei incontri, una sola volta di persona, con i suoi scritti e le sue molteplici attività, e collegandoli a quanto ho letto e imparato nella biografia dedicatagli.

La prima volta che mi sono imbattuto in Lelio Basso risale all’inizio della mia vita di studente universitario. Fu nel 1962 all’Istituto di Scienze politiche di Torino la cui piccola biblioteca aveva appena acquistato una copia del grosso volume Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano, Feltrinelli 1961. Mi fu concesso in prestito limitato a pochi giorni. Ne divorai l’introduzione che mi incoraggiò anche a leggere La rivoluzione liberale di Gobetti, fra l’altro, uno degli autori preferiti da Norberto Bobbio, il cui corso di Scienza politica stavo seguendo. A quelle letture e a quell’insegnamento, certo rafforzato anche da altri docenti in quello che, allora, era soltanto il Corso di laurea in Scienze Politiche, scaturì gran parte della mia ammirazione per il Partito d’Azione (che ebbe anche Basso). Sono molto d’accordo con quanto scrive Giorgi: “l’attenzione e l’amicizia di Basso nei confronti di Gobetti rappresentano un aspetto molto importante della biografia bassiana, è lo stesso Basso a riprendere e sottolineare in modo diretto molte delle pagine gobettiane, così come a far propri, ma perché comuni, alcuni dei precetti, ma anche degli aspetti umani di Gobetti ” …: “un atteggiamento ‘eroico’ nei confronti della vita, una tensione etica, un’intransigenza morale … l’impegno per la costruzione di ‘una nuova cultura politica’” (Giorgi, p. 33). Tutti questi tratti si ritrovano nella attività culturale e nella vita politica di Lelio Basso e sono messi a durissima prova nelle moltissime difficoltà che Basso incontrò.

La nuova cultura politica alla cui costruzione Basso si dedicò in maniera indefessa non fu, però, innestata unicamente nel solco del pensiero gobettiano, inevitabilmente appena accennato. Consistette soprattutto nella riflessione sul marxismo, in buona parte riletto con gli occhiali eterodossi di Rosa Luxemburg, certamente la teorica marxista da lui preferita, con l’obiettivo di trovarvi o di pervenire ad una “scienza della rivoluzione”. Il rimando bibliografico è, ovviamente, alla sua curatela e alla lunga introduzione a Gli scritti politici di Rosa Luxemburg (Roma, Editori Riuniti 1967, tradotti in varie lingue). Faccio un salto temporale, proprio per seguire la riflessione concettuale poiché Basso, in uno scambio con Bobbio, “che si ripeterà nel tempo in una rispettosa e amichevole distanza di idee” (Monina, p. 194), avrebbe poi dovuto confrontarsi con l’interrogativo posto nel 1975 dal filosofo torinese, in primis, ai comunisti, ma anche a tutti coloro che si dichiaravano marxisti, sull’esistenza di una teoria marxista dello Stato. Nonostante numerose e, rilette oggi, imbarazzanti capriole dell’intelligentsia comunista italiana che, narcisisticamente, si esibì sul tema, non venne nessuna risposta. Però, neppure il marxismo di Basso, incentrato com’era su trasformazioni sociali, fu in grado di dare una risposta alla domanda di Bobbio. Anzi, scrivendo che “quel che deve interessare il marxista è perciò lo svolgimento del processo [rivoluzionario] e il fatto che in esso si affermino valori e istituti a connotazione socialista” (corrispondenza privata, maggio-giugno 1978, citata da Monina, p. 415), Bassi evadeva alla grande l’interrogativo. Enfaticamente, potrei aggiungere che la risposta l’ha data la storia dei regimi comunisti con il loro tonfo.

Il mio secondo “incontro” con Basso avvenne in occasione del mio debutto quale elettore della Repubblica italiana nel 1963. Telefonai alla Federazione del Partito Socialista Italiano di Torino (Corso Valdocco) per sapere quali erano i candidati “vicini” a Antonio Giolitti e quali i “bassiani” ai quali avrei voluto dare i miei voti di preferenza. Mi fu riposto che non c’erano correnti nel PSI. Ricordo questo avvenimento poiché ripetutamente Monina sottolinea quanto difficile era la vita politica dei sostenitori di Basso dentro il partito, soprattutto, ovviamente, in vista di quelle elezioni che avrebbero aperto la strada al centro-sinistra “organico” il cui primo governo vide la partecipazione di Antonio Giolitti come ministro del Bilancio.

Il terzo incontro avvenne una decina d’anni dopo. Purtroppo, non ne ricordo appieno i particolari. Dopo i sanguinosi colpi di Stato dei militari in America latina (nell’ordine, Brasile, Uruguay e Cile), Basso aveva dato vita al Tribunale Russell II proprio per giudicare, che, in sostanza, significava gettare maggiore luce informativa sulle organizzazioni militari di quei paesi e soprattutto sui crimini commessi e, ovviamente, impuniti dei governi militari. Immediatamente dopo il golpe cileno avevo pubblicato, grazie ai buoni uffici di Giorgio Galli, sulla rivista “Critica Sociale” diretta da Giuseppe Faravelli, due non brevi articoli sul Cile: Militarismo e imperialismo contro Unidad Popular. Inoltre, insegnavo Storia e istituzioni dell’America latina all’Università di Firenze. Qualcuno deve avere suggerito il mio nome a Basso fatto sta che mi venne chiesto di scrivere un testo sul ruolo politico dei militari brasiliani, quasi un position paper, direbbero gli americani, sullo stato delle conoscenze in materia. So che il testo fu pubblicato in qualche forma (mi rammarico di non averne copia) dal Tribunale Russell e che ne fu fatta un’ampia diffusione. In parte lo ripresi per pubblicarlo, con l’autorizzazione del Tribunale, sulla rivista “il Mulino” nel 1974.

Il Tribunale Russell, la cui attività iniziò per giudicare i crimini di guerra degli USA in Vietnam, costituì una delle innumerevoli attività internazionali di Lelio Basso negli anni sessanta e settanta. Monina ne dà un’accurata descrizione dalla quale emergono due elementi degni di nota: primo, l’enorme ampiezza dei contatti di Basso con dirigenti politici e studiosi di sinistra in Europa e in America latina, ma anche la loro disorganizzazione e disomogeneità; secondo, l’apprezzamento e la stima, testimoniata anche dalla miriade di inviti ricevuti,di cui godeva Basso la cui autorità, direi molto più intellettuale che politica, era unanimemente riconosciuta. Non posso trattenermi dall’aggiungere che nessuna di queste attività e nessuno di questi riconoscimenti avevano ricadute positive nella situazione politica italiana.

Al contrario, è la sua incisiva e appassionata attività all’Assemblea Costituente a rimanere uno dei lasciti più importanti, più apprezzati, più duraturi. Giorgi intitola il capitolo sul tema “La fantasia giuridica del costituente”. C’è molto di più, direi “La passione politica del democratico”. Basso fu, unitamente a Fanfani, l’autore di quello che è, a parere di molti (e, per quel che conta, anche mio), l’autore dell’articolo 3, spesso sbrigativamente definito l’articolo sull’eguaglianza. In quell’articolo c’è molto di più della statuizione dell’eguaglianza di fronte alla legge e del rifiuto delle discriminazioni di qualsiasi tipo e delle loro “giustificazioni”. Vi si trovano limpidamente indicate le culture politiche, liberale, cattolico-democratica, social comunista, ai cui principi e alla cui volontà di collaborazione reciproca siamo debitori della Costituzione e, soprattutto, c’è una innovativa e potente concezione, non dello Stato, ma della convivenza organizzata sotto forma di Repubblica. Sono gli italiani, siamo noi la Repubblica che deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale … che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Basso fu giustamente orgoglioso del suo contributo alla stesura di questo articolo. Intervenendo in Assemblea Costituente, ebbe modo di argomentare (come opportunamente riportato da Giorgi, p. 176) che “la democrazia si difende […] non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma, al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato […]. Solo se noi otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia”.

L’altro suo importantissimo contributo fu data alla scrittura dell’art. 49, quello noto in maniera un po’ riduttiva e persino fuorviante come l’articolo sui partiti. In verità, l’articolo riguarda il “diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti”. Per Basso i partiti sono “la più alta espressione della democrazia, perché consentono a milioni di cittadini di diventare ogni giorno partecipi della gestione politica del Paese” (Giorgi, p. 202). Molto giustamente Giorgi nota il nesso tra l’articolo 49, l’articolo 1 e l’articolo 3 e più avanti riporta uno scritto nel quale Basso sostiene che “la classe si dà un’organizzazione politica: questa è il partito”. Nello stesso periodo, Palmiro Togliatti affermava “i partiti sono la democrazia che si organizza”. Neppure vent’anni dopo Bobbio si interrogava se i partiti fossero ancora un tramite fra cittadini e potere politico oppure non si fossero trasformati in un diaframma. Quanto alla pratica, Basso uomo di partito ebbe enormi traversie. “Fermamente contrario all’ipotesi di scissione” (Monina, p. 199), se ne andò dal PSI nel gennaio 1964; convinto dell’importanza della disciplina di partito, terminò la sua esperienza politica come “indipendente anche nel gruppo [della Sinistra] indipendente” (Monina, p. 325). Fu talmente indipendente da votare il 6 agosto 1976 contro il primo governo Andreotti della solidarietà nazionale, quello sostenuto dall’esterno dai comunisti che lo avevano debitamente rieletto nelle elezioni del 20 giugno. Un anno dopo avrebbe poi anche contraddetto frontalmente la politica di Enrico Berlinguer affermando che “le parole d’ordine del ‘compromesso storico’ e dell”austerità’ non sono certo ‘adatte a suscitare entusiasmo e a convincere la gioventù d’oggi'” (Monina, p. 402).

Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985, fui tra i componenti della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali presieduta dall’on. Aldo Bozzi (PLI). Mi preparai leggendo una pluralità di testi di interpretazione e di valutazione della Costituzione. Oltre a quelli, fondamentali di Piero Calamandrei e di Costantino Mortati, lessi il libro di Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana (Milano, Feltrinelli, 1958). Sono in grado di misurare le distanze fra la visione complessiva di Basso e le riforme, fra le quali quella della legge elettorale proporzionale che Basso aveva strenuamente difeso nel 1953 contro la legge “truffa”, che proposi in quella sede. Proprio per difendere la visione complessiva di una democrazia parlamentare fondata sui partiti ritenni che bisognasse ridefinire i rapporti “elettori-partiti-Parlamento-governo” con l’obiettivo di Restituire lo scettro al principe (il titolo del mio libro pubblicato da Laterza nel 1985), con la p minuscola poiché in quegli anni, ma ancora adesso, c’è qualcuno che, contro la lettera e lo spirito della Costituzione italiana, che non evidentemente conosce abbastanza, definisce Principe il capo del governo. Proseguendo le mie riflessioni decisi di approfondire l’attività di Basso Costituente con un articolo pubblicato nel 1987 in “Quaderni Costituzionali”. Nel frattempo, per uno degli strani casi della vita, Giuseppe Branca mi commissionò il commento all’art. 49 per il monumentale Commentario alla Costituzione da lui diretto.

Qui, il mio incrocio con Basso è ancora più tortuoso, ma davvero curioso. Nel 1971, alla scadenza del suo mandato alla Corte Costituzionale, di cui era diventato Presidente, Branca doveva essere sostituito da un giudice di area socialista la cui designazione spettava al PSI. Non sta a me giudicare con quanta convinzione i socialisti designarono Basso. È molto probabile che non si siano accertati del gradimento degli altri partiti, in particolare della DC, nella quale Andreotti esercitò un intollerabile veto che portò, dopo tre votazioni, alla inevitabile rinuncia di Basso. Pochi mesi dopo Basso fu candidato “come indipendente nelle liste unitarie social comuniste [meglio PSIUP-PCI] per il collegio senatoriale di Milano” (Monina, p. 324 congiuntamente dallo PSIUP e dal PCI a Milano. Ebbe il “pieno sostegno della Casa della Cultura” (Monina, p. 325) alle cui attività aveva molto frequentemente collaborato fin dagli inizi nel 1946. Vinse e entrò nel Gruppo della Sinistra Indipendente del Senato dove nel mandato successivo avrebbe trovato Anderlini e nel quale sarei entrato anch’io nel 1983. Curiosamente, ero stato eletto (e verrò rieletto) nel collegio di Portomaggiore-Ferrara quello rappresentato per due legislature proprio da Giuseppe Branca. Direi che almeno questo piccolo cerchio si era così chiuso.

Dieci anni dopo la morte di Basso se ne tenne una commemorazione in Senato. Avevo appena curato la raccolta dei Discorsi parlamentari di Lelio Basso (Senato 1988), compito affidatomi da Fanfani e confermato da Spadolini e, naturalmente, andai alla commemorazione. Seduto in prima fila, ma molto decentrato, vicino a me rimaneva un posto libero, presto occupato da un uomo alto, elegante, con una camicia bianca appena indossata. Era Bettino Craxi il quale, come se ci vedessimo tutti i giorni (dubito si ricordasse che ci eravamo incontrati dieci anni prima in occasione dell’elaborazione del programma della Alternativa socialista), mi confidò, da un lato, senza mezze parole di non apprezzare l’oratore del momento, dall’altro, con un leggero sentimento di nostalgia di avere conosciuto Basso nello studio d’avvocato di suo padre e di essere diventato socialista anche in seguito a quell’incontro.

In conclusione, potrei limitarmi, quasi d’ufficio, a sottolineare la complessità della personalità e della vita politica di Basso, ma credo sia giusto mettere in rilievo anche tre suoi punti deboli: primo, l’atteggiamento nei confronti dell’URSS e della sua involuzione, mai criticata a fondo tanto che dovette persino difendersi dai suoi critici dopo l’invasione della Cecoslovacchia, scrivendo “non ho niente di comune con i nostalgici dello stalinismo” (Monina, p. 290) e non può esserci dubbio che lo stalinismo era quanto di più distante ci fosse dalla sua concezione del comunismo plasmata dal pensiero e dagli scritti di Rosa Luxemburg; secondo, per l’appunto, il contrasto/contraddizione fra il suo voler essere “fedele allo spirito di Marx” offrendo attraverso la rivista “Problemi del socialismo” “una base ideologica” per aiutare il comunismo occidentale “a liberarsi dagli schemi ortodossi del marxismo-leninismo” (Monina, p. 406) e i residui di quell’ortodossia dai quali lui stesso fu talvolta influenzato; terzo, il suo meno che limpido atteggiamento nei confronti dello Stato d’Israele che spingono Monina, quasi del tutto alieno dal criticare affermazioni e comportamenti di Basso, a scrivere che, in particolare nel 1974, Basso inasprì i toni della sua denuncia di Israele “adombrando scivolosi paralleli tra la persecuzione subita dagli ebrei e quella da loro inflitta ai palestinesi oppure tra Israele e il regime di apartheid sudafricano” (Monina, p. 372).

L’epigrafe più veritiera e più limpida ad una vita ben vissuta la scrisse lui stesso in una lettera alla moglie nel gennaio 1975: “Ho sbagliato molte cose nella vita, ma credo di poter dire che ho sempre agito secondo le mie convinzioni e che non mi sono mai venduto per ambizione di successo, di potere, di denaro: Mi piacerebbe se di me rimanesse solo questo ricordo” (Monina, p. 389). Rimane, ovviamente, molto di più: una mole di scritti di grande valore, una Fondazione (con la quale ho variamente, ma non intensamente, collaborato), questa bella biografia in due volumi e, soprattutto, l’esemplarità di una vita fatta di battaglie, ma anche di sconfitte dalle quali ricominciare.

free download